1 Lucio Gentilini GRANDE AVVENTURA RUSSA IN SIBERIA Introduzione Alla morte di Genghis Khan (1.227) il suo immenso impero mongolo venne diviso in quattro khanati, Persia, Chagatai (Asia Centrale), Cina (la dinastia Yuan) e quello più occidentale detto dell’Orda d’Oro con capitale Sarai che, posta sulle rive del fiume Akhtuba (braccio deltizio sinistro del Volga), sarebbe presto divenuta una delle città più popolose del medioevo con probabilmente ben 600mila abitanti (!). Nomadi espertissimi, i mongoli avevano acquisito facilmente il controllo delle steppe sconfinate e, come di consueto amavano fare, avevano inglobato nelle loro fila le popolazioni locali turche (soprattutto donne e bambini) che via via avevano incontrato e sconfitto. Il khanato dell’Orda d’Oro fu dunque un regno turco-mongolo affidato a Batu Khan, un nipote di Gengis Khan che ben presto riprese l’espansione a ovest, interrotta alla morte del nonno: nel 1236 egli conquistò così la Bulgaria del Volga (oggi in Russia nella regione in cui il Kama si getta nel Volga) e l’anno seguente iniziò l’invasione della Russia stessa. Nel 1240 i mongoli saccheggiarono e distrussero Kiev (la capitale della Rus’ di Kiev) e poi uno per uno tutti gli altri vari principati russi ad eccezione della repubblica di Veliky-Novgorod il cui sovrano, Alexander Nevsky, dovette però riconoscersi loro vassallo e pagare un tributo. Con la conquista della Russia l’ondata mongola era arrivata però al suo limite estremo: nonostante le successive vittorie militari in Ungheria e in Polonia, per 2 motivi di carattere interno nel 1241 i mongoli si dovettero infatti ritirare e non avrebbero mai più tentato di marciare in Europa. Essi rimasero comunque i signori e gli esattori di tributi dell’attuale Russia ma, paradossalmente, fu proprio il loro dominio a compattare in uno stato unitario i numerosi principati di tipo feudale in cui essa era stata fino ad allora divisa: Kiev non riuscì a riprendersi e il motore dello sviluppo si trasferì così a nord, soprattutto nella repubblica di Novgorod e nel granducato di Mosca, dove tanti fuggitivi dalla Rus’ di Kiev avevano trovato rifugio e che iniziò a fiorire, a prosperare e ad allargarsi proprio durante ed anche a causa della presenza mongola (!). In rapporto alla popolazione complessiva dell’Orda i mongoli erano tuttavia numericamente pochi dato che la maggior parte degli abitanti aveva invece origini turche, uzbeche e variamente altaiche: fu così inevitabile che i mongoli perdessero abbastanza presto la loro identità nazionale e che da nomadi e animisti che erano stati diventassero sedentari e islamici. Il khanato non riuscì inoltre a preservare la sua unità: gli scontri interni raggiunsero l’apice nel 1440, ma da tempo al posto dell’unica Orda d’Oro erano sorti vari e differenti khanati autonomi (come Sibir, Kazan, Astrakan, Qasim, Crimea e Nogai): mentre insomma il granducato di Mosca cresceva, si arricchiva e si sviluppava, tutto al contrario il vincitore di due secoli prima, sconvolto da lotte intestine, si andava sempre più sfaldando, dividendo ed indebolendo. Quando Bisanzio cadde (1453) molti greci, compreso il patriarca della Chiesa ortodossa, fuggirono a Mosca (così come tanti avevano fatto da Kiev due secoli prima) e il granduca Ivan III (marito della nipote dell’ultimo Imperatore di Costantinopoli) risultò così ulteriormente rafforzato, tanto che nel 1478 inglobò la repubblica di Novgorod e nel 1480 smise di pagare il tributo ai mongoli, il tangibilissimo segno di dipendenza dai vincitori del passato. Il granducato di Mosca insomma era ormai definitivamente libero ed indipendente. Mosca Terza Roma Il processo di formazione del nuovo stato si concluse il 16 gennaio 1547 quando il sedicenne Ivan IV, figlio di Basilio III (1505-33) e dunque nipote di Ivan III, salì al trono col titolo di zar (cesare) in base alla convinta e fondamentale assunzione che gli slavi erano gli eredi dei bizantini e che Mosca era la Terza Roma, l’ultimo faro di civiltà e della religione ortodossa. In realtà, nonostante tanti sviluppi positivi, la Russia (come venne rinominato il granducato di Mosca, o Moscovia) in confronto agli altri stati europei era ancora profondamente arretrata e semi-barbarica: non può dunque stupire che i suoi tentativi di arrivare al mar Baltico vennero rintuzzati da Polonia, Lituania e Svezia che, ben più moderne ed organizzate, si ergevano minacciose e per il momento invincibili ai suoi confini occidentali. Peggio ancora, a sud i tartari di Crimea, sostenuti dagli ottomani, non solo facevano scorrerie nei territori russi, ma precludevano lo sbocco al mar Nero e dunque al 3 Mediterraneo: per i russi arrivare al mare era possibile insomma solo sul Bianco e precisamente nel porto di Arkhangelsk (alla foce della Dvina). Anche se i russi avevano presto imparato a navigare da Arkhangelsk agli Urali, questo lontano sbocco non era ugualmente di grande utilità sia perché era gelato per sei mesi all’anno, sia per la sua marginalità geografica. Data la situazione, Ivan IV si dedicò comunque con energia e determinazione sia a modernizzare e rafforzare il suo stato - e quindi ad abbattere il potere della nobiltà locale dei boiari (il nomignolo di ‘Terribile’ gli venne dato dalla popolazione ammirata per i metodi impiegati) - sia ad espandersi nell’unica direzione allora possibile, a est, nell’immenso e sconosciuto territorio al di là degli Urali, in Siberia. Fin dalla sua nascita la Russia concepì insomma se stessa come una potenza in continua, inevitabile e doverosa espansione e questa sarebbe rimasta una costante di tutta la sua lunga storia. La Siberia La Siberia (la ‘terra che dorme’ nella lingua tartara e ‘meravigliosa’ in quella mongola) è lo sconfinato e affascinante territorio che costituisce l’Asia settentrionale e che si estende dagli Urali a ovest al Pacifico a est, e dall’oceano Artico a nord a Kazakhstan, Mongolia e Cina a sud: tranne che sull’oceano Artico, i suoi 12.653.000 kmq. sono racchiusi da montagne. 4 Il suo clima varia enormemente e passa da quello artico a nord fino a quello semitropicale a sud, con una flora e soprattutto con una fauna di conseguenza estremamente diversificate, ma forse la caratteristica maggiore di questa sterminata parte del mondo sono i suoi immensi fiumi la cui lunghezza complessiva è venticinque volte la circonferenza terrestre (!): essi sono ben 53mila (mentre i laghi sono più di 1 milione!) e i principali a partire dagli Urali sono l’Ob, lo Yenisey, la Lena e la Kolima che si gettano tutti nell’oceano Artico (scorrono dunque da sud a nord) e che sono intervallati e collegati fra loro da una fitta rete di affluenti, di tributari e di corsi minori che rendono la Siberia largamente percorribile per via d’acqua (!): per esempio, il lago Baikal, la culla della civiltà mongola, riceve l’acqua da ben 336 immissari, è il più profondo del mondo e la sua acqua dolce è 1/5 di tutta quella mondiale. Longitudinalmente la Siberia è dunque divisa dai suoi fiumi più grandi (paragonabili al Mississippi o al Nilo) mentre l’estremo est è costituito dal sistema vulcanico (la ‘linea del fuoco’) della Kamchatka, ma è la latitudine che (ovviamente) ne differenzia geograficamente le zone: a nord domina infatti la tundra, al centro la taiga e a sud la terra fertile ma anche le semi-desertiche steppe. La tundra, arida e senza alberi se non nel suo bordo meridionale, è per gran parte dell’anno ricoperta dalla neve che, caduta spesso sopra spessi strati di ghiaccio perenne, d’estate quando e dove si scioglie lascia spazio praticamente solo a muschi e a licheni. A 300-600 km. dalla costa artica inizia la taiga che via via si ricopre di alberi sempre più fitti i cui rami si intrecciano densamente fra loro: naturalmente anche la fauna in questa sorta di regione di mezzo è comprensibilmente molto più ricca e varia di quella, scarsa, della tundra. Scendendo a sud, la taiga piano piano cede il posto a terre arabili e fertili, ma anche a steppe aride ed assolate. Alla fine del XVI secolo in Siberia vivevano approssimativamente 250mila persone divise in circa 140 popoli appartenenti a 5 gruppi etnici e linguistici maggiori (turco, manchu-tungus, ugro-finnico, mongolo e paleosiberiano, affine al precedente): a seconda delle zone in cui vivevano essi conducevano stili di vita anche profondamente diversi, ma in genere erano allevatori nomadi e cacciatori mentre solo nella valle dell’Amur (il grande fiume oggi confine fra Russia e Cina) era praticata una molto elementare agricoltura. Da Mosca al Volga, agli Urali e all’Ob Un secolo dopo che gli europei occidentali avevano iniziato la loro fantastica espansione verso ovest che avrebbe cambiato per sempre ogni aspetto della vita sul pianeta, i russi iniziarono la propria verso est: i primi si erano lanciati sul mare, i secondi procedettero via terra, ma in ambedue i casi si mossero con incredibile coraggio e determinazione né sapevano a cosa sarebbero andati incontro (nessuno in Russia aveva idea di cosa ci fosse al di là dell’Ob). 5 Il primo passo della loro lunga marcia verso est fu la conquista dei due khanati sul Volga, Kazan nel 1552 ed Astrakhan nel 1556. Oggi Kazan è una bella, linda, ariosa ed elegante città del tutto russa, ma il suo Cremlino (situato sulla collina che domina la confluenza del fiume Kazan nel Volga) reca le tracce e le testimonianze del suo passato tartaro-islamico: la massiccia torre di Suyumilike sarebbe quella che, secondo la leggenda, l’omonima principessa tartara avrebbe preteso che Ivan le costruisse come condizione per sposarlo ma dalla quale si sarebbe invece suicidata lanciandosi nel vuoto, mentre nel 2005 è stata ricostruita la moschea di Kul Sharif proprio sul posto in cui sorgeva quella che Ivan aveva fatto distruggere. Non a caso la regione di cui Kazan è la capitale si chiama Tatarstan. I Dopo la conquista di Kazan e di Astrakhan il khanato della Sibir occidentale si trovò improvvisamente esposto e minacciato così che il suo principe Yediger nel 1555 preferì accettare la sovranità di Ivan il Terribile e pagargli il (solito) tributo: nel 1563 egli fu però deposto da Kuchum che islamizzò le tribù ancora pagane, rifiutò di pagare il tributo a Mosca ed attaccò gli Ostyaks di Perm (subito a ovest degli Urali) che avevano riconosciuto la sovranità dei russi. A questo punto la guerra divenne dunque inevitabile. La spedizione militare fu condotta da un esercito di cosacchi (letteralmente ‘ribelli’ o ‘uomini liberi’), bande di avventurosi combattenti, predoni, fuorilegge e mercenari che si erano da tempo stabiliti lungo il Volga, il Dnjepr e il Don: essi erano stati un problema non indifferente anche per i russi che avevano subito le loro razzie non meno dei tartari finchè una grande spedizione russa nel 1577 li aveva attaccati per distruggerli una volta per tutte. Un gruppo di cosacchi comandato da un certo Yermak era però riuscito a scampare all’attacco e ad arrivare a Perm dove era stato accolto con estremo favore ed ingaggiato in funzione anti-tartara: nel 1581 una spedizione cosacca partì così contro Kuchum e il suo khanato. Dopo alterne e complicate vicende (fra cui la conquista della capitale Kashlyk, l’odierna Tobolsk, che valse a Yermak o spropositato titolo di ‘conquistatore della Siberia’) l’impresa si concluse con una ritirata ed un fallimento, ma nel 1586 una nuova spedizione (questa volta russa) attraversò gli Urali, rase al suolo Isker, la capitale tatara del khanato di Sibir ed arrivò al fiume Tura (affluente di sinistra dell’Ob): questa volta non si trattò di un raid (tipico dei cosacchi) ma di un’operazione di conquista vera e propria che comportò la costruzione di tutta una serie di stazioni, forti ed anche città per assicurarsi il possesso definitivo del territorio, la sicurezza dei commerci e una strada sicura per il Volga, gli Urali ed oltre. Tale processo culminò nel 1604 con l’edificazione sulle rive dell’Ob (fino a quel momento il confine orientale del mondo conosciuto) di Tomsk, vero e proprio 6 caposaldo della Russia asiatica e centrale. bastione difensivo contro i nomadi dell’Asia II Ivan il Terribile morì nel 1584 non ancora cinquantaquattrenne: gli successe il figlio Fyodor, minorato mentale e remissivo, e poi il cognato Boris Godunov alla cui morte (1605) l’’età dei torbidi’ raggiunse la sua acme finchè nel 1613 non venne proclamato zar il sedicenne Michele Romanov. Durante questi anni di confuse e sanguinose lotte intestine la marcia verso est comprensibilmente rallentò e a stento vennero contenuti i tentativi di rivolta e di riscossa dei tartari appena conquistati ma in ogni caso nel 1587 i cosacchi – saccheggiata la tartara Sibir – edificarono il primo forte a Tobolsk (alla confluenza del Tobol nell’Irtysh) e, nonostante la popolazione fosse tartara e mussulmana, fu qui che nel 1620 sorse la prima diocesi siberiana (istituita anche allo scopo di disciplinare gli indocili e incontrollabili cosacchi). Nel 1604 era stata intanto fondata Tomsk (sul fiume Tom), ancor oggi rinomata per le sue case di tronchi d’albero dalle finestre ornate da intarsi (anche se case simili si trovano comunque praticamente in tutta la Siberia). Quando a Mosca la situazione interna tornò sotto controllo anche l’avanzata russa riprese infine con rinnovato vigore e procedette al di là dell’Ob, in un territorio allora ancora del tutto sconosciuto. Dall’Ob allo Yenisey E’ abbastanza strano che questo stato di 13 milioni di abitanti (secondo Bobrick, ma per Massie un secolo dopo essi erano invece solo 8) fosse fortemente assolutistico ma con una società feudale, arretrato e semi-barbaro ma convinto di essere il portatore della civiltà e del vero Cristianesimo, e, soprattutto, estesissimo ma con una forte spinta alla sempre ulteriore espansione - ma questa fu per secoli la sua storia. I russi avanzavano in Siberia prendendo possesso delle principali vie di comunicazione e di trasporto delle merci e in ogni posizione strategica essi costruivano forti e fortini dai quali comandavano il territorio e imponevano tributi alle popolazioni che in genere avevano facilmente sottomesso: anche se nel basso Yenisey essi incontrarono la dura resistenza dei tungus e intorno al lago Baikal (ancora più a sud) dei buryati, ciò non impedì loro di fondare Yeniseysk (1619), Krasnoyarsk (1627) e Bratsk (1631) sull’Angarà (affluente di destra dello Yenisey dal lago Baikal). Sull’alto Yenisey le tribù nomadi kirghize e calmucche (i mongoli occidentali dei monti Altai e del Sinkiang nord-occidentale) opposero tutta la resistenza di cui furono capaci, ma non riuscirono a fermare gli inesorabili conquistatori: oltretutto, i russi erano già arrivati sullo Yanisey anche da nord, via mare, sulla nuova rotta da 7 Arkhangelsk fino a Mangazeya, la ‘favolosa città polare’ situata sulle rive del Turukhan, affluente sinistro dello Yenisey, 1.500 km. a nord di Krasnoyarsk. A Mangazeya non arrivavano solo le pelli e le pellicce siberiane ma anche seta, porcellana e raffinati tessuti dall’Asia centrale e dalla Cina, tutte merci che fecero della città una ‘virtuale Baghdad della Siberia’: la sua ricchezza fu tale che suscitò sia la paura che i mercanti europei potessero arrivarci direttamente, sia l’invidia dei mercanti russi che per giungerci dovevano attraversare gli Urali. Fu così che nel 1619 l’accesso dal mare venne interrotto (!) e la città lasciata declinare finchè nel 1643 il suo apparato amministrativo venne trasferito nella vicina Turukhansk (che però a sua volta nel 1678 venne distrutta e bruciata (!) e quel che ne restò finì ‘ingoiato dalla tundra’). Per il momento nel nord della Siberia le difficoltà risultarono insomma insormontabili ma tutto ciò non fermò certo, anzi accelerò, la marcia dei pionieri che procedevano a sud (via terra e lungo i numerosi e continui affluenti) senza soste o interruzioni. Dallo Yenisey alla Lena Nell’ambito della continua avanzata a est, gli affluenti di sinistra della Lena furono facilmente raggiunti a partire da quelli di destra dello Yanisey: il cosacco Pyotr Beketov fu appositamente inviato dallo zar per conquistare il nuovo grande fiume ed egli nel 1632 fondò Yakutsk (sul corso centrale della Lena), dal 1638 capoluogo della regione, Zhigansk (600 km. più a nord sulla confluenza della Nuora), Amginsk (più a sud sull’Amga), Vilyuysk (sul Vilyuy, altro affluente della Lena) e infine nel 1635 Olekminsk (sulla confluenza dell’Olekma nella Lena). E’ evidente come l’avanzata russa in Siberia si fondasse sulle vie d’acqua che, uniche, potevano permettere gli spostamenti e il trasporto delle merci in quelle sconfinate ed impervie regioni (la Lena scorre a 4mila km. dagli Urali): in genere erano i cosacchi che avanzavano ed aprivano le strade mentre gli uomini dello stato russo li seguivano e costruivano forti e fortini. Nel 1648 il cosacco Kurbat Ivanov arrivò al lago Baikal risalendo l’Angarà e Ivan Pokhabov giunse fino al confine con la Mongolia: attorno al Baikal vennero eretti forti – Verkholensk (1641), Verkhneangarsk (1646), Verkhneudinsk (1648) e soprattutto Irkutsk nel 1652. Dalla Lena al Pacifico Le resistenze dei buryati e degli altri nativi vennero vinte e superate e l’autorità dello zar affermata mentre l’avanzata di fiume in fiume (Selenga, Ingoda, Shilka) non conosceva soste e sulle due rive del Nercha venivano fondate Irgensk (1652) e Nerchinsk (1653): sfruttando soprattutto il fitto sistema degli affluenti dei grandi fiumi che ‘quasi si collegavano come … rami di una fila di alberi’, cosacchi e russi 8 procedevano in tutte le direzioni e già nel 1639 una spedizione russa comandata da Ivan Moskvitin giunse sulle rive del mare di Okhtosk, cioè sul Pacifico. Gli europei erano arrivati sulle rive del grande oceano anche da ovest dopo che oltre un secolo prima altri europei c’erano arrivati da est. Mentre spedizioni navali percorrevano l’Artico partendo da Arkhangelsk, cosacchi e russi arrivarono sulle sue rive anche da sud seguendo il corso dei fiumi principali. Anche se in genere gli ardimentosissimi esploratori russi e cosacchi soccombevano alle tremende difficoltà