UNIVERSITÀ POPOLARE MARIANA 2006/2007 Lezioni sul Compendio della Dottrina sociale della Chiesa primo anno sabato,10 marzo 2007 Lezione 3 CATERINA MULATERO – ALBERTO LO PRESTI Il pensiero sociale cristiano e il carisma dell'unità testo preparato Introduzione Con questa lezione realizziamo un passaggio cruciale nel nostro percorso di avvicinamento al pensiero sociale cristiano. L’obiettivo, infatti, è quello di porre in luce il forte legame esistente fra il pensiero sociale cristiano e la dottrina che emerge dal carisma dell’Unità. Nonostante l’originalità di questa scelta, a sollecitarci in questa direzione è la constatazione che il nostro ideale ha contribuito in modo importante allo sviluppo del pensiero sociale cristiano, e da esso si profila un paradigma ricco e utile per una definizione della civiltà dell’amore alla quale la DSC anela. E, in modo del tutto particolare, si proporrà lo schema dei sette aspetti quale risposta vitale alle sfide che il mondo contemporaneo lancia nei confronti della DSC. Quale contributo per la Dottrina sociale della Chiesa del paradigma che scaturisce dal carisma? CATERINA MULATERO Comincerò col cercare di spiegare il significato dell’espressione paradigma interdisciplinare dell’unità per poi cogliere la sua importanza in relazione alla DSC. Di un nuovo paradigma originato dal carisma dell’unità si parla correntemente da quando sono iniziati i conferimenti delle lauree honoris causa a Chiara, circa dodici anni fa. E’ allora emerso molto chiaramente che nel carisma dell'unità esiste un paradigma interdisciplinare di unità: questo paradigma è fondamento metodologico per la costruzione di modelli teorici, di strategie di ricerche empiriche, di schemi di applicazione. Esso è insito nel pensiero, nella spiritualità e nella vita spirituale di Chiara. Ed è stato indubbiamente molto importante che si sia evidenziato che dal carisma dell’unità scaturisce questo nuovo paradigma, comunemente chiamato paradigma dell'unità. Per comprendere meglio ciò che verrà detto in seguito, sarà bene precisare il significato del termine “paradigma” rispetto al termine “modello", in quanto molto spesso si attribuisce ai due termini lo stesso significato. Il termine “paradigma” ha un concetto più ampio rispetto a “modello”. Esso costituisce l'orizzonte che fa da sfondo al lavoro dello studioso, del ricercatore: contiene gli elementi culturali, di valore, di significato e ha il compito di orientare le sue scelte, la sua ricerca, il suo metodo. I paradigmi, però, orientano la ricerca non soltanto attraverso delle regole astratte costruite a tavolino, ma esercitano anche una diretta attività operativa; quindi normalmente la filosofia della scienza “sbriciola”, per così dire, il paradigma in una serie di concetti, schemi, modalità, categorie, indicatori di valore ed empirici. Perciò all'interno del paradigma noi possiamo trovare come tanti elementi che possono essere considerati anche ognuno a se stante e che, tutti insieme, costituiscono il paradigma stesso. Ci si potrà chiedere: ma affrontare questo concetto del paradigma che significato ha rispetto al Compendio della dottrina sociale della Chiesa? E' il Compendio stesso a dare la risposta a questo interrogativo. Infatti nelle sue pagine iniziali (specialmente nn. 8-19) viene indicato il metodo seguito nella sua stesura, i suoi principi orientativi, la prospettiva che ha guidato determinate scelte, le finalità che si propone, cosa offre concretamente, a chi è primariamente destinato. Cominciano così a delinearsi alcune linee del paradigma che ha guidato la compilazione del Compendio. Scavando ancora in questa direzione possiamo costatare che il Compendio costituisce un corpus dottrinale: infatti i vari documenti che costituiscono la dottrina sociale della Chiesa, pur avendo un’origine diversa, una storia diversa, hanno una loro unità d'insieme, costituiscono appunto un corpus dottrinale. Però finora il contenuto di questa dottrina, di questo sapere, non aveva ancora trovato posto in una raccolta organica, completa, ufficiale. Il Compendio della dottrina sociale della Chiesa è la risposta a questa sentita esigenza ed è ben più di una raccolta per ordine cronologico o tematico. Esso, come si trova scritto al n. 9 «offre un quadro complessivo delle linee fondamentali del corpus dottrinale dell'insegnamento sociale cattolico». Quindi ci troviamo di fronte a una raccolta che ha un suo ordine logico e che vuole offrire un quadro completo, esauriente, riguardo alle varie tematiche. Ed è importante questo approccio perché – continua il Compendio al n. 9 - «consente di affrontare in modo adeguato le questioni sociali del nostro tempo», questioni che, come sappiamo, hanno ormai dimensioni planetarie, sono interconnesse, richiedono una visione d'insieme. Gli elementi di cui sono composte, poi, si condizionano a vicenda e sempre di più riguardano sia ciascuno di noi che tutta la famiglia umana. Prendiamo come esempio la questione ambientale. E’ questa una problematica che riguarda tutti: la famiglia umana nel suo insieme, indubbiamente; ma ci riguarda anche come singoli e come gruppi; riguarda le strutture, le istituzioni in cui noi siamo inseriti. Allora per affrontarla in modo adeguato, occorre anche avere strumenti adeguati. Il Compendio, con la sua specificità, si presenta come uno di questi strumenti. E’ bene precisare che il suo obiettivo di fondo non è risolvere una questione o l’altra, ma piuttosto quello di riproporre un nuovo umanesimo. La storia è costellata di tanti umanesimi e oggi c'è necessità di un umanesimo adeguato per questo nostro tempo travagliato ma denso di promesse. Il Compendio propone «un umanesimo all'altezza del disegno d'amore di Dio sulla storia, un umanesimo integrale e solidale capace di animare un nuovo ordine sociale, economico e politico, fondato sulla dignità e libertà di ogni persona umana, da 2 attuare nella pace, nella giustizia e nella solidarietà» (n. 9). Un tale umanesimo potrà trovare concretezza nella misura in cui si riuscirà a formare “uomini nuovi” che, con il necessario aiuto della grazia divina, potranno essere i costruttori, gli artefici di una nuova umanità1. A tal fine sono di capitale importanza i principi fondamentali che reggono tutto l’edificio della dottrina sociale della Chiesa, ad esempio: il principio di personalità, di solidarietà, di sussidiarietà, del bene comune, eccetera. Questi principi hanno qualcosa di particolare che li contraddistingue: essi stanno in relazione l'uno con l'altro, s'illuminano l'uno con l'altro. Perché? Perché esprimono l'antropologia cristiana che sottostà a tutto il Compendio. Sintetizzando questo breve excursus riguardante il paradigma del Compendio, possiamo affermare che esso presenta in maniera sistematica e complessiva l'insegnamento sociale della Chiesa, offre un quadro esauriente delle linee fondamentali di questo corpo dottrinale; dà una visione d'insieme, suggerisce un metodo organico nella soluzione dei problemi, evidenzia dei principi fondamentali che reggono tutto questo corpo dottrinale, principi che esprimono un’antropologia che fa da sfondo al documento. Un testo molto denso quello del Compendio: articolato e ben strutturato, collocato nell'ambito della teologia morale, però con una sua specifica dimensione interdisciplinare; portatore di un sapere ricco e che, pur toccando molteplici aspetti, è nell'insieme unitario. E’ pertanto uno strumento, una guida per l'uomo di oggi in vista della costruzione del nuovo umanesimo cui il Compendio stesso guarda. Dalla visione dell’uomo all’idea di ordine sociale e politico ALBERTO LO PRESTI È importante discutere il paradigma. Non si tratta solo di un’esigenza didattica, ma di riuscire a rendere conto degli orizzonti intellettuali. Si può dire, infatti, che ogni paradigma si costruisce su delle precise concezioni antropologiche per cui, in modo ancora più semplice, partendo da una visione filosofica dell’uomo possiamo leggere la particolare concezione sociale e politica data. Qualche esempio celebre potrà esserci d’aiuto. 