1 Lucio Gentilini GRANDE AVVENTURA RUSSA IN SIBERIA

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Lucio Gentilini
GRANDE AVVENTURA RUSSA IN SIBERIA
Introduzione
Alla morte di Genghis Khan (1.227) il suo immenso impero mongolo venne diviso in
quattro khanati, Persia, Chagatai (Asia Centrale), Cina (la dinastia Yuan) e quello
più occidentale detto dell’Orda d’Oro con capitale Sarai che, posta sulle rive del
fiume Akhtuba (braccio deltizio sinistro del Volga), sarebbe presto divenuta una delle
città più popolose del medioevo con probabilmente ben 600mila abitanti (!).
Nomadi espertissimi, i mongoli avevano acquisito facilmente il controllo delle steppe
sconfinate e, come di consueto amavano fare, avevano inglobato nelle loro fila le
popolazioni locali turche (soprattutto donne e bambini) che via via avevano
incontrato e sconfitto.
Il khanato dell’Orda d’Oro fu dunque un regno turco-mongolo affidato a Batu Khan,
un nipote di Gengis Khan che ben presto riprese l’espansione a ovest, interrotta alla
morte del nonno: nel 1236 egli conquistò così la Bulgaria del Volga (oggi in Russia
nella regione in cui il Kama si getta nel Volga) e l’anno seguente iniziò l’invasione
della Russia stessa.
Nel 1240 i mongoli saccheggiarono e distrussero Kiev (la capitale della Rus’ di
Kiev) e poi uno per uno tutti gli altri vari principati russi ad eccezione della
repubblica di Veliky-Novgorod il cui sovrano, Alexander Nevsky, dovette però
riconoscersi loro vassallo e pagare un tributo.
Con la conquista della Russia l’ondata mongola era arrivata però al suo limite
estremo: nonostante le successive vittorie militari in Ungheria e in Polonia, per
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motivi di carattere interno nel 1241 i mongoli si dovettero infatti ritirare e non
avrebbero mai più tentato di marciare in Europa.
Essi rimasero comunque i signori e gli esattori di tributi dell’attuale Russia ma,
paradossalmente, fu proprio il loro dominio a compattare in uno stato unitario i
numerosi principati di tipo feudale in cui essa era stata fino ad allora divisa: Kiev non
riuscì a riprendersi e il motore dello sviluppo si trasferì così a nord, soprattutto nella
repubblica di Novgorod e nel granducato di Mosca, dove tanti fuggitivi dalla Rus’ di
Kiev avevano trovato rifugio e che iniziò a fiorire, a prosperare e ad allargarsi proprio
durante ed anche a causa della presenza mongola (!).
In rapporto alla popolazione complessiva dell’Orda i mongoli erano tuttavia
numericamente pochi dato che la maggior parte degli abitanti aveva invece origini
turche, uzbeche e variamente altaiche: fu così inevitabile che i mongoli perdessero
abbastanza presto la loro identità nazionale e che da nomadi e animisti che erano stati
diventassero sedentari e islamici.
Il khanato non riuscì inoltre a preservare la sua unità: gli scontri interni raggiunsero
l’apice nel 1440, ma da tempo al posto dell’unica Orda d’Oro erano sorti vari e
differenti khanati autonomi (come Sibir, Kazan, Astrakan, Qasim, Crimea e Nogai):
mentre insomma il granducato di Mosca cresceva, si arricchiva e si sviluppava, tutto
al contrario il vincitore di due secoli prima, sconvolto da lotte intestine, si andava
sempre più sfaldando, dividendo ed indebolendo.
Quando Bisanzio cadde (1453) molti greci, compreso il patriarca della Chiesa
ortodossa, fuggirono a Mosca (così come tanti avevano fatto da Kiev due secoli
prima) e il granduca Ivan III (marito della nipote dell’ultimo Imperatore di
Costantinopoli) risultò così ulteriormente rafforzato, tanto che nel 1478 inglobò la
repubblica di Novgorod e nel 1480 smise di pagare il tributo ai mongoli, il
tangibilissimo segno di dipendenza dai vincitori del passato.
Il granducato di Mosca insomma era ormai definitivamente libero ed indipendente.
Mosca Terza Roma
Il processo di formazione del nuovo stato si concluse il 16 gennaio 1547 quando il
sedicenne Ivan IV, figlio di Basilio III (1505-33) e dunque nipote di Ivan III, salì al
trono col titolo di zar (cesare) in base alla convinta e fondamentale assunzione che gli
slavi erano gli eredi dei bizantini e che Mosca era la Terza Roma, l’ultimo faro di
civiltà e della religione ortodossa.
In realtà, nonostante tanti sviluppi positivi, la Russia (come venne rinominato il
granducato di Mosca, o Moscovia) in confronto agli altri stati europei era ancora
profondamente arretrata e semi-barbarica: non può dunque stupire che i suoi tentativi
di arrivare al mar Baltico vennero rintuzzati da Polonia, Lituania e Svezia che, ben
più moderne ed organizzate, si ergevano minacciose e per il momento invincibili ai
suoi confini occidentali.
Peggio ancora, a sud i tartari di Crimea, sostenuti dagli ottomani, non solo facevano
scorrerie nei territori russi, ma precludevano lo sbocco al mar Nero e dunque al
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Mediterraneo: per i russi arrivare al mare era possibile insomma solo sul Bianco e
precisamente nel porto di Arkhangelsk (alla foce della Dvina).
Anche se i russi avevano presto imparato a navigare da Arkhangelsk agli Urali,
questo lontano sbocco non era ugualmente di grande utilità sia perché era gelato per
sei mesi all’anno, sia per la sua marginalità geografica.
Data la situazione, Ivan IV si dedicò comunque con energia e determinazione sia a
modernizzare e rafforzare il suo stato - e quindi ad abbattere il potere della nobiltà
locale dei boiari (il nomignolo di ‘Terribile’ gli venne dato dalla popolazione
ammirata per i metodi impiegati) - sia ad espandersi nell’unica direzione allora
possibile, a est, nell’immenso e sconosciuto territorio al di là degli Urali, in Siberia.
Fin dalla sua nascita la Russia concepì insomma se stessa come una potenza in
continua, inevitabile e doverosa espansione e questa sarebbe rimasta una
costante di tutta la sua lunga storia.
La Siberia
La Siberia (la ‘terra che dorme’ nella lingua tartara e ‘meravigliosa’ in quella
mongola) è lo sconfinato e affascinante territorio che costituisce l’Asia settentrionale
e che si estende dagli Urali a ovest al Pacifico a est, e dall’oceano Artico a nord a
Kazakhstan, Mongolia e Cina a sud: tranne che sull’oceano Artico, i suoi 12.653.000
kmq. sono racchiusi da montagne.
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Il suo clima varia enormemente e passa da quello artico a nord fino a quello semitropicale a sud, con una flora e soprattutto con una fauna di conseguenza
estremamente diversificate, ma forse la caratteristica maggiore di questa sterminata
parte del mondo sono i suoi immensi fiumi la cui lunghezza complessiva è
venticinque volte la circonferenza terrestre (!): essi sono ben 53mila (mentre i laghi
sono più di 1 milione!) e i principali a partire dagli Urali sono l’Ob, lo Yenisey, la
Lena e la Kolima che si gettano tutti nell’oceano Artico (scorrono dunque da sud a
nord) e che sono intervallati e collegati fra loro da una fitta rete di affluenti, di
tributari e di corsi minori che rendono la Siberia largamente percorribile per via
d’acqua (!): per esempio, il lago Baikal, la culla della civiltà mongola, riceve l’acqua
da ben 336 immissari, è il più profondo del mondo e la sua acqua dolce è 1/5 di tutta
quella mondiale.
Longitudinalmente la Siberia è dunque divisa dai suoi fiumi più grandi (paragonabili
al Mississippi o al Nilo) mentre l’estremo est è costituito dal sistema vulcanico (la
‘linea del fuoco’) della Kamchatka, ma è la latitudine che (ovviamente) ne differenzia
geograficamente le zone: a nord domina infatti la tundra, al centro la taiga e a sud la
terra fertile ma anche le semi-desertiche steppe.
La tundra, arida e senza alberi se non nel suo bordo meridionale, è per gran parte
dell’anno ricoperta dalla neve che, caduta spesso sopra spessi strati di ghiaccio
perenne, d’estate quando e dove si scioglie lascia spazio praticamente solo a muschi e
a licheni.
A 300-600 km. dalla costa artica inizia la taiga che via via si ricopre di alberi sempre
più fitti i cui rami si intrecciano densamente fra loro: naturalmente anche la fauna in
questa sorta di regione di mezzo è comprensibilmente molto più ricca e varia di
quella, scarsa, della tundra.
Scendendo a sud, la taiga piano piano cede il posto a terre arabili e fertili, ma anche
a steppe aride ed assolate.
Alla fine del XVI secolo in Siberia vivevano approssimativamente 250mila persone
divise in circa 140 popoli appartenenti a 5 gruppi etnici e linguistici maggiori (turco,
manchu-tungus, ugro-finnico, mongolo e paleosiberiano, affine al precedente): a
seconda delle zone in cui vivevano essi conducevano stili di vita anche
profondamente diversi, ma in genere erano allevatori nomadi e cacciatori mentre solo
nella valle dell’Amur (il grande fiume oggi confine fra Russia e Cina) era praticata
una molto elementare agricoltura.
Da Mosca al Volga, agli Urali e all’Ob
Un secolo dopo che gli europei occidentali avevano iniziato la loro fantastica
espansione verso ovest che avrebbe cambiato per sempre ogni aspetto della vita sul
pianeta, i russi iniziarono la propria verso est: i primi si erano lanciati sul mare, i
secondi procedettero via terra, ma in ambedue i casi si mossero con incredibile
coraggio e determinazione né sapevano a cosa sarebbero andati incontro (nessuno in
Russia aveva idea di cosa ci fosse al di là dell’Ob).
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Il primo passo della loro lunga marcia verso est fu la conquista dei due khanati sul
Volga, Kazan nel 1552 ed Astrakhan nel 1556.
Oggi Kazan è una bella, linda, ariosa ed elegante città del tutto russa, ma il suo
Cremlino (situato sulla collina che domina la confluenza del fiume Kazan nel Volga)
reca le tracce e le testimonianze del suo passato tartaro-islamico: la massiccia torre di
Suyumilike sarebbe quella che, secondo la leggenda, l’omonima principessa tartara
avrebbe preteso che Ivan le costruisse come condizione per sposarlo ma dalla quale si
sarebbe invece suicidata lanciandosi nel vuoto, mentre nel 2005 è stata ricostruita la
moschea di Kul Sharif proprio sul posto in cui sorgeva quella che Ivan aveva fatto
distruggere.
Non a caso la regione di cui Kazan è la capitale si chiama Tatarstan.
I
Dopo la conquista di Kazan e di Astrakhan il khanato della Sibir occidentale si trovò
improvvisamente esposto e minacciato così che il suo principe Yediger nel 1555
preferì accettare la sovranità di Ivan il Terribile e pagargli il (solito) tributo: nel 1563
egli fu però deposto da Kuchum che islamizzò le tribù ancora pagane, rifiutò di
pagare il tributo a Mosca ed attaccò gli Ostyaks di Perm (subito a ovest degli Urali)
che avevano riconosciuto la sovranità dei russi.
A questo punto la guerra divenne dunque inevitabile.
La spedizione militare fu condotta da un esercito di cosacchi (letteralmente ‘ribelli’ o
‘uomini liberi’), bande di avventurosi combattenti, predoni, fuorilegge e mercenari
che si erano da tempo stabiliti lungo il Volga, il Dnjepr e il Don: essi erano stati un
problema non indifferente anche per i russi che avevano subito le loro razzie non
meno dei tartari finchè una grande spedizione russa nel 1577 li aveva attaccati per
distruggerli una volta per tutte.
Un gruppo di cosacchi comandato da un certo Yermak era però riuscito a scampare
all’attacco e ad arrivare a Perm dove era stato accolto con estremo favore ed
ingaggiato in funzione anti-tartara: nel 1581 una spedizione cosacca partì così contro
Kuchum e il suo khanato.
Dopo alterne e complicate vicende (fra cui la conquista della capitale Kashlyk,
l’odierna Tobolsk, che valse a Yermak o spropositato titolo di ‘conquistatore della
Siberia’) l’impresa si concluse con una ritirata ed un fallimento, ma nel 1586 una
nuova spedizione (questa volta russa) attraversò gli Urali, rase al suolo Isker, la
capitale tatara del khanato di Sibir ed arrivò al fiume Tura (affluente di sinistra
dell’Ob): questa volta non si trattò di un raid (tipico dei cosacchi) ma di
un’operazione di conquista vera e propria che comportò la costruzione di tutta una
serie di stazioni, forti ed anche città per assicurarsi il possesso definitivo del
territorio, la sicurezza dei commerci e una strada sicura per il Volga, gli Urali ed
oltre.
Tale processo culminò nel 1604 con l’edificazione sulle rive dell’Ob (fino a quel
momento il confine orientale del mondo conosciuto) di Tomsk, vero e proprio
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caposaldo della Russia asiatica e
centrale.
bastione difensivo contro i nomadi dell’Asia
II
Ivan il Terribile morì nel 1584 non ancora cinquantaquattrenne: gli successe il figlio
Fyodor, minorato mentale e remissivo, e poi il cognato Boris Godunov alla cui morte
(1605) l’’età dei torbidi’ raggiunse la sua acme finchè nel 1613 non venne proclamato
zar il sedicenne Michele Romanov.
Durante questi anni di confuse e sanguinose lotte intestine la marcia verso est
comprensibilmente rallentò e a stento vennero contenuti i tentativi di rivolta e di
riscossa dei tartari appena conquistati ma in ogni caso nel 1587 i cosacchi –
saccheggiata la tartara Sibir – edificarono il primo forte a Tobolsk (alla confluenza
del Tobol nell’Irtysh) e, nonostante la popolazione fosse tartara e mussulmana, fu qui
che nel 1620 sorse la prima diocesi siberiana (istituita anche allo scopo di disciplinare
gli indocili e incontrollabili cosacchi).
Nel 1604 era stata intanto fondata Tomsk (sul fiume Tom), ancor oggi rinomata per
le sue case di tronchi d’albero dalle finestre ornate da intarsi (anche se case simili si
trovano comunque praticamente in tutta la Siberia).
Quando a Mosca la situazione interna tornò sotto controllo anche l’avanzata russa
riprese infine con rinnovato vigore e procedette al di là dell’Ob, in un territorio allora
ancora del tutto sconosciuto.
Dall’Ob allo Yenisey
E’ abbastanza strano che questo stato di 13 milioni di abitanti (secondo Bobrick, ma
per Massie un secolo dopo essi erano invece solo 8) fosse fortemente assolutistico ma
con una società feudale, arretrato e semi-barbaro ma convinto di essere il portatore
della civiltà e del vero Cristianesimo, e, soprattutto, estesissimo ma con una forte
spinta alla sempre ulteriore espansione - ma questa fu per secoli la sua storia.
I russi avanzavano in Siberia prendendo possesso delle principali vie di
comunicazione e di trasporto delle merci e in ogni posizione strategica essi
costruivano forti e fortini dai quali comandavano il territorio e imponevano tributi
alle popolazioni che in genere avevano facilmente sottomesso: anche se nel basso
Yenisey essi incontrarono la dura resistenza dei tungus e intorno al lago Baikal
(ancora più a sud) dei buryati, ciò non impedì loro di fondare Yeniseysk (1619),
Krasnoyarsk (1627) e Bratsk (1631) sull’Angarà (affluente di destra dello Yenisey
dal lago Baikal).
Sull’alto Yenisey le tribù nomadi kirghize e calmucche (i mongoli occidentali dei
monti Altai e del Sinkiang nord-occidentale) opposero tutta la resistenza di cui
furono capaci, ma non riuscirono a fermare gli inesorabili conquistatori: oltretutto, i
russi erano già arrivati sullo Yanisey anche da nord, via mare, sulla nuova rotta da
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Arkhangelsk fino a Mangazeya, la ‘favolosa città polare’ situata sulle rive del
Turukhan, affluente sinistro dello Yenisey, 1.500 km. a nord di Krasnoyarsk.
A Mangazeya non arrivavano solo le pelli e le pellicce siberiane ma anche seta,
porcellana e raffinati tessuti dall’Asia centrale e dalla Cina, tutte merci che fecero
della città una ‘virtuale Baghdad della Siberia’: la sua ricchezza fu tale che suscitò sia
la paura che i mercanti europei potessero arrivarci direttamente, sia l’invidia dei
mercanti russi che per giungerci dovevano attraversare gli Urali.
Fu così che nel 1619 l’accesso dal mare venne interrotto (!) e la città lasciata
declinare finchè nel 1643 il suo apparato amministrativo venne trasferito nella vicina
Turukhansk (che però a sua volta nel 1678 venne distrutta e bruciata (!) e quel che ne
restò finì ‘ingoiato dalla tundra’).
Per il momento nel nord della Siberia le difficoltà risultarono insomma
insormontabili ma tutto ciò non fermò certo, anzi accelerò, la marcia dei pionieri che
procedevano a sud (via terra e lungo i numerosi e continui affluenti) senza soste o
interruzioni.
Dallo Yenisey alla Lena
Nell’ambito della continua avanzata a est, gli affluenti di sinistra della Lena furono
facilmente raggiunti a partire da quelli di destra dello Yanisey: il cosacco Pyotr
Beketov fu appositamente inviato dallo zar per conquistare il nuovo grande fiume ed
egli nel 1632 fondò Yakutsk (sul corso centrale della Lena), dal 1638 capoluogo
della regione, Zhigansk (600 km. più a nord sulla confluenza della Nuora), Amginsk
(più a sud sull’Amga), Vilyuysk (sul Vilyuy, altro affluente della Lena) e infine nel
1635 Olekminsk (sulla confluenza dell’Olekma nella Lena).
E’ evidente come l’avanzata russa in Siberia si fondasse sulle vie d’acqua che,
uniche, potevano permettere gli spostamenti e il trasporto delle merci in quelle
sconfinate ed impervie regioni (la Lena scorre a 4mila km. dagli Urali): in genere
erano i cosacchi che avanzavano ed aprivano le strade mentre gli uomini dello stato
russo li seguivano e costruivano forti e fortini.
Nel 1648 il cosacco Kurbat Ivanov arrivò al lago Baikal risalendo l’Angarà e Ivan
Pokhabov giunse fino al confine con la Mongolia: attorno al Baikal vennero eretti
forti – Verkholensk (1641), Verkhneangarsk (1646), Verkhneudinsk (1648) e
soprattutto Irkutsk nel 1652.
