Quale contributo per la Dottrina sociale della Chiesa

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UNIVERSITÀ POPOLARE MARIANA
2006/2007
Lezioni sul Compendio della Dottrina sociale della Chiesa
primo anno
sabato,10 marzo 2007
Lezione 3
CATERINA MULATERO – ALBERTO LO PRESTI
Il pensiero sociale cristiano e il carisma dell'unità
testo preparato
Introduzione
Con questa lezione realizziamo un passaggio cruciale nel nostro percorso di
avvicinamento al pensiero sociale cristiano. L’obiettivo, infatti, è quello di porre in luce
il forte legame esistente fra il pensiero sociale cristiano e la dottrina che emerge dal
carisma dell’Unità. Nonostante l’originalità di questa scelta, a sollecitarci in questa
direzione è la constatazione che il nostro ideale ha contribuito in modo importante allo
sviluppo del pensiero sociale cristiano, e da esso si profila un paradigma ricco e utile per
una definizione della civiltà dell’amore alla quale la DSC anela. E, in modo del tutto
particolare, si proporrà lo schema dei sette aspetti quale risposta vitale alle sfide che il
mondo contemporaneo lancia nei confronti della DSC.
Quale contributo per la Dottrina sociale della Chiesa
del paradigma che scaturisce dal carisma?
CATERINA MULATERO
Comincerò col cercare di spiegare il significato dell’espressione paradigma
interdisciplinare dell’unità per poi cogliere la sua importanza in relazione alla DSC.
Di un nuovo paradigma originato dal carisma dell’unità si parla correntemente da
quando sono iniziati i conferimenti delle lauree honoris causa a Chiara, circa dodici
anni fa. E’ allora emerso molto chiaramente che nel carisma dell'unità esiste un
paradigma interdisciplinare di unità: questo paradigma è fondamento metodologico per
la costruzione di modelli teorici, di strategie di ricerche empiriche, di schemi di
applicazione. Esso è insito nel pensiero, nella spiritualità e nella vita spirituale di
Chiara. Ed è stato indubbiamente molto importante che si sia evidenziato che dal
carisma dell’unità scaturisce questo nuovo paradigma, comunemente chiamato
paradigma dell'unità.
Per comprendere meglio ciò che verrà detto in seguito, sarà bene precisare il
significato del termine “paradigma” rispetto al termine “modello", in quanto molto
spesso si attribuisce ai due termini lo stesso significato. Il termine “paradigma” ha un
concetto più ampio rispetto a “modello”. Esso costituisce l'orizzonte che fa da sfondo al
lavoro dello studioso, del ricercatore: contiene gli elementi culturali, di valore, di
significato e ha il compito di orientare le sue scelte, la sua ricerca, il suo metodo.
I paradigmi, però, orientano la ricerca non soltanto attraverso delle regole astratte
costruite a tavolino, ma esercitano anche una diretta attività operativa; quindi
normalmente la filosofia della scienza “sbriciola”, per così dire, il paradigma in una
serie di concetti, schemi, modalità, categorie, indicatori di valore ed empirici. Perciò
all'interno del paradigma noi possiamo trovare come tanti elementi che possono essere
considerati anche ognuno a se stante e che, tutti insieme, costituiscono il paradigma
stesso.
Ci si potrà chiedere: ma affrontare questo concetto del paradigma che significato ha
rispetto al Compendio della dottrina sociale della Chiesa? E' il Compendio stesso a dare
la risposta a questo interrogativo. Infatti nelle sue pagine iniziali (specialmente nn. 8-19)
viene indicato il metodo seguito nella sua stesura, i suoi principi orientativi, la
prospettiva che ha guidato determinate scelte, le finalità che si propone, cosa offre
concretamente, a chi è primariamente destinato. Cominciano così a delinearsi alcune
linee del paradigma che ha guidato la compilazione del Compendio.