1 All’alba della modernità, fra il XVI e il XVII secolo, due pensatori hanno una visione dell’uomo molto negativa. Il primo, Machiavelli, pensa che l’uomo sia un essere del quale non ci si può fidare, perché attratto solo dalle cose che lo interessano e lo arricchiscono. Fra i consigli che Machiavelli dà al sovrano per regnare senza pericoli ve ne è uno che ci dice molto sulla visione antropologica di Machiavelli: è meglio, per il re, essere temuto piuttosto che amato. L’amore, infatti, è un sentimento passeggero, estemporaneo, non decisivo per fissare un rapporto di fedeltà. Il cittadino se lo scorda. Invece, il timore, la paura, non si dimentica e tiene il suddito in costante soggezione rispetto al re, e non ne mette in discussione l’autorità. Nel XVII secolo, Hobbes pensa l’uomo come un essere che per natura costituisce un pericolo per l’altro uomo. È di Hobbes il famoso detto homo homini lupus, cioè l”l’uomo è lupo per l’altro uomo”, secondo un criterio in cui lo spontaneo egoismo di ciascuno produce il disordine e la violenza perenne. Entrambi, Cf Gaudium et spes, n. 30. 3 Machiavelli e Hobbes, postulano uno Stato politico assolutista, totalitario, dove il sovrano è il capo forte a cui tutti sono sottoposti e che è impossibile da contestare. Inevitabilmente, una concezione antropologica pessimistica e negativa produce un’idea politica assolutista. Nel XVII secolo, Locke ha una visione dell’uomo differente da quella di Hobbes. È una visione ottimista, ma tutta rivolta a una felicità consacrata dalla proprietà privata. Dice Locke che la proprietà privata è un diritto naturale, perché l’uomo con il proprio lavoro trasferisce la proprietà di esso negli oggetti che manipola. Di conseguenza, un solo ordine civile è possibile: quello fondato sulla proprietà privata e sulle libertà individuali. Nel XVIII secolo, Rousseau ha una visione antropologica differente da quella di Locke. Immagina un uomo che per natura non sente il bisogno degli altri, è indifferente perché, tutto sommato, dalla natura può ricavare tutto quel che gli necessita. È le cose rimangono così fin quando i primi furbi non seminano la discordia fondando la proprietà privata, che per Rousseau è il peccato originale della società. Inizia la corruzione della morale, l’ingordigia, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Per uscirne, c’è bisogno di un’utopia chiamata “volontà generale”, una super collettività che assorbe tutta la nostra individualità e pensa al nostro benessere e verso la quale non possiamo avere posizioni differenti da quelle dell’estrema concordia. Nel XIX secolo, Marx ha una visione antropologica materialista, dalla quale ricava una concezione sociale e politica conflittuale. L’uomo, secondo Marx, si distingue dagli altri esseri per una cosa: è l’unico che crea i mezzi per sopravvivere e, con ciò, produce le condizioni per la sua stessa esistenza. Allora, per capire cos’è l’uomo devo andare a vedere come si procura da vivere. Vale a dire, l’uomo – nella visione di Marx – è soprattutto l’insieme dei suoi bisogni materiali. Per soddisfare tali bisogni, qualcuno si organizza contro qualcun altro, e la storia di tutte le società racconta l’inevitabilità del conflitto fra le classi sociali. L’antropologia materialista produce un paradigma conflittuale. Gli esempi potrebbero continuare, e rendere valido questo meccanismo di lettura, dalla concezione antropologica alla descrizione dell’orizzonte sociale e politico. Vale anche per la DSC: la visione antropologica fondata sulla persona umana produce quello speciale orizzonte sociale e politico denominato “Civiltà dell’Amore”. La visione antropologica della DSC non è quella dell’individuo, pensato come un’isola a sé stante, costretto dalla necessità ad associarsi. Tanto meno quello di una minuscola e insignificante casualità all’interno di un agglomerato sociale, pensato come il vero unico e il tutto. Quella espressa dalla DSC è un’antropologia plenaria, che pone al centro del discorso la persona e il primato della sua dignità. Persona, si badi bene, è un concetto complesso, filosoficamente ricco. Ma non così distante dal nostro vissuto quotidiano. È facile, per esempio, osservare che posso identificare un micio come un “individuo” della specie felina, mentre non potrei mai chiamarlo “persona”. Allo stesso modo, ci farebbe ribrezzo pensare che, da piccoli, siamo stati accuditi da un “individuo”, mentre ci rassereniamo se pensiamo che a curarci fu la “persona” di nostra madre. Già il 4 linguaggio quotidiano ci aiuta a decifrare le categorie in atto: la persona è quell’uno che si rivolge agli altri per realizzare la propria natura. La persona è quell’uno che tende alla molteplicità, secondo un prodotto che vorrebbe ritornare – anche matematicamente – sempre all’unità. Dice G.M. Zanghì, a proposito della «confusa identificazione della persona con l’individuo […] l’individuo non è approdo, è inizio di un cammino: è l’aurora della persona. E l’individuo è persona solo se riesce a morire a se stesso, come nella Trinità ognuno dei Tre è Persona perché tutto espropriato negli Altri Due. La grande legge, anche culturale, della Croce, è sempre determinante»2. L’antropologia espressa dalla DSC è fatta della stessa pasta. Vediamo: «la persona umana è un essere personale creato da Dio per la relazione con Lui, che soltanto nella relazione può vivere ed esprimersi»3 per cui: «la relazione tra Dio e l’uomo si riflette nella dimensione relazionale e sociale della natura umana»4. Osserviamo subito la differenza fra la visione della dsc e quelle esemplificate precedentemente, con gli esempi tratti dalla storia della filosofia. Rispetto alle altre concezioni, la DSC dice che l’uomo non costruisce la società “per necessità”, come volevano Machiavelli e Hobbes, per i quali la società è un male minore necessario per superare gli irreparabili danni prodotti dalla cattiva natura umana; e neanche “per convenienza”, come voleva Rousseau, che pensa che convenga fonderci tutti in un sistema perfetto dove la nostra individualità si è dissolta ma, in cambio, abbiamo guadagnato la volontà generale; men che meno per garantirsi i benefici costituiti dalla naturale proprietà privata, come voleva Locke; per esempio al fine di legittimare la proprietà privata, o altro. Ancora, la relazione sociale non è neanche semplicemente un meccanismo evolutivo, una risposta organizzata per risolvere i problemi di un migliore adattamento alla crescita demografica5. Piuttosto, secondo la DSC, “fare società” è scritto nella nostra vocazione alla vita, nella nostra natura più profonda6. Ecco perché nella DSC troviamo che la buona politica, e le virtuose strutture sociali, sono quelle che, riconoscendo la natura propria dell’essere umano, danno spazio alla relazionalità, alla reciprocità, così come è scritto nel profondo del suo essere. Alle strutture sociali e politiche spetta il compito di favorire la circolazione d’amore fra tutti i cittadini, fra i gruppi sociali, fra le comunità e i popoli, in una parola la civiltà dell’amore7. E se la civiltà dell’amore – per esempio - fosse vissuta al punto di fare l’inventario delle proprie cose per donare al bisognoso quanto posseduto in più, le virtù civili renderebbero più facile anche l’azione di governo e le scelte politiche8. Infatti, fra i molteplici compiti della politica, attraverso i complicati calcoli economici e finanziari, attraverso le molteplici condizioni per la ridistribuzione delle risorse della comunità, dei servizi, delle opere, delle opportunità e dei mezzi in genere, alla politica si chiede di incoraggiare e sostenere le relazioni di solidarietà fra le parti sociali e di costruire spazi G.M. Zanghì, Per una cultura rinnovata. Alcune piste di riflessione, «Nuova Umanità», XX, 1998/5, 119, p. 511 (corsivo nel testo). 