Dalla Lena al Pacifico
Le resistenze dei buryati e degli altri nativi vennero vinte e superate e l’autorità dello
zar affermata mentre l’avanzata di fiume in fiume (Selenga, Ingoda, Shilka) non
conosceva soste e sulle due rive del Nercha venivano fondate Irgensk (1652) e
Nerchinsk (1653): sfruttando soprattutto il fitto sistema degli affluenti dei grandi
fiumi che ‘quasi si collegavano come … rami di una fila di alberi’, cosacchi e russi
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procedevano in tutte le direzioni e già nel 1639 una spedizione russa comandata da
Ivan Moskvitin giunse sulle rive del mare di Okhtosk, cioè sul Pacifico.
Gli europei erano arrivati sulle rive del grande oceano anche da ovest dopo che oltre
un secolo prima altri europei c’erano arrivati da est.
Mentre spedizioni navali percorrevano l’Artico partendo da Arkhangelsk, cosacchi e
russi arrivarono sulle sue rive anche da sud seguendo il corso dei fiumi principali.
Anche se in genere gli ardimentosissimi esploratori russi e cosacchi soccombevano
alle tremende difficoltà dell’ambiente ed all’ostilità dei nativi, nel 1642 il cosacco
Yelisey Buza tornò dopo un viaggio di cinque anni (!) durante il quale aveva
scoperto tre nuovi grandi fiumi; Dezhnev scoprì le due isole Diomede nello stretto di
Bering; nel 1644 Mikhail Stadukhin scoprì il Kolyma e fondò Srednekolymsk alla
sua foce; salpato dalla Kolyma Dezhdev fu il primo a circumnavigare il capo
nordorientale dell’Asia e a navigare quindi nello stretto di Bering e Mikhail
Stadukhin (ignaro di tale spedizione) arrivò per la stessa rotta fino al mare di
Okhotsk.
Naturalmente tutte le imbarcazioni venivano costruite direttamente sul posto.
Le imprese e le avventure di questi intrepidi esploratori, navigatori e scopritori non
hanno nulla da invidiare a quelle che nel secolo precedente erano state compiute dagli
europei occidentali, eppure i loro nomi sono completamente sconosciuti e le loro
gesta del tutto trascurate: essi non hanno colpito l’immaginazione dei posteri
nonostante la grandiosità delle sfide affrontate, l’importanza dei risultati conseguiti e
che la rapidissima conquista della Siberia sia stata un’impresa tanto epica e grandiosa
quanto terribile e difficile, affrontata e portata avanti in un clima micidiale e ancor
oggi proibitivo.
Pelli e pellicce
Come nei loro fantastici viaggi di esplorazione e nelle loro incredibili conquiste gli
europei occidentali erano stati spinti dalla ricerca dei metalli preziosi (oro e argento)
e delle spezie, così in Siberia (come anche in Canada e negli USA) il propulsore della
grande avanzata russa fu il commercio, e soprattutto quello delle pellicce.
Da tempo il commercio di pelli e pellicce era una realtà importante perchè le pellicce
erano la principale (se non la sola) merce russa di esportazione che da Novgorod
arrivava sui mercati dell’Hansa dove veniva scambiata coi prodotti europei.
I vasti bacini settentrionali della Dvina e della Pechora avevano assicurato un
continuo afflusso in Europa di questo vero e proprio ‘oro soffice’ - che oltretutto nei
climi artici era l’unico a poter assicurare e permettere la sopravvivenza stessa - ma,
data la crescente richiesta, negli anni Settanta del XVI secolo in Russia i preziosi
animali da pelliccia erano stati ormai praticamente sterminati e fu allora che la
Siberia emerse in tutta la sua importanza.
Dopo che per secoli a sud della Via della Seta era stata percorsa la non meno
importante Via dello Zibellino (da Bisanzio all’Estremo Oriente), ora in Siberia si
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scatenò una vera e propria ‘corsa alla pelliccia’ non meno convulsa delle celebri
‘corse all’oro’ in California o nello Yukon di tre secoli dopo (!).
Così come sarebbe avvenuto con l’oro, allo stesso modo in Siberia ci si poteva
arricchire nel giro di una sola stagione di caccia (!) ma, così come le miniere si
esauriscono, allo stesso modo lo sterminio indiscriminato degli animali da pelliccia
portava rapidamente alla loro estinzione in una regione ed alla conseguente ricerca di
sempre nuovi territori di caccia nei territori vergini più a est.
La conquista della Siberia procedette insomma da un territorio di caccia all’altro
quando il primo era stato impoverito dalle indiscriminate, dissennate e
controproducenti uccisioni dei preziosi animali: le pellicce più ricercate e pregiate
erano quelle degli zibellini e quando alla fine del Seicento questi erano ormai
praticamente spariti ci si volse allora alle volpi, sia nere che polari, ai castori, agli
ermellini ed agli scoiattoli.
Gli esploratori scoprivano le strade, i soldati assicuravano la conquista e i pionieri si
stabilivano come agricoltori, ma erano i cacciatori ed i commercianti di pelli e
pellicce ad esercitare la pressione decisiva per l’avanzata: immediata conseguenza
della conquista di una popolazione indigena erano poi lo ‘yasak’, il tributo in pelli
che questa era tenuta a pagare ai nuovi signori (così come l’avevano dovuta pagare ai
mongoli), ed il ‘pominki’, il dono volontario (sic) di pelli.
Anche in Siberia si replicò il solito copione: le popolazioni locali (spesso nomadi)
venivano più o meno facilmente assoggettate e sottomesse proprio allo scopo di
ottenere da esse il pagamento dei tributi in pellicce: queste genti erano più numerose
dei russi ma erano divise, spesso nemiche fra loro e con una tecnologia nettamente
inferiore a quella dei conquistatori le cui armi da fuoco ebbero qui gli stessi effetti
che quelle degli spagnoli avevano avuto in America.
Anche in Siberia semplici merci ed utensili europei erano poi enormemente
apprezzati e scambiati con montagne di pellicce mentre non era raro che la nuova
pax russa ponesse fine a lotte e rivalità fra gli indigeni che duravano da tempi lontani.
Ben presto la Siberia divenne un campo di sterminio: si passò dalle 20 mila pellicce
all’anno negli anni Ottanta del Cinquecento alle 62.400 (ufficialmente) nel 1605 e al
mezzo milione trent’anni dopo.
Come era avvenuto e stava avvenendo nel Nuovo Mondo, anche in Siberia
l’estrazione sociale dei nuovi occupanti era quanto mai varia: cacciatori, esploratori,
avventurieri, soldati, volontari, servi fuggitivi, ex-galeotti, commercianti, prigionieri
di guerra, cosacchi, truppe di irregolari, contadini, tutti si mescolarono in questa
nuova società che si raccoglieva nei forti russi che, costruiti nei punti strategici, a
metà Seicento punteggiavano ormai la taiga dagli Urali al Pacifico.
Il traffico delle pellicce si svolgeva per vie commerciali semplicemente fantastiche:
esse connettevano l’Europa alla Siberia ed all’Asia centrale attraverso Tara
(sull’Irtys), Tomsk (sull’Ob), Astrakan, Kazan, Novgorod (sul Volga) fino ad
Arkangelsk: la fitta rete di fiumi, affluenti e tributari di cui Russia e Siberia sono così
ricche permetteva ai mercanti di percorrere coi loro carichi grandi distanze altrimenti
insuperabili esattamente come avevano già scoperto i normanni quando nel IX secolo
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avevano messo in comunicazione il Baltico col mar Nero (quindi col Mediterraneo)
attraverso l’ininterrotto intrico delle numerosissime vie d’acqua.
Il Trattato di Nerchinsk
La spettacolare avanzata verso est mise infine i russi in diretto contatto coi cinesi.
Nella Siberia orientale le difficoltà di approvvigionamento erano serie (nel 1629 la
fame aveva spinto la guarnigione di Krasnoyarsk addirittura al cannibalismo!) e le
voci delle risorse della valle dell’Amur vennero verificate da una spedizione guidata
da Vasily Poyarkov nel 1643 (gli esploratori discesero il fiume Zeya fino all’Amur e,
accolti amichevolmente dagli indigeni (i daurs), si abbandonarono presto a violenze e
razzie che glieli inimicarono per sempre).
Tornato comunque a Yakutsk, Poyarkov giudicò la valle ‘il futuro granaio della
Siberia orientale’; una seconda spedizione fece concludere che ‘nell’Amur c’era più
pesce che nel Volga’e una terza nel 1650 fondò Achansk (oggi Komsomolsk-onAmur), a 360 km. dall’ansa del fiume che gli fa abbandonare la direzione ovest-est
per quella sud-nord.
La valle dell’Amur veniva descritta come una sorta di El Dorado ed attirava da tutta
la Siberia orientale avventurieri e banditi in cerca di bottino e di facili fortune.
I continui arrivi di questi spietati predatori impoverirono terribilmente la regione la
cui agricoltura dovette essere praticamente interrotta: la crudeltà e le barbarie
perpetrate dai russi ai danni delle popolazioni locali furono così feroci che due secoli
dopo erano ancora rappresentate nel folklore popolare come opere di demoni.
I nativi chiamarono in aiuto i cinesi, i signori cui pagavano il tributo, e scontri e
manovre si alternarono a profonde ritirate delle forze regolari ed a continui arrivi di
sempre nuovi razziatori che riempivano i vuoti lasciati.
Nel 1665 Nikifor Chernigovski fondò sulla riva sinistra dell’Amur Albazin, una
sorta di libera repubblica cosacca che attrasse criminali e fuorilegge cui forniva una
base da cui muovere, a cui tornare e in cui sopravvivere, visto che la terra intorno alla
città veniva regolarmente coltivata.
Mentre per parte loro i russi erano nuovamente impegnati sulla instabile e pericolosa
frontiera polacca, nel 1661 morì l’imperatore cinese e durante la minore età del
successore, il piccolo K’ang-shi, in Cina scoppiarono rivolte interne che
evidentemente ebbero la precedenza sui problemi nella valle dell’Amur dove i russi
(e chiunque altro volesse unirsi a loro) poterono dunque sviluppare tranquillamente i
loro insediamenti come appendici e parti della Siberia russa: quando però nel 1680
K’ang-shi prese saldamente in mano le redini del governo, subito si mise all’opera
per risolvere una volta per tutte la situazione.
I cinesi procedettero con ordine e metodo: costruirono forti, granai, un porto e
scavarono perfino un canale (!) per isolare, circondare e privare Albazin di ogni
collegamento esterno finchè il 23 maggio 1685 iniziarono il vero e proprio assedio.
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I russi non ebbero via di scampo e dopo convulse vicende il solo il 3 novembre 1686,
in vista dell’apertura di seri negoziati, l’assedio venne tolto quando ad Albazin erano
rimaste vive solo 66 persone.
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La necessità di frenare la violenza devastatrice dei russi e di riportare l’ordine
nell’intera vallata si sommò comunque ad altri - e reciproci - interessi.
Innanzitutto l’offerta di pellicce in Europa stava eccedendo la domanda mentre - quel
che per i russi era ancor peggio - dal Canada era arrivata la temibile concorrenza delle
pellicce di castoro: tutto al contrario, in Cina c’era invece un’enorme richiesta di
pellicce (e nessuna concorrenza canadese).
Insomma, se i cinesi volevano sicuramente avere il controllo della valle dell’Amur,
erano però anche fortemente interessati a stringere rapporti commerciali coi nuovi
arrivati che per parte loro non chiedevano altro.
In secondo luogo, mentre colloqui e trattative procedevano, fra i due litiganti apparve
sulla scena un terzo protagonista, i mongoli.
I mongoli erano allora quella che oggi verrebbe chiamata una potenza regionale:
alleati-soggetti ai cinesi, anch’essi erano minacciati dai russi sui loro confini ma,
desiderosi di riguadagnare completamente la propria indipendenza, nel 1688 sotto la
guida di Galdan si erano proclamati padroni grossomodo dell’attuale Mongolia
Esterna (o semplicemente Mongolia) e pronti anche alla guerra contro la Cina.
Oltre che da interessi commerciali complementari, ora russi e cinesi ora erano uniti
anche dal comune nemico mongolo che l’anno seguente si impadronì (o ri-impadronì)
praticamente di tutta la Mongolia - e ciò contribuì a spingere definitivamente russi e
cinesi all’accordo.
Le trattative (condotte in latino da russi colti e interpreti gesuiti per i cinesi!) si
conclusero il 27 agosto 1689 col Trattato di Nerchinsk, il primo mai firmato fra la
Cina e una nazione europea: il confine fra i due imperi venne fatto partire dal fiume
Argun (ramo sorgentifero destro dell’Amur) e continuare lungo il crinale delle
montagne Stanovoy fino al mare di Okhtosk, dunque a centinaia di km. a nord
dell’Amur; i russi mantennero Nerchinsk (sufficientemente lontana dalla Manciuria)
ma dovettero abbandonare Albazin che venne rasa al suolo.
II
A Nerchinsk i russi videro riconosciuta per la prima volta la loro conquista della
Siberia - lago Baikal (e buryati) compreso - in modo che quella che in fondo fino a
quel momento era stata un’avventura ora diveniva fatto compiuto e riconosciuto
dall’unica altra potenza interessata: la Russia diveniva ufficialmente il Paese che è
ancora, con la testa (e il cuore) in Europa (di cui è l’estremità orientale non solo
geografica) ma il corpo largamente in Asia.
Il Trattato di Nerchinsk ufficializzò la posizione della Russia a cavallo di due
continenti, dal Baltico al Pacifico e dall’Artico ai deserti centroasiatici: nei suoi
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immensi confini si trovarono riuniti insieme popoli di etnie e di culture
profondamente differenti ma che da allora condividono lo stesso destino.
Il Trattato di Nerchinsk segna insomma un momento molto importante sia della storia
dell’Europa che di quella dell’Asia e la sua rilevanza è ulteriormente confermata dal
fatto che rimase in vigore per 170 anni assicurando la pace fra Russia e Cina.
La Russia perse comunque l’Amur e con esso la via più semplice, diretta e importante
al Pacifico, ma dal 1689 gli zar poterono star tranquilli sull’immenso oriente
siberiano perché il suo assetto era stato definitivamente concordato e stabilito.
Per parte sua, la Cina ebbe le mani libere contro i mongoli, una parte dei quali (i
buryati) ora era oltretutto suddita dello zar, e la divisione di questo popolo non
poteva che favorire la volontà di Pechino di spezzarne una volta per sempre
l’aggressività.
III
Il successivo trattato commerciale con la Cina aprì poi alla Russia i ricchi mercati di
cui avevano grande bisogno le casse del suo Tesoro mentre, oltretutto, i cinesi non
chiedevano pellicce di zibellino (il cui numero stava pericolosamente declinando)
quanto di ermellino, di volpe artica e soprattutto di scoiattolo, di cui nella Siberia
orientale c’era grande abbondanza.
E non basta ancora, perché con la pace la Russia divenne il principale collegamento
fra Europa e Cina e dunque la massima fornitrice della seta, tanto richiesta nella
prima e principale prodotto di esportazione della seconda.
Negli anni seguenti il commercio non fece dunque che crescere facendo di Nerchinsk
il punto di maggior transito dei prodotti e di Irkutsk il principale emporio delle
pellicce di tutta la Siberia orientale.
Kamchatka, l’ultima conquista
La rinuncia alla valle dell’Amur fece ora concentrare gli sforzi della Russia verso la
conquista dell’ultimo lembo (in realtà grande quanto l’Italia) nord-orientale di Siberia
non ancora assoggettato, la penisola di Kamchatka (che si pensava fosse un’isola!).
Anche se, stabiliti ad Anadyrsk (a nord), da molti anni i cosacchi avevano imposto la
yasak agli allevatori di renne del sud, l’acquisizione vera e propria della penisola
venne però decisa nel 1695, quando il cosacco Vladimir Atlasov fu nominato
comandante della regione: due anni dopo la spedizione russa partì e i nativi, che sui
loro sci e sulle loro slitte trainate da cani tentavano di resistere con le armi primitive
di cui disponevano, venivano massacrati con le loro famiglie e i loro villaggi rasi al
suolo.
Per garantire il controllo della penisola, che appariva ricca di pellicce e adatta alla
coltivazione, venne fondata Verkhnekamchatsk sul fiume Kamchatka e poi
Bolsheretsk (1703) sul Bolshaya, ma la resistenza dei nativi continuava indomita
(anche se alcune tribù aiutarono i russi contro altre tribù loro nemiche) e le feroci
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rappresaglie e le violenze di ogni genere operate dai cosacchi non riuscivano a
domare i tenaci indigeni che nel 1706 incendiarono addirittura Bolsheretsk.
Atlasov fu allora richiamato e gli venne concessa carta bianca: quel che avvenne poi
fu vera e propria macelleria ma, nonostante la fondazione di Nizhnekamchatsk (1711)
alla foce del Kamchatka, la resistenza delle popolazioni locali potè essere schiacciata
solo quattro anni dopo a causa di una grave epidemia di vaiolo che infierì su di esse.
Anche in questo caso dunque le disgraziatissime genti che si trovarono sulla strada
dei conquistatori bianchi andarono incontro ad un destino terribile in cui la crudeltà
degli uomini si fuse con le epidemie: nel 1731 una nuova ribellione capeggiata da
Fyodor Kharchin finì in un’ulteriore strage perpetrata dai cosacchi la cui ferocia era
tale che ci furono addirittura suicidi di massa pur di non cadere vivi nelle loro mani.
Il governo della penisola venne comunque trasferito nella più vicina Okhotsk, mentre
nell’estremo lembo nordorientale anche la sottomissione della penisola di Chukchi
incontrava serissime difficoltà nonostante le battaglie vinte.
A sud i russi erano intanto arrivati nelle Kurili dove avevano trovato pregiate merci
provenienti dal Giappone (Paese che essi non riuscivano nemmeno a localizzare sulla
carta geografica!).
Una strana conquista
Così come gli europei occidentali che avevano conquistato l’America, anche i
cosacchi e i russi che conquistarono la Siberia furono pochissimi in rapporto
all’enormità delle aree che sottomisero e l’assoluta eccezionalità della loro impresa
risulta ulteriormente accresciuta dalle difficoltà che affrontarono, dai pericoli che
corsero e dagli ostacoli che superarono: le smisurate dimensioni della Siberia li
costrinsero a percorrere ogni volta distanze misurabili in migliaia di km.
addentrandosi sempre più in smisurati territori sconosciuti, selvaggi, dagli inverni
spaventosamente gelidi e dalle interminabili notti polari a nord.
A sud i mongoli e i nomadi turchi (calmucchi e kirghizi) furono gli unici popoli
relativamente numerosi e con una certa capacità guerriera che cosacchi e russi
incontrarono e dovettero così organizzare una linea difensiva lungo tutto il bordo
meridionale delle loro conquiste siberiane.
Eppure, come si è già detto, questa Russia che si lanciò nella conquista di un
territorio tanto smisurato non solo era il più arretrato degli stati europei ma, oltre a
ciò, per tutto il Seicento (ed oltre) condusse continue altre guerre (contro gli svedesi
per il Baltico e contro polacchi e turchi per l’Ucraina) e, come se tutto questo non
bastasse, fu allo stesso tempo squassata da rivolte interne anche di vaste dimensioni
(come quella di Stenka Razin nel 1670-71) dovute all’aumento delle tasse ed al
costante peggioramento delle condizioni di vita dei contadini, sempre più asserviti
alla gleba.