Scavando ancora in questa direzione possiamo costatare che il Compendio
costituisce un corpus dottrinale: infatti i vari documenti che costituiscono la dottrina
sociale della Chiesa, pur avendo un’origine diversa, una storia diversa, hanno una loro
unità d'insieme, costituiscono appunto un corpus dottrinale. Però finora il contenuto di
questa dottrina, di questo sapere, non aveva ancora trovato posto in una raccolta
organica, completa, ufficiale. Il Compendio della dottrina sociale della Chiesa è la
risposta a questa sentita esigenza ed è ben più di una raccolta per ordine cronologico o
tematico.
Esso, come si trova scritto al n. 9 «offre un quadro complessivo delle linee
fondamentali del corpus dottrinale dell'insegnamento sociale cattolico». Quindi ci
troviamo di fronte a una raccolta che ha un suo ordine logico e che vuole offrire un
quadro completo, esauriente, riguardo alle varie tematiche. Ed è importante questo
approccio perché – continua il Compendio al n. 9 - «consente di affrontare in modo
adeguato le questioni sociali del nostro tempo», questioni che, come sappiamo, hanno
ormai dimensioni planetarie, sono interconnesse, richiedono una visione d'insieme. Gli
elementi di cui sono composte, poi, si condizionano a vicenda e sempre di più
riguardano sia ciascuno di noi che tutta la famiglia umana. Prendiamo come esempio la
questione ambientale. E’ questa una problematica che riguarda tutti: la famiglia umana
nel suo insieme, indubbiamente; ma ci riguarda anche come singoli e come gruppi;
riguarda le strutture, le istituzioni in cui noi siamo inseriti. Allora per affrontarla in
modo adeguato, occorre anche avere strumenti adeguati. Il Compendio, con la sua
specificità, si presenta come uno di questi strumenti. E’ bene precisare che il suo
obiettivo di fondo non è risolvere una questione o l’altra, ma piuttosto quello di
riproporre un nuovo umanesimo. La storia è costellata di tanti umanesimi e oggi c'è
necessità di un umanesimo adeguato per questo nostro tempo travagliato ma denso di
promesse. Il Compendio propone «un umanesimo all'altezza del disegno d'amore di Dio
sulla storia, un umanesimo integrale e solidale capace di animare un nuovo ordine
sociale, economico e politico, fondato sulla dignità e libertà di ogni persona umana, da
2
attuare nella pace, nella giustizia e nella solidarietà» (n. 9). Un tale umanesimo potrà
trovare concretezza nella misura in cui si riuscirà a formare “uomini nuovi” che, con il
necessario aiuto della grazia divina, potranno essere i costruttori, gli artefici di una
nuova umanità1. A tal fine sono di capitale importanza i principi fondamentali che
reggono tutto l’edificio della dottrina sociale della Chiesa, ad esempio: il principio di
personalità, di solidarietà, di sussidiarietà, del bene comune, eccetera. Questi principi
hanno qualcosa di particolare che li contraddistingue: essi stanno in relazione l'uno con
l'altro, s'illuminano l'uno con l'altro. Perché? Perché esprimono l'antropologia cristiana
che sottostà a tutto il Compendio.
Sintetizzando questo breve excursus riguardante il paradigma del Compendio,
possiamo affermare che esso presenta in maniera sistematica e complessiva
l'insegnamento sociale della Chiesa, offre un quadro esauriente delle linee fondamentali
di questo corpo dottrinale; dà una visione d'insieme, suggerisce un metodo organico
nella soluzione dei problemi, evidenzia dei principi fondamentali che reggono tutto
questo corpo dottrinale, principi che esprimono un’antropologia che fa da sfondo al
documento. Un testo molto denso quello del Compendio: articolato e ben strutturato,
collocato nell'ambito della teologia morale, però con una sua specifica dimensione
interdisciplinare; portatore di un sapere ricco e che, pur toccando molteplici aspetti, è
nell'insieme unitario. E’ pertanto uno strumento, una guida per l'uomo di oggi in vista
della costruzione del nuovo umanesimo cui il Compendio stesso guarda.