dell’ambiente ed all’ostilità dei nativi, nel 1642 il cosacco Yelisey Buza tornò dopo un viaggio di cinque anni (!) durante il quale aveva scoperto tre nuovi grandi fiumi; Dezhnev scoprì le due isole Diomede nello stretto di Bering; nel 1644 Mikhail Stadukhin scoprì il Kolyma e fondò Srednekolymsk alla sua foce; salpato dalla Kolyma Dezhdev fu il primo a circumnavigare il capo nordorientale dell’Asia e a navigare quindi nello stretto di Bering e Mikhail Stadukhin (ignaro di tale spedizione) arrivò per la stessa rotta fino al mare di Okhotsk. Naturalmente tutte le imbarcazioni venivano costruite direttamente sul posto. Le imprese e le avventure di questi intrepidi esploratori, navigatori e scopritori non hanno nulla da invidiare a quelle che nel secolo precedente erano state compiute dagli europei occidentali, eppure i loro nomi sono completamente sconosciuti e le loro gesta del tutto trascurate: essi non hanno colpito l’immaginazione dei posteri nonostante la grandiosità delle sfide affrontate, l’importanza dei risultati conseguiti e che la rapidissima conquista della Siberia sia stata un’impresa tanto epica e grandiosa quanto terribile e difficile, affrontata e portata avanti in un clima micidiale e ancor oggi proibitivo. Pelli e pellicce Come nei loro fantastici viaggi di esplorazione e nelle loro incredibili conquiste gli europei occidentali erano stati spinti dalla ricerca dei metalli preziosi (oro e argento) e delle spezie, così in Siberia (come anche in Canada e negli USA) il propulsore della grande avanzata russa fu il commercio, e soprattutto quello delle pellicce. Da tempo il commercio di pelli e pellicce era una realtà importante perchè le pellicce erano la principale (se non la sola) merce russa di esportazione che da Novgorod arrivava sui mercati dell’Hansa dove veniva scambiata coi prodotti europei. I vasti bacini settentrionali della Dvina e della Pechora avevano assicurato un continuo afflusso in Europa di questo vero e proprio ‘oro soffice’ - che oltretutto nei climi artici era l’unico a poter assicurare e permettere la sopravvivenza stessa - ma, data la crescente richiesta, negli anni Settanta del XVI secolo in Russia i preziosi animali da pelliccia erano stati ormai praticamente sterminati e fu allora che la Siberia emerse in tutta la sua importanza. Dopo che per secoli a sud della Via della Seta era stata percorsa la non meno importante Via dello Zibellino (da Bisanzio all’Estremo Oriente), ora in Siberia si 9 scatenò una vera e propria ‘corsa alla pelliccia’ non meno convulsa delle celebri ‘corse all’oro’ in California o nello Yukon di tre secoli dopo (!). Così come sarebbe avvenuto con l’oro, allo stesso modo in Siberia ci si poteva arricchire nel giro di una sola stagione di caccia (!) ma, così come le miniere si esauriscono, allo stesso modo lo sterminio indiscriminato degli animali da pelliccia portava rapidamente alla loro estinzione in una regione ed alla conseguente ricerca di sempre nuovi territori di caccia nei territori vergini più a est. La conquista della Siberia procedette insomma da un territorio di caccia all’altro quando il primo era stato impoverito dalle indiscriminate, dissennate e controproducenti uccisioni dei preziosi animali: le pellicce più ricercate e pregiate erano quelle degli zibellini e quando alla fine del Seicento questi erano ormai praticamente spariti ci si volse allora alle volpi, sia nere che polari, ai castori, agli ermellini ed agli scoiattoli. Gli esploratori scoprivano le strade, i soldati assicuravano la conquista e i pionieri si stabilivano come agricoltori, ma erano i cacciatori ed i commercianti di pelli e pellicce ad esercitare la pressione decisiva per l’avanzata: immediata conseguenza della conquista di una popolazione indigena erano poi lo ‘yasak’, il tributo in pelli che questa era tenuta a pagare ai nuovi signori (così come l’avevano dovuta pagare ai mongoli), ed il ‘pominki’, il dono volontario (sic) di pelli. Anche in Siberia si replicò il solito copione: le popolazioni locali (spesso nomadi) venivano più o meno facilmente assoggettate e sottomesse proprio allo scopo di ottenere da esse il pagamento dei tributi in pellicce: queste genti erano più numerose dei russi ma erano divise, spesso nemiche fra loro e con una tecnologia nettamente inferiore a quella dei conquistatori le cui armi da fuoco ebbero qui gli stessi effetti che quelle degli spagnoli avevano avuto in America. Anche in Siberia semplici merci ed utensili europei erano poi enormemente apprezzati e scambiati con montagne di pellicce mentre non era raro che la nuova pax russa ponesse fine a lotte e rivalità fra gli indigeni che duravano da tempi lontani. Ben presto la Siberia divenne un campo di sterminio: si passò dalle 20 mila pellicce all’anno negli anni Ottanta del Cinquecento alle 62.400 (ufficialmente) nel 1605 e al mezzo milione trent’anni dopo. Come era avvenuto e stava avvenendo nel Nuovo Mondo, anche in Siberia l’estrazione sociale dei nuovi occupanti era quanto mai varia: cacciatori, esploratori, avventurieri, soldati, volontari, servi fuggitivi, ex-galeotti, commercianti, prigionieri di guerra, cosacchi, truppe di irregolari, contadini, tutti si mescolarono in questa nuova società che si raccoglieva nei forti russi che, costruiti nei punti strategici, a metà Seicento punteggiavano ormai la taiga dagli Urali al Pacifico. Il traffico delle pellicce si svolgeva per vie commerciali semplicemente fantastiche: esse connettevano l’Europa alla Siberia ed all’Asia centrale attraverso Tara (sull’Irtys), Tomsk (sull’Ob), Astrakan, Kazan, Novgorod (sul Volga) fino ad Arkangelsk: la fitta rete di fiumi, affluenti e tributari di cui Russia e Siberia sono così ricche permetteva ai mercanti di percorrere coi loro carichi grandi distanze altrimenti insuperabili esattamente come avevano già scoperto i normanni quando nel IX secolo 10 avevano messo in comunicazione il Baltico col mar Nero (quindi col Mediterraneo) attraverso l’ininterrotto intrico delle numerosissime vie d’acqua. Il Trattato di Nerchinsk La spettacolare avanzata verso est mise infine i russi in diretto contatto coi cinesi. Nella Siberia orientale le difficoltà di approvvigionamento erano serie (nel 1629 la fame aveva spinto la guarnigione di Krasnoyarsk addirittura al cannibalismo!) e le voci delle risorse della valle dell’Amur vennero verificate da una spedizione guidata da Vasily Poyarkov nel 1643 (gli esploratori discesero il fiume Zeya fino all’Amur e, accolti amichevolmente dagli indigeni (i daurs), si abbandonarono presto a violenze e razzie che glieli inimicarono per sempre). Tornato comunque a Yakutsk, Poyarkov giudicò la valle ‘il futuro granaio della Siberia orientale’; una seconda spedizione fece concludere che ‘nell’Amur c’era più pesce che nel Volga’e una terza nel 1650 fondò Achansk (oggi Komsomolsk-onAmur), a 360 km. dall’ansa del fiume che gli fa abbandonare la direzione ovest-est per quella sud-nord. La valle dell’Amur veniva descritta come una sorta di El Dorado ed attirava da tutta la Siberia orientale avventurieri e banditi in cerca di bottino e di facili fortune. I continui arrivi di questi spietati predatori impoverirono terribilmente la regione la cui agricoltura dovette essere praticamente interrotta: la crudeltà e le barbarie perpetrate dai russi ai danni delle popolazioni locali furono così feroci che due secoli dopo erano ancora rappresentate nel folklore popolare come opere di demoni. I nativi chiamarono in aiuto i cinesi, i signori cui pagavano il tributo, e scontri e manovre si alternarono a profonde ritirate delle forze regolari ed a continui arrivi di sempre nuovi razziatori che riempivano i vuoti lasciati. Nel 1665 Nikifor Chernigovski fondò sulla riva sinistra dell’Amur Albazin, una sorta di libera repubblica cosacca che attrasse criminali e fuorilegge cui forniva una base da cui muovere, a cui tornare e in cui sopravvivere, visto che la terra intorno alla città veniva regolarmente coltivata. Mentre per parte loro i russi erano nuovamente impegnati sulla instabile e pericolosa frontiera polacca, nel 1661 morì l’imperatore cinese e durante la minore età del successore, il piccolo K’ang-shi, in Cina scoppiarono rivolte interne che evidentemente ebbero la precedenza sui problemi nella valle dell’Amur dove i russi (e chiunque altro volesse unirsi a loro) poterono dunque sviluppare tranquillamente i loro insediamenti come appendici e parti della Siberia russa: quando però nel 1680 K’ang-shi prese saldamente in mano le redini del governo, subito si mise all’opera per risolvere una volta per tutte la situazione. I cinesi procedettero con ordine e metodo: costruirono forti, granai, un porto e scavarono perfino un canale (!) per isolare, circondare e privare Albazin di ogni collegamento esterno finchè il 23 maggio 1685 iniziarono il vero e proprio assedio. 11 I russi non ebbero via di scampo e dopo convulse vicende il solo il 3 novembre 1686, in vista dell’apertura di seri negoziati, l’assedio venne tolto quando ad Albazin erano rimaste vive solo 66 persone. I La necessità di frenare la violenza devastatrice dei russi e di riportare l’ordine nell’intera vallata si sommò comunque ad altri - e reciproci - interessi. Innanzitutto l’offerta di pellicce in Europa stava eccedendo la domanda mentre - quel che per i russi era ancor peggio - dal Canada era arrivata la temibile concorrenza delle pellicce di castoro: tutto al contrario, in Cina c’era invece un’enorme richiesta di pellicce (e nessuna concorrenza canadese). Insomma, se i cinesi volevano sicuramente avere il controllo della valle dell’Amur, erano però anche fortemente interessati a stringere rapporti commerciali coi nuovi arrivati che per parte loro non chiedevano altro. In secondo luogo, mentre colloqui e trattative procedevano, fra i due litiganti apparve sulla scena un terzo protagonista, i mongoli. I mongoli erano allora quella che oggi verrebbe chiamata una potenza regionale: alleati-soggetti ai cinesi, anch’essi erano minacciati dai russi sui loro confini ma, desiderosi di riguadagnare completamente la propria indipendenza, nel 1688 sotto la guida di Galdan si erano proclamati padroni grossomodo dell’attuale Mongolia Esterna (o semplicemente Mongolia) e pronti anche alla guerra contro la Cina. Oltre che da interessi commerciali complementari, ora russi e cinesi ora erano uniti anche dal comune nemico mongolo che l’anno seguente si impadronì (o ri-impadronì) praticamente di tutta la Mongolia - e ciò contribuì a spingere definitivamente russi e cinesi all’accordo. Le trattative (condotte in latino da russi colti e interpreti gesuiti per i cinesi!) si conclusero il 27 agosto 1689 col Trattato di Nerchinsk, il primo mai firmato fra la Cina e una nazione europea: il confine fra i due imperi venne fatto partire dal fiume Argun (ramo sorgentifero destro dell’Amur) e continuare lungo il crinale delle montagne Stanovoy fino al mare di Okhtosk, dunque a centinaia di km. a nord dell’Amur; i russi mantennero Nerchinsk (sufficientemente lontana dalla Manciuria) ma dovettero abbandonare Albazin che venne rasa al suolo. II A Nerchinsk i russi videro riconosciuta per la prima volta la loro conquista della Siberia - lago Baikal (e buryati) compreso - in modo che quella che in fondo fino a quel momento era stata un’avventura ora diveniva fatto compiuto e riconosciuto dall’unica altra potenza interessata: la Russia diveniva ufficialmente il Paese che è ancora, con la testa (e il cuore) in Europa (di cui è l’estremità orientale non solo geografica) ma il corpo largamente in Asia. Il Trattato di Nerchinsk ufficializzò la posizione della Russia a cavallo di due continenti, dal Baltico al Pacifico e dall’Artico ai deserti centroasiatici: nei suoi 12 immensi confini si trovarono riuniti insieme popoli di etnie e di culture profondamente differenti ma che da allora condividono lo stesso destino. Il Trattato di Nerchinsk segna insomma un momento molto importante sia della storia dell’Europa che di quella dell’Asia e la sua rilevanza è ulteriormente confermata dal fatto che rimase in vigore per 170 anni assicurando la pace fra Russia e Cina. La Russia perse comunque l’Amur e con esso la via più semplice, diretta e importante al Pacifico, ma dal 1689 gli zar poterono star tranquilli sull’immenso oriente siberiano perché il suo assetto era stato definitivamente concordato e stabilito. Per parte sua, la Cina ebbe le mani libere contro i mongoli, una parte dei quali (i buryati) ora era oltretutto suddita dello zar, e la divisione di questo popolo non poteva che favorire la volontà di Pechino di spezzarne una volta per sempre l’aggressività. III Il successivo trattato commerciale con la Cina aprì poi alla Russia i ricchi mercati di cui avevano grande bisogno le casse del suo Tesoro mentre, oltretutto, i cinesi non chiedevano pellicce di zibellino (il cui numero stava pericolosamente declinando) quanto di ermellino, di volpe artica e soprattutto di scoiattolo, di cui nella Siberia orientale c’era grande abbondanza. E non basta ancora, perché con la pace la Russia divenne il principale collegamento fra Europa e Cina e dunque la massima fornitrice della seta, tanto richiesta nella prima e principale prodotto di esportazione della seconda. Negli anni seguenti il commercio non fece dunque che crescere facendo di Nerchinsk il punto di maggior transito dei prodotti e di Irkutsk il principale emporio delle pellicce di tutta la Siberia orientale. Kamchatka, l’ultima conquista La rinuncia alla valle dell’Amur fece ora concentrare gli sforzi della Russia verso la conquista dell’ultimo lembo (in realtà grande quanto l’Italia) nord-orientale di Siberia non ancora assoggettato, la penisola di Kamchatka (che si pensava fosse un’isola!). Anche se, stabiliti ad Anadyrsk (a nord), da molti anni i cosacchi avevano imposto la yasak agli allevatori di renne del sud, l’acquisizione vera e propria della penisola venne però decisa nel 1695, quando il cosacco Vladimir Atlasov fu nominato comandante della regione: due anni dopo la spedizione russa partì e i nativi, che sui loro sci e sulle loro slitte trainate da cani tentavano di resistere con le armi primitive di cui disponevano, venivano massacrati con le loro famiglie e i loro villaggi rasi al suolo. Per garantire il controllo della penisola, che appariva ricca di pellicce e adatta alla coltivazione, venne fondata Verkhnekamchatsk sul fiume Kamchatka e poi Bolsheretsk (1703) sul Bolshaya, ma la resistenza dei nativi continuava indomita (anche se alcune tribù aiutarono i russi contro altre tribù loro nemiche) e le feroci 13 rappresaglie e le violenze di ogni genere operate dai cosacchi non riuscivano a domare i tenaci indigeni che nel 1706 incendiarono addirittura Bolsheretsk. Atlasov fu allora richiamato e gli venne concessa carta bianca: quel che avvenne poi fu vera e propria macelleria ma, nonostante la fondazione di Nizhnekamchatsk (1711) alla foce del Kamchatka, la resistenza delle popolazioni locali potè essere schiacciata solo quattro anni dopo a causa di una grave epidemia di vaiolo che infierì su di esse. Anche in questo caso dunque le disgraziatissime genti che si trovarono sulla strada dei conquistatori bianchi andarono incontro ad un destino terribile in cui la crudeltà degli uomini si fuse con le epidemie: nel 1731 una nuova ribellione capeggiata da Fyodor Kharchin finì in un’ulteriore strage perpetrata dai cosacchi la cui ferocia era tale che ci furono addirittura suicidi di massa pur di non cadere vivi nelle loro mani. Il governo della penisola venne comunque trasferito nella più vicina Okhotsk, mentre nell’estremo lembo nordorientale anche la sottomissione della penisola di Chukchi incontrava serissime difficoltà nonostante le battaglie vinte. A sud i russi erano intanto arrivati nelle Kurili dove avevano trovato pregiate merci provenienti dal Giappone (Paese che essi non riuscivano nemmeno a localizzare sulla carta geografica!). Una strana conquista Così come gli europei occidentali che avevano conquistato l’America, anche i cosacchi e i russi che conquistarono la Siberia furono pochissimi in rapporto all’enormità delle aree che sottomisero e l’assoluta eccezionalità della loro impresa risulta ulteriormente accresciuta dalle difficoltà che affrontarono, dai pericoli che corsero e dagli ostacoli che superarono: le smisurate dimensioni della Siberia li costrinsero a percorrere ogni volta distanze misurabili in migliaia di km. addentrandosi sempre più in smisurati territori sconosciuti, selvaggi, dagli inverni spaventosamente gelidi e dalle interminabili notti polari a nord. A sud i mongoli e i nomadi turchi (calmucchi e kirghizi) furono gli unici popoli relativamente numerosi e con una certa capacità guerriera che cosacchi e russi incontrarono e dovettero così organizzare una linea difensiva lungo tutto il bordo meridionale delle loro conquiste siberiane. Eppure, come si è già detto, questa Russia che si lanciò nella conquista di un territorio tanto smisurato non solo era il più arretrato degli stati europei ma, oltre a ciò, per tutto il Seicento (ed oltre) condusse continue altre guerre (contro gli svedesi per il Baltico e contro polacchi e turchi per l’Ucraina) e, come se tutto questo non bastasse, fu allo stesso tempo squassata da rivolte interne anche di vaste dimensioni (come quella di Stenka Razin nel 1670-71) dovute all’aumento delle tasse ed al costante peggioramento delle condizioni di vita dei contadini, sempre più asserviti alla gleba. Non può dunque stupire che la società russa fosse oltremodo barbara e violenta né che il governo potesse dedicarsi molto poco alla Siberia ed al suo sviluppo. 