Non può dunque stupire che la società russa fosse oltremodo barbara e violenta né
che il governo potesse dedicarsi molto poco alla Siberia ed al suo sviluppo.
14
Il servizio stesso in Siberia era molto duro sia per le condizioni oggettivamente
sfavorevoli in cui veniva esercitato (come le enormi distanze, l’inclemenza del clima,
la primitività degli insediamenti, la scarsità di moltissime merci e la mancanza di
qualsiasi agio e comodità), sia per i sistemi davvero violenti con cui la disciplina era
mantenuta e che facilmente potevano sfociare in atti di vero e proprio gratuito
sadismo: l’impossibilità che governatori e comandanti locali venissero controllati e la
situazione di abbandono in cui la Siberia giaceva contribuivano poi a far dilagare la
corruzione ad ogni livello della scala gerarchica con gli sfortunati nativi a pagare i
conti finali per tutti.
Come si poteva ottenere giustizia se un corriere impiegava almeno due anni per
andare e tornare da Yakutsk a Mosca?
Come stupirsi se le popolazioni tentavano di fuggire (a nord, in Mongolia o
sull’Amur, a seconda dell’etnia)?
Per parte sua, solo inizialmente la Chiesa fu favorita dal governo in quanto giudicata
portatrice di ordine e civiltà: ben presto a Mosca si temette infatti che essa stesse
acquisendo troppa terra, troppo potere o comunque troppa influenza, così venne
limitata e posta anch’essa sotto controllo (soprattutto ad opera di Pietro il Grande)
anche perché, dato che solo i non-cristiani erano tenuti al pagamento della yasak, non
era conveniente che gli indigeni si convertissero (!).
Il quadro della Russia del Seicento che emerge è insomma davvero strano e
contraddittorio, come anche quello della conquista della Siberia: vi campeggia un
popolo sempre alla ricerca dell’espansione nonostante la vastità del proprio stato e la
necessità di ammodernarlo; una società tanto vitale quanto violenta, sempre eccessiva
nelle sue manifestazioni ma capace di dominare uno scenario gigantesco; una
barbarie forse paragonabile a quella delle orde mongole ma contemporaneamente
anche l’avanzamento e l’allargamento della civiltà europea in Asia.
Fin dalla sua nascita insomma la Russia ha sempre guardato fuori anziché dentro
se stessa ed ha sempre cercato di affermarsi nel mondo grazie all’allargamento dei
suoi confini piuttosto che per i risultati e gli sviluppi ottenuti al loro interno.
La nuova società siberiana
L’incontro del mondo europeo con quello siberiano fu inevitabilmente distruttivo di
quest’ultimo, ma meno di quello che era stato, ed era ancora, quello cogli indiani
d’America: nei riguardi delle genti siberiane cosacchi e russi si comportarono
comunque in modo piuttosto vario e contraddittorio.
Da una parte infatti, come tutti gli europei fuori dall’Europa, anche russi e cosacchi si
ritennero i portatori del progresso e della civiltà a genti barbare e primitive e ciò li
portò a sottovalutare l’ingegnosità e la capacità di queste popolazioni di sopravvivere
in ambienti tanto proibitivi, di saper sfruttare in modo ottimale le (scarse) risorse a
loro disposizione e di utilizzare mirabilmente ogni parte degli animali che
catturavano con grande abilità ed inventiva (soprattutto le balene e gli orsi).
15
Anche la cultura e la religiosità dei popoli siberiani venivano facilmente derise e
disprezzate (quando pure erano comprese) mentre invece il loro panteismo e il loro
sciamanismo erano in grado di esprimere un rapporto profondo e vitale con la natura
ed illustrato da una ricca mitologia: i nativi siberiani non conoscevano la lingua
scritta ma – come quella degli antichi greci – la loro tradizione orale era vasta ed
articolata.
D’altra parte però se in Siberia i nativi in caso di guerra o di resistenza venivano
sterminati dalle armi dei conquistatori ben più letali delle loro; dovevano pagare la
yasak; venivano impiegati a forza nei lavori necessari ai nuovi insediamenti;
vedevano insidiate e strappate via le loro riserve di pesca e di caccia mentre le nuove
malattie dei bianchi, contro le quali non avevano difese immunitarie, aprivano vuoti
paurosi nelle loro fila; è anche vero che in qualche modo essi vennero soprattutto
assimilati ed inseriti nel nuovo stato in cui dovettero entrare a far parte - e questo fu
un evento molto importante e sicuramente inevitabile.
In teoria infatti i primi conquistatori che si avventurarono nei luoghi tanto reconditi e
semidesertici della Siberia sarebbero dovuti dipendere dagli approvvigionamenti
(grano soprattutto) che sarebbero dovuti arrivare dall’altra parte degli Urali (!) ma
naturalmente più le distanze aumentavano, più difficili, lunghi e complicati erano i
trasporti: basta pensare che perché i rifornimenti arrivassero nella Siberia orientale ci
volevano addirittura tre anni, cinque nella Kamchatka, mentre alcune aree erano
semplicemente irraggiungibili.
I conquistatori dovettero insomma sopravvivere colle risorse locali e così costrinsero
ed anche incoraggiarono i nativi a diventare coltivatori ma, oltre a ciò, fin da subito
dovettero imparare dagli indigeni stessi a sopravvivere in ambienti tanto ostili e
diversi da quelli cui erano abituati e ad adottare i loro sistemi, lo loro tecniche ed i
loro ritrovati.
Col tempo tuttavia il contatto con la civiltà russa (europea) coi suoi mezzi e con la
sua tecnologia di per sé comportò per i nativi la perdita progressiva delle abilità e
delle capacità di sfruttamento tradizionale delle risorse locali, tanto che piano piano
furono proprio gli indigeni a dipendere dai russi per il loro stesso sostentamento (!).
La scarsità delle donne russe portò infine al rapimento di quelle locali, ma anche al
loro acquisto ed alla loro condivisione dato che in materia di sesso numerosi popoli
siberiani erano di vedute aperte o apertissime: veri e propri harem, prostituzione e
sesso libero erano comuni in Siberia insieme a comportamenti che in Russia
sarebbero stato considerati depravazione e scandalo.
I
Cosacchi e russi cercarono di rendere la Siberia autosufficiente con ogni mezzo, con
la costruzione di magazzini, l’assegnazione di terra a chiunque la volesse coltivare
(coloni, nativi, servitori, contadini della corona, prigionieri di guerra, carcerati,
fuggitivi dalla Russia per motivi religiosi o per scampare all’oppressione, ecc.) e con
la pronta concessione di prestiti e garanzie: negli anni Venti del XVII la Siberia
cominciò così a popolarsi, a mantenersi da sola e a sviluppare una propria agricoltura
16
con coloni che, come i loro colleghi in America, anche se rischiavano una freccia
nella schiena (da parte dei tartari invece che degli indiani) e dovevano sopportare
tutte le privazioni della frontiera e i terribili rigori del clima, erano però finalmente
padroni della terra che lavoravano.
Negli anni Quaranta il distretto di Yeniseysk cominciò ad esportare e dal 1685 la
Russia mandò sempre meno ed anzi cominciò a ricevere sempre più.
Presto la Siberia iniziò poi ad aprire i suoi inesauribili forzieri di materie prime: rame,
argento, mica, sale, zolfo, salnitro (dunque polvere da sparo) si affiancarono alle
pellicce e al grano nel far fiorire l’economia così che la popolazione russa dai 70mila
del 1662 passò agli oltre 300mila della fine del secolo.
In Siberia non c’erano boiari e nobili latifondisti (a parte qualche discendente di
famiglie impoverite) e la società era molto più libera, semplice ed aperta anche se la
vita era davvero dura.
II
Nelle regioni periferiche meridionali della Siberia lungo il confine mongolo ancora
oggi si trovano comunque popolazioni indigene: è il caso della stepposa regione di
Tuva (capitale Kyrzil) la cui gente è largamente buryata (mongola) e in cui sono
molto frequenti, annodati a rami di alberi o impalcature di legno, i mille fazzoletti
multicolori contenenti preghiere o ex-voto secondo il tipico costume buddhista; qui
sono stati ricostruiti i templi buddhisti, i volti dei caduti nella Grande Guerra
Patriottica hanno tutti i lineamenti mongoli e, insomma, si è fuori dell’Europa.
Anche a Irkutsk s’incontra una certa presenza buryata, così come lungo la costa
meridionale del lago Baikal, mentre nella adiacente Buryazia (capitale Ulan Ude) essi
ammontano a un quarto della popolazione complessiva.
Ancora più a est, ai confini con la Cina, città come Khabarovsk e Vladivostok sono
invece interamente e in tutto e per tutto europee – il che potrebbe sembrare strano se
si dimenticasse che fino ai primi anni Novanta del secolo scorso queste città (e non
solo, basta pensare a Ekaterinburg) erano centri industriali e soprattutto basi militari
l’accesso alle quali era rigorosamente vietato: vi si poteva entrare solo forniti di
speciali permessi, mentre stranieri e turisti non potevano metterci piede.
Passaggio a Nord-Est
Quando alla fine del Seicento Pietro I divenne zar la Siberia era già stata dunque
virtualmente conquistata ma certamente solo minimamente colonizzata: date le sue
dimensioni essa era ancora largamente sconosciuta persino dal punto di vista
geografico, ma Pietro (cui sarebbe stato attribuito il titolo di Grande) aveva grandi
progetti anche per questa immensa parte del suo impero.
Innanzitutto, nell’ambito di una completa riorganizzazione la Russia era stata divisa
in otto province e la Siberia era una di queste con capitale Tobolsk (alla confluenza
del Tobol con l’Irtys a sud-ovest degli Urali): in secondo luogo, impegnatissimo nella
17
sua ambiziosa ma costosa politica di occidentalizzazione e di ammodernamento del
Paese, e specialmente nella seconda guerra del nord contro gli svedesi per l’accesso
al Baltico, nel poco tempo ed attenzione che potè dedicare alla Siberia Pietro volle
sfruttarne al meglio le risorse ma, soprattutto, innamorato com’era del mare, concepì
arditi progetti di navigazione che dimostrano ancora una volta la grandiosità delle sue
vedute.
La conquista della Kamchatka aveva fornito nuovi territori per la caccia agli animali
da pelliccia, ma era necessario giungervi in modo relativamente più rapido: nel 1716
Kuzma Sokolov riuscì così ad aprire la rotta marittima da Okhotsk fino alla costa
nord-occidentale della Kamchatka stessa, rotta che faceva risparmiare mesi di viaggio
via terra (!).
Mentre altri progetti dovettero essere trascurati per mancanza di mezzi, Pietro riuscì
però a portare avanti i più rivoluzionari ed ambiziosi: scoprire se 1) Asia ed America
erano unite e 2) esisteva un passaggio a nord-est verso l’Asia.
I
Fin da quando alla fine del XV secolo le rotte oceaniche erano controllate da Spagna
e Portogallo, altri Paesi europei (Olanda, Inghilterra, Francia) non solo le avevano
insidiate, ma ne avevano cercate anche di alternative, più brevi e più dirette: fu questo
il caso del famosissimo passaggio a nord-ovest che era stato lungamente cercato
(ovviamente senza successo perché non esisteva) entrando nelle gelide acque del
Canada nord-orientale e navigando verso ovest.
Facendo affidamento su mappe più o meno fantastiche, si era pensato però anche alla
possibilità di trovare un passaggio a nord-est, navigando cioè lungo l’oceano Artico
verso est, circumnavigando l’Asia a nord-est, entrando dunque nel Pacifico da nord e
discendendolo infine verso sud: dopo gli insuccessi degli inglesi agli ordini di
Caboto nel 1553, di Stephen Burrough nel 1556 e di Arthur Pet e di Charles Jackman
nel1580, nel 1596 era stata la volta dei danesi ma anch’essi, agli ordini di Willem
Barents, avevano fallito miseramente.
La conquista russa della Siberia cambiò comprensibilmente l’intera situazione e rese
l’impresa molto più sensata e fattibile.
Dopo che fin dal 1619 agli stranieri era stato vietato di navigare a est dell’Ob, Pietro
cominciò a studiare seriamente il problema che effettivamente apriva scenari
grandiosi: era insomma possibile aprire una rotta che riducesse fortemente i tempi di
navigazione dall’Europa non solo fino alla Cina ed al Giappone, ma anche
all’America (che geografi e studiosi sostenevano fosse vicina se non unita alla Siberia
stessa)?
Come scrisse un contemporaneo ‘essendo diventata una potenza navale [grazie a
Pietro], la Russia per continuare la sua espansione a est non deve più considerare
l’oceano una barriera. Altre potenze devono navigare intorno al mondo per
raggiungere il Pacifico settentrionale. I russi ci sono già.’
Se costeggiando la Siberia fin quasi a destinazione le flotte avessero potuto collegare
in tempi per allora rapidissimi i tre continenti gli sviluppi e i vantaggi per la Russia
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sarebbero stati inimmaginabili e in questa prospettiva non sembra poi tanto bizzarra
la voce secondo cui sul letto di morte Pietro avrebbe indicato ai suoi successori che lo
scopo della Russia sarebbe dovuto essere la conquista del mondo (!).
E’ impressionante – ma assolutamente tipico della politica russa! - che nella fertile
mente dello zar si agitassero pensieri simili mentre la Russia era invasa e messa a
ferro e fuoco dai terribili svedesi di Carlo XII ed egli doveva arretrare distruggendo il
suo stesso Paese per far terra bruciata di fronte alle truppe nemiche che avanzavano:
appena i suoi impegni nella guerra contro gli svedesi glielo permisero Pietro inviò
subito spedizioni per esplorare la fattibilità del progetto e la più famosa ed importante
(ma non l’unica) fu quella guidata dal danese Vitus Bering il cui ordine finale fu
firmato da Pietro il 26 gennaio 1725, soltanto due giorni prima della sua morte (!).
II
La spedizione di Bering partì nel maggio 1725 e i sopravvissuti fecero ritorno nel
1730 dopo aver affrontato peripezie e avventure di tutti i generi, risolto il problema
dei rifornimenti in loco, essersi divisi e poi riuniti più volte, aver costruito
imbarcazioni e slitte, navigato fiumi, proceduto con marce forzate, eretto ricoveri per
i lunghi e terribili inverni, escogitato ogni sorta di accorgimenti per sopravvivere:
raggiunta Okhotsk, avevano trovato che essa consisteva di undici rifugi con dieci
famiglie (sic), avevano costruito in qualche modo un’imbarcazione con la quale erano
giunti a Bolsheretsk (45 soldati e una trentina di casupole sul delta) sulla costa sudoccidentale della Kamchatka dove avevano dovuto costruire un’altra imbarcazione.
Ripreso il mare, finalmente nell’agosto 1728 Bering aveva attraversato lo stretto che
avrebbe ricevuto il suo nome (ma a causa della nebbia non aveva potuto vedere la
vicina costa americana!), aveva proseguito doppiando la penisola di Chukchi ma, data
la mancanza di risorse sulla penisola ed il suo clima proibitivo, era dovuto tornare
indietro senza scorgere nemmeno questa volta l’America.
Compiute altre esplorazioni, era tornato finalmente a San Pietroburgo nel marzo 1730
riportando che aveva esplorato e mappato le coste della Kamchatka e della Chukchi,
trovato lo stretto fra Asia e America senza però poter escludere che potesse esistere
un collegamento terrestre fra Asia e America.
La Russia aveva fatto un altro grande passo avanti sulla strada della sua espansione
che fin dai tempi della sua liberazione dai mongoli aveva inteso come un processo
senza fine.
La Grande Spedizione del Nord
Appena tornato dal suo grande viaggio Bering si diede a sostenere la necessità e
l’opportunità di una colonizzazione, di un popolamento e di tutta una serie di
miglioramenti e di misure atte a rendere la Siberia veramente autosufficiente ed anzi
compartecipe e protagonista dello sviluppo dell’intera Russia di cui ormai faceva
parte: per ottenere tutto questo era però necessario intraprendere molti altri viaggi di
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esplorazione e di conoscenza dell’immenso territorio, scoprire come collegarlo al
Giappone e all’America e infine mappare anche tutta la costa lungo l’oceano Artico
(con tutti i problemi, le difficoltà e i rischi che affrontare quel clima proibitivo e
spaventoso comportava).
Ben presto i piani per una seconda e molto più impegnativa spedizione presero forma
concreta anche perché favoriti dalla nuova zarina Anna I (1730-40), figlia di Ivan V
(il fratellastro minorato di Pietro I, compartecipe al trono fino alla morte nel 1796) e
dal ritorno dei riformatori al governo: agiva in questa direzione anche un’altra
costante della politica e della mentalità russe, il desiderio e la volontà di stupire e
superare l’Europa con grandi imprese e grandi risultati.
La Russia continuava ad essere arretrata rispetto ai Paesi europei ma nondimeno
incrollabilmente volta all’espansione ed all’ingrandimento, convinta fin dal XV
secolo di essere la portatrice di un destino superiore e di una missione nel mondo
quale faro di civiltà: per quante conquiste facesse, essa non ne era mai soddisfatta e le
intendeva sempre come punto di partenza per ulteriori avanzamenti.
Questo aspetto veramente curioso e particolare della Russia costituisce una costante
della sua politica (zarista, sovietica e post-sovietica che sia) e tre secoli fa il progetto
che venne intrapreso era davvero imponente: fu allestita una piccola flotta per
esplorare e mappare la costa artica, se ne previde una per esplorare le Kurili e la rotta
per il Giappone, un’altra per l’America, oltre, naturalmente, organizzare
l’esplorazione via terra della Siberia stessa.
L’Accademia delle Scienze (voluta da Pietro I) fu interamente coinvolta nel progetto
di raggiungere una completa ed approfondita conoscenza della Siberia: in un vero
trionfo della mentalità illuministica essa fu incaricata di studiare e precisare
astronomicamente le posizioni delle varie parti dell’immensa regione di cui doveva
anche redigere un completo profilo fisico, botanico, biologico, antropologico,
linguistico e storico.
Come disse un contemporaneo, la Seconda Spedizione nella Kamchatka (o Grande
Spedizione del Nord) fu ‘la più grande mai intrapresa fino a quel momento da un
governo europeo per scopi scientifici e di ricerca geografica’ ma in realtà il suo scopo
era anche l’‘espansione dell’impero e [la ricerca di] ricchezza inesauribile’ da
ottenere tramite la sovranità russa sulla costa asiatica fino al Giappone e su quella
americana che non fosse ancora occupata da alcuna potenza europea (!).