Dalla visione dell’uomo all’idea di ordine sociale e politico
ALBERTO LO PRESTI
È importante discutere il paradigma. Non si tratta solo di un’esigenza didattica, ma
di riuscire a rendere conto degli orizzonti intellettuali. Si può dire, infatti, che ogni
paradigma si costruisce su delle precise concezioni antropologiche per cui, in modo
ancora più semplice, partendo da una visione filosofica dell’uomo possiamo leggere la
particolare concezione sociale e politica data. Qualche esempio celebre potrà esserci
d’aiuto.

1
All’alba della modernità, fra il XVI e il XVII secolo, due pensatori hanno una
visione dell’uomo molto negativa. Il primo, Machiavelli, pensa che l’uomo sia un
essere del quale non ci si può fidare, perché attratto solo dalle cose che lo
interessano e lo arricchiscono. Fra i consigli che Machiavelli dà al sovrano per
regnare senza pericoli ve ne è uno che ci dice molto sulla visione antropologica di
Machiavelli: è meglio, per il re, essere temuto piuttosto che amato. L’amore, infatti,
è un sentimento passeggero, estemporaneo, non decisivo per fissare un rapporto di
fedeltà. Il cittadino se lo scorda. Invece, il timore, la paura, non si dimentica e tiene
il suddito in costante soggezione rispetto al re, e non ne mette in discussione
l’autorità. Nel XVII secolo, Hobbes pensa l’uomo come un essere che per natura
costituisce un pericolo per l’altro uomo. È di Hobbes il famoso detto homo homini
lupus, cioè l”l’uomo è lupo per l’altro uomo”, secondo un criterio in cui lo
spontaneo egoismo di ciascuno produce il disordine e la violenza perenne. Entrambi,
Cf Gaudium et spes, n. 30.
3
Machiavelli e Hobbes, postulano uno Stato politico assolutista, totalitario, dove il
sovrano è il capo forte a cui tutti sono sottoposti e che è impossibile da contestare.
Inevitabilmente, una concezione antropologica pessimistica e negativa produce
un’idea politica assolutista.

Nel XVII secolo, Locke ha una visione dell’uomo differente da quella di Hobbes. È
una visione ottimista, ma tutta rivolta a una felicità consacrata dalla proprietà
privata. Dice Locke che la proprietà privata è un diritto naturale, perché l’uomo con
il proprio lavoro trasferisce la proprietà di esso negli oggetti che manipola. Di
conseguenza, un solo ordine civile è possibile: quello fondato sulla proprietà privata
e sulle libertà individuali.

Nel XVIII secolo, Rousseau ha una visione antropologica differente da quella di
Locke. Immagina un uomo che per natura non sente il bisogno degli altri, è
indifferente perché, tutto sommato, dalla natura può ricavare tutto quel che gli
necessita. È le cose rimangono così fin quando i primi furbi non seminano la
discordia fondando la proprietà privata, che per Rousseau è il peccato originale della
società. Inizia la corruzione della morale, l’ingordigia, lo sfruttamento dell’uomo
sull’uomo. Per uscirne, c’è bisogno di un’utopia chiamata “volontà generale”, una
super collettività che assorbe tutta la nostra individualità e pensa al nostro benessere
e verso la quale non possiamo avere posizioni differenti da quelle dell’estrema
concordia.

Nel XIX secolo, Marx ha una visione antropologica materialista, dalla quale ricava
una concezione sociale e politica conflittuale. L’uomo, secondo Marx, si distingue
dagli altri esseri per una cosa: è l’unico che crea i mezzi per sopravvivere e, con ciò,
produce le condizioni per la sua stessa esistenza. Allora, per capire cos’è l’uomo
devo andare a vedere come si procura da vivere. Vale a dire, l’uomo – nella visione
di Marx – è soprattutto l’insieme dei suoi bisogni materiali. Per soddisfare tali
bisogni, qualcuno si organizza contro qualcun altro, e la storia di tutte le società
racconta l’inevitabilità del conflitto fra le classi sociali. L’antropologia materialista
produce un paradigma conflittuale.