14 Il servizio stesso in Siberia era molto duro sia per le condizioni oggettivamente sfavorevoli in cui veniva esercitato (come le enormi distanze, l’inclemenza del clima, la primitività degli insediamenti, la scarsità di moltissime merci e la mancanza di qualsiasi agio e comodità), sia per i sistemi davvero violenti con cui la disciplina era mantenuta e che facilmente potevano sfociare in atti di vero e proprio gratuito sadismo: l’impossibilità che governatori e comandanti locali venissero controllati e la situazione di abbandono in cui la Siberia giaceva contribuivano poi a far dilagare la corruzione ad ogni livello della scala gerarchica con gli sfortunati nativi a pagare i conti finali per tutti. Come si poteva ottenere giustizia se un corriere impiegava almeno due anni per andare e tornare da Yakutsk a Mosca? Come stupirsi se le popolazioni tentavano di fuggire (a nord, in Mongolia o sull’Amur, a seconda dell’etnia)? Per parte sua, solo inizialmente la Chiesa fu favorita dal governo in quanto giudicata portatrice di ordine e civiltà: ben presto a Mosca si temette infatti che essa stesse acquisendo troppa terra, troppo potere o comunque troppa influenza, così venne limitata e posta anch’essa sotto controllo (soprattutto ad opera di Pietro il Grande) anche perché, dato che solo i non-cristiani erano tenuti al pagamento della yasak, non era conveniente che gli indigeni si convertissero (!). Il quadro della Russia del Seicento che emerge è insomma davvero strano e contraddittorio, come anche quello della conquista della Siberia: vi campeggia un popolo sempre alla ricerca dell’espansione nonostante la vastità del proprio stato e la necessità di ammodernarlo; una società tanto vitale quanto violenta, sempre eccessiva nelle sue manifestazioni ma capace di dominare uno scenario gigantesco; una barbarie forse paragonabile a quella delle orde mongole ma contemporaneamente anche l’avanzamento e l’allargamento della civiltà europea in Asia. Fin dalla sua nascita insomma la Russia ha sempre guardato fuori anziché dentro se stessa ed ha sempre cercato di affermarsi nel mondo grazie all’allargamento dei suoi confini piuttosto che per i risultati e gli sviluppi ottenuti al loro interno. La nuova società siberiana L’incontro del mondo europeo con quello siberiano fu inevitabilmente distruttivo di quest’ultimo, ma meno di quello che era stato, ed era ancora, quello cogli indiani d’America: nei riguardi delle genti siberiane cosacchi e russi si comportarono comunque in modo piuttosto vario e contraddittorio. Da una parte infatti, come tutti gli europei fuori dall’Europa, anche russi e cosacchi si ritennero i portatori del progresso e della civiltà a genti barbare e primitive e ciò li portò a sottovalutare l’ingegnosità e la capacità di queste popolazioni di sopravvivere in ambienti tanto proibitivi, di saper sfruttare in modo ottimale le (scarse) risorse a loro disposizione e di utilizzare mirabilmente ogni parte degli animali che catturavano con grande abilità ed inventiva (soprattutto le balene e gli orsi). 15 Anche la cultura e la religiosità dei popoli siberiani venivano facilmente derise e disprezzate (quando pure erano comprese) mentre invece il loro panteismo e il loro sciamanismo erano in grado di esprimere un rapporto profondo e vitale con la natura ed illustrato da una ricca mitologia: i nativi siberiani non conoscevano la lingua scritta ma – come quella degli antichi greci – la loro tradizione orale era vasta ed articolata. D’altra parte però se in Siberia i nativi in caso di guerra o di resistenza venivano sterminati dalle armi dei conquistatori ben più letali delle loro; dovevano pagare la yasak; venivano impiegati a forza nei lavori necessari ai nuovi insediamenti; vedevano insidiate e strappate via le loro riserve di pesca e di caccia mentre le nuove malattie dei bianchi, contro le quali non avevano difese immunitarie, aprivano vuoti paurosi nelle loro fila; è anche vero che in qualche modo essi vennero soprattutto assimilati ed inseriti nel nuovo stato in cui dovettero entrare a far parte - e questo fu un evento molto importante e sicuramente inevitabile. In teoria infatti i primi conquistatori che si avventurarono nei luoghi tanto reconditi e semidesertici della Siberia sarebbero dovuti dipendere dagli approvvigionamenti (grano soprattutto) che sarebbero dovuti arrivare dall’altra parte degli Urali (!) ma naturalmente più le distanze aumentavano, più difficili, lunghi e complicati erano i trasporti: basta pensare che perché i rifornimenti arrivassero nella Siberia orientale ci volevano addirittura tre anni, cinque nella Kamchatka, mentre alcune aree erano semplicemente irraggiungibili. I conquistatori dovettero insomma sopravvivere colle risorse locali e così costrinsero ed anche incoraggiarono i nativi a diventare coltivatori ma, oltre a ciò, fin da subito dovettero imparare dagli indigeni stessi a sopravvivere in ambienti tanto ostili e diversi da quelli cui erano abituati e ad adottare i loro sistemi, lo loro tecniche ed i loro ritrovati. Col tempo tuttavia il contatto con la civiltà russa (europea) coi suoi mezzi e con la sua tecnologia di per sé comportò per i nativi la perdita progressiva delle abilità e delle capacità di sfruttamento tradizionale delle risorse locali, tanto che piano piano furono proprio gli indigeni a dipendere dai russi per il loro stesso sostentamento (!). La scarsità delle donne russe portò infine al rapimento di quelle locali, ma anche al loro acquisto ed alla loro condivisione dato che in materia di sesso numerosi popoli siberiani erano di vedute aperte o apertissime: veri e propri harem, prostituzione e sesso libero erano comuni in Siberia insieme a comportamenti che in Russia sarebbero stato considerati depravazione e scandalo. I Cosacchi e russi cercarono di rendere la Siberia autosufficiente con ogni mezzo, con la costruzione di magazzini, l’assegnazione di terra a chiunque la volesse coltivare (coloni, nativi, servitori, contadini della corona, prigionieri di guerra, carcerati, fuggitivi dalla Russia per motivi religiosi o per scampare all’oppressione, ecc.) e con la pronta concessione di prestiti e garanzie: negli anni Venti del XVII la Siberia cominciò così a popolarsi, a mantenersi da sola e a sviluppare una propria agricoltura 16 con coloni che, come i loro colleghi in America, anche se rischiavano una freccia nella schiena (da parte dei tartari invece che degli indiani) e dovevano sopportare tutte le privazioni della frontiera e i terribili rigori del clima, erano però finalmente padroni della terra che lavoravano. Negli anni Quaranta il distretto di Yeniseysk cominciò ad esportare e dal 1685 la Russia mandò sempre meno ed anzi cominciò a ricevere sempre più. Presto la Siberia iniziò poi ad aprire i suoi inesauribili forzieri di materie prime: rame, argento, mica, sale, zolfo, salnitro (dunque polvere da sparo) si affiancarono alle pellicce e al grano nel far fiorire l’economia così che la popolazione russa dai 70mila del 1662 passò agli oltre 300mila della fine del secolo. In Siberia non c’erano boiari e nobili latifondisti (a parte qualche discendente di famiglie impoverite) e la società era molto più libera, semplice ed aperta anche se la vita era davvero dura. II Nelle regioni periferiche meridionali della Siberia lungo il confine mongolo ancora oggi si trovano comunque popolazioni indigene: è il caso della stepposa regione di Tuva (capitale Kyrzil) la cui gente è largamente buryata (mongola) e in cui sono molto frequenti, annodati a rami di alberi o impalcature di legno, i mille fazzoletti multicolori contenenti preghiere o ex-voto secondo il tipico costume buddhista; qui sono stati ricostruiti i templi buddhisti, i volti dei caduti nella Grande Guerra Patriottica hanno tutti i lineamenti mongoli e, insomma, si è fuori dell’Europa. Anche a Irkutsk s’incontra una certa presenza buryata, così come lungo la costa meridionale del lago Baikal, mentre nella adiacente Buryazia (capitale Ulan Ude) essi ammontano a un quarto della popolazione complessiva. Ancora più a est, ai confini con la Cina, città come Khabarovsk e Vladivostok sono invece interamente e in tutto e per tutto europee – il che potrebbe sembrare strano se si dimenticasse che fino ai primi anni Novanta del secolo scorso queste città (e non solo, basta pensare a Ekaterinburg) erano centri industriali e soprattutto basi militari l’accesso alle quali era rigorosamente vietato: vi si poteva entrare solo forniti di speciali permessi, mentre stranieri e turisti non potevano metterci piede. Passaggio a Nord-Est Quando alla fine del Seicento Pietro I divenne zar la Siberia era già stata dunque virtualmente conquistata ma certamente solo minimamente colonizzata: date le sue dimensioni essa era ancora largamente sconosciuta persino dal punto di vista geografico, ma Pietro (cui sarebbe stato attribuito il titolo di Grande) aveva grandi progetti anche per questa immensa parte del suo impero. Innanzitutto, nell’ambito di una completa riorganizzazione la Russia era stata divisa in otto province e la Siberia era una di queste con capitale Tobolsk (alla confluenza del Tobol con l’Irtys a sud-ovest degli Urali): in secondo luogo, impegnatissimo nella 17 sua ambiziosa ma costosa politica di occidentalizzazione e di ammodernamento del Paese, e specialmente nella seconda guerra del nord contro gli svedesi per l’accesso al Baltico, nel poco tempo ed attenzione che potè dedicare alla Siberia Pietro volle sfruttarne al meglio le risorse ma, soprattutto, innamorato com’era del mare, concepì arditi progetti di navigazione che dimostrano ancora una volta la grandiosità delle sue vedute. La conquista della Kamchatka aveva fornito nuovi territori per la caccia agli animali da pelliccia, ma era necessario giungervi in modo relativamente più rapido: nel 1716 Kuzma Sokolov riuscì così ad aprire la rotta marittima da Okhotsk fino alla costa nord-occidentale della Kamchatka stessa, rotta che faceva risparmiare mesi di viaggio via terra (!). Mentre altri progetti dovettero essere trascurati per mancanza di mezzi, Pietro riuscì però a portare avanti i più rivoluzionari ed ambiziosi: scoprire se 1) Asia ed America erano unite e 2) esisteva un passaggio a nord-est verso l’Asia. I Fin da quando alla fine del XV secolo le rotte oceaniche erano controllate da Spagna e Portogallo, altri Paesi europei (Olanda, Inghilterra, Francia) non solo le avevano insidiate, ma ne avevano cercate anche di alternative, più brevi e più dirette: fu questo il caso del famosissimo passaggio a nord-ovest che era stato lungamente cercato (ovviamente senza successo perché non esisteva) entrando nelle gelide acque del Canada nord-orientale e navigando verso ovest. Facendo affidamento su mappe più o meno fantastiche, si era pensato però anche alla possibilità di trovare un passaggio a nord-est, navigando cioè lungo l’oceano Artico verso est, circumnavigando l’Asia a nord-est, entrando dunque nel Pacifico da nord e discendendolo infine verso sud: dopo gli insuccessi degli inglesi agli ordini di Caboto nel 1553, di Stephen Burrough nel 1556 e di Arthur Pet e di Charles Jackman nel1580, nel 1596 era stata la volta dei danesi ma anch’essi, agli ordini di Willem Barents, avevano fallito miseramente. La conquista russa della Siberia cambiò comprensibilmente l’intera situazione e rese l’impresa molto più sensata e fattibile. Dopo che fin dal 1619 agli stranieri era stato vietato di navigare a est dell’Ob, Pietro cominciò a studiare seriamente il problema che effettivamente apriva scenari grandiosi: era insomma possibile aprire una rotta che riducesse fortemente i tempi di navigazione dall’Europa non solo fino alla Cina ed al Giappone, ma anche all’America (che geografi e studiosi sostenevano fosse vicina se non unita alla Siberia stessa)? Come scrisse un contemporaneo ‘essendo diventata una potenza navale [grazie a Pietro], la Russia per continuare la sua espansione a est non deve più considerare l’oceano una barriera. Altre potenze devono navigare intorno al mondo per raggiungere il Pacifico settentrionale. I russi ci sono già.’ Se costeggiando la Siberia fin quasi a destinazione le flotte avessero potuto collegare in tempi per allora rapidissimi i tre continenti gli sviluppi e i vantaggi per la Russia 18 sarebbero stati inimmaginabili e in questa prospettiva non sembra poi tanto bizzarra la voce secondo cui sul letto di morte Pietro avrebbe indicato ai suoi successori che lo scopo della Russia sarebbe dovuto essere la conquista del mondo (!). E’ impressionante – ma assolutamente tipico della politica russa! - che nella fertile mente dello zar si agitassero pensieri simili mentre la Russia era invasa e messa a ferro e fuoco dai terribili svedesi di Carlo XII ed egli doveva arretrare distruggendo il suo stesso Paese per far terra bruciata di fronte alle truppe nemiche che avanzavano: appena i suoi impegni nella guerra contro gli svedesi glielo permisero Pietro inviò subito spedizioni per esplorare la fattibilità del progetto e la più famosa ed importante (ma non l’unica) fu quella guidata dal danese Vitus Bering il cui ordine finale fu firmato da Pietro il 26 gennaio 1725, soltanto due giorni prima della sua morte (!). II La spedizione di Bering partì nel maggio 1725 e i sopravvissuti fecero ritorno nel 1730 dopo aver affrontato peripezie e avventure di tutti i generi, risolto il problema dei rifornimenti in loco, essersi divisi e poi riuniti più volte, aver costruito imbarcazioni e slitte, navigato fiumi, proceduto con marce forzate, eretto ricoveri per i lunghi e terribili inverni, escogitato ogni sorta di accorgimenti per sopravvivere: raggiunta Okhotsk, avevano trovato che essa consisteva di undici rifugi con dieci famiglie (sic), avevano costruito in qualche modo un’imbarcazione con la quale erano giunti a Bolsheretsk (45 soldati e una trentina di casupole sul delta) sulla costa sudoccidentale della Kamchatka dove avevano dovuto costruire un’altra imbarcazione. Ripreso il mare, finalmente nell’agosto 1728 Bering aveva attraversato lo stretto che avrebbe ricevuto il suo nome (ma a causa della nebbia non aveva potuto vedere la vicina costa americana!), aveva proseguito doppiando la penisola di Chukchi ma, data la mancanza di risorse sulla penisola ed il suo clima proibitivo, era dovuto tornare indietro senza scorgere nemmeno questa volta l’America. Compiute altre esplorazioni, era tornato finalmente a San Pietroburgo nel marzo 1730 riportando che aveva esplorato e mappato le coste della Kamchatka e della Chukchi, trovato lo stretto fra Asia e America senza però poter escludere che potesse esistere un collegamento terrestre fra Asia e America. La Russia aveva fatto un altro grande passo avanti sulla strada della sua espansione che fin dai tempi della sua liberazione dai mongoli aveva inteso come un processo senza fine. La Grande Spedizione del Nord Appena tornato dal suo grande viaggio Bering si diede a sostenere la necessità e l’opportunità di una colonizzazione, di un popolamento e di tutta una serie di miglioramenti e di misure atte a rendere la Siberia veramente autosufficiente ed anzi compartecipe e protagonista dello sviluppo dell’intera Russia di cui ormai faceva parte: per ottenere tutto questo era però necessario intraprendere molti altri viaggi di 19 esplorazione e di conoscenza dell’immenso territorio, scoprire come collegarlo al Giappone e all’America e infine mappare anche tutta la costa lungo l’oceano Artico (con tutti i problemi, le difficoltà e i rischi che affrontare quel clima proibitivo e spaventoso comportava). Ben presto i piani per una seconda e molto più impegnativa spedizione presero forma concreta anche perché favoriti dalla nuova zarina Anna I (1730-40), figlia di Ivan V (il fratellastro minorato di Pietro I, compartecipe al trono fino alla morte nel 1796) e dal ritorno dei riformatori al governo: agiva in questa direzione anche un’altra costante della politica e della mentalità russe, il desiderio e la volontà di stupire e superare l’Europa con grandi imprese e grandi risultati. La Russia continuava ad essere arretrata rispetto ai Paesi europei ma nondimeno incrollabilmente volta all’espansione ed all’ingrandimento, convinta fin dal XV secolo di essere la portatrice di un destino superiore e di una missione nel mondo quale faro di civiltà: per quante conquiste facesse, essa non ne era mai soddisfatta e le intendeva sempre come punto di partenza per ulteriori avanzamenti. Questo aspetto veramente curioso e particolare della Russia costituisce una costante della sua politica (zarista, sovietica e post-sovietica che sia) e tre secoli fa il progetto che venne intrapreso era davvero imponente: fu allestita una piccola flotta per esplorare e mappare la costa artica, se ne previde una per esplorare le Kurili e la rotta per il Giappone, un’altra per l’America, oltre, naturalmente, organizzare l’esplorazione via terra della Siberia stessa. L’Accademia delle Scienze (voluta da Pietro I) fu interamente coinvolta nel progetto di raggiungere una completa ed approfondita conoscenza della Siberia: in un vero trionfo della mentalità illuministica essa fu incaricata di studiare e precisare astronomicamente le posizioni delle varie parti dell’immensa regione di cui doveva anche redigere un completo profilo fisico, botanico, biologico, antropologico, linguistico e storico. Come disse un contemporaneo, la Seconda Spedizione nella Kamchatka (o Grande Spedizione del Nord) fu ‘la più grande mai intrapresa fino a quel momento da un governo europeo per scopi scientifici e di ricerca geografica’ ma in realtà il suo scopo era anche l’‘espansione dell’impero e [la ricerca di] ricchezza inesauribile’ da ottenere tramite la sovranità russa sulla costa asiatica fino al Giappone e su quella americana che non fosse ancora occupata da alcuna potenza europea (!). Mentre una parte del materiale e dell’equipaggiamento venne spedita via mare da Kronstadt ad Okhotsk (circumnavigando Africa e Asia) al fine di risparmiare tempo, la spedizione venne in realtà spezzettata ed articolata in varie parti per l’evidente maggiore mobilità che così si otteneva: posta sotto la direzione generale di Bering e dei suoi numerosi aiutanti e collaboratori, essa si compose complessivamente di 3mila uomini (600 dei quali dell’Accademia!) e venne dotata di ingenti rifornimenti e di materiale di ogni genere e in abbondanza. Il suo primo contingente (navale) partì per la grande avventura il 1 febbraio 1733. 