3 Compendio della dottrina sociale della chiesa, 109. 4 Compendio della dottrina sociale della chiesa, 110. 5 Compendio della dottrina sociale della chiesa, 149-151. 6 Compendio della dottrina sociale della chiesa, 111-114. 7 Cf. Compendio della dottrina sociale della chiesa, “Conclusione”, 575ss. 8 Cf. Giovanni Paolo II, Centesimus Annus, in particolare n. 10. 2 5 di condivisione della scelta pubblica. Questa è la civiltà dell’amore, alla quale la DSC fa costante riferimento: «l’amore deve essere presente e penetrare tutti i rapporti sociali: specialmente coloro che hanno il dovere di provvedere al bene dei popoli alimentino in sé e accendano negli altri, nei grandi e nei piccoli, la carità, signora e regina di tutte le virtù»9. E ancora: «per rendere la società più umana, più degna della persona, occorre rivalutare l’amore nella vita sociale – a livello politico, economico, culturale -, facendone la norma costante e suprema dell’agire»10. Ricapitolando, la concezione antropologica della persona ammette un paradigma che pone al centro della propria dimensione sociale e politica la civiltà dell’amore. Questo è lo specifico della DSC. I sette aspetti e il pensiero sociale cristiano CATERINA MULATERO Ci possiamo adesso chiedere: cosa ha da dire il carisma dell'unità, con la specificità che gli è propria, alla edificazione della civiltà dell'amore? Si potrebbe rispondere: tantissimo! Per cui abbiamo dovuto fare una scelta, e la nostra scelta, ricollegandosi alle riflessioni fatte in precedenza sul paradigma, è caduta su un particolare del ricco paradigma dell’unità, e precisamente sullo specifico modello organizzativo che si è originato dal carisma; modello che noi normalmente chiamiamo "dei setti aspetti" o anche semplicemente "come un arcobaleno". Questo modello, questo schema organizzativo, non è soltanto qualcosa che serve per la nostra vita ideale perché cresca in pienezza, ma è un modello che si rivela estremamente utile e fecondo in ordine alla costruzione della civiltà dell'amore. Esso inoltre ci consente di aprirci verso l'esterno, di metterci in dialogo con quanti possiamo incontrare sul nostro cammino e che contribuiscono anch'essi a costruire - tutti insieme - la civiltà dell'amore. Sarà necessario tornare brevemente all'origine dei nostri sette aspetti. Sappiamo che essi sono nati da una intuizione di Chiara quando comprese che l’amore non solo doveva essere la vita delle persone del nascente Movimento, ma doveva essere anche la loro regola. Dal carisma, infatti era sorta non solo una spiritualità nella Chiesa, ma anche un’Opera. «E – diceva Chiara – per avere un’Opera (…) è necessario un ordinamento, una struttura, una regola»11. Prendendo l’esempio dal raggio di luce che, attraversando un prisma di cristallo si scinde nei sette colori dell’arcobaleno, Chiara spiega che questi sette colori a loro volta si spiegano in infinite gradazioni: cioè il numero sette in realtà comprende le infinite sfumature di tutta la realtà umana. Qual è la radice di questi sette colori? E’ la vita di Gesù, la vita di Gesù in ognuno di noi, fra noi, che si esprime in tanti modi, uno diverso dall'altro. Questa vita di Gesù, 9 Compendio della dottrina sociale della chiesa, 581. Compendio della dottrina sociale della chiesa, 582. 11 C. LUBICH, La dottrina spirituale, Mondadori, Milano 2001, pp. 220-222. 10 6 presente nel singolo e nella comunità, questo amore che si spiega come un arcobaleno, non si ferma ai singoli, non si ferma solo ai rapporti interpersonali: esso costituisce anche una regola di vita, dà la possibilità di inondare il mondo col divino e di rendere nuove tutte le realtà sociali, comprese, quindi, le strutture. Ancora, è qualcosa che può essere portato anche al di fuori dell'Opera perché è una visione “dall'alto”, direi “sapienziale” di tutte le realtà umane. Esamineremo adesso aspetto per aspetto - necessariamente in modo molto sintetico - per vederne le implicazioni concrete. Cercheremo anche di vedere ogni aspetto in relazione con quanto sta maturando di valido, di buono, nella società civile, nelle istituzioni; potremo così trovare altri compagni di viaggio nella costruzione della Civiltà dell’amore. 1) l’amore porta alla comunione - comunione dei beni, economia, lavoro, povertà. E’ questo un aspetto molto vasto e complesso. Prende dentro dall'Euro che un bambino mette da parte nel suo salvadanaio, alle strutture produttive e finanziarie, a quelle che governano l'economia a livello mondiale, agli squilibri che ci sono, alle contraddizioni che sta provocando la globalizzazione. Riguarda anche tutto il mondo del lavoro, questo mondo in cerca di una nuova identità, di nuove motivazioni e forme organizzative di fronte agli attuali cambiamenti strutturali che sembrano cancellare le conquiste che con tante lotte e a duro prezzo erano state realizzate. Ma in questo primo aspetto sono ben presenti anche semi di novità e forti segnali positivi. Pensiamo a tutto quell'ambito del mondo economico che opera per rendere più umana l'economia, per portare avanti la solidarietà, il bene: è un ambito vastissimo in cui noi ci sentiamo di poter fare un cammino di ricerca, di costruzione di esperienze nuove insieme a tanti altri, attuando uno scambio di doni, coscienti che, ovunque c'è del bene che va avanti, lì ci sono dei segnali che lo Spirito Santo è all’opera. Si stanno anche aprendo degli interessanti filoni culturali di dialogo dove stanno maturando nuove linee teoriche che rivelano l’esistenza di esigenze rinnovate verso una civiltà più attenta ai bisogni di tutti con particolare attenzione per coloro che sono più svantaggiati. E’ questa solo una breve pennellata del ricco patrimonio del primo aspetto. Quindi, quando noi diciamo "primo aspetto" ci si spalancano immediatamente tutti questi orizzonti di dimensione planetaria 2) L’amore non è chiuso su se stesso ma è di per sé diffusivo – testimonianza e irradiazione. Questo amore di Gesù che, come abbiamo detto è la radice di tutti gli aspetti, nella sua diffusione dà vita a un popolo nuovo che ha come sua legge fondamentale l'amore; un amore però che si coniuga con la giustizia. Emerge qui il rapporto tra giustizia e carità, la giustizia vista come il nucleo centrale, irrinunciabile di un amore che vuol essere un amore vero. Questo amore che dà vita a un popolo nuovo, dà vita anche a rapporti nuovi fra i popoli e qui si apre l'ambito – di grande attualità - delle relazioni internazionali, delle dinamiche di connessione fra diverse aree geografiche, unitamente a quanto sta maturando in questo campo sotto la spinta della globalizzazione, nella ricerca di una sovranità e di una cittadinanza vissuta a livelli più ampi rispetto a quelli classici di nazione e di patria. 