Gli esempi potrebbero continuare, e rendere valido questo meccanismo di lettura,
dalla concezione antropologica alla descrizione dell’orizzonte sociale e politico.
Vale anche per la DSC: la visione antropologica fondata sulla persona umana
produce quello speciale orizzonte sociale e politico denominato “Civiltà dell’Amore”.
La visione antropologica della DSC non è quella dell’individuo, pensato come
un’isola a sé stante, costretto dalla necessità ad associarsi. Tanto meno quello di una
minuscola e insignificante casualità all’interno di un agglomerato sociale, pensato come
il vero unico e il tutto.
Quella espressa dalla DSC è un’antropologia plenaria, che pone al centro del
discorso la persona e il primato della sua dignità. Persona, si badi bene, è un concetto
complesso, filosoficamente ricco. Ma non così distante dal nostro vissuto quotidiano. È
facile, per esempio, osservare che posso identificare un micio come un “individuo” della
specie felina, mentre non potrei mai chiamarlo “persona”. Allo stesso modo, ci farebbe
ribrezzo pensare che, da piccoli, siamo stati accuditi da un “individuo”, mentre ci
rassereniamo se pensiamo che a curarci fu la “persona” di nostra madre. Già il
4
linguaggio quotidiano ci aiuta a decifrare le categorie in atto: la persona è quell’uno che
si rivolge agli altri per realizzare la propria natura. La persona è quell’uno che tende alla
molteplicità, secondo un prodotto che vorrebbe ritornare – anche matematicamente –
sempre all’unità. Dice G.M. Zanghì, a proposito della «confusa identificazione della
persona con l’individuo […] l’individuo non è approdo, è inizio di un cammino: è
l’aurora della persona. E l’individuo è persona solo se riesce a morire a se stesso, come
nella Trinità ognuno dei Tre è Persona perché tutto espropriato negli Altri Due. La
grande legge, anche culturale, della Croce, è sempre determinante»2.
L’antropologia espressa dalla DSC è fatta della stessa pasta. Vediamo:
«la persona umana è un essere personale creato da Dio per la relazione con
Lui, che soltanto nella relazione può vivere ed esprimersi»3
per cui:
«la relazione tra Dio e l’uomo si riflette nella dimensione relazionale e
sociale della natura umana»4.
Osserviamo subito la differenza fra la visione della dsc e quelle esemplificate
precedentemente, con gli esempi tratti dalla storia della filosofia. Rispetto alle altre
concezioni, la DSC dice che l’uomo non costruisce la società “per necessità”, come
volevano Machiavelli e Hobbes, per i quali la società è un male minore necessario per
superare gli irreparabili danni prodotti dalla cattiva natura umana; e neanche “per
convenienza”, come voleva Rousseau, che pensa che convenga fonderci tutti in un
sistema perfetto dove la nostra individualità si è dissolta ma, in cambio, abbiamo
guadagnato la volontà generale; men che meno per garantirsi i benefici costituiti dalla
naturale proprietà privata, come voleva Locke; per esempio al fine di legittimare la
proprietà privata, o altro. Ancora, la relazione sociale non è neanche semplicemente un
meccanismo evolutivo, una risposta organizzata per risolvere i problemi di un migliore
adattamento alla crescita demografica5. Piuttosto, secondo la DSC, “fare società” è
scritto nella nostra vocazione alla vita, nella nostra natura più profonda6. Ecco perché
nella DSC troviamo che la buona politica, e le virtuose strutture sociali, sono quelle che,
riconoscendo la natura propria dell’essere umano, danno spazio alla relazionalità, alla
reciprocità, così come è scritto nel profondo del suo essere. Alle strutture sociali e
politiche spetta il compito di favorire la circolazione d’amore fra tutti i cittadini, fra i
gruppi sociali, fra le comunità e i popoli, in una parola la civiltà dell’amore7. E se la
civiltà dell’amore – per esempio - fosse vissuta al punto di fare l’inventario delle proprie
cose per donare al bisognoso quanto posseduto in più, le virtù civili renderebbero più
facile anche l’azione di governo e le scelte politiche8. Infatti, fra i molteplici compiti
della politica, attraverso i complicati calcoli economici e finanziari, attraverso le
molteplici condizioni per la ridistribuzione delle risorse della comunità, dei servizi,
delle opere, delle opportunità e dei mezzi in genere, alla politica si chiede di
incoraggiare e sostenere le relazioni di solidarietà fra le parti sociali e di costruire spazi
G.M. Zanghì, Per una cultura rinnovata. Alcune piste di riflessione, «Nuova Umanità», XX, 1998/5,
119, p. 511 (corsivo nel testo).