Mentre una parte del materiale e dell’equipaggiamento venne spedita via mare da
Kronstadt ad Okhotsk (circumnavigando Africa e Asia) al fine di risparmiare tempo,
la spedizione venne in realtà spezzettata ed articolata in varie parti per l’evidente
maggiore mobilità che così si otteneva: posta sotto la direzione generale di Bering e
dei suoi numerosi aiutanti e collaboratori, essa si compose complessivamente di
3mila uomini (600 dei quali dell’Accademia!) e venne dotata di ingenti rifornimenti e
di materiale di ogni genere e in abbondanza.
Il suo primo contingente (navale) partì per la grande avventura il 1 febbraio 1733.
20
I
In questa sede non avrebbe molto senso ripercorrere anche per sommi capi le
avventure, i disagi, i contrattempi, gli errori, le difficoltà, le sofferenze, le malattie
(soprattutto scorbuto e sifilide), gli incidenti, l’eroismo che gli intrepidi esploratori
vissero ed affrontarono sfidando un clima pauroso e dimostrando capacità, inventiva,
tenacia, coraggio e soprattutto una ferrea volontà ed un’inflessibile dedizione alla
missione intrapresa: ci si dovrà così accontentare di precisare i risultati che conseguì.
Innanzitutto i piccolissimi porti (come Okhotsk) e centri cominciarono a popolarsi
grazie all’arrivo di contadini ed artigiani e ne nacquero di nuovi (come Petropavlosk
sulla costa sud-orientale della Kamchatka nel 1740); le Kurili vennero esplorate e
mappate; fu scoperta e aperta (da Spanberg) la rotta per il Giappone: il 22 giugno
1739 si verificò il primo contatto amichevole e commerciale coi giapponesi (ma
Walton rivendicò di essere arrivato per primo su quelle coste); la mappatura della
costa artica proseguì di successo in successo; il 15 luglio 1741 Chirikov scoprì
l’Alaska e, senza che l’uno sapesse dell’altro, il 16 luglio 1741 Bering ci arrivò a sua
volta, ma morì sessantenne di malattia e consunzione l’8 dicembre sull’isola che
porta il suo nome nel mare ugualmente omonimo su cui la sua imbarcazione aveva
fatto naufragio; Steller tenne un eccezionale giornale di viaggio e raccolse
informazioni, osservazioni e studi di enorme importanza come quelli sulla ‘mucca di
mare’, una sorta di grandissimo erbivoro mammifero oggi estinto che viveva in acqua
e rassomigliava ad un’enorme foca: imparentato con l’elefante, poteva raggiungere la
lunghezza di 9 metri e il peso di 3-4 tonnellate, ma era estremamente impacciato e
vulnerabile; Gmelin viaggiò in Siberia per decine di migliaia di km. e scoprì e
classificò 1.178 nuove piante suscitando la grande ammirazione di Linneo; anche
Muller percorse decine di migliaia di km., studiò lingue e culture di numerose tribù e
soprattutto scrisse la prima storia della Siberia: venne così considerato lo ‘storico
dell’impero russo’ e i posteri l’avrebbero riconosciuto ‘padre della storia della
Siberia’.
Nel 1744 la spedizione si poteva considerare ormai conclusa ma su tutti i suoi
risultati e scoperte venne imposto il più rigoroso segreto per impedire che altre
potenze europee ne potessero approfittare, né questa era una novità: i risultati delle
esplorazioni dei nuovi mondi e delle nuove terre erano sempre stati avvolti nel
silenzio e per esempio i diari dei capitani erano dei veri e propri tesori da tenere
sempre celati e da conservare gelosamente perché contenevano informazioni preziose
per ogni stato o navigatore che volesse allargare i confini dei suoi domini.
La spedizione fu un grande successo perché prima delle sue scoperte e dei suoi
ritrovamenti sulla Siberia – anche se era stata appena conquistata! - si sapeva molto
poco da ogni punto di vista e infine con essa era veramente cominciata la
colonizzazione dell’estremo oriente siberiano.
Ancora una volta però – come sempre – questo grande passo avanti fu propedeutico
al seguente che seguì immediatamente in questa fantastica corsa della Russia per il
dominio dei continenti attraverso inglobamenti successivi.
21
L’America russa
Solo due anni dopo il ritorno della spedizione di Bering le notizie dell’abbondanza di
volpi azzurre, di foche e soprattutto di lontre marine presenti in grande quantità sulla
settantina di isole stese ad arco per oltre 1.600 km. fra Asia ed America (le Aleutine)
ebbero lo stesso effetto che avevano avuto gli zibellini nella prima fase della
conquista della Siberia: attrassero infatti cacciatori ed avventurieri in così grande
numero che fra il 1743 e il 1764 solo dalla Kamchatka partirono ben quarantadue
spedizioni con i (soliti) cosacchi in testa.
Lo slancio dei russi verso est continuò dunque coll’attraversamento del Pacifico:
seppur spoglie ed inospitali dal punto di vista faunistico, le Aleutine erano però
ricche di animali terrestri e marini (oltre a quelli già accennati, c’erano in grande
quantità orsi, lupi, castori, martore, leoni marini, delfini e balene) da cui era sempre
dipesa l’ingegnosissima sopravvivenza dei circa 25mila indigeni, esperti soprattutto
del mare che navigavano sui loro impermeabili kayak.
Sulle Aleutine cosacchi e russi ripeterono subito le tristissime atrocità e l’ignobile
sfruttamento degli indigeni che avevano già praticato durante la conquista della
Siberia: accolti amichevolmente dagli aleuti, essi infatti si comportarono
immediatamente con la consueta brutalità sia sugli uomini che sugli animali che
presero a sterminare inconsultamente.
Inutili furono i disperati tentativi degli aleuti di difendersi e di reagire mentre i loro
eventuali successi erano pagati a carissimo prezzo per le (solite) furiose e selvagge
rappresaglie che non risparmiavano né donne né bambini.
La frontiera è sempre stato un luogo in cui non può non regnare la violenza perchè
attrae gli elementi più spregiudicati, disperati, avidi ed avventurosi, pronti ad
affrontare difficoltà terribili e a rischiare costantemente la vita e attratti dalla
possibilità di accumulare fortune anche ingenti in poco tempo: si tratta di uomini
decisi e disposti a tutto che hanno (e non possono non avere) le mani libere, data la
difficoltà ed anche l’inopportunità di controllarli e di sottoporli all’imperio della
legge.
Nella fattispecie, il governatore della Siberia risiedeva infatti a Tobolsk e il suo vice
nella Siberia orientale (a Irkutsk) affidava la giurisdizione del nord-est al funzionario
che stava a Yakutsk e che a sua volta lasciava la gestione della costa e della
Kamchatka a quello a Okhotsk: come se tutto ciò non bastasse, la mancanza di
popolazione e le distanze erano enormi, gli inverni rigidissimi e la corruzione
endemica.
All’inizio dell’Ottocento gli aleuti - che fino all’arrivo dei russi erano sempre vissuti
liberi e solidali fra loro - si erano ridotti a 1/5 del loro numero originario (e molti
erano ormai di sangue misto), diventati talmente docili ed apatici che anche la loro
conversione al Cristianesimo era di fatto senza significato.
Mentre le malattie veneree (soprattutto la sifilide) avevano sempre imperversato su
tutti i gruppi di nativi, trent’anni dopo una nuova epidemia di vaiolo li avrebbe infine
praticamente cancellati dalla faccia della Terra.
22
I
Le Aleutine erano vivamente sfruttate anche perché l’estremo nord-est della Siberia
veniva invece progressivamente abbandonato a causa della mancanza di metalli
preziosi, della resistenza dei nativi (soprattutto dei chulkchi, mentre i kamchadali si
suicidavano in sempre maggior numero) e dell’impraticabilità del passaggio a nordest per scopi commerciali.
Data comunque la progressiva distruzione degli animali da pelliccia, cosacchi e russi
– sempre in movimento! - passavano (e dovevano passare) da un’isola all’altra
finchè nel 1763 sbarcarono, primi uomini bianchi, in Alaska.
Proprio allora la morte della zarina Elisabetta (1741-62) e la pronta ed opportuna
eliminazione dello zar Pietro III avevano portato sul trono Caterina II (1762-96) che
sarebbe stata chiamata Grande e che infatti ebbe fin da subito grandi progetti anche a
proposito dei nuovi domini americani.
Caterina II è oggi ricordata soprattutto per le ampie acquisizioni territoriali ottenute
con le tre spartizioni della Polonia (1772, 1793, 1795), con la sconfitta dei turchi e
con l’arrivo sulle coste settentrionali del mar Nero (cioè con la conquista dell’Ucraina
e della Crimea terminata nel 1783), ma per la nuova zarina era necessario porre su
basi sicure anche le recenti conquiste ed occupazioni nel Pacifico settentrionale,
consolidarvi il dominio russo, cartografare correttamente il territorio, stabilirne le
risorse e mettere ordine nel commercio delle pellicce.
Un’apposita spedizione navale, nonostante alcuni (soliti ed inevitabili) rovesci, riuscì
così a raccogliere materiale per una mappatura dell’intera regione ed a stabilire
definitivamente che l’America iniziava subito al di là della penisola di Chukchi.
II
L’85% delle esportazioni russe nell’ambito e promettente mercato cinese erano le
ricercatissime pellicce di lontra marina con le quali i mercanti russi realizzavano
profitti enormi dato che in cambio di esse importavano seta, gemme, oro, argento,
avorio, porcellana e tè in quantità tali che negli anni Ottanta riempivano 10mila
carretti all’anno (!!!), ma in America le cose non erano così semplici come in Siberia:
era vero che i russi erano arrivati per primi nel Pacifico settentrionale, ma la loro
posizione in quell’area era tutt’altro che definita perché gli spagnoli stavano puntando
verso di essa da sud e gli inglesi da est (dal Canada) nè servì a molto che per attutire
l’impatto della presenza russa nelle Aleutine e sulla costa dell’Alaska Caterina II
operò sempre per interposta persona (ed i suoi successori avrebbero sempre
continuato a farlo), sostenendo cioè compagnie (protette e garantite) di mercanti russi
(anche se comunque non mancò di rafforzare Petropavlovsk e Okhotsk).
Il problema si complicò presto quando, grazie all’ultimo viaggio di Cook, anche gli
inglesi arrivarono nel Pacifico settentrionale via mare e, peggio ancora, quando
scoprirono quanto i cinesi erano disposti a pagare per le pellicce di lontra marina: i
mercanti inglesi cominciarono così ad affluire sempre più numerosi nell’area e la
risposta russa fu di aumentare le proprie strutture difensive e di prendere
23
ufficialmente possesso (tramite la loro Compagnia commerciale) non solo
dell’Alaska ma anche delle Kurili.
Nei secondi anni Ottanta giunsero infine anche qualche francese e gli americani ma,
cacciate indiscriminatamente, le lontre marine stavano sparendo dalle Aleutine e le
mucche di mare, grande fonte di sostentamento, si erano anch’esse ormai estinte:
l’arcipelago rimaneva in ogni caso molto appetibile perché vi erano ancora
attivamente cacciati anche castori, volpi, linci, zibellini, topi muschiati, lupi,
ghiottoni e marmotte per le loro pellicce e trichechi per le loro zanne (che potevano
arrivare a misurare 70-75 cm. di lunghezza e a pesare ognuna fino a quasi 7 kg.).
Anche nel Pacifico settentrionale dunque la tensione internazionale non poteva che
crescere sempre più pericolosamente: i primi a doversi ritirare dal teatro dello scontro
furono comunque gli spagnoli che il 28 ottobre 1790 con l’Accordo di Nootka Sound
capitolarono di fronte agli inglesi.
III
Nel 1799 il nuovo zar Paolo I (1796-1801) rafforzò ulteriormente la (così rinominata)
Compagnia russo-americana che lo stato possedeva per 1/3 e che ne era la facente
funzioni in tutto il Pacifico settentrionale: il suo direttore Baranov (designato quello
stesso anno) di fatto era insomma anche il governatore dell’America russa.
Rispetto alle Aleutine i russi in Alaska incontrarono tuttavia una ben più decisa
resistenza da parte dei tlingit, gli indomiti indigeni che non cessarono mai di attaccare
e minacciare i loro rari insediamenti: ciò peggiorava notevolmente una situazione già
di per sé difficile perché, nonostante ogni 3-4 anni venissero accumulate più di un
milione di pellicce (con uccisioni eccessive che impedivano un’adeguata
riproduzione delle razze ora a rischio di estinzione), le enormi distanze dai centri in
Siberia e nella Kamchatka, e quindi la lunghezza incredibile delle linee di
rifornimento, erano un grosso problema per queste comunità che non erano
autosufficienti e che di conseguenza dovevano dipendere dai nativi (quelli contro cui
non combattevano) e dalle navi straniere che però si facevano pagare le vettovaglie in
pellicce e a caro prezzo.
La situazione dei russi in America era talmente grave che un certo Krusenstern, un
ufficiale del Baltico, elaborò un piano per trasportare sia le pellicce in Cina
direttamente via mare (anziché da Okhotsk via terra) risparmiando tempo (due anni e
più!), sia i rifornimenti anch’essi direttamente via mare da San Pietroburgo (!): il
nuovo zar Alessandro I (1801-25) accettò e modificò la proposta suggerendo che i
rifornimenti ai russi nel Pacifico settentrionale arrivassero dal Giappone con cui
bisognava quindi aprire relazioni commerciali.
Il problema era però che da oltre un secolo e mezzo il Giappone si era ermeticamente
chiuso al resto del mondo tanto che l’inviato dello zar, Rizanov, nel 1803 fu
addirittura imprigionato per alcuni mesi per aver voluto sbarcare a Nagasaki (!): ci
voleva ben altro però per scoraggiare i russi!
24
IV
Liberato e giunto finalmente a New Arkhangelsk (la capitale russa dell’Alaska)
Rizanov elaborò infatti un progetto estremamente ambizioso: secondo lui la
sopravvivenza stessa dell’Alaska russa implicava la colonizzazione (parziale) anche
dell’Oregon (così si chiamava tutto il territorio fra la California e l’Alaska)!
In questo disegno è facile ritrovare un tratto assolutamente caratteristico del
colonialismo, e cioè la necessità di ampliare i domini coloniali per esigenze dei
domini coloniali stessi (gli inglesi dicevano che era la coda che muoveva il cane),
mentre tipicissimo della costante spinta espansionistica russa per successivi
inglobamenti era il progetto di divenire la potenza dominante di tutto il Pacifico
settentrionale (!) trascurando il fatto che i russi in America erano appena cinquecento,
non si riusciva a rifornirli ed erano costantemente alle prese con gli indigeni.
Non ci si stanca di rilevare questa stupefacente caratteristica dell’espansionismo
russo di voler procedere sempre oltre, di cercare di andare sempre al di là delle
frontiere appena raggiunte e di pensare in termini di continue acquisizioni territoriali
e senza soluzione di continuità: fu così che gli uomini di Rizanov – convinti che il
Giappone poteva essere aperto al commercio solo con la forza – attaccarono l’isola di
Sakhalin e alcune postazioni nipponiche nelle Kurili mentre contemporaneamente
vennero lanciate spedizioni per impiantare stabilimenti alle foci del Columbia e sulla
costa della California settentrionale (!).
Ma anche i russi dovettero infine fare i conti con la realtà: le iniziative contro il
Giappone non erano state autorizzate e vennero presto sospese mentre in Oregon i
soldati americani erano arrivati per primi (anche se in California nell’agosto 1812
venne costruito Fort Russ, in seguito Ross).
Oggi a Krasnoyarsk (sullo Yenisey) vicino al monumento allo sbarco dei primi
cosacchi (1628) – caratteristica di molte città siberiane - s’innalza la statua di
Rizanov, questo grande esploratore e colonizzatore assetato di sempre nuove scoperte
e conquiste, testimone esemplare dell’inesausta spinta espansionistica russa.
V
Fort Russ non si rivelò fonte sufficiente ed affidabile di rifornimenti, così i russi
puntarono ora sulle Hawaii (!) per assicurarseli una volta per tutte.
Baranov sbarcò nelle Hawaii dove prese a sostenere il pretendente Kaumauli contro il
legittimo re Kamehameha adottando la tipicissima tattica dei colonizzatori di
prendere posizione a fianco di una parte in lotta contro un’altra come primo passo per
inserirsi ed affermare la propria presenza.
Gli inizi sembrarono promettenti: anche se nel 1812 con l’attraversamento del
Niemen Napoleone iniziava la sua tragica ed insensata campagna di Russia (che
dunque fu completamente impegnata in una disperata difesa), il 1812 fu però anche
l’anno della guerra dell’Inghilterra contro gli Stati Uniti, e nelle Hawaii i russi
poterono approfittarne rilevando il naviglio americano minacciato dagli inglesi e
quindi rafforzandosi considerevolmente.
25
Venne così progettata un’invasione russo-hawaiana dei domini di Kamehameha (!),
ma questa abortì miseramente ancora prima di iniziare e costò ai russi il discredito e
l’espulsione dall’arcipelago: l’impresa si concluse insomma con un completo
fallimento.
VI
La situazione era insomma questa: in America Baranov aveva costruito un vero e
proprio impero commerciale con basi e insediamenti che punteggiavano la costa dalla
California allo stretto di Bering e gran parte delle tribù indiane (non gli irriducibili
tlingits) erano state sottomesse ed integrate, ma questo impero non poteva contare su
rifornimenti stabili ed era rimasto sulla costa mentre nell’interno erano arrivati invece
gli inglesi.
Ciò era dipeso fondamentalmente dal fatto che lo scopo degli insediamenti russi era
stato il traffico di pellicce e non un commercio più equilibrato e completo e fu questa
impostazione che ben presto mostrò tutti i suoi limiti.
Dopo il ritiro di Baranov nel 1817 i governatori che gli succedettero tentarono di
esplorare e di insediarsi anche nell’interno e di rafforzare la presenza russa con un
aumento dell’immigrazione e della colonizzazione: nel settembre 1821 Alessandro I
tentò addirittura di vietare l’ingresso alle navi straniere nelle acque del Pacifico
settentrionale a nord del 51° parallelo, ma la pretesa fu prontamente rintuzzata dal
presidente Monroe e dalla sua celeberrima dottrina (‘l’America agli americani’) che
evidentemente egli non intendeva far valere solo a proposito delle ingerenze europee
nelle guerre di liberazione in America latina.
Ben presto opportuni trattati proclamarono infine il libero commercio nel Pacifico e
fissarono il confine meridionale dei possedimenti russi a 54° 41’ di latitudine e
questo era pur sempre un riconoscimento ufficiale della loro presenza in America.
VII
Nonostante tutti gli sforzi per stabilire una colonia russa in America, i russi ivi
residenti non oltrepassarono mai il migliaio e dopo la fissazione dei confini
(terminata dunque la loro lunghissima marcia verso est) cominciò la loro inarrestabile
decadenza dovuta soprattutto alla difficoltà di trovare personale disposto a trasferirsi
dall’altra parte del Pacifico (dove l’ozio e la forzata inattività generavano tutti i
proverbiali vizi) mentre subito fuori delle palizzate degli insediamenti gli inesorabili
tlingits erano in agguato e il problema dei rifornimenti non riusciva ad essere risolto
(la colonia non fu mai autosufficiente).