3) L’amore eleva – spiritualità e vita di preghiera. Questo amore porta al rapporto con Dio non solo personalmente ma anche comunitariamente. Ed esige delle scelte, dei comportamenti coerenti. Qui trova posto 7 l'ambito dell'etica, un ambito che si sta aprendo verso nuove frontiere per tutte le nuove tematiche che stanno emergendo; pensiamo – a solo titolo di esempio - a quelle riguardanti la vita e alle biotecnologie. Ricordiamo anche altri aspetti importanti come la nascita dei tribunali internazionali a tutela dei diritti dei singoli e dei popoli. Si aprono qui feconde piste di dialogo con le iniziative che raccolgono queste sfide e verso le quali stiamo lavorando, ad esempio, col diritto di comunione. 4) L’amore risana – natura e vita fisica Questo amore porta una nuova socialità, porta rapporti sociali nuovi, rinnovati dall'amore: Gesù in mezzo fra due o più, nei gruppi, fra i gruppi. Porta alla formazione di famiglie nuove come cellule vitali della società, porta la pace considerata come salute del corpo sociale e guarda la questione ambientale nei suoi aspetti etici. 5) L’amore raccoglie più persone in assemblea – armonia e ambiente. L'amore edifica comunità politiche nuove, città nuove, porta un'arte nuova. Qui possiamo entrare in dialogo con tutte le sollecitazioni che portano avanti anche la questione della cittadinanza e dei diritti fondamentali connessi alla cittadinanza; per esempio la casa, la possibilità di farsi una famiglia, l'appartenenza a una comunità; i problemi legati all'integrazione e alla emigrazione. Qui trova spazio anche il mondo della politica. 6) L’amore è fonte di sapienza – sapienza e studio. L'amore genera sapienza e una nuova cultura e porta al dialogo fra le culture. Questo è un cantiere aperto a tutto campo, anche all'interno del Movimento, per il lavoro di ricerca che si sta portando avanti in tanti ambiti del sapere, e per le sfide che vengono poste e a cui sentiamo di dover trovare risposte valide. Noi in questo percorso stiamo trovando tanti compagni di viaggio che si sentono stretti in paradigmi vecchi, ormai inadatti, e tentano nuovi percorsi, nuove soluzioni. Sono persone assetate anch'esse di verità, di un maggiore rispetto per l'uomo, di approdi diversi da quelli che certi tipi di percorsi scientifici avevano portato. 7) L’amore compone in uno i molti – unità e mezzi di comunicazione. Qui si apre lo scenario affascinante dei mezzi di comunicazione moderni. Tutto un mondo che presenta immense possibilità di bene unitamente a rischi di derive inimmaginabili. L’amore porta a considerare i mezzi di comunicazione come strumenti che possono moltiplicare il bene e spinge ad operare in tal senso. La complessità dell’attuale situazione necessita dell'apporto di tutti coloro che condividono questa visione delle cose per fondare l’impresa comunicativa sul bene, contro le distorsioni del potere comunicativo. Al termine di questa breve presentazione dei “sette aspetti” si può capire come tutte le tematiche della DSC trovino il loro posto in questo modello organizzativo che ha delle sue caratteristiche precise: è aperto ed è interconnesso. Un modello aperto nel senso che non si chiude in definizioni dogmatiche, non è questo il suo obbiettivo; ma anche perché è costantemente aperto alle res novae, a leggere i segni dei tempi, a cogliere le sfide che il mondo d'oggi ci consegna. Questo esige il carisma dell’unità e a questo spinge. E' un modello interconnesso perché non solo consente, ma richiede un profondo e fecondo percorso interdisciplinare. 8 In questo modo prendono concretezza con una loro specificità, due degli aspetti tipici e costitutivi della DSC: essa è un sapere sempre aperto12 al nuovo, capace di continuo rinnovamento ed è costitutivamente interdisciplinare13. Inoltre, quello dei “sette aspetti” è uno schema dinamico, porta in sé una dinamica “alla Trinità”. Infatti i singoli aspetti non vanno visti, compresi, incarnati isolatamente, ma, “alla Trinità” dove coesistono unità e distinzione: ognuna delle singole parti ha la propria identità, le proprie caratteristiche, il proprio metodo, ma esse formano un disegno unitario, armonioso. In esso le varie parti si vivificano e illuminano reciprocamente, e, nella misura in cui riescono ad interagire con gli altri, a vivere per gli altri, negli altri e grazie agli altri, potremmo dire che si stagliano maggiormente nella loro specificità e realizzano in modo efficace la loro funzione nella società. Questa dinamica risulta evidente nella vita dell’Opera di Maria che fin dalla sua nascita è andata forgiandosi sul modello trinitario. Ma, come afferma Chiara in un suo discorso, «Tutti gli uomini sono chiamati a partecipare alla vita intima di Dio – alla cui immagine sono creati -, a vivere in reciproca comunione tra loro, nell’amore, sul modello di Dio che è Amore, che è Unità nella Trinità, e a rispecchiare nel mondo la comunione d’amore che è in Lui»14. E Marisa Cerini commenta: «E’ così che prenderà vita e forma dalle sue “radici trinitarie”, la nuova comunità degli uomini. E’ così che il convivere umano diverrà luogo della presenza di Dio: pieno esso stesso della Trinità»15. Ma il convivere umano necessita sempre di strutture sociali e civili. E se questo convivere prende forma dalle sue “radici trinitarie”, anche le sue strutture dovranno avere la stessa forma. Lo schema dei “sette aspetti” nasce e vive in questa logica. Prendiamo, a titolo di esempio, l’azzurro – armonia e ambiente. Nel dinamismo della logica trinitaria questo aspetto deve interagire con gli altri. Ad esempio, nella progettazione di una cittadella si dovrà tenere conto di tutti gli aspetti. Deve vivere per gli altri: una cittadella deve formare uomini nuovi, dare testimonianza sulla base dell’amore reciproco, eccetera. Deve vivere negli altri in modo pericoretico, cioè in continua, reciproca donazione e accoglienza. Deve vivere grazie agli altri. Una cittadella, pur facendo parte dell’azzurro, vive grazie all’apporto di tutti gli altri aspetti. Abbiamo così colto alcuni degli elementi del paradigma dell’unità in una sua particolare applicazione, cioè come modello organizzativo: modello aperto, interconnesso, dinamico “alla Trinità”. Possiamo cogliere in questi elementi una profonda consonanza con l’impostazione del Compendio che è eminentemente trinitaria. Alcuni brani sono particolarmente significativi: «Il comandamento dell’amore reciproco traccia la via per vivere in Cristo la vita trinitaria nella Chiesa, Corpo di Cristo, e trasformare con Lui la storia fino al compimento nella Gerusalemme celeste» (n. 32). Più esplicito ancora il n. 33: «Il comandamento dell’amore reciproco, che costituisce la legge di vita del 12 Compendio n. 85. Compendio n. 76. 14 C. Lubich, La donna artefice di pace e di unità, in “Città Nuova” 11 (1989), p. 35. 15 M. Cerini, Dio Amore nell’esperienza e nel pensiero di Chiara Lubich, Città Nuova, Roma, 1991, p. 72. 