3
Compendio della dottrina sociale della chiesa, 109.
4
Compendio della dottrina sociale della chiesa, 110.
5
Compendio della dottrina sociale della chiesa, 149-151.
6
Compendio della dottrina sociale della chiesa, 111-114.
7 Cf. Compendio della dottrina sociale della chiesa, “Conclusione”, 575ss.
8 Cf. Giovanni Paolo II, Centesimus Annus, in particolare n. 10.
2
5
di condivisione della scelta pubblica. Questa è la civiltà dell’amore, alla quale la DSC fa
costante riferimento:
«l’amore deve essere presente e penetrare tutti i rapporti sociali: specialmente
coloro che hanno il dovere di provvedere al bene dei popoli alimentino in sé e
accendano negli altri, nei grandi e nei piccoli, la carità, signora e regina di tutte
le virtù»9.
E ancora:
«per rendere la società più umana, più degna della persona, occorre
rivalutare l’amore nella vita sociale – a livello politico, economico,
culturale -, facendone la norma costante e suprema dell’agire»10.
Ricapitolando, la concezione antropologica della persona ammette un paradigma
che pone al centro della propria dimensione sociale e politica la civiltà dell’amore.
Questo è lo specifico della DSC.
I sette aspetti e il pensiero sociale cristiano
CATERINA MULATERO
Ci possiamo adesso chiedere: cosa ha da dire il carisma dell'unità, con la specificità
che gli è propria, alla edificazione della civiltà dell'amore? Si potrebbe rispondere:
tantissimo! Per cui abbiamo dovuto fare una scelta, e la nostra scelta, ricollegandosi alle
riflessioni fatte in precedenza sul paradigma, è caduta su un particolare del ricco
paradigma dell’unità, e precisamente sullo specifico modello organizzativo che si è
originato dal carisma; modello che noi normalmente chiamiamo "dei setti aspetti" o
anche semplicemente "come un arcobaleno". Questo modello, questo schema
organizzativo, non è soltanto qualcosa che serve per la nostra vita ideale perché cresca
in pienezza, ma è un modello che si rivela estremamente utile e fecondo in ordine alla
costruzione della civiltà dell'amore. Esso inoltre ci consente di aprirci verso l'esterno, di
metterci in dialogo con quanti possiamo incontrare sul nostro cammino e che
contribuiscono anch'essi a costruire - tutti insieme - la civiltà dell'amore.
Sarà necessario tornare brevemente all'origine dei nostri sette aspetti. Sappiamo che
essi sono nati da una intuizione di Chiara quando comprese che l’amore non solo
doveva essere la vita delle persone del nascente Movimento, ma doveva essere anche la
loro regola. Dal carisma, infatti era sorta non solo una spiritualità nella Chiesa, ma
anche un’Opera. «E – diceva Chiara – per avere un’Opera (…) è necessario un
ordinamento, una struttura, una regola»11. Prendendo l’esempio dal raggio di luce che,
attraversando un prisma di cristallo si scinde nei sette colori dell’arcobaleno, Chiara
spiega che questi sette colori a loro volta si spiegano in infinite gradazioni: cioè il
numero sette in realtà comprende le infinite sfumature di tutta la realtà umana.