Per la prima volta nella storia del loro inesausto avanzamento i russi dovettero
rendersi conto che si erano spinti troppo oltre: era inoltre sempre più evidente che
la pressione inglese (sullo Yukon) e soprattutto quella americana erano incontenibili
per gli avamposti russi, spopolati, difficili da raggiungere e da rifornire ed infine
oltremodo costosi per le casse dello stato.
26
Le conseguenze non si fecero attendere: dopo che negli anni Venti la potente
Compagnia (inglese) della Baia di Hudson era arrivata fin sulla costa pacifica del
Canada, la Compagnia russo-americana nel 1839 le concesse la costa dell’Alaska in
cambio di rifornimenti regolari di cibo e nel 1841 vendette la California russa agli
Stati Uniti per 30mila dollari.
La guerra di Crimea (1853-56) mostrò la pericolosa vulnerabilità della marina russa
se confrontata con quella inglese e svuotò ulteriormente le casse dello stato: oltre a
evidenziare la necessità di avviare quel ciclo di riforme interne che Alessandro II
avrebbe intrapreso, la sconfitta rivelò anche l’impossibilità per la Russia di mantenere
i suoi possedimenti americani.
Il 18 marzo 1867 per 7.200.000 dollari la Russia vendette agli Stati Uniti - un Paese
dalla storia recente così simile alla sua e con cui aveva sempre avuto relazioni
amichevoli (ed anche più) - non solo l’Alaska ma anche le Aleutine: lo stretto di
Bering segnò così il limite definitivo dell’espansione orientale della Russia e da
allora separò non solo due continenti ma anche due stati.
Dai russi l’Alaska americana venne intesa inoltre come utile cuscinetto fra loro e gli
inglesi, giudicati pericolosi avversari da ambedue i contraenti del contratto di vendita.
Finì così la sfortunata (e costosa) avventura americana della Russia che pure era
arrivata per prima non solo in Alaska, ma anche in California, e che era stata la prima
ad aver cercato di impossessarsi delle Hawaii: era evidentemente destino che la
Russia non potesse uscire dal Vecchio Mondo nel quale la sua marcia non si era però
ancora conclusa.
Dalle Stanovoy all’Amur
La chiusura del Giappone aveva seriamente affievolito l’interesse russo per l’Estremo
Oriente, ma in compenso la prima guerra dell’oppio (1839-42) aveva mostrato
l’inaspettata debolezza del Celeste Impero e aperto una falla che subito tante altre
Potenze Europee si affrettarono a sfruttare per ottenere i vantaggiosi ‘trattati ineguali’
e per ‘affettare la Cina come un melone’: per la Cina era cominciato il travagliato
secolo del suo tristissimo calvario ed anche i russi ne vollero subito approfittare.
Il processo di aggressione alla Cina da parte della Russia prese il via nel 1847 con la
nomina a governatore generale della Siberia orientale di Nikolai Muravyev:
innanzitutto il volitivo neogovernatore rafforzò le scarse difese della regione con la
trasformazione in soldati di migliaia di servi della gleba già addetti alle miniere, ma
soprattutto egli si rese presto conto che l’Amur era lo sbocco naturale sia verso il
Pacifico a nord che verso il mare del Giappone a sud e che dunque insieme alla
prospiciente isola di Sakhalin assumeva grande importanza strategica.
Il possesso dell’Amur venne (correttamente) giudicato indispensabile per il controllo
della Siberia stessa, per mantenere la presa sulla Cina e per prevenire le manovre
delle altre Potenze Europee in quel Paese: nel 1850 l’estuario del fiume fu così
proclamato possedimento dello zar (che aggiunse ‘Amursky’ al cognome di
27
Muravyev), subito iniziò l’occupazione russa delle sue coste e nel 1853 venne
occupata anche l’isola di Sakhalin.
Il 1853 fu tuttavia anche l’anno della missione di Perry (subito seguito dal russo
Putyatin) per forzare il Giappone ad aprirsi al commercio e dello scoppio della
suaccennata guerra di Crimea.
Nell’ambito delle manovre di questa nuova guerra Sakhalin dovette essere
abbandonata, ma l’Amur fu risalito fino alla sua confluenza con l’Ussuri dove nel
1858 venne fondata Khabarovsk: il controllo del fiume era ritenuto talmente
importante che Petropavlovsk (che pure aveva respinto un precedente attacco francoinglese) fu abbandonata per concentrare tutte le forze in sua difesa.
L’operazione ebbe successo e la posizione russa sulle rive del fiume non fece che
rinforzarsi: i cinesi erano manifestamente impotenti ad intervenire e così mentre sul
mar Nero la Russia stava perdendo la guerra, sul Pacifico passava al contrario di
successo in successo.
Circa il Giappone, il 7 febbraio 1855 il trattato di Shimoda aprì numerosi porti alla
Russia, divise le Kurili fra i due stati che si accordarono infine per un ‘possesso
congiunto’ di Sakhalin.
Circa la Cina, Muravyev riuscì a portare 22mila soldati alla sua frontiera e Russia,
Inghilterra e Francia (tutte insieme nonostante la guerra di Crimea!) costrinsero il
Celeste Impero ad ulteriori capitolazioni ed a cedere una volta ancora di fronte alle
richieste sempre più perentorie ed esose di nuove ed umilianti concessioni.
In queste condizioni per Muravyev non fu difficile imporre alla Cina il Trattato di
Aigun (16 maggio 1858) che stabilì il nuovo confine fra i due stati sull’Amur fino al
mare e il diritto di navigazione dei russi per tutto il suo corso.
Ma non era ancora finita: nel 1860, in seguito al suo benevolo intervento (sic) al
tempo della seconda guerra dell’oppio, colla Convenzione di Pechino la Russia
ottenne che il nuovo confine corresse ora anche lungo l’Ussuri, acquisendo quindi
tutta la regione fra l’Ussuri stesso e il Pacifico (ed arrivando perfino alla frontiera
coreana): nello stesso anno venne così fondata Vladivostok, coronamento e sigillo di
questo nuovo fondamentale successo russo.
La Russia era entrata in possesso di oltre 640mila kmq. (più di due Italie) di terra
fertile dal clima dolce: subito cosacchi e contadini arrivarono a decine di migliaia e
tutta la regione si andò sviluppando e rafforzando velocemente.
Cominciò a prendere forma anche una vera marina russa sul Pacifico.
Forte del successo, la Russia aveva intanto riaperto i conti anche col Giappone: nello
stesso 1858 Muravyev era sbarcato a Sakhalin e l’aveva pretesa in quanto giudicata
tutt’uno coll’Amur.
La questione si trascinò a lungo e venne risolta solo nel 1875 col riconoscimento del
possesso della Russia di tutta l’isola in cambio della sua metà delle Kurili (ma intanto
nel 1861 aveva occupato la strategica isola di Tsushima).
Oggi a Khabarovsk (che prende però il nome dall’esploratore Khabarov (XVII
secolo)) un’imponente statua celebra Murayev e l’arteria principale della città si
chiama appunto Muravyov-Amursky, mentre anche a Vladivostok si erge un’altra
statua dedicata al grande conquistatore della Siberia sud-orientale.
28
L’annessione della valle dell’Amur comportò inevitabilmente il declino di Okhotsk e
della Kamchatka (Petropavlovsk compresa): oltretutto gli americani erano arrivati al
largo di quelle coste compiendo vere e proprie stragi di balene e di trichechi e
divenendo sempre più i fornitori di ogni merce ai russi che pagavano (caramente) in
pellicce.
Dopo il 1867 la presenza americana divenne comprensibilmente ancora più invasiva
impensierendo seriamente Pietroburgo che cercò vanamente di rimediare aumentando
le proprie spedizioni.
Per parte loro i nativi della Siberia nord-orientale erano ormai una miserabile
minoranza distrutta dal contatto con la civiltà europea e con le sue malattie, derelitta e
dedita al fumo ed all’alcol che passava anche ai suoi neonati (!), per tacere del suo
consumo di ‘amanita muscaria’, un fungo velenoso ma anche dagli effetti narcotici
che li induceva ad una dipendenza sempre più annichilente e distruttiva.
Le deportazioni zariste in Siberia
Nell’immaginario collettivo la Siberia (‘terra di catene e ghiaccio’ come la chiamava
Gorky) è legata alle numerose deportazioni con cui per oltre tre secoli (dagli anni
Ottanta del XVI alla fine del XIX) nelle sue immense e lontane lande vennero
trasferiti numerosi condannati: questo fu comunque un fenomeno variegato e
complesso.
Nel 1649 il codice penale russo previde ufficialmente la deportazione in Siberia allo
scopo di evitare al pubblico la sgradevole vista dei condannati che per punizione
erano stati mutilati e/o marchiati coi ferri roventi, ma presto si decise che le
deportazioni potevano essere anche un mezzo per popolare e colonizzare i territori
siberiani e rendere quindi produttive le pene inflitte, così i condannati a lunghe pene
detentive cominciarono ad essere inviati a lavorare nelle miniere siberiane appena
scoperte.
Anche i prigionieri di guerra vennero presto deportati in Siberia col vantaggio che
spesso molti di questi possedevano capacità e conoscevano mestieri (come gli
ufficiali ucraini dopo l’annessione della loro patria nel 1675): il metodo funzionava e
alla fine del XVII secolo i deportati costituivano circa 1/10 della complessiva
popolazione siberiana (!).
I
La Siberia del XVIII secolo divenne insomma il serbatoio di tutti gli indesiderabili di
cui non si sarebbe saputo bene cosa fare: dissidenti, strelzi, ribelli polacchi, soldati
svedesi catturati, addirittura villaggi interi di lituani e di bielorussi, intellettuali
rivoluzionari (che in Russia erano di molti tipi), intriganti di palazzo (come uomini di
stato, cortigiani, ufficiali, generali, addirittura principi e conti), in tanti finirono in un
modo o nell’altro in Siberia e il loro numero aumentò ancora quando la zarina
29
Elisabetta nel 1753-54 abolì la pena di morte e la sostituì con l’esilio e coi lavori
forzati.
Data la necessità di popolare e colonizzare quelle lontane terre sconfinate decine di
migliaia di servi della gleba vennero inoltre trasferiti forzosamente e il numero di
crimini punibili con la deportazione non fece che aumentare (dagli incontri di boxe
per denaro alla prostituzione, dall’accattonaggio alla predizione del futuro): lungo il
Grande Trakt Siberiano (o Strada di Posta), la via principale intervallata da stazioni di
esilio e prigioni, marciavano così fino a 3.400 detenuti alla settimana.
In ogni caso, circa 1/3 degli esiliati divenne poi colono relativamente libero, 1/7 era
condannato ai lavori forzati e il resto era imprigionato o semplicemente confinato.
Il lavoro nelle miniere (d’oro e d’argento) era semplicemente terribile e i ribelli più
intrattabili ed irriducibili finivano facilmente in quelle di carbone sull’isola di
Sakhalin, tuttavia un certo numero di esuli fu lasciato libero di sistemarsi dove
preferiva, altri venivano assegnati alle varie fattorie e/o cittadine: in Siberia
naturalmente c’era posto in abbondanza per ogni tipo di abilità e di lavoro, ma quelli
che dovettero scontare la pena in carcere ne dovettero sopportare tutte le pessime
condizioni.
II
Nel corso del XIX secolo giunsero in Siberia almeno 1 milione di deportati (il 18%
composto da donne) e 150-200mila accompagnatori (cosa possibile e permessa): il
viaggio era fatto a piedi, durava quindi vari mesi e il 10-15% di coloro che erano
partiti moriva prima di arrivare.
Forse il tratto più caratteristico della deportazione in Siberia fu che c’erano mogli e
famiglie che scelsero di seguire i mariti e i parenti condannati abbandonando tutto,
compresi i figli e una vita spesso ricca e lussuosa, come fecero le eroiche spose di
molti decabristi arrestati (1825), i deportati più famosi.
A Irkusk i decabristi e le loro donne sono particolarmente ricordati: il loro Memorial
Museum è collocato nella casa del più famoso di loro, il principe Volkonsky, che,
costruita nel 1838, fu poi smontata e trasportata qui nel 1847 (!) e ne fu la residenza
fino all’amnistia del 1856.
Nelle sue vicinanze si trova poi un altro museo dedicato a loro e un monumento a
Maria Volkonskaja particolarmente significativo: questa eroica sposa che abbandonò
tutto per seguire il suo uomo è rappresentata con tratti delicati e leggeri mentre tiene
in mano un candelabro acceso e carta e penna.
Le donne dei decabristi (11 mogli e 7 fra madri e sorelle) svolsero infatti un ruolo
fondamentale in queste propaggini estreme e selvagge dello smisurato impero russo:
insieme ai loro uomini vi portarono e diffusero cultura e dunque contribuirono
potentemente al suo sviluppo.
Animate dal più puro spirito romantico queste persone, arrestate e condannate per il
loro amore per la libertà, continuarono senza esitazioni a lottare per il progresso e per
a civiltà lasciando una traccia indelebile dove passarono: erano un pugno di anime in
uno spazio immenso, ma per incendiare una foresta è sufficiente un fiammifero.
30
Un altro monumento in onore dei decabristi si trova poi a Chita.
Come si è detto, le condizioni dei deportati e degli esuli erano molto varie e
conoscevano tutte le gradazioni, da quella più orribile ed insopportabile a quella
sorprendentemente leggera (come in definitiva quella dei decabristi stessi): spesso poi
i condannati si univano nell’artel, una sorta di società segreta che aveva per scopo il
sostegno, la solidarietà e l’aiuto reciproci.
La vita, già tanto dura per tutti in Siberia, per i deportati poteva comunque essere
tremenda con pene corporali estremamente selvagge, come i vari tipi di fustigazione
che a volte causavano perfino il decesso dei disgraziati che l’avevano subita: le morti
erano dunque frequentissime, ma nel caos amministrativo, nell’estrema lontananza
dalla (diciamo così) civiltà, nelle condizioni proibitive dell’esistenza in Siberia, non
ci si faceva alcun caso.
Data infine la scarsità di donne in Siberia, è facile immaginare poi il destino
particolare di quelle che erano o rimanevano sole.
III
Nonostante il miglior deterrente della fuga fosse l’infinita e sterminata desolazione
che circondava ogni insediamento, molti la tentavano ugualmente: i coraggiosi che
scappavano e rischiavano la morte di stenti, di freddo e di inedia o le severe ulteriori
punizioni se fossero stati riacciuffati, iniziavano una lunghissima marcia verso ovest,
temuti da coloro che potevano trovarsi sul loro cammino e cacciati da veri e propri
gruppi di bounty-hunting indigeni (la ricompensa era di tre rubli per ogni
riacciuffato), alla ricerca dell’unica, difficilissima, pura e semplice sopravvivenza.
Nel 1886 il 42% dei coloni forzati della Siberia orientale era fuggito e in quella
occidentale solo il 33% era ancora al suo posto: i fuggitivi erano chiamati ‘varnak’ o
anche ‘brodyags’, vagabondi, e mentre una gran parte di loro era sicuramente perita
nella sconfinata terra selvaggia ed inospitale, i sopravvissuti raramente erano
comunque riusciti ad uscire dalla Siberia stessa - troppo grandi erano i suoi spazi - ma
erano riusciti a rintanarsi in qualche suo angolo sperduto.
IV
Al di là della sua inumanità e della somma ingiustizia con cui era gestito (quando lo
era), per sua stessa natura il sistema delle deportazioni fu oltretutto un fallimento:
criminali, vagabondi e disperati erano un ostacolo allo sviluppo delle regioni in cui si
trovavano perché erano un serio problema di ordine pubblico ed esercitavano
un’influenza negativa sulla popolazione civile che invece lottava duramente per far
progredire i suoi insediamenti e che cominciava a mietere successi e conseguire
miglioramenti.
Mentre tanti esuli politici arricchirono le società presso cui si stabilirono (e in cui si
diffusero le loro idee del tutto assenti prima del loro arrivo) ed altri deportati
suscitarono pietà e compassione, tanti altri erano (o erano diventati) veri delinquenti e
31
purtroppo le vittime dei loro crimini furono numerose in una terra già di per sé tanto
anarchica e violenta.
La soluzione al problema fu la trasformazione dell’isola di Sakhalin in una colonia
penale per sgombrare così la Siberia dei suoi indesiderati condannati: dopo la sua
acquisizione definitiva da parte della Russia, essa, giudicata ‘ricca di carbone come il
Galles, di pesce come Newfoundland e di petrolio come Baku’, cominciò in effetti ad
assorbire quote crescenti di deportati che trovarono, se possibile, condizioni ancora
peggiori di quelle che avevano lasciato (soprattutto le donne).
Anche se il governo in realtà cercò di migliorare (anche sensibilmente) le condizioni
dei prigionieri e tentò di attrarre coloni liberi e di trattenere i condannati che avevano
finito di scontare la loro pena, la scarsità di manodopera rimase sempre un problema
e nelle miniere di carbone si dovettero impiegare coolies cinesi.
V
In Europa era la deportazione degli oppositori politici a destare scandalo, anche
perché essa procedeva in modo assolutamente illegale ed arbitrario: chiunque poteva
essere arrestato e detenuto (fino a due anni!) e confinato (dopo il 1888 fino a dieci
anni!) senza udienza e/o processo (!) se le autorità locali lo ritenevano
‘pregiudizievole all’ordine pubblico’ o ‘incompatibile con la quiete pubblica’, mentre
chi auspicava cambiamenti del regime politico rischiava il confino a vita (!),
esattamente come chi, pur essendone a conoscenza, non lo denunciava (!).
Era questo il cosiddetto ‘esilio amministrativo’ le cui condizioni e modalità erano,
ancora una volta, estremamente variabili.
Il 6 maggio 1899 il sistema delle deportazioni in Siberia venne finalmente abolito e
un editto imperiale del 12 giugno 1900 lo sostituì col carcere, ma Sakhalin continuò
ad esistere come colonia penale e il confino in Siberia rimase in vigore per i ‘crimini’
politici e religiosi: oltre ai condannati ai lavori forzati, 287mila esiliati rimasero così
in Siberia e il loro numero era destinato ad aumentare in modo vertiginoso.
Lo scrigno della Siberia
Il commercio delle pellicce aveva sempre dominato l’economia della Siberia ed era
stato il motore della sua conquista con stragi di zibellini, scoiattoli, ermellini, conigli,
martore, volpi, linci e ghiottoni, mentre sulle coste artiche e pacifiche erano cacciati
trichechi, foche e orsi polari: a partire dal Settecento la Siberia cominciò però ad
esaudire finalmente anche altre aspettative e speranze che erano state riposte in essa.
Essa infatti ormai produceva decine di migliaia di tonnellate di grano e patate e
spediva al di là degli Urali enormi quantità di prodotti grezzi (pelli e pellicce, ma
anche sego, setole, lino, canapa) e di articoli (coperte, tappeti, reti da pesca,
biancheria di lino, botti, slitte, articoli in cuoio, calze da donna, manopole, cinture e
sciarpe) mentre era iniziata l’apicoltura e l’allevamento di ‘marals’, una sorta di cervo
rosso da cui si ricavavano varie sostanze molto ricercate (soprattutto dai cinesi).