13 9 popolo di Dio, deve ispirare, purificare ed elevare tutti i rapporti umani nella vita sociale e politica: “Umanità significa chiamata alla vita interpersonale”, perché l’immagine e somiglianza di Dio trinitario sono la radice di “tutto l’ethos umano … il cui vertice è il comandamento dell’amore”. Il fenomeno culturale, sociale, economico e politico odierno dell’interdipendenza, che intensifica e rende particolarmente evidenti i vincoli che uniscono la famiglia umana, mette in risalto una volta di più, alla luce della Rivelazione, “un nuovo modello di unità del genere umano, al quale deve ispirarsi, in ultima istanza, la solidarietà. Questo supremo modello di unità, riflesso della vita intima di Dio, uno in tre Persone, è ciò che noi cristiani designiamo con la parola “comunione”». Così quando riusciamo a dar vita a “strutture di comunione” nei vari ambiti: da quello economico a quello politico, della giustizia, della pedagogia, ecc., realizziamo la sostanza della DSC in modo, direi profetico. Infatti se col carisma, come abbiamo visto, siamo in linea con il patrimonio di dottrina della Chiesa, però dobbiamo anche essere coscienti che il carisma dà un suo apporto specifico, porta come una nuova fioritura che Chiara esprime così: «La dottrina della Chiesa è come un albero fiorito sviluppatosi attraverso i secoli. L’Ideale dà ad esso una nuova fioritura. (…) L’Ideale quasi ricopre la chioma di quest’albero di un nuovissimo manto di fiori e sembra – e lo è – che tutto l’albero tenda a questa fioritura, sia in funzione di essa, per essa…»16 . Ma per conoscere bene la nuova fioritura, per essere coscienti del novum che porta, occorre conoscere bene tutto l’albero. Solo allora, commenta Marisa Cerini, «quella nuovissima fioritura dell’albero, quell’Ideale, che Dio ha dato a Chiara, ci si svelerà nelle sue radici secolari, nelle sue profondità bibliche: avvertiremo di più quanto le affermazioni di Chiara esprimono e svelano l’unità dell’albero e saremo più preparati a cogliere bene, senza travisarla, la sapienza, fino a quella più alta e delicata»17. I nostri testimoni della DSC: Chiara Lubich CATERINA MULATERO In questa seconda ora vorremmo presentarvi alcuni di quelli che noi abbiamo chiamato i "nostri" testimoni della DSC, cioè le personalità più importanti dell'Opera, che con la loro vita ma anche con le loro idee, con la loro dottrina, hanno dato un contributo per la DSC. Chiara Cominciamo con Chiara. Abbiamo voluto focalizzare la nostra attenzione su alcuni suoi scritti in cui lei molto esplicitamente parla della DSC per evidenziare il Cit. in M. Cerini, Teologia dogmatica, Dispensa del corso di scienze religiose e sociali dell’Istituto Mystici Corporis, 1979, p. 2. 17 Ibidem. 16 10 rapporto che ha con questo sapere, far vedere come lo coglie, come lo vive, e lo fa vivere. 1) La Magna Charta della dottrina sociale cristiana Vorrei iniziare con uno scritto degli anni ‘50 in cui Chiara fa un collegamento fra il Magnificat e la DSC. In questo testo particolarmente pregnante, Chiara parla del Magnificat come “Magna Charta” della dottrina sociale cristiana18: «La Magna Charta della dottrina sociale cristiana inizia là dove Maria canta: “Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili, ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato a mani vuote i ricchi” (Lc 1,52-53). Nel Vangelo - commenta Chiara - sta la più alta e travolgente rivoluzione. E forse è nei piani di Dio che anche in quest’epoca, immersa nella soluzione dei problemi sociali, sia la Madonna a dare a noi tutti cristiani una mano per edificare, consolidare, erigere e mostrare al mondo una società nuova in cui riecheggi potente il Magnficat»19. Notiamo subito che, di tutto il canto del Magnificat, Chiara prende in considerazione due versetti, il 52 e il 53 dove è scritta, coma già attuata, la rivoluzione sociale che Gesù porterà. Le ardite affermazioni di Chiara non ci devono meravigliare, perché Maria è la realizzazione piena dei disegni di Dio sull’umanità. E’ in lei che trova compimento il piano di Dio. Quindi, se la dottrina sociale cristiana è uno strumento per aiutare il popolo di Dio e l’umanità tutta a percorrere il cammino verso la realizzazione dei piani di Dio, il canto del Magnificat può a ragione essere considerato la “Magna Charta” della dottrina sociale cristiana. Alba Sgariglia esprimendo con acutezza questa rapporto fra il Magnificat e la dottrina sociale cristiana, ci aiuta a penetrarlo un po’ di più: «Il canto del Magnificat – secondo la Sgariglia - ci mostra come Maria non soltanto fa, ma anche legge e scrive la storia. Ella indica le modalità storiche e sociali nelle quali Dio compie il suo progetto: sovvertire le attese dei ricchi e dei potenti e realizzare la sua salvezza con i poveri e gli umili. E Maria che è Madre non può non avere tale fiduciosa speranza di fronte alla ingiusta e differenziata condizione sociale dei suoi figli. Una vera funzione materna non può prescindere da una tale prospettiva: promuovere la storia e lo sviluppo di ogni singolo e di tutti gli uomini per costruire una società nuova più giusta, più solidale, più fraterna, nella certezza che in Dio tale disegno è già compiuto»20. 2) L'enciclica Populorum progressio Un altro momento in cui Chiara parla esplicitamente della DSC si è avuto con la pubblicazione dell’enciclica di Paolo VI Populorum progressio (1967). Si sente che Chiara ha letto e riletto questa enciclica, l'ha “gustata”, perché la Populorum progressio è un'enciclica molto bella anche dal punto di vista letterario. Chiara in un suo scritto mostra un'accoglienza piena dei contenuti della Populorum progressio, ma nello stesso tempo mostra anche una sua personale comprensione maturata alla luce del carisma. Il collegamento tra il Magnificat e la dottrina sociale della Chiesa e, più in generale tra Maria e la DSC, è presente nel Compendio al n. 59. 19 C. LUBICH, Maria trasparenza di Dio, Città Nuova, Roma 2003, p. 98. 20 .A. SGARIGLIA, Per un’economia di comunione sulle tracce di Maria, in “Polo Lionello, casa degli imprenditori”, Firenze 2003, p 15. 18 11 Così è dello sviluppo, tema centrale dell’enciclica: «Lo sviluppo - dice Chiara - per il Santo Padre è il nuovo nome della pace e, andando al succo della sua enciclica, è sinonimo di terra in cui è in atto una fratellanza universale, che è premessa e preannunzio del compimento del testamento di Gesù: tutti fratelli, tutti ad aiutarsi, i beni in comune su tutta la terra, una autorità mondiale “in grado d’agire efficacemente sul piano giuridico e politico”21. E’ il disegno di Dio sul mondo, oggi. All’uomo, a ciascuno di noi il realizzarli»22. In questo brevissimo commento compaiono alcuni capisaldi della dottrina di Chiara in campo sociale: la fratellanza universale vista come compimento del testamento di Gesù e la comunione dei beni su scala planetaria, oltre alla necessità di una qualche forma di autorità mondiale. Qui Chiara, con parole profetiche, mette in luce dei punti che, solo accennati in questa enciclica, saranno ampiamente sviluppati in quelle successive e, adesso sono pienamente presenti nel Compendio23. 