20 I In questa sede non avrebbe molto senso ripercorrere anche per sommi capi le avventure, i disagi, i contrattempi, gli errori, le difficoltà, le sofferenze, le malattie (soprattutto scorbuto e sifilide), gli incidenti, l’eroismo che gli intrepidi esploratori vissero ed affrontarono sfidando un clima pauroso e dimostrando capacità, inventiva, tenacia, coraggio e soprattutto una ferrea volontà ed un’inflessibile dedizione alla missione intrapresa: ci si dovrà così accontentare di precisare i risultati che conseguì. Innanzitutto i piccolissimi porti (come Okhotsk) e centri cominciarono a popolarsi grazie all’arrivo di contadini ed artigiani e ne nacquero di nuovi (come Petropavlosk sulla costa sud-orientale della Kamchatka nel 1740); le Kurili vennero esplorate e mappate; fu scoperta e aperta (da Spanberg) la rotta per il Giappone: il 22 giugno 1739 si verificò il primo contatto amichevole e commerciale coi giapponesi (ma Walton rivendicò di essere arrivato per primo su quelle coste); la mappatura della costa artica proseguì di successo in successo; il 15 luglio 1741 Chirikov scoprì l’Alaska e, senza che l’uno sapesse dell’altro, il 16 luglio 1741 Bering ci arrivò a sua volta, ma morì sessantenne di malattia e consunzione l’8 dicembre sull’isola che porta il suo nome nel mare ugualmente omonimo su cui la sua imbarcazione aveva fatto naufragio; Steller tenne un eccezionale giornale di viaggio e raccolse informazioni, osservazioni e studi di enorme importanza come quelli sulla ‘mucca di mare’, una sorta di grandissimo erbivoro mammifero oggi estinto che viveva in acqua e rassomigliava ad un’enorme foca: imparentato con l’elefante, poteva raggiungere la lunghezza di 9 metri e il peso di 3-4 tonnellate, ma era estremamente impacciato e vulnerabile; Gmelin viaggiò in Siberia per decine di migliaia di km. e scoprì e classificò 1.178 nuove piante suscitando la grande ammirazione di Linneo; anche Muller percorse decine di migliaia di km., studiò lingue e culture di numerose tribù e soprattutto scrisse la prima storia della Siberia: venne così considerato lo ‘storico dell’impero russo’ e i posteri l’avrebbero riconosciuto ‘padre della storia della Siberia’. Nel 1744 la spedizione si poteva considerare ormai conclusa ma su tutti i suoi risultati e scoperte venne imposto il più rigoroso segreto per impedire che altre potenze europee ne potessero approfittare, né questa era una novità: i risultati delle esplorazioni dei nuovi mondi e delle nuove terre erano sempre stati avvolti nel silenzio e per esempio i diari dei capitani erano dei veri e propri tesori da tenere sempre celati e da conservare gelosamente perché contenevano informazioni preziose per ogni stato o navigatore che volesse allargare i confini dei suoi domini. La spedizione fu un grande successo perché prima delle sue scoperte e dei suoi ritrovamenti sulla Siberia – anche se era stata appena conquistata! - si sapeva molto poco da ogni punto di vista e infine con essa era veramente cominciata la colonizzazione dell’estremo oriente siberiano. Ancora una volta però – come sempre – questo grande passo avanti fu propedeutico al seguente che seguì immediatamente in questa fantastica corsa della Russia per il dominio dei continenti attraverso inglobamenti successivi. 21 L’America russa Solo due anni dopo il ritorno della spedizione di Bering le notizie dell’abbondanza di volpi azzurre, di foche e soprattutto di lontre marine presenti in grande quantità sulla settantina di isole stese ad arco per oltre 1.600 km. fra Asia ed America (le Aleutine) ebbero lo stesso effetto che avevano avuto gli zibellini nella prima fase della conquista della Siberia: attrassero infatti cacciatori ed avventurieri in così grande numero che fra il 1743 e il 1764 solo dalla Kamchatka partirono ben quarantadue spedizioni con i (soliti) cosacchi in testa. Lo slancio dei russi verso est continuò dunque coll’attraversamento del Pacifico: seppur spoglie ed inospitali dal punto di vista faunistico, le Aleutine erano però ricche di animali terrestri e marini (oltre a quelli già accennati, c’erano in grande quantità orsi, lupi, castori, martore, leoni marini, delfini e balene) da cui era sempre dipesa l’ingegnosissima sopravvivenza dei circa 25mila indigeni, esperti soprattutto del mare che navigavano sui loro impermeabili kayak. Sulle Aleutine cosacchi e russi ripeterono subito le tristissime atrocità e l’ignobile sfruttamento degli indigeni che avevano già praticato durante la conquista della Siberia: accolti amichevolmente dagli aleuti, essi infatti si comportarono immediatamente con la consueta brutalità sia sugli uomini che sugli animali che presero a sterminare inconsultamente. Inutili furono i disperati tentativi degli aleuti di difendersi e di reagire mentre i loro eventuali successi erano pagati a carissimo prezzo per le (solite) furiose e selvagge rappresaglie che non risparmiavano né donne né bambini. La frontiera è sempre stato un luogo in cui non può non regnare la violenza perchè attrae gli elementi più spregiudicati, disperati, avidi ed avventurosi, pronti ad affrontare difficoltà terribili e a rischiare costantemente la vita e attratti dalla possibilità di accumulare fortune anche ingenti in poco tempo: si tratta di uomini decisi e disposti a tutto che hanno (e non possono non avere) le mani libere, data la difficoltà ed anche l’inopportunità di controllarli e di sottoporli all’imperio della legge. Nella fattispecie, il governatore della Siberia risiedeva infatti a Tobolsk e il suo vice nella Siberia orientale (a Irkutsk) affidava la giurisdizione del nord-est al funzionario che stava a Yakutsk e che a sua volta lasciava la gestione della costa e della Kamchatka a quello a Okhotsk: come se tutto ciò non bastasse, la mancanza di popolazione e le distanze erano enormi, gli inverni rigidissimi e la corruzione endemica. All’inizio dell’Ottocento gli aleuti - che fino all’arrivo dei russi erano sempre vissuti liberi e solidali fra loro - si erano ridotti a 1/5 del loro numero originario (e molti erano ormai di sangue misto), diventati talmente docili ed apatici che anche la loro conversione al Cristianesimo era di fatto senza significato. Mentre le malattie veneree (soprattutto la sifilide) avevano sempre imperversato su tutti i gruppi di nativi, trent’anni dopo una nuova epidemia di vaiolo li avrebbe infine praticamente cancellati dalla faccia della Terra. 22 I Le Aleutine erano vivamente sfruttate anche perché l’estremo nord-est della Siberia veniva invece progressivamente abbandonato a causa della mancanza di metalli preziosi, della resistenza dei nativi (soprattutto dei chulkchi, mentre i kamchadali si suicidavano in sempre maggior numero) e dell’impraticabilità del passaggio a nordest per scopi commerciali. Data comunque la progressiva distruzione degli animali da pelliccia, cosacchi e russi – sempre in movimento! - passavano (e dovevano passare) da un’isola all’altra finchè nel 1763 sbarcarono, primi uomini bianchi, in Alaska. Proprio allora la morte della zarina Elisabetta (1741-62) e la pronta ed opportuna eliminazione dello zar Pietro III avevano portato sul trono Caterina II (1762-96) che sarebbe stata chiamata Grande e che infatti ebbe fin da subito grandi progetti anche a proposito dei nuovi domini americani. Caterina II è oggi ricordata soprattutto per le ampie acquisizioni territoriali ottenute con le tre spartizioni della Polonia (1772, 1793, 1795), con la sconfitta dei turchi e con l’arrivo sulle coste settentrionali del mar Nero (cioè con la conquista dell’Ucraina e della Crimea terminata nel 1783), ma per la nuova zarina era necessario porre su basi sicure anche le recenti conquiste ed occupazioni nel Pacifico settentrionale, consolidarvi il dominio russo, cartografare correttamente il territorio, stabilirne le risorse e mettere ordine nel commercio delle pellicce. Un’apposita spedizione navale, nonostante alcuni (soliti ed inevitabili) rovesci, riuscì così a raccogliere materiale per una mappatura dell’intera regione ed a stabilire definitivamente che l’America iniziava subito al di là della penisola di Chukchi. II L’85% delle esportazioni russe nell’ambito e promettente mercato cinese erano le ricercatissime pellicce di lontra marina con le quali i mercanti russi realizzavano profitti enormi dato che in cambio di esse importavano seta, gemme, oro, argento, avorio, porcellana e tè in quantità tali che negli anni Ottanta riempivano 10mila carretti all’anno (!!!), ma in America le cose non erano così semplici come in Siberia: era vero che i russi erano arrivati per primi nel Pacifico settentrionale, ma la loro posizione in quell’area era tutt’altro che definita perché gli spagnoli stavano puntando verso di essa da sud e gli inglesi da est (dal Canada) nè servì a molto che per attutire l’impatto della presenza russa nelle Aleutine e sulla costa dell’Alaska Caterina II operò sempre per interposta persona (ed i suoi successori avrebbero sempre continuato a farlo), sostenendo cioè compagnie (protette e garantite) di mercanti russi (anche se comunque non mancò di rafforzare Petropavlovsk e Okhotsk). Il problema si complicò presto quando, grazie all’ultimo viaggio di Cook, anche gli inglesi arrivarono nel Pacifico settentrionale via mare e, peggio ancora, quando scoprirono quanto i cinesi erano disposti a pagare per le pellicce di lontra marina: i mercanti inglesi cominciarono così ad affluire sempre più numerosi nell’area e la risposta russa fu di aumentare le proprie strutture difensive e di prendere 23 ufficialmente possesso (tramite la loro Compagnia commerciale) non solo dell’Alaska ma anche delle Kurili. Nei secondi anni Ottanta giunsero infine anche qualche francese e gli americani ma, cacciate indiscriminatamente, le lontre marine stavano sparendo dalle Aleutine e le mucche di mare, grande fonte di sostentamento, si erano anch’esse ormai estinte: l’arcipelago rimaneva in ogni caso molto appetibile perché vi erano ancora attivamente cacciati anche castori, volpi, linci, zibellini, topi muschiati, lupi, ghiottoni e marmotte per le loro pellicce e trichechi per le loro zanne (che potevano arrivare a misurare 70-75 cm. di lunghezza e a pesare ognuna fino a quasi 7 kg.). Anche nel Pacifico settentrionale dunque la tensione internazionale non poteva che crescere sempre più pericolosamente: i primi a doversi ritirare dal teatro dello scontro furono comunque gli spagnoli che il 28 ottobre 1790 con l’Accordo di Nootka Sound capitolarono di fronte agli inglesi. III Nel 1799 il nuovo zar Paolo I (1796-1801) rafforzò ulteriormente la (così rinominata) Compagnia russo-americana che lo stato possedeva per 1/3 e che ne era la facente funzioni in tutto il Pacifico settentrionale: il suo direttore Baranov (designato quello stesso anno) di fatto era insomma anche il governatore dell’America russa. Rispetto alle Aleutine i russi in Alaska incontrarono tuttavia una ben più decisa resistenza da parte dei tlingit, gli indomiti indigeni che non cessarono mai di attaccare e minacciare i loro rari insediamenti: ciò peggiorava notevolmente una situazione già di per sé difficile perché, nonostante ogni 3-4 anni venissero accumulate più di un milione di pellicce (con uccisioni eccessive che impedivano un’adeguata riproduzione delle razze ora a rischio di estinzione), le enormi distanze dai centri in Siberia e nella Kamchatka, e quindi la lunghezza incredibile delle linee di rifornimento, erano un grosso problema per queste comunità che non erano autosufficienti e che di conseguenza dovevano dipendere dai nativi (quelli contro cui non combattevano) e dalle navi straniere che però si facevano pagare le vettovaglie in pellicce e a caro prezzo. La situazione dei russi in America era talmente grave che un certo Krusenstern, un ufficiale del Baltico, elaborò un piano per trasportare sia le pellicce in Cina direttamente via mare (anziché da Okhotsk via terra) risparmiando tempo (due anni e più!), sia i rifornimenti anch’essi direttamente via mare da San Pietroburgo (!): il nuovo zar Alessandro I (1801-25) accettò e modificò la proposta suggerendo che i rifornimenti ai russi nel Pacifico settentrionale arrivassero dal Giappone con cui bisognava quindi aprire relazioni commerciali. Il problema era però che da oltre un secolo e mezzo il Giappone si era ermeticamente chiuso al resto del mondo tanto che l’inviato dello zar, Rizanov, nel 1803 fu addirittura imprigionato per alcuni mesi per aver voluto sbarcare a Nagasaki (!): ci voleva ben altro però per scoraggiare i russi! 24 IV Liberato e giunto finalmente a New Arkhangelsk (la capitale russa dell’Alaska) Rizanov elaborò infatti un progetto estremamente ambizioso: secondo lui la sopravvivenza stessa dell’Alaska russa implicava la colonizzazione (parziale) anche dell’Oregon (così si chiamava tutto il territorio fra la California e l’Alaska)! In questo disegno è facile ritrovare un tratto assolutamente caratteristico del colonialismo, e cioè la necessità di ampliare i domini coloniali per esigenze dei domini coloniali stessi (gli inglesi dicevano che era la coda che muoveva il cane), mentre tipicissimo della costante spinta espansionistica russa per successivi inglobamenti era il progetto di divenire la potenza dominante di tutto il Pacifico settentrionale (!) trascurando il fatto che i russi in America erano appena cinquecento, non si riusciva a rifornirli ed erano costantemente alle prese con gli indigeni. Non ci si stanca di rilevare questa stupefacente caratteristica dell’espansionismo russo di voler procedere sempre oltre, di cercare di andare sempre al di là delle frontiere appena raggiunte e di pensare in termini di continue acquisizioni territoriali e senza soluzione di continuità: fu così che gli uomini di Rizanov – convinti che il Giappone poteva essere aperto al commercio solo con la forza – attaccarono l’isola di Sakhalin e alcune postazioni nipponiche nelle Kurili mentre contemporaneamente vennero lanciate spedizioni per impiantare stabilimenti alle foci del Columbia e sulla costa della California settentrionale (!). Ma anche i russi dovettero infine fare i conti con la realtà: le iniziative contro il Giappone non erano state autorizzate e vennero presto sospese mentre in Oregon i soldati americani erano arrivati per primi (anche se in California nell’agosto 1812 venne costruito Fort Russ, in seguito Ross). Oggi a Krasnoyarsk (sullo Yenisey) vicino al monumento allo sbarco dei primi cosacchi (1628) – caratteristica di molte città siberiane - s’innalza la statua di Rizanov, questo grande esploratore e colonizzatore assetato di sempre nuove scoperte e conquiste, testimone esemplare dell’inesausta spinta espansionistica russa. V Fort Russ non si rivelò fonte sufficiente ed affidabile di rifornimenti, così i russi puntarono ora sulle Hawaii (!) per assicurarseli una volta per tutte. Baranov sbarcò nelle Hawaii dove prese a sostenere il pretendente Kaumauli contro il legittimo re Kamehameha adottando la tipicissima tattica dei colonizzatori di prendere posizione a fianco di una parte in lotta contro un’altra come primo passo per inserirsi ed affermare la propria presenza. Gli inizi sembrarono promettenti: anche se nel 1812 con l’attraversamento del Niemen Napoleone iniziava la sua tragica ed insensata campagna di Russia (che dunque fu completamente impegnata in una disperata difesa), il 1812 fu però anche l’anno della guerra dell’Inghilterra contro gli Stati Uniti, e nelle Hawaii i russi poterono approfittarne rilevando il naviglio americano minacciato dagli inglesi e quindi rafforzandosi considerevolmente. 25 Venne così progettata un’invasione russo-hawaiana dei domini di Kamehameha (!), ma questa abortì miseramente ancora prima di iniziare e costò ai russi il discredito e l’espulsione dall’arcipelago: l’impresa si concluse insomma con un completo fallimento. VI La situazione era insomma questa: in America Baranov aveva costruito un vero e proprio impero commerciale con basi e insediamenti che punteggiavano la costa dalla California allo stretto di Bering e gran parte delle tribù indiane (non gli irriducibili tlingits) erano state sottomesse ed integrate, ma questo impero non poteva contare su rifornimenti stabili ed era rimasto sulla costa mentre nell’interno erano arrivati invece gli inglesi. Ciò era dipeso fondamentalmente dal fatto che lo scopo degli insediamenti russi era stato il traffico di pellicce e non un commercio più equilibrato e completo e fu questa impostazione che ben presto mostrò tutti i suoi limiti. Dopo il ritiro di Baranov nel 1817 i governatori che gli succedettero tentarono di esplorare e di insediarsi anche nell’interno e di rafforzare la presenza russa con un aumento dell’immigrazione e della colonizzazione: nel settembre 1821 Alessandro I tentò addirittura di vietare l’ingresso alle navi straniere nelle acque del Pacifico settentrionale a nord del 51° parallelo, ma la pretesa fu prontamente rintuzzata dal presidente Monroe e dalla sua celeberrima dottrina (‘l’America agli americani’) che evidentemente egli non intendeva far valere solo a proposito delle ingerenze europee nelle guerre di liberazione in America latina. Ben presto opportuni trattati proclamarono infine il libero commercio nel Pacifico e fissarono il confine meridionale dei possedimenti russi a 54° 41’ di latitudine e questo era pur sempre un riconoscimento ufficiale della loro presenza in America. VII Nonostante tutti gli sforzi per stabilire una colonia russa in America, i russi ivi residenti non oltrepassarono mai il migliaio e dopo la fissazione dei confini (terminata dunque la loro lunghissima marcia verso est) cominciò la loro inarrestabile decadenza dovuta soprattutto alla difficoltà di trovare personale disposto a trasferirsi dall’altra parte del Pacifico (dove l’ozio e la forzata inattività generavano tutti i proverbiali vizi) mentre subito fuori delle palizzate degli insediamenti gli inesorabili tlingits erano in agguato e il problema dei rifornimenti non riusciva ad essere risolto (la colonia non fu mai autosufficiente). Per la prima volta nella storia del loro inesausto avanzamento i russi dovettero rendersi conto che si erano spinti troppo oltre: era inoltre sempre più evidente che la pressione inglese (sullo Yukon) e soprattutto quella americana erano incontenibili per gli avamposti russi, spopolati, difficili da raggiungere e da rifornire ed infine oltremodo costosi per le casse dello stato. 