Qual è la radice di questi sette colori? E’ la vita di Gesù, la vita di Gesù in ognuno
di noi, fra noi, che si esprime in tanti modi, uno diverso dall'altro. Questa vita di Gesù,
9
Compendio della dottrina sociale della chiesa, 581.
Compendio della dottrina sociale della chiesa, 582.
11
C. LUBICH, La dottrina spirituale, Mondadori, Milano 2001, pp. 220-222.
10
6
presente nel singolo e nella comunità, questo amore che si spiega come un arcobaleno,
non si ferma ai singoli, non si ferma solo ai rapporti interpersonali: esso costituisce
anche una regola di vita, dà la possibilità di inondare il mondo col divino e di rendere
nuove tutte le realtà sociali, comprese, quindi, le strutture. Ancora, è qualcosa che può
essere portato anche al di fuori dell'Opera perché è una visione “dall'alto”, direi
“sapienziale” di tutte le realtà umane.
Esamineremo adesso aspetto per aspetto - necessariamente in modo molto sintetico
- per vederne le implicazioni concrete. Cercheremo anche di vedere ogni aspetto in
relazione con quanto sta maturando di valido, di buono, nella società civile, nelle
istituzioni; potremo così trovare altri compagni di viaggio nella costruzione della Civiltà
dell’amore.
1) l’amore porta alla comunione - comunione dei beni, economia, lavoro, povertà.
E’ questo un aspetto molto vasto e complesso. Prende dentro dall'Euro che un bambino
mette da parte nel suo salvadanaio, alle strutture produttive e finanziarie, a quelle che
governano l'economia a livello mondiale, agli squilibri che ci sono, alle contraddizioni
che sta provocando la globalizzazione. Riguarda anche tutto il mondo del lavoro, questo
mondo in cerca di una nuova identità, di nuove motivazioni e forme organizzative di
fronte agli attuali cambiamenti strutturali che sembrano cancellare le conquiste che con
tante lotte e a duro prezzo erano state realizzate. Ma in questo primo aspetto sono ben
presenti anche semi di novità e forti segnali positivi. Pensiamo a tutto quell'ambito del
mondo economico che opera per rendere più umana l'economia, per portare avanti la
solidarietà, il bene: è un ambito vastissimo in cui noi ci sentiamo di poter fare un
cammino di ricerca, di costruzione di esperienze nuove insieme a tanti altri, attuando
uno scambio di doni, coscienti che, ovunque c'è del bene che va avanti, lì ci sono dei
segnali che lo Spirito Santo è all’opera. Si stanno anche aprendo degli interessanti filoni
culturali di dialogo dove stanno maturando nuove linee teoriche che rivelano l’esistenza
di esigenze rinnovate verso una civiltà più attenta ai bisogni di tutti con particolare
attenzione per coloro che sono più svantaggiati. E’ questa solo una breve pennellata del
ricco patrimonio del primo aspetto. Quindi, quando noi diciamo "primo aspetto" ci si
spalancano immediatamente tutti questi orizzonti di dimensione planetaria
2) L’amore non è chiuso su se stesso ma è di per sé diffusivo – testimonianza e
irradiazione.
Questo amore di Gesù che, come abbiamo detto è la radice di tutti gli aspetti,
nella sua diffusione dà vita a un popolo nuovo che ha come sua legge fondamentale
l'amore; un amore però che si coniuga con la giustizia. Emerge qui il rapporto tra
giustizia e carità, la giustizia vista come il nucleo centrale, irrinunciabile di un amore
che vuol essere un amore vero. Questo amore che dà vita a un popolo nuovo, dà vita
anche a rapporti nuovi fra i popoli e qui si apre l'ambito – di grande attualità - delle
relazioni internazionali, delle dinamiche di connessione fra diverse aree geografiche,
unitamente a quanto sta maturando in questo campo sotto la spinta della
globalizzazione, nella ricerca di una sovranità e di una cittadinanza vissuta a livelli più
ampi rispetto a quelli classici di nazione e di patria.