3) L’enciclica Centesimus annus Nel momento solenne e fondante della nascita dell’Economia di Comunione, Chiara fa più volte riferimento alla DSC. Parlando di come è nata e poi è stata vissuta la comunione dei beni nell’ambito del Movimento, ella sottolinea che questa pratica, nata guardando alle prime comunità cristiane, via, via «è stata arricchita di tutti quegli apporti che ci ha fornito la dottrina sociale cristiana, soprattutto attraverso le encicliche sociali»24. Sempre in quell’occasione Chiara annovera l’enciclica Centesimus annus appena pubblicata ma già da lei “meditata” - , fra gli elementi che hanno contribuito alla nascita del progetto EdC. Lei stessa nel suo indimenticabile e carismatico discorso alla Mariapoli Ginetta, fece una sintesi dell’enciclica e sottolineò come “la meditazione sulla Centesimus annus” fosse stato uno degli elementi che avevano contribuito a far maturare il lancio del nuovo progetto. Chiara, penetrando nell’enciclica, ne aveva colto l’ispirazione più autentica e, così, avrebbe portato il progetto EdC ad incarnare ed attualizzare suoi importanti punti (pensiamo ad esempio alla concezione dell’impresa, al suo ruolo nell’economia moderna)25. Allo stesso tempo, lanciava anche un’importante operazione di approfondimento culturale in cui avrebbero così preso il via nuove linee culturali, come quella, particolarmente feconda, della cultura del dare. 4) “Risurrezione di Roma” Per concludere, solo un brevissimo accenno all’intenso e conosciuto testo di Chiara "Resurrezione di Roma", che è ricchissimo di contenuti e può essere sviscerato anche dal punto di vista della DSC. «Se io guardo questa Roma così com'è…»: inizia così lo scritto “Risurrezione di Roma”, inizia cioè con uno sguardo sulla città; uno sguardo che non si ferma in superficie ma si fa carico del disagio sociale della città. Poi, nello snodarsi delle riflessioni, Chiara giungerà a proporre una originale metodologia di “carattere trinitario” 21 Populorum progressio n. 78. C. LUBICH, Scritti Spirituali/2, Città Nuova, Roma 1978, p. 34. 23 Vedi nn. 82,103,131. 24 C. LUBICH, L’economia di comunione, storia e profezia, Città Nuova, Roma 2001, p. 12. 25 Cf Compendio nn. 336-339. 22 12 per rispondere a questo, come ad ogni disagio sociale: si tratta di dar vita a “cellule vive” che rivitalizzino tutto il tessuto sociale. Sono questi solo brevi accenni a un testo che meriterebbe – proprio dal punto di vista della DSC – una sua approfondita trattazione. Frutti del carisma dell’unità e DSC: attività, opere, azioni sociali, organismi Per chiudere, vorremmo soffermarci, sempre in relazione alla DSC, su qualcuno dei frutti che il carisma dell'unità porta. Sappiamo che una delle caratteristiche della DSC è di essere un sapere orientato all’azione, all’organizzazione della società e al suo funzionamento26. E’ logico quindi che sotto la spinta di questi insegnamenti siano, col tempo, nate organizzazioni nuove, opere, azioni sociali, ecc. E’ noto come anche nell’ambito del Movimento dei focolari siano sorte innumerevoli opere sociali, le più varie. Guardando la loro nascita, il loro sviluppo, i loro obiettivi possiamo trovare piena consonanza con l’insegnamento sociale della Chiesa, in particolare con alcune idee-forza che esso propone. La forte sottolineatura che il Compendio fa della fraternità27 e del suo rapporto col comandamento dell’amore reciproco visto come «lo strumento più potente di cambiamento, a livello personale e sociale» (n. 55), è al cuore di tante realizzazioni concrete scaturite dal carisma dell’unità. Possiamo infatti notare che le opere da esso generate, presentano delle caratteristiche comuni: nascono dall’amore reciproco vissuto, cioè dall’unità; il loro percorso storico si snoda nella dinamica trinitaria dell’amore reciproco; l’orizzonte cui guardano è la fratellanza universale. L’esperienza di Fontem è molto significativa su questi aspetti28. Essa nasce nel momento in cui la Chiesa vive l’intensa stagione del Concilio Vaticano II e il continente africano matura la stagione della decolonizzazione. In questo contesto particolarmente fecondo, il Movimento dei focolari e il popolo Bangwa vivono una singolare esperienza di fraternità, diventano laboratorio di relazioni fraterne capace di informare una società di decine di migliaia di persone e di garantirne una crescita umana e spirituale impensate. Fin dal primo incontro con i Bangwa, in Chiara è ben presente che la fratellanza universale è l’idea che deve guidare il rapporto con questo popolo. Due sue brevi ma incisive frasi ci aiutano a penetrare nella sua comprensione di questo concetto e di come lo ritenesse adatto per questa nuova esperienza: «L’unità si fa con i diversi» e «Insieme, ciascuno è più bello». E quanto fossero diversi i due protagonisti di questo cammino si manifestò sempre più col tempo, sino a raggiungere un momento molto critico. Dopo un po’ di anni dall’arrivo dei Focolari, quando già si erano costruite tante cose, i Bangwa mostrarono di avvertire il peso di una sorta di dipendenza nei loro confronti e, quindi, una sorta di 26 Cf Compendio n. 83. Cf Compendio nn. 4, 17, 51, 54, 144. 28 Cf B. CALLEBAUT, M. NKAFU, Fontem: un laboratorio di fraternità, in “Nuova Umanità” 162 (2005). 27 13 insofferenza nella loro presenza. Lucio dal Soglio narra che tutti i membri del focolare concordarono che l’unico modo per rimanere lì era di realizzare una reale fraternità vivendo concretamente in condizioni di reale parità. Da qui la decisione: «Stiamo qui per vivere assieme con i Bangwa, non per fare cose grandiose, neanche per salvare le vite dei Bangwa, le salviamo se i Bangwa ce lo chiedono. Non vogliamo fare un super ospedale, non vogliamo fare un’università, non vogliamo insegnare questo o quel programma, facciamo quello che vediamo insieme con loro di fare». Questa svolta, questa nuova comprensione di come dovevano essere lì, è stata percepita come un momento di grazia. Da quel momento la parità fra i due soggetti fu compresa e vissuta come base dell’uguaglianza e della fraternità: la vera fratellanza universale cominciava da lì. Questo cammino è coerente con la DSC. Il Compendio ripetutamente mette in luce il nesso inscindibile fra uguaglianza e fraternità e come una vera fraternità si possa realizzare solo su una base di autentica uguaglianza29. Anche dal punto di vista della crescita e dello sviluppo economico la base di partenza è la fraternità. Per darle concretezza Chiara lancia l’ “Operazione Africa” che diventerà un’esperienza di autentica reciprocità. Saranno soprattutto i giovani (ma non solo) ad essere interpellati. Rispondendo con slancio ed entusiasmo, riusciranno ad innescare un dinamismo di reciprocità, di vero scambio di doni, che sarà arricchente per tutti coloro che ne saranno coinvolti. Ne risulterà un’esperienza di reale uguaglianza, base per la fraternità. Ma c’è un’ulteriore tappa nell’esperienza di Fontem che ci interessa. Nella sua visita a Fontem fatta nel 2000 Chiara in un suo memorabile discorso al fine di salvaguardare la vocazione di Fontem come “Città sul monte”, chiede a tutti un passo concreto: un patto d’amore vicendevole, forte e vincolante. E’ come una rinascita, è un riandare alle radici di Fontem per fare un passo avanti: allargare l’intesa tra Chiara e il Fon di Fontem a tutto il popolo con un patto collettivo. Da lì sono partiti poi gli incontri della “Nuova evangelizzazione”, incontri che hanno coinvolto tutti: Fon, Chief, medici, studenti, professori, tutti. E anche qui non possiamo non notare la sintonia con la DSC che insiste fortemente sulla necessità della nuova evangelizzazione che vede strettamente legata alle opere: «Il bisogno di una nuova evangelizzazione fa comprendere alla Chiesa che il suo messaggio sociale troverà credibilità nella testimonianza delle opere»30. E questa testimonianza a Fontem brilla per il numero di opere realizzate, per lo stile con cui sono nate, per la forte inculturazione da cui sono segnate: un vero miracolo nella foresta. Ma il lancio di una nuova evangelizzazione se è nato a Fontem non si è fermata lì. Chiara ne ha fatto la base per tutte le “operazioni” che, in seguito sono nate: a Roma, a Praga, a Trento, ecc. L’annuncio della Parola si è accompagnato con la rivitalizzazione di interi brani di società, con profonde trasformazioni del tessuto sociale, con un inizio di un nuovo impegno culturale. Anche con questa azione il carisma è pienamente 29 30 Cf Compendio nn. 145, 192, 194. Compendio n. 525. 