26 Le conseguenze non si fecero attendere: dopo che negli anni Venti la potente Compagnia (inglese) della Baia di Hudson era arrivata fin sulla costa pacifica del Canada, la Compagnia russo-americana nel 1839 le concesse la costa dell’Alaska in cambio di rifornimenti regolari di cibo e nel 1841 vendette la California russa agli Stati Uniti per 30mila dollari. La guerra di Crimea (1853-56) mostrò la pericolosa vulnerabilità della marina russa se confrontata con quella inglese e svuotò ulteriormente le casse dello stato: oltre a evidenziare la necessità di avviare quel ciclo di riforme interne che Alessandro II avrebbe intrapreso, la sconfitta rivelò anche l’impossibilità per la Russia di mantenere i suoi possedimenti americani. Il 18 marzo 1867 per 7.200.000 dollari la Russia vendette agli Stati Uniti - un Paese dalla storia recente così simile alla sua e con cui aveva sempre avuto relazioni amichevoli (ed anche più) - non solo l’Alaska ma anche le Aleutine: lo stretto di Bering segnò così il limite definitivo dell’espansione orientale della Russia e da allora separò non solo due continenti ma anche due stati. Dai russi l’Alaska americana venne intesa inoltre come utile cuscinetto fra loro e gli inglesi, giudicati pericolosi avversari da ambedue i contraenti del contratto di vendita. Finì così la sfortunata (e costosa) avventura americana della Russia che pure era arrivata per prima non solo in Alaska, ma anche in California, e che era stata la prima ad aver cercato di impossessarsi delle Hawaii: era evidentemente destino che la Russia non potesse uscire dal Vecchio Mondo nel quale la sua marcia non si era però ancora conclusa. Dalle Stanovoy all’Amur La chiusura del Giappone aveva seriamente affievolito l’interesse russo per l’Estremo Oriente, ma in compenso la prima guerra dell’oppio (1839-42) aveva mostrato l’inaspettata debolezza del Celeste Impero e aperto una falla che subito tante altre Potenze Europee si affrettarono a sfruttare per ottenere i vantaggiosi ‘trattati ineguali’ e per ‘affettare la Cina come un melone’: per la Cina era cominciato il travagliato secolo del suo tristissimo calvario ed anche i russi ne vollero subito approfittare. Il processo di aggressione alla Cina da parte della Russia prese il via nel 1847 con la nomina a governatore generale della Siberia orientale di Nikolai Muravyev: innanzitutto il volitivo neogovernatore rafforzò le scarse difese della regione con la trasformazione in soldati di migliaia di servi della gleba già addetti alle miniere, ma soprattutto egli si rese presto conto che l’Amur era lo sbocco naturale sia verso il Pacifico a nord che verso il mare del Giappone a sud e che dunque insieme alla prospiciente isola di Sakhalin assumeva grande importanza strategica. Il possesso dell’Amur venne (correttamente) giudicato indispensabile per il controllo della Siberia stessa, per mantenere la presa sulla Cina e per prevenire le manovre delle altre Potenze Europee in quel Paese: nel 1850 l’estuario del fiume fu così proclamato possedimento dello zar (che aggiunse ‘Amursky’ al cognome di 27 Muravyev), subito iniziò l’occupazione russa delle sue coste e nel 1853 venne occupata anche l’isola di Sakhalin. Il 1853 fu tuttavia anche l’anno della missione di Perry (subito seguito dal russo Putyatin) per forzare il Giappone ad aprirsi al commercio e dello scoppio della suaccennata guerra di Crimea. Nell’ambito delle manovre di questa nuova guerra Sakhalin dovette essere abbandonata, ma l’Amur fu risalito fino alla sua confluenza con l’Ussuri dove nel 1858 venne fondata Khabarovsk: il controllo del fiume era ritenuto talmente importante che Petropavlovsk (che pure aveva respinto un precedente attacco francoinglese) fu abbandonata per concentrare tutte le forze in sua difesa. L’operazione ebbe successo e la posizione russa sulle rive del fiume non fece che rinforzarsi: i cinesi erano manifestamente impotenti ad intervenire e così mentre sul mar Nero la Russia stava perdendo la guerra, sul Pacifico passava al contrario di successo in successo. Circa il Giappone, il 7 febbraio 1855 il trattato di Shimoda aprì numerosi porti alla Russia, divise le Kurili fra i due stati che si accordarono infine per un ‘possesso congiunto’ di Sakhalin. Circa la Cina, Muravyev riuscì a portare 22mila soldati alla sua frontiera e Russia, Inghilterra e Francia (tutte insieme nonostante la guerra di Crimea!) costrinsero il Celeste Impero ad ulteriori capitolazioni ed a cedere una volta ancora di fronte alle richieste sempre più perentorie ed esose di nuove ed umilianti concessioni. In queste condizioni per Muravyev non fu difficile imporre alla Cina il Trattato di Aigun (16 maggio 1858) che stabilì il nuovo confine fra i due stati sull’Amur fino al mare e il diritto di navigazione dei russi per tutto il suo corso. Ma non era ancora finita: nel 1860, in seguito al suo benevolo intervento (sic) al tempo della seconda guerra dell’oppio, colla Convenzione di Pechino la Russia ottenne che il nuovo confine corresse ora anche lungo l’Ussuri, acquisendo quindi tutta la regione fra l’Ussuri stesso e il Pacifico (ed arrivando perfino alla frontiera coreana): nello stesso anno venne così fondata Vladivostok, coronamento e sigillo di questo nuovo fondamentale successo russo. La Russia era entrata in possesso di oltre 640mila kmq. (più di due Italie) di terra fertile dal clima dolce: subito cosacchi e contadini arrivarono a decine di migliaia e tutta la regione si andò sviluppando e rafforzando velocemente. Cominciò a prendere forma anche una vera marina russa sul Pacifico. Forte del successo, la Russia aveva intanto riaperto i conti anche col Giappone: nello stesso 1858 Muravyev era sbarcato a Sakhalin e l’aveva pretesa in quanto giudicata tutt’uno coll’Amur. La questione si trascinò a lungo e venne risolta solo nel 1875 col riconoscimento del possesso della Russia di tutta l’isola in cambio della sua metà delle Kurili (ma intanto nel 1861 aveva occupato la strategica isola di Tsushima). Oggi a Khabarovsk (che prende però il nome dall’esploratore Khabarov (XVII secolo)) un’imponente statua celebra Murayev e l’arteria principale della città si chiama appunto Muravyov-Amursky, mentre anche a Vladivostok si erge un’altra statua dedicata al grande conquistatore della Siberia sud-orientale. 28 L’annessione della valle dell’Amur comportò inevitabilmente il declino di Okhotsk e della Kamchatka (Petropavlovsk compresa): oltretutto gli americani erano arrivati al largo di quelle coste compiendo vere e proprie stragi di balene e di trichechi e divenendo sempre più i fornitori di ogni merce ai russi che pagavano (caramente) in pellicce. Dopo il 1867 la presenza americana divenne comprensibilmente ancora più invasiva impensierendo seriamente Pietroburgo che cercò vanamente di rimediare aumentando le proprie spedizioni. Per parte loro i nativi della Siberia nord-orientale erano ormai una miserabile minoranza distrutta dal contatto con la civiltà europea e con le sue malattie, derelitta e dedita al fumo ed all’alcol che passava anche ai suoi neonati (!), per tacere del suo consumo di ‘amanita muscaria’, un fungo velenoso ma anche dagli effetti narcotici che li induceva ad una dipendenza sempre più annichilente e distruttiva. Le deportazioni zariste in Siberia Nell’immaginario collettivo la Siberia (‘terra di catene e ghiaccio’ come la chiamava Gorky) è legata alle numerose deportazioni con cui per oltre tre secoli (dagli anni Ottanta del XVI alla fine del XIX) nelle sue immense e lontane lande vennero trasferiti numerosi condannati: questo fu comunque un fenomeno variegato e complesso. Nel 1649 il codice penale russo previde ufficialmente la deportazione in Siberia allo scopo di evitare al pubblico la sgradevole vista dei condannati che per punizione erano stati mutilati e/o marchiati coi ferri roventi, ma presto si decise che le deportazioni potevano essere anche un mezzo per popolare e colonizzare i territori siberiani e rendere quindi produttive le pene inflitte, così i condannati a lunghe pene detentive cominciarono ad essere inviati a lavorare nelle miniere siberiane appena scoperte. Anche i prigionieri di guerra vennero presto deportati in Siberia col vantaggio che spesso molti di questi possedevano capacità e conoscevano mestieri (come gli ufficiali ucraini dopo l’annessione della loro patria nel 1675): il metodo funzionava e alla fine del XVII secolo i deportati costituivano circa 1/10 della complessiva popolazione siberiana (!). I La Siberia del XVIII secolo divenne insomma il serbatoio di tutti gli indesiderabili di cui non si sarebbe saputo bene cosa fare: dissidenti, strelzi, ribelli polacchi, soldati svedesi catturati, addirittura villaggi interi di lituani e di bielorussi, intellettuali rivoluzionari (che in Russia erano di molti tipi), intriganti di palazzo (come uomini di stato, cortigiani, ufficiali, generali, addirittura principi e conti), in tanti finirono in un modo o nell’altro in Siberia e il loro numero aumentò ancora quando la zarina 29 Elisabetta nel 1753-54 abolì la pena di morte e la sostituì con l’esilio e coi lavori forzati. Data la necessità di popolare e colonizzare quelle lontane terre sconfinate decine di migliaia di servi della gleba vennero inoltre trasferiti forzosamente e il numero di crimini punibili con la deportazione non fece che aumentare (dagli incontri di boxe per denaro alla prostituzione, dall’accattonaggio alla predizione del futuro): lungo il Grande Trakt Siberiano (o Strada di Posta), la via principale intervallata da stazioni di esilio e prigioni, marciavano così fino a 3.400 detenuti alla settimana. In ogni caso, circa 1/3 degli esiliati divenne poi colono relativamente libero, 1/7 era condannato ai lavori forzati e il resto era imprigionato o semplicemente confinato. Il lavoro nelle miniere (d’oro e d’argento) era semplicemente terribile e i ribelli più intrattabili ed irriducibili finivano facilmente in quelle di carbone sull’isola di Sakhalin, tuttavia un certo numero di esuli fu lasciato libero di sistemarsi dove preferiva, altri venivano assegnati alle varie fattorie e/o cittadine: in Siberia naturalmente c’era posto in abbondanza per ogni tipo di abilità e di lavoro, ma quelli che dovettero scontare la pena in carcere ne dovettero sopportare tutte le pessime condizioni. II Nel corso del XIX secolo giunsero in Siberia almeno 1 milione di deportati (il 18% composto da donne) e 150-200mila accompagnatori (cosa possibile e permessa): il viaggio era fatto a piedi, durava quindi vari mesi e il 10-15% di coloro che erano partiti moriva prima di arrivare. Forse il tratto più caratteristico della deportazione in Siberia fu che c’erano mogli e famiglie che scelsero di seguire i mariti e i parenti condannati abbandonando tutto, compresi i figli e una vita spesso ricca e lussuosa, come fecero le eroiche spose di molti decabristi arrestati (1825), i deportati più famosi. A Irkusk i decabristi e le loro donne sono particolarmente ricordati: il loro Memorial Museum è collocato nella casa del più famoso di loro, il principe Volkonsky, che, costruita nel 1838, fu poi smontata e trasportata qui nel 1847 (!) e ne fu la residenza fino all’amnistia del 1856. Nelle sue vicinanze si trova poi un altro museo dedicato a loro e un monumento a Maria Volkonskaja particolarmente significativo: questa eroica sposa che abbandonò tutto per seguire il suo uomo è rappresentata con tratti delicati e leggeri mentre tiene in mano un candelabro acceso e carta e penna. Le donne dei decabristi (11 mogli e 7 fra madri e sorelle) svolsero infatti un ruolo fondamentale in queste propaggini estreme e selvagge dello smisurato impero russo: insieme ai loro uomini vi portarono e diffusero cultura e dunque contribuirono potentemente al suo sviluppo. Animate dal più puro spirito romantico queste persone, arrestate e condannate per il loro amore per la libertà, continuarono senza esitazioni a lottare per il progresso e per a civiltà lasciando una traccia indelebile dove passarono: erano un pugno di anime in uno spazio immenso, ma per incendiare una foresta è sufficiente un fiammifero. 30 Un altro monumento in onore dei decabristi si trova poi a Chita. Come si è detto, le condizioni dei deportati e degli esuli erano molto varie e conoscevano tutte le gradazioni, da quella più orribile ed insopportabile a quella sorprendentemente leggera (come in definitiva quella dei decabristi stessi): spesso poi i condannati si univano nell’artel, una sorta di società segreta che aveva per scopo il sostegno, la solidarietà e l’aiuto reciproci. La vita, già tanto dura per tutti in Siberia, per i deportati poteva comunque essere tremenda con pene corporali estremamente selvagge, come i vari tipi di fustigazione che a volte causavano perfino il decesso dei disgraziati che l’avevano subita: le morti erano dunque frequentissime, ma nel caos amministrativo, nell’estrema lontananza dalla (diciamo così) civiltà, nelle condizioni proibitive dell’esistenza in Siberia, non ci si faceva alcun caso. Data infine la scarsità di donne in Siberia, è facile immaginare poi il destino particolare di quelle che erano o rimanevano sole. III Nonostante il miglior deterrente della fuga fosse l’infinita e sterminata desolazione che circondava ogni insediamento, molti la tentavano ugualmente: i coraggiosi che scappavano e rischiavano la morte di stenti, di freddo e di inedia o le severe ulteriori punizioni se fossero stati riacciuffati, iniziavano una lunghissima marcia verso ovest, temuti da coloro che potevano trovarsi sul loro cammino e cacciati da veri e propri gruppi di bounty-hunting indigeni (la ricompensa era di tre rubli per ogni riacciuffato), alla ricerca dell’unica, difficilissima, pura e semplice sopravvivenza. Nel 1886 il 42% dei coloni forzati della Siberia orientale era fuggito e in quella occidentale solo il 33% era ancora al suo posto: i fuggitivi erano chiamati ‘varnak’ o anche ‘brodyags’, vagabondi, e mentre una gran parte di loro era sicuramente perita nella sconfinata terra selvaggia ed inospitale, i sopravvissuti raramente erano comunque riusciti ad uscire dalla Siberia stessa - troppo grandi erano i suoi spazi - ma erano riusciti a rintanarsi in qualche suo angolo sperduto. IV Al di là della sua inumanità e della somma ingiustizia con cui era gestito (quando lo era), per sua stessa natura il sistema delle deportazioni fu oltretutto un fallimento: criminali, vagabondi e disperati erano un ostacolo allo sviluppo delle regioni in cui si trovavano perché erano un serio problema di ordine pubblico ed esercitavano un’influenza negativa sulla popolazione civile che invece lottava duramente per far progredire i suoi insediamenti e che cominciava a mietere successi e conseguire miglioramenti. Mentre tanti esuli politici arricchirono le società presso cui si stabilirono (e in cui si diffusero le loro idee del tutto assenti prima del loro arrivo) ed altri deportati suscitarono pietà e compassione, tanti altri erano (o erano diventati) veri delinquenti e 31 purtroppo le vittime dei loro crimini furono numerose in una terra già di per sé tanto anarchica e violenta. La soluzione al problema fu la trasformazione dell’isola di Sakhalin in una colonia penale per sgombrare così la Siberia dei suoi indesiderati condannati: dopo la sua acquisizione definitiva da parte della Russia, essa, giudicata ‘ricca di carbone come il Galles, di pesce come Newfoundland e di petrolio come Baku’, cominciò in effetti ad assorbire quote crescenti di deportati che trovarono, se possibile, condizioni ancora peggiori di quelle che avevano lasciato (soprattutto le donne). Anche se il governo in realtà cercò di migliorare (anche sensibilmente) le condizioni dei prigionieri e tentò di attrarre coloni liberi e di trattenere i condannati che avevano finito di scontare la loro pena, la scarsità di manodopera rimase sempre un problema e nelle miniere di carbone si dovettero impiegare coolies cinesi. V In Europa era la deportazione degli oppositori politici a destare scandalo, anche perché essa procedeva in modo assolutamente illegale ed arbitrario: chiunque poteva essere arrestato e detenuto (fino a due anni!) e confinato (dopo il 1888 fino a dieci anni!) senza udienza e/o processo (!) se le autorità locali lo ritenevano ‘pregiudizievole all’ordine pubblico’ o ‘incompatibile con la quiete pubblica’, mentre chi auspicava cambiamenti del regime politico rischiava il confino a vita (!), esattamente come chi, pur essendone a conoscenza, non lo denunciava (!). Era questo il cosiddetto ‘esilio amministrativo’ le cui condizioni e modalità erano, ancora una volta, estremamente variabili. Il 6 maggio 1899 il sistema delle deportazioni in Siberia venne finalmente abolito e un editto imperiale del 12 giugno 1900 lo sostituì col carcere, ma Sakhalin continuò ad esistere come colonia penale e il confino in Siberia rimase in vigore per i ‘crimini’ politici e religiosi: oltre ai condannati ai lavori forzati, 287mila esiliati rimasero così in Siberia e il loro numero era destinato ad aumentare in modo vertiginoso. Lo scrigno della Siberia Il commercio delle pellicce aveva sempre dominato l’economia della Siberia ed era stato il motore della sua conquista con stragi di zibellini, scoiattoli, ermellini, conigli, martore, volpi, linci e ghiottoni, mentre sulle coste artiche e pacifiche erano cacciati trichechi, foche e orsi polari: a partire dal Settecento la Siberia cominciò però ad esaudire finalmente anche altre aspettative e speranze che erano state riposte in essa. Essa infatti ormai produceva decine di migliaia di tonnellate di grano e patate e spediva al di là degli Urali enormi quantità di prodotti grezzi (pelli e pellicce, ma anche sego, setole, lino, canapa) e di articoli (coperte, tappeti, reti da pesca, biancheria di lino, botti, slitte, articoli in cuoio, calze da donna, manopole, cinture e sciarpe) mentre era iniziata l’apicoltura e l’allevamento di ‘marals’, una sorta di cervo rosso da cui si ricavavano varie sostanze molto ricercate (soprattutto dai cinesi). 