3) L’amore eleva – spiritualità e vita di preghiera.
Questo amore porta al rapporto con Dio non solo personalmente ma anche
comunitariamente. Ed esige delle scelte, dei comportamenti coerenti. Qui trova posto
7
l'ambito dell'etica, un ambito che si sta aprendo verso nuove frontiere per tutte le nuove
tematiche che stanno emergendo; pensiamo – a solo titolo di esempio - a quelle
riguardanti la vita e alle biotecnologie. Ricordiamo anche altri aspetti importanti come
la nascita dei tribunali internazionali a tutela dei diritti dei singoli e dei popoli. Si
aprono qui feconde piste di dialogo con le iniziative che raccolgono queste sfide e verso
le quali stiamo lavorando, ad esempio, col diritto di comunione.
4) L’amore risana – natura e vita fisica
Questo amore porta una nuova socialità, porta rapporti sociali nuovi, rinnovati
dall'amore: Gesù in mezzo fra due o più, nei gruppi, fra i gruppi. Porta alla formazione
di famiglie nuove come cellule vitali della società, porta la pace considerata come
salute del corpo sociale e guarda la questione ambientale nei suoi aspetti etici.
5) L’amore raccoglie più persone in assemblea – armonia e ambiente.
L'amore edifica comunità politiche nuove, città nuove, porta un'arte nuova. Qui
possiamo entrare in dialogo con tutte le sollecitazioni che portano avanti anche la
questione della cittadinanza e dei diritti fondamentali connessi alla cittadinanza; per
esempio la casa, la possibilità di farsi una famiglia, l'appartenenza a una comunità; i
problemi legati all'integrazione e alla emigrazione. Qui trova spazio anche il mondo
della politica.
6) L’amore è fonte di sapienza – sapienza e studio.
L'amore genera sapienza e una nuova cultura e porta al dialogo fra le culture.
Questo è un cantiere aperto a tutto campo, anche all'interno del Movimento, per il
lavoro di ricerca che si sta portando avanti in tanti ambiti del sapere, e per le sfide che
vengono poste e a cui sentiamo di dover trovare risposte valide. Noi in questo percorso
stiamo trovando tanti compagni di viaggio che si sentono stretti in paradigmi vecchi,
ormai inadatti, e tentano nuovi percorsi, nuove soluzioni. Sono persone assetate
anch'esse di verità, di un maggiore rispetto per l'uomo, di approdi diversi da quelli che
certi tipi di percorsi scientifici avevano portato.
7) L’amore compone in uno i molti – unità e mezzi di comunicazione.
Qui si apre lo scenario affascinante dei mezzi di comunicazione moderni. Tutto un
mondo che presenta immense possibilità di bene unitamente a rischi di derive
inimmaginabili. L’amore porta a considerare i mezzi di comunicazione come strumenti
che possono moltiplicare il bene e spinge ad operare in tal senso. La complessità
dell’attuale situazione necessita dell'apporto di tutti coloro che condividono questa
visione delle cose per fondare l’impresa comunicativa sul bene, contro le distorsioni del
potere comunicativo.
Al termine di questa breve presentazione dei “sette aspetti” si può capire come tutte
le tematiche della DSC trovino il loro posto in questo modello organizzativo che ha
delle sue caratteristiche precise: è aperto ed è interconnesso. Un modello aperto nel
senso che non si chiude in definizioni dogmatiche, non è questo il suo obbiettivo; ma
anche perché è costantemente aperto alle res novae, a leggere i segni dei tempi, a
cogliere le sfide che il mondo d'oggi ci consegna. Questo esige il carisma dell’unità e a
questo spinge. E' un modello interconnesso perché non solo consente, ma richiede un
profondo e fecondo percorso interdisciplinare.