32
Appena salita al trono, Caterina II nel 1762 abolì poi il monopolio della corona sul
commercio con la Cina che quindi si sviluppò vigorosamente con pellicce, indumenti
di lana, di lino, articoli in cuoio e in stagno in cambio di tè, seta, rabarbaro, zucchero
e carta.
Un’imprevista ed importante risorsa della Siberia fu poi l’avorio e non solo quello
delle zanne dei trichechi ma soprattutto quelle delle enormi zanne dei mammut (!):
per decine di migliaia di anni i ghiacci artici avevano preservato intatte le loro
carcasse e dal 1650 al 1900 le zanne di circa 40.750 di questi giganteschi plantigradi
vennero esportate e, visto che ogni zanna pesava dai 70 ai 90 kg., si comprende
facilmente che questo avorio fossile competè lungamente con quello africano e
indiano.
La Siberia si rivelò ricca anche di minerali (soprattutto rame (dal 1726), ferro, mica e
oro) tanto che a metà Settecento era la maggior produttrice di metalli preziosi in
Europa e di rame nel mondo: sempre nuove vene venivano scoperte e sempre più la
produzione siberiana di ricchezza aumentava.
Le infrastrutture della grandissima Siberia (10mila km. da San Pietroburgo a
Vladivostok) erano tuttavia praticamente inesistenti per cui fu necessario aprire
strade per i carri e sentieri per le mandrie: in pieno Ottocento i pony-express
impiegavano comunque tre mesi e mezzo per portare una lettera dagli Urali a
Okhotsk e sei da Mosca alla Kamchatka, mentre da questa penisola si faceva prima a
raggiungere San Pietroburgo via Pacifico (ferrovia coast to coast statunitense –
Atlantico) che via terra attraversando la Siberia.
Nuove industrie però nascevano e arrivavano artigiani e lavoratori specializzati,
dunque le città crescevano, anche l’agricoltura, l’allevamento e la pastorizia si
sviluppavano e insomma la Siberia veniva sempre più e sempre meglio colonizzata.
In teoria in Siberia la terra apparteneva allo stato e in effetti in un primo tempo i
contadini avevano pagato l’affitto con una parte del raccolto (presto sostituito da un
versamento monetario) ma in pratica, visto che non erano servi della gleba, essi
lavoravano tutta la terra che potevano e inoltre la vendevano o l’affittavano
liberamente.
Organizzazione e sviluppo
Dal punto di vista della sicurezza, i problemi in Siberia non venivano né dalla
pacifica Cina né dai nativi (ormai inglobati nella nuova compagine sociale e politica),
bensì dai nomadi a sud: fin dai tempi di Pietro il Grande per rendere sicura quella
frontiera vennero così concesse terre ai cosacchi e cominciarono ad essere costruite
fortezze e ridotte che alla fine del secolo erano oltre 124: sotto la loro protezione gli
insediamenti agricoli poterono così crescere e svilupparsi.
Nel 1822 Alessandro I permise ai servi della gleba (sulle terre dello stato) di emigrare
in Siberia; una ventina d’anni dopo per attrarre nuovi coloni venivano assegnate terre
e promessi aiuti e libertà: altri vent’anni dopo la liberazione dei servi della gleba
produsse ulteriore emigrazione in questa sorta di Far West che divenne anch’essa un
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‘melting pot’, dovendo integrare in un’unica società varie categorie di persone (anche
di religioni diverse ed anzi spesso alla ricerca di un luogo dove poter praticare in pace
la propria).
Certamente la vastità stessa della Siberia e i contatti con popoli anche molto diversi
fra loro creava situazioni anch’esse diversificate.
Alla fine dell’Ottocento la Siberia occidentale era quella che andava dagli Urali allo
Yenisey, quella orientale fino alle montagne Stanovoy, mentre l’estremo oriente
siberiano era quello le cui acque fluivano verso il Pacifico anziché verso l’Artico: le
città che sorgevano sui fiumi e sugli snodi commerciali potevano avere caratteristiche
anche profondamente diverse fra loro a seconda della religione (anzi, dalle religioni)
dei loro abitanti, del clima e soprattutto delle popolazioni che vi risiedevano.
Il sistema scolastico e quello sanitario erano comunque del tutto inadeguati (quando
poi ce n’era qualche traccia) e spesso bisognava ricorrere (anche con successo) alle
pratiche guaritrici indigene.
Il melting pot siberiano non aveva comunque ancora riguardato le popolazioni più
lontane e abitanti le regioni più inaccessibili che rimasero incontaminate praticamente
fino alla fine del XIX secolo, ma furono i buryati a rimanere i più legati alle loro
radici ed alla loro cultura e la cosa non può sorprendere perché, abitanti intorno al
lago Baikal sul confine mongolo, erano anch’essi mongoli e dunque membri di un
grande popolo buona parte del quale continuava a vivere indipendente ed a risiedere
immediatamente a sud del confine con la Siberia russa.
La popolazione della Siberia era in crescita costante e passò dagli oltre 300mila del
1700 a più di 1 milione nel 1812 ed ai 3 milioni nel 1854: si trattava di un mondo
fantastico e ancora largamente inesplorato che come il West americano attrasse
esploratori, studiosi, avventurosi ed entusiasti che oltretutto ne aumentarono e ne
perfezionarono sempre più la conoscenza.
L’incredibile Transiberiana
Date le sue grandi dimensioni, nessun vero sviluppo della Siberia era comunque
possibile senza una contemporanea rivoluzione dei trasporti che fino alla fine
dell’Ottocento avvenivano o via mare su rotte intercontinentali e/o via terra su
sentieri di terra battuta che si ricoprivano di montagne di neve d’inverno e
diventavano fango profondo col disgelo: data la crescente tensione internazionale sul
Pacifico del secondo Ottocento, anche la difesa dell’estremo oriente siberiano in
quelle condizioni era infine difficoltosissima se non impossibile.
Né ciò valeva solo per la Siberia, però nel secondo Ottocento il mondo venne
unificato e le sue distanze enormemente ridotte grazie alla rivoluzione dei trasporti,
cioè alla navigazione a vapore e soprattutto alle lunghissime ferrovie che permisero
ad esempio l’effettiva unificazione degli Stati Uniti, del Canada e dell’India
britannica.
In Russia il dibattito sull’opportunità e sulla possibilità di una linea ferroviaria che
unificasse finalmente l’intero Paese durò anni finchè nel 1875 si decise di costruirne
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una da Mosca a Irkutsk, negli anni Ottanta cominciarono a nascerne i vari tratti e si
decise di connettere le maggiori città siberiane (situate sui fiumi principali) alla
capitale.
Infine, dopo vari sopralluoghi ed aver deciso di strozzare al massimo le ingenti spese,
il 12 maggio 1891 si varò ufficialmente il piano della Transiberiana fino a
Vladivostok: lo zarevic Nicola ne fu il responsabile e Witte, l’abile e capace nuovo
ministro delle finanze, l’entusiasta sostenitore e patrocinatore.
La Transiberiana venne divisa in sei sezioni la cui costruzione venne portata avanti in
contemporanea: coi suoi 9288 km. di lunghezza essa sarebbe stata la più lunga del
mondo e i vantaggi che avrebbe portato sarebbero stati innumerevoli e rilevantissimi.
Avrebbe permesso una vera unione con la Russia, la difesa dell’estremo oriente
siberiano, un’effettiva colonizzazione di tutta la Siberia, un commercio adeguato alle
sue possibilità e risorse, la diffusione della cultura e della civiltà europea (cioè della
cultura e della civiltà tout court secondo la mentalità di allora), collegamenti sempre
più stretti fra le varie parti del mondo e soprattutto con gli Stati Uniti e infine
l’alleggerimento della pressione demografica nella Russia sovrappopolata.
Si trattava insomma di un grandioso compito storico da portare avanti in un pianeta
che stava conoscendo la sua prima globalizzazione.
I
Un vero e proprio esercito di 100mila lavoratori e tecnici (non solo russi ma anche
turchi, persiani, cinesi e di altri Paesi, Italia compresa, oltre a carcerati cui si offrì uno
sconto di pena) dovette affrontare e superare difficoltà di ogni tipo, risolvere mille
problemi diversi e superare ostacoli tremendi: l’acciaio arrivava dagli Urali, il
cemento da San Pietroburgo ed altri rifornimenti da Varsavia; si dovettero
attraversare paludi, drenarne le acque, superare pantani di torba e giungle di spine,
aprire passaggi nelle fitte foreste, improvvisare dighe, scavare canali, impiantare
fondamenta di calcestruzzo nella melma, usare l’esplosivo non solo nelle rocce ma
anche per aprire la terra gelata (!), costruire fornaci (spesso anche il legno da ardere
dovette essere portato da fuori) per far mattoni per i ponti, fabbricare traversine,
scavare pozzi artesiani, importare rotaie dall’Inghilterra attraverso il mar di Kara,
adattare faticosamente le vie d’acqua per trasportare i rifornimenti, mentre le malattie
falcidiavano uomini e animali e bande di fuorilegge imperversavano lungo il confine
con la Cina.
La costruzione di ponti sui grandi fiumi fu particolarmente azzardata e costò
numerose vite umane e per evitare di spendere troppo per tunnels ed altre vie si optò
per un percorso meno lineare ma già nell’agosto 1898 la Transiberiana era arrivata
fino ad Irkutsk addirittura in anticipo sui tempi previsti (!).
Fu intorno al lago Baikal, cioè per aggirare la sua punta meridionale - dove le
durissime rocce cadevano a picco nell’acqua - che insorsero le difficoltà egli ostacoli
più proibitivi e, oltretutto, una terribile inondazione distrusse tanti lavori che
richiesero tre anni (!) per poter essere ripristinati: anche la linea nella valle dell’Amur
non era stata ancora costruita quando, come se non ci fossero già abbastanza
35
problemi, la intricata situazione internazionale intervenne a complicare e modificare
anche il progetto della Transiberiana.
Assalto e scontro sulla Cina
Ancora una volta va ricordato che non è questa la sede per trattare le vicende
politiche generali, soprattutto se internazionali, che dunque potranno essere solo
accennate.
Negli anni Novanta dell’Ottocento la Cina era la grande malata su cui si gettarono
ripetutamente le Potenze Europee (ognuna delle quali si ritagliava zone di
sfruttamento e di dominio) e gli Stati Uniti che con la politica della ‘Porta aperta’ ne
volevano preservare l’integrità di facciata e svuotarla delle sue ricchezze e risorse.
La novità fu però rappresentata dal Giappone che dopo la sua spettacolare crescita e il
suo velocissimo sviluppo si unì nell’assalto allo sventurato Celeste Impero con una
vera e propria guerra (1894-95) nettamente vittoriosa e remunerativa.
Fra le altre cose, la guerra ebbe l’effetto di far accelerare i lavori della Transiberiana
- sempre più necessaria per rafforzare la presenza russa sul Pacifico! - e ciò avvenne
in tre modi:
1) i km. di linea costruiti ogni anno più che raddoppiarono (passando dai 640 del
1892-94 ai 1340 del 1895!);
2) si abbandonò la proibitiva e difficilissima costruzione della linea a sud del Baikal
in favore del suo attraversamento su chiatte e d’inverno su un rompighiaccio inglese
(il ‘Baikal’ e poi anche l’’Angarà’) capace non solo di trasportare interi treni da una
riva all’altra ma anche di offrire ai passeggeri addirittura tutti i comfort e le comodità
moderni!
3) dal Baikal orientale si decise infine di continuare la ferrovia fino a Vladivostok
procedendo però in linea retta attraversando cioè la Manciuria (!), ma ciò implicava
evidentemente l’accordo ed il consenso della Cina.
La ferrovia attraverso la Manciuria avrebbe accorciato il tragitto di 560 km. ma non
era questo l’unico motivo per cui ora la Russia premette sulla Cina: la regione da
attraversare era infatti ricca di miniere, aveva un suolo fertile e i suoi porti,
soprattutto Port Arthur (oggi Lushen), erano liberi dai ghiacci tutto l’anno.
Date le condizioni in cui la Cina versava, non fu difficile per la Russia ottenere tutto
quel che voleva.
I
Il trattato di Shimonoseki (1895), stipulato in seguito alla netta vittoria del Giappone
sulla Cina, aveva costretto quest’ultima a riconoscere l’indipendenza della Corea
(cioè a lasciarvi mano libera al Giappone), a cedere al Giappone la penisola
Liaodong, Taiwan e le isole Pescadores, a versare una pesante indennità di guerra e
infine a firmare un trattato commerciale che, simile a quelli già stipulati con le
potenze occidentali, comportava l’apertura anche al Giappone dei suoi porti e delle
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sue vie fluviali: tre giorni dopo la firma del trattato Russia, Francia e Germania (la
‘Triplice d’Oriente’) intervennero però in difesa della Cina (sic) imponendo al
Giappone la rinuncia della penisola di Liaodong (in cambio di un aumento
dell’indennità di guerra) sia perché esse non potevano tollerare l’improvviso ed
eccessivo rafforzamento di un nuovo partecipante allo smembramento dello
sfortunatissimo Celeste Impero, sia perché ben altri erano i loro disegni su quella
penisola.
Atteggiandosi a difensori e salvatori della Cina (sic) ora i russi si offrirono di
finanziare il pagamento dell’indennità di guerra proprio in cambio della concessione
ferroviaria in Manciuria: nella primavera 1896 con un patto segreto (che includeva
anche l’alleanza anti-giapponese) nasceva così la Compagnia della Ferrovia
Orientale Cinese che, finanziata pesantemente da banchieri francesi e con un cinese
come presidente nominale, era evidentemente in mani russe, protetta da truppe russe,
aveva la gestione della linea per 80 anni (la Cina avrebbe potuto riscattarla però dopo
36 anni).
Non era questo un evento isolato nella Cina di quegli anni: anche le altre Potenze
Europee e gli USA appena avevano ottenuto concessioni sul suolo cinese subito vi
avevano iniziato la costruzione di ferrovie per meglio spogliarlo e depredarlo: una
volta interconnesse queste linee avrebbero ulteriormente frantumato il Paese, ma il
caso della Russia era però diverso perché la sua linea attraverso la Manciuria era solo
l’ultimo tratto della Transiberiana il cui obiettivo non era quello (o certamente non
quello primario) di spolpare la Cina.
II
L’assalto alla Cina cominciato con la prima guerra dell’oppio (1839-42) continuava
comunque imperterrito: nel 1897 la Germania si impadronì della baia di Kiaochow
(nello Shantung) e subito Francia, Inghilterra e Russia si affrettarono a ritagliarsi
ognuna la propria fetta e quella della Russia fu la più importante perché essa arrivò
al mare da nord occupando la penisola di Liaodong sul cui vertice sorgeva Port
Arthur (da cui iniziò subito la costruzione di una linea ferroviaria fino ad Harbin).
Intanto nell’estate 1898 iniziava la costruzione del troncone mancese della
Transiberiana e anche qui ostacoli e difficoltà furono innumerevoli: gelate invernali,
inondazioni estive, suolo durissimo, banditi (contro cui vennero impiegati squadroni
di cavalleria cosacca) e infine addirittura la peste bubbonica non riuscirono però ad
impedire che l’opera procedesse velocemente e che in tutta la fascia circostante la
situazione cambiasse di conseguenza.
Harbin stava diventando una grande città, Port Arthur una potente base navale e
fortezza, Dalny (Darien) un grande porto commerciale, ma la penetrazione
occidentale era troppo sfacciata ed invasiva per non suscitare la reazione dei
nazionalisti cinesi che, dopo aver messo a morte i responsabili della cessione della
Manciuria ai russi, nel 1900 insorsero: erano guidati dalla società detta dei ‘Boxers’
sostenuta comunque sia dall’imperatrice che dall’esercito regolare.
37
La sollevazione finì in un (solito) disastro e in un’ulteriore (solita) sottomissione
della Cina, ma fu la Russia a realizzare i maggiori guadagni: tutte le Potenze
occidentali inviarono distaccamenti per liberare le loro delegazioni assediate a
Pechino ma nel deciso e spietato contrattacco la Manciuria stessa fu occupata da un
corpo di spedizione russo forte di 200mila uomini che non esitarono a radere al suolo
interi villaggi e a spazzare via ogni resistenza dei ribelli cinesi.
A dicembre la sollevazione era già stata completamente domata ma i russi rimasero
in Manciuria, cioè realizzarono un’ulteriore espansione riuscendo a connettere
direttamente via terra – secondo il loro costume – la Siberia a Port Arthur e
dunque al mar Giallo.
Nonostante i 2/3 della ferrovia mancese fossero andati distrutti e i lavoratori cinesi
fossero fuggiti, i lavori ripresero subito e non solo vennero finiti in fretta, ma i ponti
colà gettati furono i più solidi e resistenti di tutta la linea: appena la ferrovia arrivò a
Vladivostok, subito da lì ne vennero aperte altre due, una fino a Port Arthur (e quindi
di lì fino ad Harbin) e una fino a Dalny (Darien).
La (solita) marcia russa continuava di acquisizione in acquisizione, di inglobamento
in inglobamento, e, procedendo per ingrandimenti successivi senza soluzione di
continuità, la sua presenza nell’Asia sud-orientale era estremamente più radicata e
temibile rispetto a quella delle altre Potenze Europee e degli stessi Stati Uniti: è vero
che essa doveva pur sempre fare i conti con le grandi distanze della Siberia, ma
proprio la Transiberiana stava vistosamente riducendo e forse annullando questa
difficoltà.
In Estremo Oriente la Russia si stava insomma rafforzando in continuazione –
sicuramente troppo per l’Inghilterra che proprio allora stava portando avanti il suo
epico scontro (il famoso ‘Grande Gioco’) per fermarne l’altra costante espansione in
Asia centrale.
III
In Estremo Oriente gli inglesi avevano forze troppo risicate per potersi opporre ai
russi così si allearono presto con l’altro grande nemico della Russia, il Giappone, la
cui marcia espansionistica trovava ostacoli proprio in quella uguale e contraria
dell’impero zarista.
La tensione fra i due Paesi crebbe soprattutto a proposito del possesso della Corea: i
russi, che anche per motivi razzistici sottostimavano la forza e l’efficienza che il
Giappone aveva ormai raggiunto, si sentivano forti e si autocompiacevano delle
numerose truppe che ora potevano inviare molto più facilmente sul Pacifico anche se,
nonostante tutti i loro frenetici sforzi, non erano ancora riusciti a completare l’ultimo
tratto della Transiberiana a sud del Baikal così che, quando la sua coltre gelata
diveniva troppo spessa anche per i rompighiaccio, i soldati dovevano inevitabilmente
attraversare il lago a piedi e su slitte trainate da cavalli.