32 Appena salita al trono, Caterina II nel 1762 abolì poi il monopolio della corona sul commercio con la Cina che quindi si sviluppò vigorosamente con pellicce, indumenti di lana, di lino, articoli in cuoio e in stagno in cambio di tè, seta, rabarbaro, zucchero e carta. Un’imprevista ed importante risorsa della Siberia fu poi l’avorio e non solo quello delle zanne dei trichechi ma soprattutto quelle delle enormi zanne dei mammut (!): per decine di migliaia di anni i ghiacci artici avevano preservato intatte le loro carcasse e dal 1650 al 1900 le zanne di circa 40.750 di questi giganteschi plantigradi vennero esportate e, visto che ogni zanna pesava dai 70 ai 90 kg., si comprende facilmente che questo avorio fossile competè lungamente con quello africano e indiano. La Siberia si rivelò ricca anche di minerali (soprattutto rame (dal 1726), ferro, mica e oro) tanto che a metà Settecento era la maggior produttrice di metalli preziosi in Europa e di rame nel mondo: sempre nuove vene venivano scoperte e sempre più la produzione siberiana di ricchezza aumentava. Le infrastrutture della grandissima Siberia (10mila km. da San Pietroburgo a Vladivostok) erano tuttavia praticamente inesistenti per cui fu necessario aprire strade per i carri e sentieri per le mandrie: in pieno Ottocento i pony-express impiegavano comunque tre mesi e mezzo per portare una lettera dagli Urali a Okhotsk e sei da Mosca alla Kamchatka, mentre da questa penisola si faceva prima a raggiungere San Pietroburgo via Pacifico (ferrovia coast to coast statunitense – Atlantico) che via terra attraversando la Siberia. Nuove industrie però nascevano e arrivavano artigiani e lavoratori specializzati, dunque le città crescevano, anche l’agricoltura, l’allevamento e la pastorizia si sviluppavano e insomma la Siberia veniva sempre più e sempre meglio colonizzata. In teoria in Siberia la terra apparteneva allo stato e in effetti in un primo tempo i contadini avevano pagato l’affitto con una parte del raccolto (presto sostituito da un versamento monetario) ma in pratica, visto che non erano servi della gleba, essi lavoravano tutta la terra che potevano e inoltre la vendevano o l’affittavano liberamente. Organizzazione e sviluppo Dal punto di vista della sicurezza, i problemi in Siberia non venivano né dalla pacifica Cina né dai nativi (ormai inglobati nella nuova compagine sociale e politica), bensì dai nomadi a sud: fin dai tempi di Pietro il Grande per rendere sicura quella frontiera vennero così concesse terre ai cosacchi e cominciarono ad essere costruite fortezze e ridotte che alla fine del secolo erano oltre 124: sotto la loro protezione gli insediamenti agricoli poterono così crescere e svilupparsi. Nel 1822 Alessandro I permise ai servi della gleba (sulle terre dello stato) di emigrare in Siberia; una ventina d’anni dopo per attrarre nuovi coloni venivano assegnate terre e promessi aiuti e libertà: altri vent’anni dopo la liberazione dei servi della gleba produsse ulteriore emigrazione in questa sorta di Far West che divenne anch’essa un 33 ‘melting pot’, dovendo integrare in un’unica società varie categorie di persone (anche di religioni diverse ed anzi spesso alla ricerca di un luogo dove poter praticare in pace la propria). Certamente la vastità stessa della Siberia e i contatti con popoli anche molto diversi fra loro creava situazioni anch’esse diversificate. Alla fine dell’Ottocento la Siberia occidentale era quella che andava dagli Urali allo Yenisey, quella orientale fino alle montagne Stanovoy, mentre l’estremo oriente siberiano era quello le cui acque fluivano verso il Pacifico anziché verso l’Artico: le città che sorgevano sui fiumi e sugli snodi commerciali potevano avere caratteristiche anche profondamente diverse fra loro a seconda della religione (anzi, dalle religioni) dei loro abitanti, del clima e soprattutto delle popolazioni che vi risiedevano. Il sistema scolastico e quello sanitario erano comunque del tutto inadeguati (quando poi ce n’era qualche traccia) e spesso bisognava ricorrere (anche con successo) alle pratiche guaritrici indigene. Il melting pot siberiano non aveva comunque ancora riguardato le popolazioni più lontane e abitanti le regioni più inaccessibili che rimasero incontaminate praticamente fino alla fine del XIX secolo, ma furono i buryati a rimanere i più legati alle loro radici ed alla loro cultura e la cosa non può sorprendere perché, abitanti intorno al lago Baikal sul confine mongolo, erano anch’essi mongoli e dunque membri di un grande popolo buona parte del quale continuava a vivere indipendente ed a risiedere immediatamente a sud del confine con la Siberia russa. La popolazione della Siberia era in crescita costante e passò dagli oltre 300mila del 1700 a più di 1 milione nel 1812 ed ai 3 milioni nel 1854: si trattava di un mondo fantastico e ancora largamente inesplorato che come il West americano attrasse esploratori, studiosi, avventurosi ed entusiasti che oltretutto ne aumentarono e ne perfezionarono sempre più la conoscenza. L’incredibile Transiberiana Date le sue grandi dimensioni, nessun vero sviluppo della Siberia era comunque possibile senza una contemporanea rivoluzione dei trasporti che fino alla fine dell’Ottocento avvenivano o via mare su rotte intercontinentali e/o via terra su sentieri di terra battuta che si ricoprivano di montagne di neve d’inverno e diventavano fango profondo col disgelo: data la crescente tensione internazionale sul Pacifico del secondo Ottocento, anche la difesa dell’estremo oriente siberiano in quelle condizioni era infine difficoltosissima se non impossibile. Né ciò valeva solo per la Siberia, però nel secondo Ottocento il mondo venne unificato e le sue distanze enormemente ridotte grazie alla rivoluzione dei trasporti, cioè alla navigazione a vapore e soprattutto alle lunghissime ferrovie che permisero ad esempio l’effettiva unificazione degli Stati Uniti, del Canada e dell’India britannica. In Russia il dibattito sull’opportunità e sulla possibilità di una linea ferroviaria che unificasse finalmente l’intero Paese durò anni finchè nel 1875 si decise di costruirne 34 una da Mosca a Irkutsk, negli anni Ottanta cominciarono a nascerne i vari tratti e si decise di connettere le maggiori città siberiane (situate sui fiumi principali) alla capitale. Infine, dopo vari sopralluoghi ed aver deciso di strozzare al massimo le ingenti spese, il 12 maggio 1891 si varò ufficialmente il piano della Transiberiana fino a Vladivostok: lo zarevic Nicola ne fu il responsabile e Witte, l’abile e capace nuovo ministro delle finanze, l’entusiasta sostenitore e patrocinatore. La Transiberiana venne divisa in sei sezioni la cui costruzione venne portata avanti in contemporanea: coi suoi 9288 km. di lunghezza essa sarebbe stata la più lunga del mondo e i vantaggi che avrebbe portato sarebbero stati innumerevoli e rilevantissimi. Avrebbe permesso una vera unione con la Russia, la difesa dell’estremo oriente siberiano, un’effettiva colonizzazione di tutta la Siberia, un commercio adeguato alle sue possibilità e risorse, la diffusione della cultura e della civiltà europea (cioè della cultura e della civiltà tout court secondo la mentalità di allora), collegamenti sempre più stretti fra le varie parti del mondo e soprattutto con gli Stati Uniti e infine l’alleggerimento della pressione demografica nella Russia sovrappopolata. Si trattava insomma di un grandioso compito storico da portare avanti in un pianeta che stava conoscendo la sua prima globalizzazione. I Un vero e proprio esercito di 100mila lavoratori e tecnici (non solo russi ma anche turchi, persiani, cinesi e di altri Paesi, Italia compresa, oltre a carcerati cui si offrì uno sconto di pena) dovette affrontare e superare difficoltà di ogni tipo, risolvere mille problemi diversi e superare ostacoli tremendi: l’acciaio arrivava dagli Urali, il cemento da San Pietroburgo ed altri rifornimenti da Varsavia; si dovettero attraversare paludi, drenarne le acque, superare pantani di torba e giungle di spine, aprire passaggi nelle fitte foreste, improvvisare dighe, scavare canali, impiantare fondamenta di calcestruzzo nella melma, usare l’esplosivo non solo nelle rocce ma anche per aprire la terra gelata (!), costruire fornaci (spesso anche il legno da ardere dovette essere portato da fuori) per far mattoni per i ponti, fabbricare traversine, scavare pozzi artesiani, importare rotaie dall’Inghilterra attraverso il mar di Kara, adattare faticosamente le vie d’acqua per trasportare i rifornimenti, mentre le malattie falcidiavano uomini e animali e bande di fuorilegge imperversavano lungo il confine con la Cina. La costruzione di ponti sui grandi fiumi fu particolarmente azzardata e costò numerose vite umane e per evitare di spendere troppo per tunnels ed altre vie si optò per un percorso meno lineare ma già nell’agosto 1898 la Transiberiana era arrivata fino ad Irkutsk addirittura in anticipo sui tempi previsti (!). Fu intorno al lago Baikal, cioè per aggirare la sua punta meridionale - dove le durissime rocce cadevano a picco nell’acqua - che insorsero le difficoltà egli ostacoli più proibitivi e, oltretutto, una terribile inondazione distrusse tanti lavori che richiesero tre anni (!) per poter essere ripristinati: anche la linea nella valle dell’Amur non era stata ancora costruita quando, come se non ci fossero già abbastanza 35 problemi, la intricata situazione internazionale intervenne a complicare e modificare anche il progetto della Transiberiana. Assalto e scontro sulla Cina Ancora una volta va ricordato che non è questa la sede per trattare le vicende politiche generali, soprattutto se internazionali, che dunque potranno essere solo accennate. Negli anni Novanta dell’Ottocento la Cina era la grande malata su cui si gettarono ripetutamente le Potenze Europee (ognuna delle quali si ritagliava zone di sfruttamento e di dominio) e gli Stati Uniti che con la politica della ‘Porta aperta’ ne volevano preservare l’integrità di facciata e svuotarla delle sue ricchezze e risorse. La novità fu però rappresentata dal Giappone che dopo la sua spettacolare crescita e il suo velocissimo sviluppo si unì nell’assalto allo sventurato Celeste Impero con una vera e propria guerra (1894-95) nettamente vittoriosa e remunerativa. Fra le altre cose, la guerra ebbe l’effetto di far accelerare i lavori della Transiberiana - sempre più necessaria per rafforzare la presenza russa sul Pacifico! - e ciò avvenne in tre modi: 1) i km. di linea costruiti ogni anno più che raddoppiarono (passando dai 640 del 1892-94 ai 1340 del 1895!); 2) si abbandonò la proibitiva e difficilissima costruzione della linea a sud del Baikal in favore del suo attraversamento su chiatte e d’inverno su un rompighiaccio inglese (il ‘Baikal’ e poi anche l’’Angarà’) capace non solo di trasportare interi treni da una riva all’altra ma anche di offrire ai passeggeri addirittura tutti i comfort e le comodità moderni! 3) dal Baikal orientale si decise infine di continuare la ferrovia fino a Vladivostok procedendo però in linea retta attraversando cioè la Manciuria (!), ma ciò implicava evidentemente l’accordo ed il consenso della Cina. La ferrovia attraverso la Manciuria avrebbe accorciato il tragitto di 560 km. ma non era questo l’unico motivo per cui ora la Russia premette sulla Cina: la regione da attraversare era infatti ricca di miniere, aveva un suolo fertile e i suoi porti, soprattutto Port Arthur (oggi Lushen), erano liberi dai ghiacci tutto l’anno. Date le condizioni in cui la Cina versava, non fu difficile per la Russia ottenere tutto quel che voleva. I Il trattato di Shimonoseki (1895), stipulato in seguito alla netta vittoria del Giappone sulla Cina, aveva costretto quest’ultima a riconoscere l’indipendenza della Corea (cioè a lasciarvi mano libera al Giappone), a cedere al Giappone la penisola Liaodong, Taiwan e le isole Pescadores, a versare una pesante indennità di guerra e infine a firmare un trattato commerciale che, simile a quelli già stipulati con le potenze occidentali, comportava l’apertura anche al Giappone dei suoi porti e delle 36 sue vie fluviali: tre giorni dopo la firma del trattato Russia, Francia e Germania (la ‘Triplice d’Oriente’) intervennero però in difesa della Cina (sic) imponendo al Giappone la rinuncia della penisola di Liaodong (in cambio di un aumento dell’indennità di guerra) sia perché esse non potevano tollerare l’improvviso ed eccessivo rafforzamento di un nuovo partecipante allo smembramento dello sfortunatissimo Celeste Impero, sia perché ben altri erano i loro disegni su quella penisola. Atteggiandosi a difensori e salvatori della Cina (sic) ora i russi si offrirono di finanziare il pagamento dell’indennità di guerra proprio in cambio della concessione ferroviaria in Manciuria: nella primavera 1896 con un patto segreto (che includeva anche l’alleanza anti-giapponese) nasceva così la Compagnia della Ferrovia Orientale Cinese che, finanziata pesantemente da banchieri francesi e con un cinese come presidente nominale, era evidentemente in mani russe, protetta da truppe russe, aveva la gestione della linea per 80 anni (la Cina avrebbe potuto riscattarla però dopo 36 anni). Non era questo un evento isolato nella Cina di quegli anni: anche le altre Potenze Europee e gli USA appena avevano ottenuto concessioni sul suolo cinese subito vi avevano iniziato la costruzione di ferrovie per meglio spogliarlo e depredarlo: una volta interconnesse queste linee avrebbero ulteriormente frantumato il Paese, ma il caso della Russia era però diverso perché la sua linea attraverso la Manciuria era solo l’ultimo tratto della Transiberiana il cui obiettivo non era quello (o certamente non quello primario) di spolpare la Cina. II L’assalto alla Cina cominciato con la prima guerra dell’oppio (1839-42) continuava comunque imperterrito: nel 1897 la Germania si impadronì della baia di Kiaochow (nello Shantung) e subito Francia, Inghilterra e Russia si affrettarono a ritagliarsi ognuna la propria fetta e quella della Russia fu la più importante perché essa arrivò al mare da nord occupando la penisola di Liaodong sul cui vertice sorgeva Port Arthur (da cui iniziò subito la costruzione di una linea ferroviaria fino ad Harbin). Intanto nell’estate 1898 iniziava la costruzione del troncone mancese della Transiberiana e anche qui ostacoli e difficoltà furono innumerevoli: gelate invernali, inondazioni estive, suolo durissimo, banditi (contro cui vennero impiegati squadroni di cavalleria cosacca) e infine addirittura la peste bubbonica non riuscirono però ad impedire che l’opera procedesse velocemente e che in tutta la fascia circostante la situazione cambiasse di conseguenza. Harbin stava diventando una grande città, Port Arthur una potente base navale e fortezza, Dalny (Darien) un grande porto commerciale, ma la penetrazione occidentale era troppo sfacciata ed invasiva per non suscitare la reazione dei nazionalisti cinesi che, dopo aver messo a morte i responsabili della cessione della Manciuria ai russi, nel 1900 insorsero: erano guidati dalla società detta dei ‘Boxers’ sostenuta comunque sia dall’imperatrice che dall’esercito regolare. 37 La sollevazione finì in un (solito) disastro e in un’ulteriore (solita) sottomissione della Cina, ma fu la Russia a realizzare i maggiori guadagni: tutte le Potenze occidentali inviarono distaccamenti per liberare le loro delegazioni assediate a Pechino ma nel deciso e spietato contrattacco la Manciuria stessa fu occupata da un corpo di spedizione russo forte di 200mila uomini che non esitarono a radere al suolo interi villaggi e a spazzare via ogni resistenza dei ribelli cinesi. A dicembre la sollevazione era già stata completamente domata ma i russi rimasero in Manciuria, cioè realizzarono un’ulteriore espansione riuscendo a connettere direttamente via terra – secondo il loro costume – la Siberia a Port Arthur e dunque al mar Giallo. Nonostante i 2/3 della ferrovia mancese fossero andati distrutti e i lavoratori cinesi fossero fuggiti, i lavori ripresero subito e non solo vennero finiti in fretta, ma i ponti colà gettati furono i più solidi e resistenti di tutta la linea: appena la ferrovia arrivò a Vladivostok, subito da lì ne vennero aperte altre due, una fino a Port Arthur (e quindi di lì fino ad Harbin) e una fino a Dalny (Darien). La (solita) marcia russa continuava di acquisizione in acquisizione, di inglobamento in inglobamento, e, procedendo per ingrandimenti successivi senza soluzione di continuità, la sua presenza nell’Asia sud-orientale era estremamente più radicata e temibile rispetto a quella delle altre Potenze Europee e degli stessi Stati Uniti: è vero che essa doveva pur sempre fare i conti con le grandi distanze della Siberia, ma proprio la Transiberiana stava vistosamente riducendo e forse annullando questa difficoltà. In Estremo Oriente la Russia si stava insomma rafforzando in continuazione – sicuramente troppo per l’Inghilterra che proprio allora stava portando avanti il suo epico scontro (il famoso ‘Grande Gioco’) per fermarne l’altra costante espansione in Asia centrale. III In Estremo Oriente gli inglesi avevano forze troppo risicate per potersi opporre ai russi così si allearono presto con l’altro grande nemico della Russia, il Giappone, la cui marcia espansionistica trovava ostacoli proprio in quella uguale e contraria dell’impero zarista. La tensione fra i due Paesi crebbe soprattutto a proposito del possesso della Corea: i russi, che anche per motivi razzistici sottostimavano la forza e l’efficienza che il Giappone aveva ormai raggiunto, si sentivano forti e si autocompiacevano delle numerose truppe che ora potevano inviare molto più facilmente sul Pacifico anche se, nonostante tutti i loro frenetici sforzi, non erano ancora riusciti a completare l’ultimo tratto della Transiberiana a sud del Baikal così che, quando la sua coltre gelata diveniva troppo spessa anche per i rompighiaccio, i soldati dovevano inevitabilmente attraversare il lago a piedi e su slitte trainate da cavalli. I giapponesi sfruttarono la circostanza e l’8 febbraio 1894 attaccarono all’improvviso Port Arthur e spinsero i russi via dalla penisola di Liaotung e sempre più all’interno della Manciuria. 