14 coerente con quanto richiesto dalla Chiesa per far fronte alle nuove sfide lanciate dall’umanità di oggi. I nostri testimoni della DSC: Nguyen Van Thuân e Igino Giordani ALBERTO LO PRESTI Nel presentare le figure di Igino Giordani e del cardinale Nguyen Van Thuân prende forza una delle nostre considerazioni di fondo. Ci occupiamo di pensiero sociale cristiano da protagonisti, perché nell’Ideale vi sono figure maestose che – oltre a Chiara – hanno avuto modo di scrivere con la propria vita e con le proprie opere le pagine più belle della dottrina sociale della Chiesa. Si pensi che oggi la voce ufficiale della DSC è un’agenzia che si chiama "Osservatorio internazionale Cardinale Van Thuân per la Dottrina sociale cristiana". Non solo: in apertura il Compendio stesso commemora e ricorda Nguyen Van Thuân che, da presidente del Pontificio Consiglio per la Giustizia e per la Pace, aveva promosso, avviato e curato l'organizzazione iniziale del Compendio. Generalmente, riteniamo il cardinale Nguyen Van Thuân un vescovo amico del Movimento dei Focolari, usando con ciò parole nostre. In realtà, lui si descrisse in modo diverso e più deciso, presentandosi (era il 2001) come un cardinale focolarino! Aveva conosciuto l'Ideale nei primi anni Settanta, con una visita a Loppiano, iniziando un rapporto intenso con Chiara che durerà fino agli ultimi istanti prima della morte, avvenuta nel 2002. Van Thuân era un vietnamita, proveniva da una famiglia di martiri cristiani che avevano subìto – a causa della propria fede – una lunga persecuzione. È lo stesso Van Thuân a ricordarci gli eventi più significativi: la famiglia materna era di un villaggio popolato interamente da cristiani, che nel 1885 fu distrutto. Furono rinchiusi tutti i cristiani dentro la chiesa parrocchiale e a questa si appiccò il fuoco. Si salvò solo il nonno di Van Thuân che per motivi di studi, in quel momento, si trovava in Malesia. La famiglia paterna, anch’essa cristiana, fu dispersa a causa della fede. Il bisnonno e i suoi fratelli vennero separati e inseriti in altre famiglie non cristiane, al fine di rimuoverne la fede. Non ci si riuscì, tanto è vero che dal proprio nonno il futuro cardinale ascoltò il racconto di quando, a 15 anni, si faceva 30 chilometri di strada a piedi per portare un po' di riso e un po' di sale al padre, cioè al bisnonno che era in carcere per la sua fede cristiana. La testimonianza della fede cristiana non s’interruppe mai. Il piccolo Nguyen Van Thuân è cresciuto vicino alla devozione della nonna, che recitava il Rosario ogni giorno pregando per i preti e per la Chiesa. Quando Van Thuân sarà prelevato e posto in carcere, la mamma non pregherà per la sua salute fisica, ma perché non gli si indebolisca la fede in quella situazione di sofferenza. La biografia di Van Thuân è fatta soprattutto di queste cose. Poi, sappiamo pure che nel 1953 fu ordinato sacerdote, che studiò diritto canonico, e siccome era molto abile nell'azione pastorale, mentre faceva il professore prima e il rettore del seminario dopo, le vocazioni in Saigon crebbero in modo vertiginoso. Con Paolo VI divenne vescovo in quella che oggi si chiama Ho Chi Minh City. Nel 1975, il governo comunista, senza nessun processo, lo prelevò e lo portò in carcere. Van Thuân si fece tredici anni di carcere, di cui nove in isolamento. Senza alcun processo, in completa assenza di qualsiasi garanzia. Ma Van Thuân non si 15 rassegnò a questa condizione, non visse tutto questo come una sconfitta. Il suo motto da vescovo era "Gaudium et Spes", e la parola che esprime meglio la forza interiore di Van Thuân, e la sua serenità d’animo, è "speranza". Anche il suo libro più noto richiama questo principio: Il cammino della speranza, ed egli ne fa non un principio di passiva fiducia in un avvenire migliore, ma una condizione per vivere l’attimo presente con profonda coerenza e totale donazione d’amore: «Gesù, io non aspetterò; vivo il momento presente, colmandolo di amore. La linea retta è fatta di milioni di piccoli punti uniti uno all'altro. Anche la mia vita è fatta di milioni di secondi e di minuti uniti l’uno all'altro. Dispongo perfettamente ogni singolo punto e la linea sarà retta. Vivo con perfezione ogni minuto e la vita sarà santa. Il cammino della speranza è fatto di piccoli atti di speranza. La vita di speranza è fatta di brevi minuti di speranza»31. Queste sono le cose che Van Thuân scriveva in carcere, e anche il modo con il quale vi riusciva testimonia il suo eroismo. Infatti, Van Thuân era stato condotto in carcere privo di tutto, e allora un bambino di sette anni che gironzolava gli rimediava dei piccoli pezzetti di carta, sui quali il cardinale scriveva le sue meditazioni. Poi, il bambino le consegnava alla sua famiglia, e qui venivano trascritte e destinate alla comunità cristiana. Alcune di queste meditazioni sembrano costituire l’ossatura di alcune della parti del Compendio: fra le tante corrispondenze si provi a comparare quanto vi è scritto nei punti 545-546 – riguardo alla speranza e al ruolo dei laici – e quanto invece scaturisce dal carcerato Van Thuân: «Il laico dev'essere colui che ama la sua missione nel mondo, quella di rendere l'eternità presente nel tempo. Egli crede (il laico) che Dio gli ha affidato il mondo e i suoi fratelli per condurli all'eterna salvezza. Egli sa con certezza che Dio solo può dare la salvezza, ma che chiede la collaborazione dell'uomo in questo lavoro. Il laico è colui che sa sperare, garantisce la speranza e porta la speranza agli altri»32. Van Thuân visse con profondo amore le sue giornate di prigionia, e questa carità si rivelò subito come contagiosa, a tal punto che i responsabili del carcere decisero di far ruotare le guardie addette alla sua sorveglianza, per prevenire la possibile influenza del cardinale sui militari. Alla fine, dovettero tornare sui propri passi, e preferirono che fossero sempre le stesse le guardie addette a Van Thuân, ritenendole ormai corrotte e scongiurando, con ciò, il possibile contagio di tutti gli agenti. Van Thuân usò i pezzettini di carta che riusciva a racimolare per trascrivere il Vangelo, così come se lo ricordava, utilizzando solo la memoria. Ne risultarono trecento massime bibliche, trecento frasi brevi che costituirono il suo Vangelino in quegli anni di carcere. In uno di questi pezzettini di carta scrisse il paradigma dell’amore, che si traduce nei sette aspetti. E aggiunse che in questi sette aspetti, anche lì nel regime ristretto di una prigione, poteva cercare di essere in unione con la missione della Chiesa universale. Particolare fu il rapporto di Van Thuân con l’eucaristia, che riusciva a celebrare ogni giorno. Infatti, aveva finto dei dolori di stomaco e aveva chiesto un medicinale speciale, che altro non era che un po’ di vino. Mettendo nel palmo della mano qualche goccia d'acqua e un goccio di vino, rinnovava la celebrazione eucaristica, ai quali gli 31 32 F.X. Nguyen Van Thuân, Testimoni della speranza, Città Nuova, Roma, 2000, p. 73. F.X. Nguyen Van Thuân, Il cammino della speranza, Città Nuova, Roma, 1992, p. 189. 