I giapponesi sfruttarono la circostanza e l’8 febbraio 1894 attaccarono all’improvviso
Port Arthur e spinsero i russi via dalla penisola di Liaotung e sempre più all’interno
della Manciuria.
38
Date le condizioni della Transiberiana – che dopo ogni inverno era difficoltoso
rimettere in sesto, mancava di rifornimenti adeguati ed il cui tracciato spesso non
lineare e rallentato da forti dislivelli limitava le possibilità delle locomotive – le
truppe in partenza da San Pietroburgo impiegavano 5-6 settimane per arrivare a Port
Arthur, ma la guerra scatenò la determinazione russa di completare il tracciato attorno
al Baikal meridionale e il 25 settembre l’obiettivo fu raggiunto a costo di scavare ben
39 tunnel (!).
Nel marzo 1905 la riserva di soldati russi sembrava inesauribile: 300mila uomini
erano giunti in treno sul fronte ed altri 400mila erano in partenza (!) e ciò avrebbe
potuto far vincere loro la guerra, ma nel maggio la grande battaglia navale di
Tsushima annientò la flotta russa appena arrivata dall’altra parte del mondo.
Per parte sua il Giappone non poteva però permettersi una guerra di logoramento e
così aderì all’invito del presidente Roosevelt di sedere ad un tavolo di pace: il 5
settembre 1905 il trattato di Portsmouth (nel New Hampshire) riconobbe l’interesse
preminente del Giappone in Corea, gli cedette la penisola di Liaotung (le due linee
ferroviarie che partivano da Port Arthur comprese) e la metà meridionale di Sakhalin,
ma lasciò alla Russia la Manciuria settentrionale (!).
La Russia sconfitta ottenne insomma un trattamento molto più favorevole di quanto
sarebbe stato lecito aspettarsi e questo fu solo l’inizio di una nuova intesa perché i
due Paesi ora avevano scoperto quant’era più semplice e remunerativo accordarsi per
dividersi il bottino cinese anziché combattersi fra loro per esso.
Nel 1907, 1910 e 1912 una serie di trattati segreti definì così con precisione le due
rispettive sfere di influenza: al Giappone toccarono la Manciuria meridionale, la
Mongolia interna e la Corea, alla Russia la Manciuria settentrionale, la Mongolia
esterna (cioè la Mongolia) e il Sinkiang.
Era la Cina naturalmente a pagare in conti per tutti ma da tempo ormai quello che era
stato il glorioso Celeste Impero era drammaticamente incapace di reagire e di
difendersi.
La Siberia dopo la Transiberiana
La Transiberiana era dunque stata completata, ma il suo tracciato era diverso da
quello originariamente concepito perché adesso il suo lungo tratto finale attraversava
tutta la Manciuria, una regione in fondo occupata con arroganza e prepotenza,
parzialmente sotto controllo giapponese ed il cui possesso non era riconosciuto da
alcun accordo internazionale: la Manciuria non faceva dunque legalmente parte della
Russia e, come se questa profonda mancanza di sicurezza non fosse sufficiente a
rendere precaria l’intera situazione, l’indubbio ed inevitabile sviluppo che insieme a
tanti nuovi emigranti la ferrovia aveva portato nella regione erano andati a tutto
detrimento proprio della sicuramente russa valle dell’Amur, esattamente come
Vladivostok aveva fortemente perso d’importanza in favore di Port Arthur e di Dalny
(Darien).
39
La Russia si era insomma danneggiata da sola ed erano altri che raccoglievano i
migliori frutti della sua politica - che andava evidentemente cambiata.
I
Il cambiamento consistette nella costruzione della ferrovia nella valle dell’Amur fin
da Vladivostok e nella sua connessione con la Transiberiana a Chita (da dove partiva
la Transmanciuriana) costeggiando a nord il confine con la Cina: in questo modo la
Transiberiana sarebbe rimasta tutta in territorio russo ed avrebbe quindi portato
ricchezza e sviluppo ai porti, alle città ed alle campagne russe.
Oltre a ciò, era di primaria importanza fortificare e rafforzare militarmente tutto
l’estremo oriente russo grazie al varo di una flotta anche nel Pacifico ed alla
costruzione di tutte le basi e i porti necessari allo scopo.
La nuova impresa cominciò nel 1908 e anche qui fu necessario affrontare e superare
innumerevoli difficoltà e risolvere complicati ed esasperanti problemi: il territorio era
spopolato, montagnoso e pieno di paludi, foreste e acquitrini, e vi si doveva portare di
tutto - a cominciare dai lavoratori.
Per motivi di sicurezza gli asiatici vennero esclusi dal reclutamento e spesso le
famiglie degli emigranti russi arrivavano a destinazione dopo aver disceso l’Amur su
chiatte: l’intera regione andava russificata e naturalmente vi vennero inviate anche
numerose truppe.
I risultati non si fecero attendere: Vladivostok si riprese in fretta e le sue nuove
fortificazioni erano ora difese da 80mila soldati mentre 120mila in più vennero
destinati al resto della Siberia orientale dove comunque l’ammodernamento, la
colonizzazione, lo sviluppo, l’agricoltura, l’industria, il commercio e l’integrazione
col resto del Paese procedevano a ritmi sostenuti, tanto che si concepì il progetto di
treni di lusso per far visitare l’immensa regione a viaggiatori facoltosi che durante la
lunga tratta non avrebbero rinunciato a nessuna comodità e comfort.
La Transiberiana trasformò drammaticamente ogni area che attraversava e grazie a lei
la Siberia cessò di essere una colonia o un’appendice per entrare a far parte a tutti gli
effetti della Russia: da San Pietroburgo in dieci giorni ora si poteva raggiungere
Vladivostok e questa fu un’incredibile rivoluzione.
La Transiberiana infine non era stata intesa solo come un’immensa facilitazione per il
trasporto delle merci e per il trasferimento dei coloni, ma anche come occasione di
viaggio degli appartenenti alle classi alte (o altissime) come testimonia il fatto che i
suoi vagoni di lusso (in mostra all’Esposizione Universale di Parigi del 1900) erano
dotati addirittura di pianoforti a coda, bagni in marmo, biblioteche e palestre (!!!).
II
Da tempo comunque nella Russia sovrappopolata si moltiplicavano le iniziative del
governo per attrarre in Siberia sempre più famiglie contadine: non era certo la terra
che mancava, ma bisognava mettere in grado i coloni di arrivarci senza rischiare o
perdere la vita (grazie all’assistenza durante il viaggio ed a biglietti economicissimi)
40
e dar loro la possibilità di iniziare e di avviare le loro fattorie (con la concessione di
mezzi e di capitali).
La Transiberiana rivoluzionò completamente l’intera situazione e la Siberia divenne
rapidamente irriconoscibile: dei 7 milioni di russi che vi erano giunti dal 1823 al
1914, nel solo 1908 ne arrivarono 750mila e nel 1914 ben 2 milioni si erano ormai
stabiliti nell’estremo oriente siberiano e 300mila nella sola valle dell’Amur.
La popolazione della Siberia continuava a crescere come tutti i suoi indicatori
economici.
La Siberia nella guerra civile russa
Anche a questo proposito va ripetuto che in questa sede non si possono trattare le
vicende storiche della Russia – la sua entrata nella prima guerra mondiale, il crollo
del fronte orientale e le due rivoluzioni del 1917 - e che dunque vi si potrà solo fare
riferimento per comprendere quelle specifiche della Siberia.
Nel 1917 il radicamento dei bolscevichi in Siberia era labile: non c’era infatti un
proletariato urbano di una qualche consistenza e in genere i contadini possedevano la
terra che lavoravano o l’avevano in affitto a condizioni accettabili, molti in fuga
dall’Ottobre vi avevano cercato scampo e rifugio e infine le istanze per un socialismo
democratico si fondevano con quelle per l’autonomia della Siberia stessa.
Il crollo dello zarismo aveva comportato la nascita di numerosi movimenti per
l’indipendenza dall’impero ‘prigione di popoli’ di tutti quelli che fino a quel
momento erano stati sottomessi ai russi: appena il potere centrale dello zar era stato
abbattuto era iniziato il disgregamento dell’immensa Russia secondo linee etniche
perchè prima che un nuovo potere centrale potesse prendere il posto del vecchio i vari
popoli avevano colto immediatamente l’occasione per proclamare la loro
indipendenza.
Anche la Siberia partecipò a quest’ondata liberatrice: dopo il crollo dello zarismo e la
formazione di un Governo Provvisorio (marzo 1917) a Pietrogrado, nell’agosto 1917
a Tomsk il Primo Congresso Siberiano, formato soprattutto da menscevichi,
socialrivoluzionari (e da altri antibolscevichi), votò l’autonomia dalla Russia e scelse
addirittura la bandiera (verde e bianca, a significare foreste e neve) del nuovo stato;
due mesi dopo i bolscevichi dispersero però con la forza il suo comitato direttivo che
si dovette trasferire ad Harbin (in Manciuria) dove, proclamatosi Governo
Provvisorio della Siberia Autonoma, indisse elezioni alle quali i bolscevichi ottennero
soltanto il 10% dei voti.
Intanto, dopo il colpo di stato bolscevico (ottobre 1917) e la resa quasi incondizionata
alla Germania col trattato di Brest-Litovsk (marzo 1918), in Siberia l’8 giugno 1918
si era formato un altro governo (a maggioranza socialrivoluzionaria) antibolscevico a
Samara (sul Volga) e alla fine del mese un altro ancora (molto più conservatore) a
Omsk, ma questi due non trovarono niente di meglio da fare che competere fra loro
per la giurisdizione sugli Urali ed iniziare una reciproca guerra doganale (!).
41
La situazione tuttavia precipitò veramente in seguito alle complicate e assurde
vicende della Legione Cecoslovacca.
I
Fin dallo scoppio della guerra si era formata una Legione (o Corpo) di disertori cechi
e slovacchi che invece di combattere per il proprio stato (l’Impero Austro-Ungarico)
si erano uniti ai russi contro di esso per ottenere l’indipendenza del proprio stato: a
questa Legione si erano poi via via aggiunti i prigionieri di guerra cechi finchè nella
primavera 1918 essa contava circa 45mila uomini: d’accordo con la Francia e col
Consiglio Nazionale Cecoslovacco, i bolscevichi decisero di trasferirla – dopo che
però avesse consegnato le armi – sul fronte francese perché potesse continuare la
guerra su quel fronte, ma l’unico modo per arrivarci era attraversare la Siberia, il
Pacifico, il canale di Panama e l’Atlantico (!).
Alla fine del marzo 1918 partì il primo (di ottanta) treno diretto a Vladivostok ma,
date le condizioni in cui versava la Transiberiana, a metà maggio solo 12mila soldati
cecoslovacchi ci erano arrivati e gli altri erano ancora sparpagliati lungo la linea:
mentre i malumori e i sospetti crescevano, il Consiglio Supremo Alleato di Guerra
decise allora, d’accordo con Trotsky, di evacuare le unità rimaste più indietro via
Arkhangelsk, ma i cecoslovacchi sospettarono (a torto) che si trattasse di una
manovra dei bolscevichi (che già avevano fatto ogni sorta di concessione ai tedeschi)
per dividerli ulteriormente e per ostacolare il loro trasferimento.
Per parte loro, gli stessi bolscevichi temevano che la Legione Cecoslovacca, rimasta
disciplinata ed ordinata, potesse essere usata dagli Alleati contro di loro visto anche
che nell’aprile 1918 i primi giapponesi erano intanto sbarcati a Vladivostok e i primi
controrivoluzionari – i Bianchi – avevano cominciato ad operare in Manciuria.
In un clima di sospetti e di incomprensioni crescenti i cecoslovacchi cominciarono
così a nascondere anziché a consegnare le armi e il 14 maggio un malaugurato
incidente in una stazione ai piedi degli Urali precipitò gli eventi: i cecoslovacchi
continuarono la loro marcia verso est con le armi in pugno impadronendosi della
Transiberiana, sconfiggendo ogni presidio militare che avesse cercato di fermarli ed
requisendo tutto il materiale bellico che trovavano sul loro cammino (anche un treno
blindato!).
I cecoslovacchi già a Vladivostok tornarono indietro per unirsi ai loro commilitoni
che stavano avanzando: quelli che stavano arrivando ad Ekaterinburg probabilmente
spinsero i bolscevichi a sterminare la famiglia imperiale colà detenuta (presto la città
cadde comunque nelle mani dei Bianchi) e quelli che marciarono su Kazan aiutarono
i Bianchi nell’occupazione della città e si impadronirono della riserva aurea imperiale
(che i bolscevichi avevano qui trasferito per motivi di sicurezza!).
Tutta la Siberia si era comunque rivoltata contro i bolscevichi che a settembre
l’avevano completamente persa: flotte alleate erano a Vladivostok per trasportare sui
fronti europei il materiale bellico colà stipato, ma le navi per trasferire i
cecoslovacchi non erano ancora arrivate.
42
II
Grandi quantità di materiale bellico e di scorte alimentari erano comunque presenti
non solo a Vladivostok ma anche in altri porti siberiani e così, temendo che i
bolscevichi, ritenuti (e non a torto) di fatto alleati dei tedeschi, potessero
consegnarglieli, reparti alleati cominciarono a sbarcare (soprattutto i giapponesi a
Vladivostok) per impadronirsene.
Questo però fu solo l’inizio dell’invasione perché con la Russia fuori gioco il
Giappone colse l’occasione per accelerare la sua espansione sul continente asiatico: il
2 agosto ulteriori truppe nipponiche da Vladivostok occuparono Khabarovsk e in
ottobre invasero la Manciuria settentrionale, le valli dell’Ussuri e dell’Amur e la
Ferrovia Orientale Cinese.
Questa politica del Giappone si integrò e fuse poi con quella degli Alleati di ben 14
nazioni (soprattutto francesi, inglesi e americani) che – a guerra finita! - intervennero
contro i bolscevichi: nell’estremo oriente russo sbarcarono 125mila soldati (75mila
dei quali giapponesi) ed altri operarono poi in altre parti della Russia in modo da
collegarsi, aiutare e sostenere gli eserciti dei Bianchi che da ogni parte premevano e
minacciavano la Russia bolscevica.
III
In Siberia i due governi antibolscevichi nel settembre 1918 finalmente si unirono e
formarono un governo di coalizione che però solo due mesi dopo fu rovesciato dal
suo ministro della difesa, l’ammiraglio Alexander Kolchak, che si proclamò
Governatore Supremo della Russia ed assunse poteri dittatoriali: egli dichiarò che
dopo la sconfitta dei bolscevichi la Russia sarebbe divenuta un Paese democratico,
ma come tutti gli altri generali bianchi, anche sotto le sue insegne si raggrupparono
tutti i reazionari, i conservatori e gli zaristi, oltre a torme di avidi predatori e
razziatori che si dedicarono ad ogni sorta di violenze e sopraffazioni ai danni delle
sfortunate popolazioni che cadevano sotto il loro controllo.
Era ormai pienamente iniziata la terribile guerra civile che avrebbe causato
innumerevoli devastazioni ed inenarrabili sofferenze stravolgendo ed inferocendo la
società e la storia russa stesse.
IV
La guerra civile russa vide eserciti bianchi, sostenuti, aiutati e riforniti dagli Alleati,
attaccare da ogni lato la Russia bolscevica, peraltro internamente spossata dal
durissimo ‘comunismo di guerra’: sulla carta la vittoria dei Bianchi sembrava
inevitabile, ma in realtà erano i bolscevichi ad avere molti vantaggi che alla fine li
fecero trionfare.
Innanzitutto la sconfitta degli Imperi Centrali ridusse notevolmente l’urgenza degli
esausti Alleati di sconfiggere i bolscevichi che, in secondo luogo, poterono far
propria la causa nazionale della patria invasa e che, in terzo e quarto luogo,
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controllavano le regioni centrali, cioè quelle industrializzate, e potevano spostare le
proprie forze da un fronte all’altro.
Kolchak aveva comunque un esercito ben equipaggiato di 250mila uomini ed il
controllo della Transiberiana venne affidato ad americani e giapponesi per il tratto
Vladivostok-Irkutsk ed ai cecoslovacchi per quello Omsk-Irkutsk: nonostante si fosse
circondato dei peggiori elementi reazionari, il suo regime fosse gravemente corrotto e
le sue truppe fossero di fatto mercenarie (e come tali si comportassero) inizialmente
Kolchak mietè successi, come d’altra parte sui lontani e lontanissimi fronti gli altri
generali bianchi, ma tutti questi non crearono mai un comando unificato che dirigesse
e coordinasse le loro operazioni, mentre le truppe bolsceviche e le numerose bande
partigiane comuniste si muovevano obbedendo ad un unico centro strategico.
La Siberia orientale era infine sotto il dominio dei giapponesi che stavano
conducendo una politica del tutto coloniale (e dunque antirussa): per questo scopo
aizzavano pretestuosamente il nazionalismo dei buryati e in conclusione, non volendo
affatto una vittoria dei Bianchi nella Siberia orientale, di fatto favorirono quella dei
bolscevichi.
L’occupazione di Kolchak fu quanto di peggio si potesse immaginare: agli arresti
arbitrari, persecuzioni, razzie, confische e diffusa violenza si aggiunsero i pogrom e
le atrocità antisemite, ufficialmente motivati dall’accusa che il bolscevismo era
espressione del giudaismo (e la formula ‘boscevismo giudaico’ in seguito sarebbe
stata ripresa ed utilizzata dal nazismo).
La propaganda dei bolscevichi agiva poi efficacemente sulle truppe bianche mentre il
passaggio dall’arruolamento volontario alla leva obbligatoria ne aveva fortemente
aumentato gli efettivi cosicchè a partire dal marzo 1919 iniziò il loro contrattacco che
non si sarebbe fermato più fino alla piena vittoria finale.
Fra le fila dei Bianchi le diserzioni non fecero altro che crescere, bizzarrie e follie di
alcuni loro generali ne aumentarono il discredito, gli Alleati non poterono (né vollero,
stanchi com’erano?) impegnarsi più di tanto, prigionieri, sfollati e rifugiati si
moltiplicavano, Kolchak perse letteralmente la testa e le sue truppe semplicemente si
disintegrarono mentre, come in tutte le ritirate, confusione e competizione regnavano
anche fra quelli che fino al giorno prima avevano combattuto insieme.
Kolchak tentò di defilarsi nominando Denikin suo successore e cercò di porsi sotto la
protezione degli Alleati, ma fu catturato e fucilato il 7 febbraio 1920.
Pochi anni fa di fronte al Monastero a Irkutsk, dove ebbe sede il suo governo, è stata
eretta un’imponente (e discussa) statua in onore di Kolchak ai cui piedi un bolscevico
e un bianco abbassano le armi: in Siberia i monumenti che ricordano la guerra civile
sono piuttosto numerosi (a volte ricordano però solo i vincitori) ma questo è l’unico a
celebrare un generale bianco.
Una strada principale di Vladivostok è inoltre dedicata a Semenov, un altro generale
bianco.