38 Date le condizioni della Transiberiana – che dopo ogni inverno era difficoltoso rimettere in sesto, mancava di rifornimenti adeguati ed il cui tracciato spesso non lineare e rallentato da forti dislivelli limitava le possibilità delle locomotive – le truppe in partenza da San Pietroburgo impiegavano 5-6 settimane per arrivare a Port Arthur, ma la guerra scatenò la determinazione russa di completare il tracciato attorno al Baikal meridionale e il 25 settembre l’obiettivo fu raggiunto a costo di scavare ben 39 tunnel (!). Nel marzo 1905 la riserva di soldati russi sembrava inesauribile: 300mila uomini erano giunti in treno sul fronte ed altri 400mila erano in partenza (!) e ciò avrebbe potuto far vincere loro la guerra, ma nel maggio la grande battaglia navale di Tsushima annientò la flotta russa appena arrivata dall’altra parte del mondo. Per parte sua il Giappone non poteva però permettersi una guerra di logoramento e così aderì all’invito del presidente Roosevelt di sedere ad un tavolo di pace: il 5 settembre 1905 il trattato di Portsmouth (nel New Hampshire) riconobbe l’interesse preminente del Giappone in Corea, gli cedette la penisola di Liaotung (le due linee ferroviarie che partivano da Port Arthur comprese) e la metà meridionale di Sakhalin, ma lasciò alla Russia la Manciuria settentrionale (!). La Russia sconfitta ottenne insomma un trattamento molto più favorevole di quanto sarebbe stato lecito aspettarsi e questo fu solo l’inizio di una nuova intesa perché i due Paesi ora avevano scoperto quant’era più semplice e remunerativo accordarsi per dividersi il bottino cinese anziché combattersi fra loro per esso. Nel 1907, 1910 e 1912 una serie di trattati segreti definì così con precisione le due rispettive sfere di influenza: al Giappone toccarono la Manciuria meridionale, la Mongolia interna e la Corea, alla Russia la Manciuria settentrionale, la Mongolia esterna (cioè la Mongolia) e il Sinkiang. Era la Cina naturalmente a pagare in conti per tutti ma da tempo ormai quello che era stato il glorioso Celeste Impero era drammaticamente incapace di reagire e di difendersi. La Siberia dopo la Transiberiana La Transiberiana era dunque stata completata, ma il suo tracciato era diverso da quello originariamente concepito perché adesso il suo lungo tratto finale attraversava tutta la Manciuria, una regione in fondo occupata con arroganza e prepotenza, parzialmente sotto controllo giapponese ed il cui possesso non era riconosciuto da alcun accordo internazionale: la Manciuria non faceva dunque legalmente parte della Russia e, come se questa profonda mancanza di sicurezza non fosse sufficiente a rendere precaria l’intera situazione, l’indubbio ed inevitabile sviluppo che insieme a tanti nuovi emigranti la ferrovia aveva portato nella regione erano andati a tutto detrimento proprio della sicuramente russa valle dell’Amur, esattamente come Vladivostok aveva fortemente perso d’importanza in favore di Port Arthur e di Dalny (Darien). 39 La Russia si era insomma danneggiata da sola ed erano altri che raccoglievano i migliori frutti della sua politica - che andava evidentemente cambiata. I Il cambiamento consistette nella costruzione della ferrovia nella valle dell’Amur fin da Vladivostok e nella sua connessione con la Transiberiana a Chita (da dove partiva la Transmanciuriana) costeggiando a nord il confine con la Cina: in questo modo la Transiberiana sarebbe rimasta tutta in territorio russo ed avrebbe quindi portato ricchezza e sviluppo ai porti, alle città ed alle campagne russe. Oltre a ciò, era di primaria importanza fortificare e rafforzare militarmente tutto l’estremo oriente russo grazie al varo di una flotta anche nel Pacifico ed alla costruzione di tutte le basi e i porti necessari allo scopo. La nuova impresa cominciò nel 1908 e anche qui fu necessario affrontare e superare innumerevoli difficoltà e risolvere complicati ed esasperanti problemi: il territorio era spopolato, montagnoso e pieno di paludi, foreste e acquitrini, e vi si doveva portare di tutto - a cominciare dai lavoratori. Per motivi di sicurezza gli asiatici vennero esclusi dal reclutamento e spesso le famiglie degli emigranti russi arrivavano a destinazione dopo aver disceso l’Amur su chiatte: l’intera regione andava russificata e naturalmente vi vennero inviate anche numerose truppe. I risultati non si fecero attendere: Vladivostok si riprese in fretta e le sue nuove fortificazioni erano ora difese da 80mila soldati mentre 120mila in più vennero destinati al resto della Siberia orientale dove comunque l’ammodernamento, la colonizzazione, lo sviluppo, l’agricoltura, l’industria, il commercio e l’integrazione col resto del Paese procedevano a ritmi sostenuti, tanto che si concepì il progetto di treni di lusso per far visitare l’immensa regione a viaggiatori facoltosi che durante la lunga tratta non avrebbero rinunciato a nessuna comodità e comfort. La Transiberiana trasformò drammaticamente ogni area che attraversava e grazie a lei la Siberia cessò di essere una colonia o un’appendice per entrare a far parte a tutti gli effetti della Russia: da San Pietroburgo in dieci giorni ora si poteva raggiungere Vladivostok e questa fu un’incredibile rivoluzione. La Transiberiana infine non era stata intesa solo come un’immensa facilitazione per il trasporto delle merci e per il trasferimento dei coloni, ma anche come occasione di viaggio degli appartenenti alle classi alte (o altissime) come testimonia il fatto che i suoi vagoni di lusso (in mostra all’Esposizione Universale di Parigi del 1900) erano dotati addirittura di pianoforti a coda, bagni in marmo, biblioteche e palestre (!!!). II Da tempo comunque nella Russia sovrappopolata si moltiplicavano le iniziative del governo per attrarre in Siberia sempre più famiglie contadine: non era certo la terra che mancava, ma bisognava mettere in grado i coloni di arrivarci senza rischiare o perdere la vita (grazie all’assistenza durante il viaggio ed a biglietti economicissimi) 40 e dar loro la possibilità di iniziare e di avviare le loro fattorie (con la concessione di mezzi e di capitali). La Transiberiana rivoluzionò completamente l’intera situazione e la Siberia divenne rapidamente irriconoscibile: dei 7 milioni di russi che vi erano giunti dal 1823 al 1914, nel solo 1908 ne arrivarono 750mila e nel 1914 ben 2 milioni si erano ormai stabiliti nell’estremo oriente siberiano e 300mila nella sola valle dell’Amur. La popolazione della Siberia continuava a crescere come tutti i suoi indicatori economici. La Siberia nella guerra civile russa Anche a questo proposito va ripetuto che in questa sede non si possono trattare le vicende storiche della Russia – la sua entrata nella prima guerra mondiale, il crollo del fronte orientale e le due rivoluzioni del 1917 - e che dunque vi si potrà solo fare riferimento per comprendere quelle specifiche della Siberia. Nel 1917 il radicamento dei bolscevichi in Siberia era labile: non c’era infatti un proletariato urbano di una qualche consistenza e in genere i contadini possedevano la terra che lavoravano o l’avevano in affitto a condizioni accettabili, molti in fuga dall’Ottobre vi avevano cercato scampo e rifugio e infine le istanze per un socialismo democratico si fondevano con quelle per l’autonomia della Siberia stessa. Il crollo dello zarismo aveva comportato la nascita di numerosi movimenti per l’indipendenza dall’impero ‘prigione di popoli’ di tutti quelli che fino a quel momento erano stati sottomessi ai russi: appena il potere centrale dello zar era stato abbattuto era iniziato il disgregamento dell’immensa Russia secondo linee etniche perchè prima che un nuovo potere centrale potesse prendere il posto del vecchio i vari popoli avevano colto immediatamente l’occasione per proclamare la loro indipendenza. Anche la Siberia partecipò a quest’ondata liberatrice: dopo il crollo dello zarismo e la formazione di un Governo Provvisorio (marzo 1917) a Pietrogrado, nell’agosto 1917 a Tomsk il Primo Congresso Siberiano, formato soprattutto da menscevichi, socialrivoluzionari (e da altri antibolscevichi), votò l’autonomia dalla Russia e scelse addirittura la bandiera (verde e bianca, a significare foreste e neve) del nuovo stato; due mesi dopo i bolscevichi dispersero però con la forza il suo comitato direttivo che si dovette trasferire ad Harbin (in Manciuria) dove, proclamatosi Governo Provvisorio della Siberia Autonoma, indisse elezioni alle quali i bolscevichi ottennero soltanto il 10% dei voti. Intanto, dopo il colpo di stato bolscevico (ottobre 1917) e la resa quasi incondizionata alla Germania col trattato di Brest-Litovsk (marzo 1918), in Siberia l’8 giugno 1918 si era formato un altro governo (a maggioranza socialrivoluzionaria) antibolscevico a Samara (sul Volga) e alla fine del mese un altro ancora (molto più conservatore) a Omsk, ma questi due non trovarono niente di meglio da fare che competere fra loro per la giurisdizione sugli Urali ed iniziare una reciproca guerra doganale (!). 41 La situazione tuttavia precipitò veramente in seguito alle complicate e assurde vicende della Legione Cecoslovacca. I Fin dallo scoppio della guerra si era formata una Legione (o Corpo) di disertori cechi e slovacchi che invece di combattere per il proprio stato (l’Impero Austro-Ungarico) si erano uniti ai russi contro di esso per ottenere l’indipendenza del proprio stato: a questa Legione si erano poi via via aggiunti i prigionieri di guerra cechi finchè nella primavera 1918 essa contava circa 45mila uomini: d’accordo con la Francia e col Consiglio Nazionale Cecoslovacco, i bolscevichi decisero di trasferirla – dopo che però avesse consegnato le armi – sul fronte francese perché potesse continuare la guerra su quel fronte, ma l’unico modo per arrivarci era attraversare la Siberia, il Pacifico, il canale di Panama e l’Atlantico (!). Alla fine del marzo 1918 partì il primo (di ottanta) treno diretto a Vladivostok ma, date le condizioni in cui versava la Transiberiana, a metà maggio solo 12mila soldati cecoslovacchi ci erano arrivati e gli altri erano ancora sparpagliati lungo la linea: mentre i malumori e i sospetti crescevano, il Consiglio Supremo Alleato di Guerra decise allora, d’accordo con Trotsky, di evacuare le unità rimaste più indietro via Arkhangelsk, ma i cecoslovacchi sospettarono (a torto) che si trattasse di una manovra dei bolscevichi (che già avevano fatto ogni sorta di concessione ai tedeschi) per dividerli ulteriormente e per ostacolare il loro trasferimento. Per parte loro, gli stessi bolscevichi temevano che la Legione Cecoslovacca, rimasta disciplinata ed ordinata, potesse essere usata dagli Alleati contro di loro visto anche che nell’aprile 1918 i primi giapponesi erano intanto sbarcati a Vladivostok e i primi controrivoluzionari – i Bianchi – avevano cominciato ad operare in Manciuria. In un clima di sospetti e di incomprensioni crescenti i cecoslovacchi cominciarono così a nascondere anziché a consegnare le armi e il 14 maggio un malaugurato incidente in una stazione ai piedi degli Urali precipitò gli eventi: i cecoslovacchi continuarono la loro marcia verso est con le armi in pugno impadronendosi della Transiberiana, sconfiggendo ogni presidio militare che avesse cercato di fermarli ed requisendo tutto il materiale bellico che trovavano sul loro cammino (anche un treno blindato!). I cecoslovacchi già a Vladivostok tornarono indietro per unirsi ai loro commilitoni che stavano avanzando: quelli che stavano arrivando ad Ekaterinburg probabilmente spinsero i bolscevichi a sterminare la famiglia imperiale colà detenuta (presto la città cadde comunque nelle mani dei Bianchi) e quelli che marciarono su Kazan aiutarono i Bianchi nell’occupazione della città e si impadronirono della riserva aurea imperiale (che i bolscevichi avevano qui trasferito per motivi di sicurezza!). Tutta la Siberia si era comunque rivoltata contro i bolscevichi che a settembre l’avevano completamente persa: flotte alleate erano a Vladivostok per trasportare sui fronti europei il materiale bellico colà stipato, ma le navi per trasferire i cecoslovacchi non erano ancora arrivate. 42 II Grandi quantità di materiale bellico e di scorte alimentari erano comunque presenti non solo a Vladivostok ma anche in altri porti siberiani e così, temendo che i bolscevichi, ritenuti (e non a torto) di fatto alleati dei tedeschi, potessero consegnarglieli, reparti alleati cominciarono a sbarcare (soprattutto i giapponesi a Vladivostok) per impadronirsene. Questo però fu solo l’inizio dell’invasione perché con la Russia fuori gioco il Giappone colse l’occasione per accelerare la sua espansione sul continente asiatico: il 2 agosto ulteriori truppe nipponiche da Vladivostok occuparono Khabarovsk e in ottobre invasero la Manciuria settentrionale, le valli dell’Ussuri e dell’Amur e la Ferrovia Orientale Cinese. Questa politica del Giappone si integrò e fuse poi con quella degli Alleati di ben 14 nazioni (soprattutto francesi, inglesi e americani) che – a guerra finita! - intervennero contro i bolscevichi: nell’estremo oriente russo sbarcarono 125mila soldati (75mila dei quali giapponesi) ed altri operarono poi in altre parti della Russia in modo da collegarsi, aiutare e sostenere gli eserciti dei Bianchi che da ogni parte premevano e minacciavano la Russia bolscevica. III In Siberia i due governi antibolscevichi nel settembre 1918 finalmente si unirono e formarono un governo di coalizione che però solo due mesi dopo fu rovesciato dal suo ministro della difesa, l’ammiraglio Alexander Kolchak, che si proclamò Governatore Supremo della Russia ed assunse poteri dittatoriali: egli dichiarò che dopo la sconfitta dei bolscevichi la Russia sarebbe divenuta un Paese democratico, ma come tutti gli altri generali bianchi, anche sotto le sue insegne si raggrupparono tutti i reazionari, i conservatori e gli zaristi, oltre a torme di avidi predatori e razziatori che si dedicarono ad ogni sorta di violenze e sopraffazioni ai danni delle sfortunate popolazioni che cadevano sotto il loro controllo. Era ormai pienamente iniziata la terribile guerra civile che avrebbe causato innumerevoli devastazioni ed inenarrabili sofferenze stravolgendo ed inferocendo la società e la storia russa stesse. IV La guerra civile russa vide eserciti bianchi, sostenuti, aiutati e riforniti dagli Alleati, attaccare da ogni lato la Russia bolscevica, peraltro internamente spossata dal durissimo ‘comunismo di guerra’: sulla carta la vittoria dei Bianchi sembrava inevitabile, ma in realtà erano i bolscevichi ad avere molti vantaggi che alla fine li fecero trionfare. Innanzitutto la sconfitta degli Imperi Centrali ridusse notevolmente l’urgenza degli esausti Alleati di sconfiggere i bolscevichi che, in secondo luogo, poterono far propria la causa nazionale della patria invasa e che, in terzo e quarto luogo, 43 controllavano le regioni centrali, cioè quelle industrializzate, e potevano spostare le proprie forze da un fronte all’altro. Kolchak aveva comunque un esercito ben equipaggiato di 250mila uomini ed il controllo della Transiberiana venne affidato ad americani e giapponesi per il tratto Vladivostok-Irkutsk ed ai cecoslovacchi per quello Omsk-Irkutsk: nonostante si fosse circondato dei peggiori elementi reazionari, il suo regime fosse gravemente corrotto e le sue truppe fossero di fatto mercenarie (e come tali si comportassero) inizialmente Kolchak mietè successi, come d’altra parte sui lontani e lontanissimi fronti gli altri generali bianchi, ma tutti questi non crearono mai un comando unificato che dirigesse e coordinasse le loro operazioni, mentre le truppe bolsceviche e le numerose bande partigiane comuniste si muovevano obbedendo ad un unico centro strategico. La Siberia orientale era infine sotto il dominio dei giapponesi che stavano conducendo una politica del tutto coloniale (e dunque antirussa): per questo scopo aizzavano pretestuosamente il nazionalismo dei buryati e in conclusione, non volendo affatto una vittoria dei Bianchi nella Siberia orientale, di fatto favorirono quella dei bolscevichi. L’occupazione di Kolchak fu quanto di peggio si potesse immaginare: agli arresti arbitrari, persecuzioni, razzie, confische e diffusa violenza si aggiunsero i pogrom e le atrocità antisemite, ufficialmente motivati dall’accusa che il bolscevismo era espressione del giudaismo (e la formula ‘boscevismo giudaico’ in seguito sarebbe stata ripresa ed utilizzata dal nazismo). La propaganda dei bolscevichi agiva poi efficacemente sulle truppe bianche mentre il passaggio dall’arruolamento volontario alla leva obbligatoria ne aveva fortemente aumentato gli efettivi cosicchè a partire dal marzo 1919 iniziò il loro contrattacco che non si sarebbe fermato più fino alla piena vittoria finale. Fra le fila dei Bianchi le diserzioni non fecero altro che crescere, bizzarrie e follie di alcuni loro generali ne aumentarono il discredito, gli Alleati non poterono (né vollero, stanchi com’erano?) impegnarsi più di tanto, prigionieri, sfollati e rifugiati si moltiplicavano, Kolchak perse letteralmente la testa e le sue truppe semplicemente si disintegrarono mentre, come in tutte le ritirate, confusione e competizione regnavano anche fra quelli che fino al giorno prima avevano combattuto insieme. Kolchak tentò di defilarsi nominando Denikin suo successore e cercò di porsi sotto la protezione degli Alleati, ma fu catturato e fucilato il 7 febbraio 1920. Pochi anni fa di fronte al Monastero a Irkutsk, dove ebbe sede il suo governo, è stata eretta un’imponente (e discussa) statua in onore di Kolchak ai cui piedi un bolscevico e un bianco abbassano le armi: in Siberia i monumenti che ricordano la guerra civile sono piuttosto numerosi (a volte ricordano però solo i vincitori) ma questo è l’unico a celebrare un generale