16 altri detenuti potevano partecipare nelle ore profonde della notte. In questa situazione di privazione e di solitudine, l'eucaristia ha per Van Thuân un fondamentale significato sociale: «come il sole splende diffondendo la sua luce così l'Eucarestia è la luce e la sorgente dalla quale emana la vita spirituale dell'umanità e la concordia fra le nazioni»33. È incredibile: Van Thuân in quella circostanza, solo, isolato, senza notizie di nessun tipo, sente di cooperare per la concordia delle nazioni! Ancora un aneddoto: al regime serviva un conoscitore della lingua latina che potesse tradurre i documenti provenienti dalla Santa sede. Chiedono con ciò a Van Thuân di addestrare qualcuno, e Van Thuân impartisce lezioni giungendo a far recitare il "Veni Creator", e come esercizio le guardie dovevano più volte cantare quest’inno e nella prigione si rincorsero le voci gaudenti e liturgiche del "Veni Creator". Van Thuân venne liberato nel 1988. Giovanni Paolo II lo mise innanzi tutto a dirigere la Commissione cattolica per le migrazioni e poi lo fece presidente del Pontificio Consiglio per la Giustizia e per la Pace, dove il cardinale cominciò a lavorare per il Compendio, cioè il libro che è l'oggetto del nostro corso. Il Cardinale Van Thuân e Igino Giordani contribuirono in modo molto diverso alla dottrina sociale cristiana. Abbiamo visto come Van Thuân abbia risposto con la propria straordinaria vita alle sollecitazioni provenienti dal magistero sociale della chiesa. Anche Giordani ha avuto una vita straordinaria, profondamente segnata dall’orrore della guerra mondiale e dalle privazioni della sue lotte per la libertà e in opposizione al totalitarismo fascista. Ma qui lo ricordiamo soprattutto per la sua intesa produzione intellettuale. Per fare un esempio, ancora oggi sono molti che – dalla gerarchia ecclesiastica – ricordano di avere studiato il pensiero sociale cristiano sui libri di Giordani. Nella prima metà del XX secolo, dire DSC significava soprattutto fare riferimento all’opera di divulgazione di Igino Giordani. Nel 1942, la prima raccolta de Le encicliche sociali dei Papi, fu assegnato alla cura di Giordani. Per un motivo molto semplice: era la persona più prestigiosa per questo compito e la Santa Sede - oltre alla Chiesa italiana - gli riconosceva questo ruolo. Infatti, Giordani aveva scavato nella visione sociale della Chiesa arrivando fino alla letteratura cristiana antica. E si serviva di questa complessa e articolata erudizione per tracciare la strada che il cattolicesimo contemporaneo avrebbe dovuto intraprendere per ricostruire la società cristiana. Nei padri della chiesa scorgeva soprattutto il coraggio e l’eroismo mostrato nei confronti della cultura pagana (greca e romana) che ne minacciava la sopravvivenza. A tal fine, Giordani traduceva e divulgava il pensiero dei Padri non per un interesse solo meramente intellettuale, ma per riaccendere il fuoco di una fede ardente, che nelle opere quotidiane e sociali possa riscattare l’umanità nei decenni bui del ventesimo secolo dilaniato dalle guerre mondiali e dalla contrapposizione ideologica. Giordani non si fermò neanche ai Padri della Chiesa, ma andò ancora più alla radice, scrivendo un volume che divenne presto un best seller, anche questo tradotto in tante lingue: Il messaggio sociale di Gesù. Questo risalire alle radici del cristianesimo serviva a rinnovare gli sforzi per l’edificazione della società cristiana. Quindi, la vita sociale e politica dei cristiani non poteva conciliarsi con una dimensione mediocre della condotta quotidiana, ogni cristiano è chiamato a vivere eroicamente la propria esistenza. Troviamo in una prima serie di libri, quelli che Tommaso Sorgi ha racchiuso nell’affascinante etichetta di 33 F.X. Nguyen Van Thuân, Il cammino della speranza, Città Nuova, Roma, 1992, p. 73. 17 «Libri del fuoco», questo grande progetto di Giordani fra i quali: Rivolta cattolica, Segno di contraddizione, Cattolicità. E Giordani stesso vive con intensità e un certo eroismo la sua stessa vita: non solo le incomprensioni e le persecuzioni che subì provenienti dal regime fascista, ma anche, per esempio, una certa insensibilità che ancora nella Chiesa di allora, la prima metà del ventesimo secolo, c’era rispetto alla condizione del laico, e al posto dei laici nella Chiesa. Giordani fu un laico in tempi per i quali i laici non erano visti come protagonisti dell’azione evangelizzatrice della Chiesa, tanto meno pastorale, o missionaria. E' passato più di mezzo secolo da quando il grande teologo francese Congar sentiva il bisogno di iniziare il suo lavoro dedicato alla teologia del laicato, Jalons pour une théologie du laïcat, riportando un aneddoto, da allora in avanti spesso citato. Interrogato su quale fosse la posizione del laico nella sua Chiesa, un sacerdote rispose che essa era «duplice. La sua prima posizione consiste nel mettersi in ginocchio davanti all'altare; la seconda nel sedere davanti al pulpito». Al che il cardinale Gasquet, da cui Congar riprese l'aneddoto, aggiungeva non senza ironia: quel sacerdote «ne dimenticava una terza: il laico mette la mano al portafoglio». Invece, negli scritti di Giordani si trovano espressioni come la «sacerdotalità dei laici», la «vocazione dei laici», i «laici e la santità». Queste espressioni, a quei tempi, facevano sudare freddo anche gli amici più intimi della gerarchia ecclesiale. Ma Giordani tirava dritto per la sua strada, con la convinzione che solo certi profeti possono avere. Profezia che si avvererà pienamente nel Concilio Vaticano II, il quale – nella Lumen Gentium – recepirà molto delle istanze rinnovatrici già ben presenti in Giordani. A guardare bene alcune date, c’è una incredibile coincidenza – che ovviamente non è tale. La Lumen Gentium viene approvata dai padri conciliari due mesi dopo che Giordani pubblicò, nel 1964, un altro dei suoi volumi fondamentali: Laicato e sacerdozio, portando a compimento con questo scritto una questione che lo accompagnò per tutta la vita. Dalle incomprensioni dei periodi iniziali alla Lumen Gentium: il profetismo di Giordani non poteva avere consacrazione migliore! Non fu il solo volume sull’argomento. Ne dobbiamo ricordare almeno un altro, di tanti anni prima: Noi e la Chiesa (1939), che tratta proprio dell’essere chiesa della condizione laicale. Per Giordani la vocazione alla santità è di ciascun membro del popolo di Dio, quindi anche dei laici, i quali hanno una vocazione e una missione dentro la Chiesa particolare e ordinata alla propria condizione. Quindi non si tratta di un cristiano di serie inferiore rispetto alla gerarchia della Chiesa, Giordani intese risollevare da una sorta di “proletariato spirituale” i laici. Eppure, Giordani non mosse alcuna azione di rivendicazione nei confronti della gerarchia, piuttosto agì sul piano della piena coscienza e della responsabilizzazione dei fedeli laici. Vivere da cristiani significa con ciò innalzarsi dalla mediocrità e affrontare gli impegni quotidiani con l’eroismo evangelico. 18