Non si sfugge insomma all’impressione che nella Russia post-sovietica il giudizio
sulla terribile guerra civile non sia stato ancora definito chiaramente - come del resto
quello sull’intera storia del Paese nel Novecento: fa eccezione la memoria della
vittoria nella Grande Guerra Patriottica, orgogliosamente esaltata e celebrata dai
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suggestivi monumenti in tutte le città della Siberia e nelle apposite sale dei musei.
Solo le statue dedicate a Lenin sono altrettanto frequenti e costanti.
V
Mentre una dopo l’altra le truppe degli Alleati fuggivano (spesso nel caos) ed
abbandonavano il suolo russo, i giapponesi costituivano invece un problema molto
più serio perché non erano presenti in Estremo Oriente per contrastare i bolscevichi
ma per aumentare i loro domini coloniali: 200mila soldati nipponici occupavano
infatti la Manciuria (ed erano in ottimi rapporti coi signori della guerra locali),
l’intera Sakhalin e molte coste siberiane.
Per evitare troppi attriti nell’aprile 1920 i bolscevichi fondarono così la Repubblica
dell’Estremo Oriente (con capitale Chita), una sorta di stato cuscinetto (bolscevico)
fra il Baikal e il Pacifico, ma dopo che nel novembre Wrangel, l’ultimo generale
bianco, fuggì dalla Crimea, i bolscevichi furono in grado di concentrare le proprie
forze in Estremo Oriente: la Repubblica prese allora ad allargarsi assorbendo sempre
più territori finchè - mentre la Mongolia era divenuta ormai un satellite di Mosca nell’ottobre 1922 anche i giapponesi dovettero prendere il mare e i bolscevichi
poterono finalmente entrare a Vladivostok.
Tutta la Siberia orientale era stata definitivamente rioccupata e la vittoria bolscevica
era completa.
La Siberia sovietica
La ricostruzione della Russia europea ebbe la precedenza su quella della Siberia,
ancora largamente agraria, priva di infrastrutture, che forniva il 2% del PIL e la cui
produzione nel 1923 si era dimezzata rispetto a quella del 1917, ma l’ondata
modernizzatrice ed industrializzatrice dello stalinismo trasformò anche lei: immensi
centri carboniferi, gigantesche fonderie ed acciaierie, grandiose fabbriche di trattori,
centrali elettriche, miniere di tutti tipi, scavi di pozzi petroliferi e tutta una serie di
industrie lungo la Transiberiana si accompagnarono al doppio binario per tutto il suo
tragitto, alla costruzione di nuove linee ferroviarie ad essa collegate ed alla
sostituzione dei ponti in legno con altri in acciaio.
Era l’affermazione dell’industria ‘pesante’ su quella ‘leggera’ secondo piani
quinquennali che dovevano trasformare completamente e in fretta l’URSS per farla
diventare una grande potenza industriale ed altrettanto militarmente forte ed armata:
solo così per Stalin essa avrebbe potuto resistere alla competizione coi Paesi
industrializzati e stoppare in partenza ogni progetto di invasione.
I
I mezzi per attuare questa grande politica furono la totale sottomissione delle
campagne con la famigerata collettivizzazione di tutte le terre, l’ ‘eliminazione del
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kulak come classe’ (2 dicembre 1932) e l’istituzione del lavoro forzato mediante una
ciclopica, maniacale e folle persecuzione che riempì di schiavi gli infernali lager
creati apposta per scopi produttivi ed in cui il lavoro era il mezzo non solo per creare
spesso dal nulla imponenti stabilimenti industriali ma contemporaneamente anche per
eliminare tutta quella parte della società ritenuta non interamente malleabile ed
assoggettabile: la vita e la sofferenza umana non contarono più nulla e per esempio
dei 250mila schiavi che nel 1931-33 scavarono a mano i 270 km. di canali che
collegarono il mar Baltico col Bianco più di 60mila morirono di freddo, fatica, stenti,
malattie e maltrattamenti nella più completa indifferenza (se non compiacimento) dei
vertici politici sovietici.
In Siberia il terrore staliniano colpì più duramente che altrove per vari motivi:
innanzitutto la Siberia era già stata collaudata come luogo di deportazione, in secondo
luogo i contadini siberiani erano stati relativamente più liberi ed autonomi che nel
resto della Russia (per attrarli era stato infatti necessario creare condizioni favorevoli)
ed andavano dunque repressi più duramente, in terzo luogo la Siberia era stata sempre
antibolscevica e andava di conseguenza ripulita più a fondo, in quarto luogo perché i
centri industriali, minerari e militari erano più sicuri e protetti in Siberia che nella
Russia europea, più permeabile ad un’eventuale invasione.
Il tristissimo universo concentrazionario comunista (il famoso G.U.Lag.) riempì la
Siberia più che altre parti dell’immenso Paese dei suoi infami lager dai quali la fuga
era praticamente impossibile: soprattutto il nord-est fu adibito esclusivamente ai
campi di lavoro forzato e città come Komsomolsk (sull’Amur) o Magadan divennero
soltanto centri di lager.
Gli schiavi divennero così non solo la base dell’economia siberiana, ma anche la sua
classe sociale più numerosa (!) dato che solo durante il primo piano quinquennale la
forza-lavoro vi crebbe 3,5 volte e che dal 1926 al 1939 i 900mila abitanti urbani della
Siberia orientale si triplicarono.
Il progetto era lo sterminio attraverso il lavoro in modo da liberarsi di tutti coloro
che erano giudicati non perfettamente assimilabili, ma solo dopo averli spremuti e
sfruttati fino all’ultima goccia del loro sangue per l’edificazione del sistema che li
aveva voluti morti fin dall’inizio: l’aspettativa media di sopravvivenza nei campi era
di 2 anni ed effettivamente il 90% degli internati vi morì di fame, stenti,
maltrattamenti, freddo, fatica, malattie e crepacuore.
Chi potè fuggì (i buryati in Mongolia, molti cosacchi in Manciuria) e chi restò
conobbe fame e carestia che spopolarono intere regioni e che furono anche usate
come armi politiche per piegare i riottosi.
Dopo l’assassinio di Kirov (1 dicembre 1934) il terrore non conobbe più limiti e
raggiunse livelli tali da sembrare incredibili per la loro ferocia e per la loro
diffusione, e sui quali esiste una grande e dolentissima letteratura (come l’opera di
Salamov sulla Kolima - nei cui lager perì 1/5 della ventina (cifra molto
approssimativa) di milioni di vittime del G.U.Lag - o quella di Solzenicyn): tuttavia
la letteratura – anche straniera! - al tempo dello stalinismo era occupata a celebrare i
fasti dell’edificazione del socialismo e soprattutto i suoi innegabili successi (tacendo
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naturalmente sui fallimenti, errori ed insuccessi, come quello della fallimentare
ferrovia lungo la costa dell’Artico).
II
Ad illustrare la visione dominatrice e onnipervasiva di Stalin (e la vastità della
Siberia dove ogni esperimento era possibile) merita menzione il tentativo del 1934 di
creare una Regione Autonoma Ebrea a Birobidzan (il fiume Bira è un affluente
dell’Amur): in verità il progetto originario era quello di trasferire gli ebrei in Crimea
(per spezzare il nerbo dell’etnia tartara) ma era presto tramontato e si optò allora per
il lontano oriente.
Inizialmente il progetto sembrò funzionare e a Birobizdan arrivarono ebrei anche da
altri Paesi (Palestina compresa!): nella frenetica atmosfera di mobilitazione per lo
sviluppo e per la trasformazione dell’intera URSS, settemila giovani pionieri ebrei
risposero all’invito di trasferirsi colà per costruirvi una nuova patria ma le (solite)
difficoltà dell’isolamento, della lontananza e della primitività del luogo non resero
attuabile una vera migrazione.
Oggi in questa bella città rimangono solo alcune testimonianze di quegli anni e gli
ebrei rimasti sono un’esigua minoranza della popolazione complessiva.
III
Come dappertutto, anche nei confronti dei nativi siberiani il nuovo potere sovietico
procedette con la sua consueta logica per organizzarli, inquadrarli ed omogeneizzarli
nei propri schemi e nelle proprie istituzioni: nel 1922 venne costituita la Repubblica
Autonoma di Yakuzia (in un’area artica e subartica complessivamente due volte
l’India), nel 1923 quella di Buryazia (una volta e mezza l’Inghilterra) con capitale
Ulan Ude, e il 10 dicembre 1930 altre sei ‘regioni nazionali’.
Anche in tutte queste vennero istituiti sistemi sanitari, di igiene pubblica e scolastici
che comportarono enormi ed indubbi miglioramenti, se non rivoluzioni, nel tenore e
nei sistemi di vita dei siberiani, ma tutto ciò rientrava pienamente nella politica che
può dirsi colonialista, occidentalizzatrice e naturalmente comunistizzatrice
dell’URSS: così ad esempio i libri di testo (editi e controllati dallo stato) erano scritti
in russo, sciamani e altri capi tradizionali vennero eliminati, le moschee tartare
vennero chiuse e i templi buryati distrutti (tutti tranne uno) mentre la
collettivizzazione inquadrò tutti nelle unità di lavoro e di fatto abolì il nomadismo.
I nativi siberiani furono insomma inseriti nel nuovo impero plurinazionale come tutti
gli appartenenti alle altre diverse etnie: tutti dovevano seguire gli stessi modelli di
comportamento e di pensiero, avevano gli stessi (scarsi) diritti e gli stessi (numerosi)
doveri nell’immensa fucina comunista ed egualizzatrice che tutto voleva e doveva
assimilare e fondere in un unico stampo.
Unica per tutti fu naturalmente l’imposizione della dittatura totalitaria, la sua
mentalità e cultura, l’onnipervasiva persecuzione poliziesca e lo spegnimento di ogni
velleità di autonomia e di libertà.
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III
Dopo l’attacco tedesco all’URSS (21-22 giugno 1941) 322 industrie ad ovest degli
Urali vennero smontate e trasferite (insieme al loro lavoratori) in Siberia e qui
riassemblate e rimesse in produzione: il Kuzbas (il bacino del fiume Tom) divenne il
fulcro dello sforzo bellico sovietico mentre Omsk, Novossibirsk ed altre città
crebbero a vista d’occhio e divennero giganteschi centri industriali - per il momento
al sicuro dall’avanzata della Wehrmacht.
Tutto ciò trasformò velocemente l’intera fisionomia della Siberia e ne accrebbe a
dismisura l’importanza.
Nonostante un tentativo di sbarco tedesco alla foce dello Yenisey (operazione
‘Wunderland’) presto rintuzzato, in Siberia non si combattè mai: il suo ruolo –
importantissimo e vitale - fu quello di produttrice per la guerra e nel 1942-45 piloti
americani e russi portarono aerei dall’Alaska sui fronti tedeschi via Siberia.
Inutile dire che durante la seconda guerra mondiale anche gli internati nei campi
crebbero notevolmente a causa dell’arrivo all’interno dei loro recinti spinati dei
prigionieri di guerra e delle popolazioni ritenute ostili, mentre gli Alleati
riconsegnarono all’URSS oltre 1 milione di fuggitivi (!).
Oltre a ciò, da tempo Stalin era stato ben determinato a voler rafforzare anche
l’estremo oriente sovietico dove in passato i giapponesi erano stati più volte vittoriosi
e, soprattutto dopo la loro invasione della Manciuria (1931) e la creazione del
Manchukuo (che fra l’altro inglobò anche la Ferrovia Cinese Orientale), costituivano
ancora una seria e costante minaccia: nel 1937-40 la produzione industriale della
Siberia sul Pacifico raddoppiò e vi vennero trasferite ben 40 divisioni.
Su questo fronte Stalin manovrò molto bene: riuscì a rimanere in pace col Giappone
in modo da potersi concentrare contro la Germania finchè il 9 agosto 1945 (il giorno
della seconda atomica su Nagasaki!) dichiarò guerra al Giappone e invase la
Manciuria (dove si impadronì di grandi quantità di materiale bellico ed industriale),
Sakhalin e le quattro Kurili meridionali.
Dopo la resa del Giappone (2 settembre 1945) un trattato con la Cina nazionalista
riconsegnò infine all’URSS la Ferrovia mancese, Port Arthur e Dalny (Darien) che
tuttavia sarebbero stati resi alla Cina comunista nel 1951.
IV
Dopo la morte di Stalin furono liberati 8 (su 12 stimati) milioni di internati nei lager
ma in genere le amnistie riguardarono i criminali e i condannati per reati comuni,
tanto che nel 1956 solo a Kolima-Magadan c’era più di 1 milione di prigionieri
politici: finchè ci fu l’URSS (età di Gorbaciov compresa) ci furono insomma anche i
lager nei quali finivano regolarmente anche vagabondi ed irregolari.
Gli ultimi prigionieri politici furono rilasciati da un lager vicino a Perm solo nel 1992
(!).
In ogni caso lo sgonfiamento dei campi ebbe ovviamente un forte significato per la
Siberia dove in misura crescente dovettero essere utilizzati lavoratori liberi anziché
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deportati: se a ciò si aggiunge che con la fine della guerra molte industrie già
trasferite in Siberia vennero riportate ad ovest degli Urali si comprende come il ruolo
ed il peso economico della Siberia si ridusse in modo sensibile.
In ogni caso nemmeno in Siberia cessarono i grandi investimenti per le grandi
infrastrutture, come le enormi centrali idroelettriche (soprattutto lungo l’Angarà e
loYenisey), le grandi fabbriche di ogni tipo, le miniere, lo sfruttamento dei vasti
giacimenti di petrolio, di carbone, di gas e le nuove linee ferroviarie: fra queste
ultime merita considerazione la BAM che da Tayshet (a nord-ovest del Baikal) lo
supera a nord per arrivare a Komsomolsk-sull’-Amur dopo un percorso di 3.200 km..
Questa quasi-seconda Transiberiana potrebbe costituire a tutt’oggi una notevole
alternativa alla sovraccarica Transiberiana anche perchè è lontana dal confine cinese
e quindi strategicamente molto più sicura, ma la mancanza di ogni infrastruttura la
rende praticamente inutilizzabile.
Altre nuove linee si connettono comunque alla Transiberiana e permettono nuovi ed
utilissimi collegamenti fra le varie parti della Siberia, come quella Urali del sud –
Kuzbas; Urali del nord – foce dell’Ob; Yakutsk (foce della Lena) – Transiberiana;
valli del Kolima e dell’Indigirka – porto di Magadan.
Grandi energie sono state spese per il passaggio a nord-est ma, nonostante i
rompighiaccio, gli oltre 10mila km. della rotta artica possono essere percorsi solo 3-4
mesi all’anno.
La mancanza di opposizione e di controllo unita al disprezzo per le condizioni di vita
della società hanno prodotto però anche inquinamento, disastri ambientali e sanitari
di vaste e vastissime proporzioni, ma tutti i risvolti negativi dei grandi e
celebratissimi sviluppi produttivi erano taciuti né destavano alcun interesse:
sintomatico della mentalità del tempo fu il progetto di costruire enormi dighe di
sbarramento per invertire il corso dei grandi fiumi prima che sfociassero nell’Artico e
convogliarne le acque a sud (!!!), fortunatamente abbandonato a metà degli anni
Ottanta.
Parallele a quelle industriali e produttive vanno infine annoverate le numerosissime
iniziative per attrezzare la Siberia in senso militare al tempo della guerra fredda, test
nucleari compresi: anche in questo caso non si ebbe il minimo riguardo per
l’ambiente né, data l’assoluta segretezza delle operazioni, ciò suscitò (o potè
suscitare) opposizioni e proteste.
La Transiberiana oggi
Ancor oggi il lunghissimo percorso della Transiberiana richiede una settimana
continua di viaggio e chiaramente ormai non può attrarre dunque che turisti, amanti
del ritmo del treno o chi deve percorrerne solo un tratto: è però allo studio un
progetto cino-russo-torinese per costruire una nuova linea ultramoderna MoscaPechino percorribile in sole 24 ore!
Il progetto ha dell’incredibile e dimostra come per le sue insostituibili capacità di
trasporto il treno mantiene tuttora la sua piena validità e può svolgere ancora un ruolo
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importante ed attivo nello stringere sempre di più i contatti nel mondo completamente
globalizzato del XXI secolo.
Caratteristica della nostra era è poi anche la nuovissima maratona del ciclismo
estremo i cui partecipanti, partiti da Mosca il 15 luglio 2015, hanno dovuto pedalare
lungo la Transiberiana fino a Vladivostok: il percorso era stato diviso in quindici
tappe (con regolare classifica come nel Giro d’Italia e nel Tour de France) e articolato
in 23 giorni (con arrivo il 6 agosto).
Oggi il tragitto della Transiberiana attira insomma attrezzatissimi ed allenatissimi
ciclisti e fornisce l’occasione di mettere alla prova le loro capacità: la Transiberiana si
è dunque ormai tanto affermata che il suo percorso può avere anche la funzione di
offrire la cornice della storia ad una competizione sportiva (come le corse sulla
Grande Muraglia cinese o sui sentieri andini che portano al Machu Picchu, ecc.).
Chi avrebbe mai potuto pensare una cosa simile ai tempi (non certo lontani) in cui la
Siberia atterriva per la sua stessa immensa vastità, la sua misteriosa natura e la sua
inaccessibilità? O nei lunghi e difficilissimi anni della costruzione della
Transiberiana, quando sembrava un miracolo o un miraggio che un giorno si sarebbe
potuta percorrere in treno la vastissima area che si stende fra Mosca e l’oceano
Pacifico?
Eppure la maratona ciclistica significa anche dimenticanza della storia e appare una
delle tante leggere e spensierate fruizioni di qualcosa che appartiene invece al
patrimonio delle conquiste dell’umanità e che meriterebbe quindi ben altro rispetto e
considerazione.
Conclusione
Il crollo repentino dell’URSS suscitò reazioni separatiste e autonomiste anche in
Siberia e nel 1991 a Novossibirsk l’Accordo Siberiano iniziò a battersi contro il
centralismo moscovita per il controllo e la gestione delle proprie risorse: finchè la
Federazione Russa si dibatteva nelle spire della sua grave crisi i siberiani riuscirono a
strappare a Eltsin una serie di accordi e compromessi, ma con l’ascesa al potere di
Putin e l’uscita della Federazione Russa dalla crisi questa tendenza si invertì a favore
di un ritorno all’accentramento secondo la famosa logica putiniana della ‘verticale del
potere’.
Il censimento della Siberia del 2002 ha rilevato una popolazione di 26 milioni di
persone (più del 18% dell’intera Russia e tre volte quella della sola Mosca) in genere
concentrate a sud lungo la Transiberiana: il governo deve offrire ogni sorta di
vantaggi a chi decide di stabilivici perché le condizioni climatiche e l’isolamento
sono stati sicuramente combattuti dalla tecnologia ma non sconfitti né potranno mai
esserlo in questa terribile e grandiosa regione del mondo.
Sottomarina 7 settembre 2015