bianco. Una strada principale di Vladivostok è inoltre dedicata a Semenov, un altro generale bianco. Non si sfugge insomma all’impressione che nella Russia post-sovietica il giudizio sulla terribile guerra civile non sia stato ancora definito chiaramente - come del resto quello sull’intera storia del Paese nel Novecento: fa eccezione la memoria della vittoria nella Grande Guerra Patriottica, orgogliosamente esaltata e celebrata dai 44 suggestivi monumenti in tutte le città della Siberia e nelle apposite sale dei musei. Solo le statue dedicate a Lenin sono altrettanto frequenti e costanti. V Mentre una dopo l’altra le truppe degli Alleati fuggivano (spesso nel caos) ed abbandonavano il suolo russo, i giapponesi costituivano invece un problema molto più serio perché non erano presenti in Estremo Oriente per contrastare i bolscevichi ma per aumentare i loro domini coloniali: 200mila soldati nipponici occupavano infatti la Manciuria (ed erano in ottimi rapporti coi signori della guerra locali), l’intera Sakhalin e molte coste siberiane. Per evitare troppi attriti nell’aprile 1920 i bolscevichi fondarono così la Repubblica dell’Estremo Oriente (con capitale Chita), una sorta di stato cuscinetto (bolscevico) fra il Baikal e il Pacifico, ma dopo che nel novembre Wrangel, l’ultimo generale bianco, fuggì dalla Crimea, i bolscevichi furono in grado di concentrare le proprie forze in Estremo Oriente: la Repubblica prese allora ad allargarsi assorbendo sempre più territori finchè - mentre la Mongolia era divenuta ormai un satellite di Mosca nell’ottobre 1922 anche i giapponesi dovettero prendere il mare e i bolscevichi poterono finalmente entrare a Vladivostok. Tutta la Siberia orientale era stata definitivamente rioccupata e la vittoria bolscevica era completa. La Siberia sovietica La ricostruzione della Russia europea ebbe la precedenza su quella della Siberia, ancora largamente agraria, priva di infrastrutture, che forniva il 2% del PIL e la cui produzione nel 1923 si era dimezzata rispetto a quella del 1917, ma l’ondata modernizzatrice ed industrializzatrice dello stalinismo trasformò anche lei: immensi centri carboniferi, gigantesche fonderie ed acciaierie, grandiose fabbriche di trattori, centrali elettriche, miniere di tutti tipi, scavi di pozzi petroliferi e tutta una serie di industrie lungo la Transiberiana si accompagnarono al doppio binario per tutto il suo tragitto, alla costruzione di nuove linee ferroviarie ad essa collegate ed alla sostituzione dei ponti in legno con altri in acciaio. Era l’affermazione dell’industria ‘pesante’ su quella ‘leggera’ secondo piani quinquennali che dovevano trasformare completamente e in fretta l’URSS per farla diventare una grande potenza industriale ed altrettanto militarmente forte ed armata: solo così per Stalin essa avrebbe potuto resistere alla competizione coi Paesi industrializzati e stoppare in partenza ogni progetto di invasione. I I mezzi per attuare questa grande politica furono la totale sottomissione delle campagne con la famigerata collettivizzazione di tutte le terre, l’ ‘eliminazione del 45 kulak come classe’ (2 dicembre 1932) e l’istituzione del lavoro forzato mediante una ciclopica, maniacale e folle persecuzione che riempì di schiavi gli infernali lager creati apposta per scopi produttivi ed in cui il lavoro era il mezzo non solo per creare spesso dal nulla imponenti stabilimenti industriali ma contemporaneamente anche per eliminare tutta quella parte della società ritenuta non interamente malleabile ed assoggettabile: la vita e la sofferenza umana non contarono più nulla e per esempio dei 250mila schiavi che nel 1931-33 scavarono a mano i 270 km. di canali che collegarono il mar Baltico col Bianco più di 60mila morirono di freddo, fatica, stenti, malattie e maltrattamenti nella più completa indifferenza (se non compiacimento) dei vertici politici sovietici. In Siberia il terrore staliniano colpì più duramente che altrove per vari motivi: innanzitutto la Siberia era già stata collaudata come luogo di deportazione, in secondo luogo i contadini siberiani erano stati relativamente più liberi ed autonomi che nel resto della Russia (per attrarli era stato infatti necessario creare condizioni favorevoli) ed andavano dunque repressi più duramente, in terzo luogo la Siberia era stata sempre antibolscevica e andava di conseguenza ripulita più a fondo, in quarto luogo perché i centri industriali, minerari e militari erano più sicuri e protetti in Siberia che nella Russia europea, più permeabile ad un’eventuale invasione. Il tristissimo universo concentrazionario comunista (il famoso G.U.Lag.) riempì la Siberia più che altre parti dell’immenso Paese dei suoi infami lager dai quali la fuga era praticamente impossibile: soprattutto il nord-est fu adibito esclusivamente ai campi di lavoro forzato e città come Komsomolsk (sull’Amur) o Magadan divennero soltanto centri di lager. Gli schiavi divennero così non solo la base dell’economia siberiana, ma anche la sua classe sociale più numerosa (!) dato che solo durante il primo piano quinquennale la forza-lavoro vi crebbe 3,5 volte e che dal 1926 al 1939 i 900mila abitanti urbani della Siberia orientale si triplicarono. Il progetto era lo sterminio attraverso il lavoro in modo da liberarsi di tutti coloro che erano giudicati non perfettamente assimilabili, ma solo dopo averli spremuti e sfruttati fino all’ultima goccia del loro sangue per l’edificazione del sistema che li aveva voluti morti fin dall’inizio: l’aspettativa media di sopravvivenza nei campi era di 2 anni ed effettivamente il 90% degli internati vi morì di fame, stenti, maltrattamenti, freddo, fatica, malattie e crepacuore. Chi potè fuggì (i buryati in Mongolia, molti cosacchi in Manciuria) e chi restò conobbe fame e carestia che spopolarono intere regioni e che furono anche usate come armi politiche per piegare i riottosi. Dopo l’assassinio di Kirov (1 dicembre 1934) il terrore non conobbe più limiti e raggiunse livelli tali da sembrare incredibili per la loro ferocia e per la loro diffusione, e sui quali esiste una grande e dolentissima letteratura (come l’opera di Salamov sulla Kolima - nei cui lager perì 1/5 della ventina (cifra molto approssimativa) di milioni di vittime del G.U.Lag - o quella di Solzenicyn): tuttavia la letteratura – anche straniera! - al tempo dello stalinismo era occupata a celebrare i fasti dell’edificazione del socialismo e soprattutto i suoi innegabili successi (tacendo 46 naturalmente sui fallimenti, errori ed insuccessi, come quello della fallimentare ferrovia lungo la costa dell’Artico). II Ad illustrare la visione dominatrice e onnipervasiva di Stalin (e la vastità della Siberia dove ogni esperimento era possibile) merita menzione il tentativo del 1934 di creare una Regione Autonoma Ebrea a Birobidzan (il fiume Bira è un affluente dell’Amur): in verità il progetto originario era quello di trasferire gli ebrei in Crimea (per spezzare il nerbo dell’etnia tartara) ma era presto tramontato e si optò allora per il lontano oriente. Inizialmente il progetto sembrò funzionare e a Birobizdan arrivarono ebrei anche da altri Paesi (Palestina compresa!): nella frenetica atmosfera di mobilitazione per lo sviluppo e per la trasformazione dell’intera URSS, settemila giovani pionieri ebrei risposero all’invito di trasferirsi colà per costruirvi una nuova patria ma le (solite) difficoltà dell’isolamento, della lontananza e della primitività del luogo non resero attuabile una vera migrazione. Oggi in questa bella città rimangono solo alcune testimonianze di quegli anni e gli ebrei rimasti sono un’esigua minoranza della popolazione complessiva. III Come dappertutto, anche nei confronti dei nativi siberiani il nuovo potere sovietico procedette con la sua consueta logica per organizzarli, inquadrarli ed omogeneizzarli nei propri schemi e nelle proprie istituzioni: nel 1922 venne costituita la Repubblica Autonoma di Yakuzia (in un’area artica e subartica complessivamente due volte l’India), nel 1923 quella di Buryazia (una volta e mezza l’Inghilterra) con capitale Ulan Ude, e il 10 dicembre 1930 altre sei ‘regioni nazionali’. Anche in tutte queste vennero istituiti sistemi sanitari, di igiene pubblica e scolastici che comportarono enormi ed indubbi miglioramenti, se non rivoluzioni, nel tenore e nei sistemi di vita dei siberiani, ma tutto ciò rientrava pienamente nella politica che può dirsi colonialista, occidentalizzatrice e naturalmente comunistizzatrice dell’URSS: così ad esempio i libri di testo (editi e controllati dallo stato) erano scritti in russo, sciamani e altri capi tradizionali vennero eliminati, le moschee tartare vennero chiuse e i templi buryati distrutti (tutti tranne uno) mentre la collettivizzazione inquadrò tutti nelle unità di lavoro e di fatto abolì il nomadismo. I nativi siberiani furono insomma inseriti nel nuovo impero plurinazionale come tutti gli appartenenti alle altre diverse etnie: tutti dovevano seguire gli stessi modelli di comportamento e di pensiero, avevano gli stessi (scarsi) diritti e gli stessi (numerosi) doveri nell’immensa fucina comunista ed egualizzatrice che tutto voleva e doveva assimilare e fondere in un unico stampo. Unica per tutti fu naturalmente l’imposizione della dittatura totalitaria, la sua mentalità e cultura, l’onnipervasiva persecuzione poliziesca e lo spegnimento di ogni velleità di autonomia e di libertà. 47 III Dopo l’attacco tedesco all’URSS (21-22 giugno 1941) 322 industrie ad ovest degli Urali vennero smontate e trasferite (insieme al loro lavoratori) in Siberia e qui riassemblate e rimesse in produzione: il Kuzbas (il bacino del fiume Tom) divenne il fulcro dello sforzo bellico sovietico mentre Omsk, Novossibirsk ed altre città crebbero a vista d’occhio e divennero giganteschi centri industriali - per il momento al sicuro dall’avanzata della Wehrmacht. Tutto ciò trasformò velocemente l’intera fisionomia della Siberia e ne accrebbe a dismisura l’importanza. Nonostante un tentativo di sbarco tedesco alla foce dello Yenisey (operazione ‘Wunderland’) presto rintuzzato, in Siberia non si combattè mai: il suo ruolo – importantissimo e vitale - fu quello di produttrice per la guerra e nel 1942-45 piloti americani e russi portarono aerei dall’Alaska sui fronti tedeschi via Siberia. Inutile dire che durante la seconda guerra mondiale anche gli internati nei campi crebbero notevolmente a causa dell’arrivo all’interno dei loro recinti spinati dei prigionieri di guerra e delle popolazioni ritenute ostili, mentre gli Alleati riconsegnarono all’URSS oltre 1 milione di fuggitivi (!). Oltre a ciò, da tempo Stalin era stato ben determinato a voler rafforzare anche l’estremo oriente sovietico dove in passato i giapponesi erano stati più volte vittoriosi e, soprattutto dopo la loro invasione della Manciuria (1931) e la creazione del Manchukuo (che fra l’altro inglobò anche la Ferrovia Cinese Orientale), costituivano ancora una seria e costante minaccia: nel 1937-40 la produzione industriale della Siberia sul Pacifico raddoppiò e vi vennero trasferite ben 40 divisioni. Su questo fronte Stalin manovrò molto bene: riuscì a rimanere in pace col Giappone in modo da potersi concentrare contro la Germania finchè il 9 agosto 1945 (il giorno della seconda atomica su Nagasaki!) dichiarò guerra al Giappone e invase la Manciuria (dove si impadronì di grandi quantità di materiale bellico ed industriale), Sakhalin e le quattro Kurili meridionali. Dopo la resa del Giappone (2 settembre 1945) un trattato con la Cina nazionalista riconsegnò infine all’URSS la Ferrovia mancese, Port Arthur e Dalny (Darien) che tuttavia sarebbero stati resi alla Cina comunista nel 1951. IV Dopo la morte di Stalin furono liberati 8 (su 12 stimati) milioni di internati nei lager ma in genere le amnistie riguardarono i criminali e i condannati per reati comuni, tanto che nel 1956 solo a Kolima-Magadan c’era più di 1 milione di prigionieri politici: finchè ci fu l’URSS (età di Gorbaciov compresa) ci furono insomma anche i lager nei quali finivano regolarmente anche vagabondi ed irregolari. Gli ultimi prigionieri politici furono rilasciati da un lager vicino a Perm solo nel 1992 (!). In ogni caso lo sgonfiamento dei campi ebbe ovviamente un forte significato per la Siberia dove in misura crescente dovettero essere utilizzati lavoratori liberi anziché 48 deportati: se a ciò si aggiunge che con la fine della guerra molte industrie già trasferite in Siberia vennero riportate ad ovest degli Urali si comprende come il ruolo ed il peso economico della Siberia si ridusse in modo sensibile. In ogni caso nemmeno in Siberia cessarono i grandi investimenti per le grandi infrastrutture, come le enormi centrali idroelettriche (soprattutto lungo l’Angarà e loYenisey), le grandi fabbriche di ogni tipo, le miniere, lo sfruttamento dei vasti giacimenti di petrolio, di carbone, di gas e le nuove linee ferroviarie: fra queste ultime merita considerazione la BAM che da Tayshet (a nord-ovest del Baikal) lo supera a nord per arrivare a Komsomolsk-sull’-Amur dopo un percorso di 3.200 km.. Questa quasi-seconda Transiberiana potrebbe costituire a tutt’oggi una notevole alternativa alla sovraccarica Transiberiana anche perchè è lontana dal confine cinese e quindi strategicamente molto più sicura, ma la mancanza di ogni infrastruttura la rende praticamente inutilizzabile. Altre nuove linee si connettono comunque alla Transiberiana e permettono nuovi ed utilissimi collegamenti fra le varie parti della Siberia, come quella Urali del sud – Kuzbas; Urali del nord – foce dell’Ob; Yakutsk (foce della Lena) – Transiberiana; valli del Kolima e dell’Indigirka – porto di Magadan. Grandi energie sono state spese per il passaggio a nord-est ma, nonostante i rompighiaccio, gli oltre 10mila km. della rotta artica possono essere percorsi solo 3-4 mesi all’anno. La mancanza di opposizione e di controllo unita al disprezzo per le condizioni di vita della società hanno prodotto però anche inquinamento, disastri ambientali e sanitari di vaste e vastissime proporzioni, ma tutti i risvolti negativi dei grandi e celebratissimi sviluppi produttivi erano taciuti né destavano alcun interesse: sintomatico della mentalità del tempo fu il progetto di costruire enormi dighe di sbarramento per invertire il corso dei grandi fiumi prima che sfociassero nell’Artico e convogliarne le acque a sud (!!!), fortunatamente abbandonato a metà degli anni Ottanta. Parallele a quelle industriali e produttive vanno infine annoverate le numerosissime iniziative per attrezzare la Siberia in senso militare al tempo della guerra fredda, test nucleari compresi: anche in questo caso non si ebbe il minimo riguardo per l’ambiente né, data l’assoluta segretezza delle operazioni, ciò suscitò (o potè suscitare) opposizioni e proteste. La Transiberiana oggi Ancor oggi il lunghissimo percorso della Transiberiana richiede una settimana continua di viaggio e chiaramente ormai non può attrarre dunque che turisti, amanti del ritmo del treno o chi deve percorrerne solo un tratto: è però allo studio un progetto cino-russo-torinese per costruire una nuova linea ultramoderna MoscaPechino percorribile in sole 24 ore! Il progetto ha dell’incredibile e dimostra come per le sue insostituibili capacità di trasporto il treno mantiene tuttora la sua piena validità e può svolgere ancora un ruolo 49 importante ed attivo nello stringere sempre di più i contatti nel mondo completamente globalizzato del XXI secolo. Caratteristica della nostra era è poi anche la nuovissima maratona del ciclismo estremo i cui partecipanti, partiti da Mosca il 15 luglio 2015, hanno dovuto pedalare lungo la Transiberiana fino a Vladivostok: il percorso era stato diviso in quindici tappe (con regolare classifica come nel Giro d’Italia e nel Tour de France) e articolato in 23 giorni (con arrivo il 6 agosto). Oggi il tragitto della Transiberiana attira insomma attrezzatissimi ed allenatissimi ciclisti e fornisce l’occasione di mettere alla prova le loro capacità: la Transiberiana si è dunque ormai tanto affermata che il suo percorso può avere anche la funzione di offrire la cornice della storia ad una competizione sportiva (come le corse sulla Grande Muraglia cinese o sui sentieri andini che portano al Machu Picchu, ecc.). Chi avrebbe mai potuto pensare una cosa simile ai tempi (non certo lontani) in cui la Siberia atterriva per la sua stessa immensa vastità, la sua misteriosa natura e la sua inaccessibilità? O nei lunghi e difficilissimi anni della costruzione della Transiberiana, quando sembrava un miracolo o un miraggio che un giorno si sarebbe potuta percorrere in treno la vastissima area che si stende fra Mosca e l’oceano Pacifico? Eppure la maratona ciclistica significa anche dimenticanza della storia e appare una delle tante leggere e spensierate fruizioni di qualcosa che appartiene invece al patrimonio delle conquiste dell’umanità e che meriterebbe quindi ben altro rispetto e considerazione. Conclusione Il crollo repentino dell’URSS suscitò reazioni separatiste e autonomiste anche in Siberia e nel 1991 a Novossibirsk l’Accordo Siberiano iniziò a battersi contro il centralismo moscovita per il controllo e la gestione delle proprie risorse: finchè la Federazione Russa si dibatteva nelle spire della sua grave crisi i siberiani riuscirono a strappare a Eltsin una serie di accordi e compromessi, ma con l’ascesa al potere di Putin e l’uscita della Federazione Russa dalla crisi questa tendenza si invertì a favore di un ritorno all’accentramento secondo la famosa logica putiniana della ‘verticale del potere’. Il censimento della Siberia del 2002 ha rilevato una popolazione di 26 milioni di persone (più del 18% dell’intera Russia e tre volte quella della sola Mosca) in genere concentrate a sud lungo la Transiberiana: il governo deve offrire ogni sorta di vantaggi a chi decide di stabilivici perché le condizioni climatiche e l’isolamento sono stati sicuramente combattuti dalla tecnologia ma non sconfitti né potranno mai esserlo in questa terribile e grandiosa regione del mondo. Sottomarina 7 settembre 2015