8
In questo modo prendono concretezza con una loro specificità, due degli aspetti
tipici e costitutivi della DSC: essa è un sapere sempre aperto12 al nuovo, capace di
continuo rinnovamento ed è costitutivamente interdisciplinare13.
Inoltre, quello dei “sette aspetti” è uno schema dinamico, porta in sé una dinamica
“alla Trinità”. Infatti i singoli aspetti non vanno visti, compresi, incarnati isolatamente,
ma, “alla Trinità” dove coesistono unità e distinzione: ognuna delle singole parti ha la
propria identità, le proprie caratteristiche, il proprio metodo, ma esse formano un
disegno unitario, armonioso. In esso le varie parti si vivificano e illuminano
reciprocamente, e, nella misura in cui riescono ad interagire con gli altri, a vivere per gli
altri, negli altri e grazie agli altri, potremmo dire che si stagliano maggiormente nella
loro specificità e realizzano in modo efficace la loro funzione nella società.
Questa dinamica risulta evidente nella vita dell’Opera di Maria che fin dalla sua
nascita è andata forgiandosi sul modello trinitario. Ma, come afferma Chiara in un suo
discorso, «Tutti gli uomini sono chiamati a partecipare alla vita intima di Dio – alla cui
immagine sono creati -, a vivere in reciproca comunione tra loro, nell’amore, sul
modello di Dio che è Amore, che è Unità nella Trinità, e a rispecchiare nel mondo la
comunione d’amore che è in Lui»14. E Marisa Cerini commenta: «E’ così che prenderà
vita e forma dalle sue “radici trinitarie”, la nuova comunità degli uomini. E’ così che il
convivere umano diverrà luogo della presenza di Dio: pieno esso stesso della Trinità»15.
Ma il convivere umano necessita sempre di strutture sociali e civili. E se questo
convivere prende forma dalle sue “radici trinitarie”, anche le sue strutture dovranno
avere la stessa forma. Lo schema dei “sette aspetti” nasce e vive in questa logica.
Prendiamo, a titolo di esempio, l’azzurro – armonia e ambiente. Nel dinamismo
della logica trinitaria questo aspetto deve interagire con gli altri. Ad esempio, nella
progettazione di una cittadella si dovrà tenere conto di tutti gli aspetti. Deve vivere per
gli altri: una cittadella deve formare uomini nuovi, dare testimonianza sulla base
dell’amore reciproco, eccetera. Deve vivere negli altri in modo pericoretico, cioè in
continua, reciproca donazione e accoglienza. Deve vivere grazie agli altri. Una
cittadella, pur facendo parte dell’azzurro, vive grazie all’apporto di tutti gli altri aspetti.
Abbiamo così colto alcuni degli elementi del paradigma dell’unità in una sua
particolare applicazione, cioè come modello organizzativo: modello aperto,
interconnesso, dinamico “alla Trinità”.
Possiamo cogliere in questi elementi una profonda consonanza con l’impostazione
del Compendio che è eminentemente trinitaria.
Alcuni brani sono particolarmente significativi:
«Il comandamento dell’amore reciproco traccia la via per vivere in Cristo
la vita trinitaria nella Chiesa, Corpo di Cristo, e trasformare con Lui la
storia fino al compimento nella Gerusalemme celeste» (n. 32).
Più esplicito ancora il n. 33:
«Il comandamento dell’amore reciproco, che costituisce la legge di vita del
12
Compendio n. 85.
Compendio n. 76.
14
C. Lubich, La donna artefice di pace e di unità, in “Città Nuova” 11 (1989), p. 35.
15
M. Cerini, Dio Amore nell’esperienza e nel pensiero di Chiara Lubich, Città Nuova, Roma, 1991, p.
72.
13
9
popolo di Dio, deve ispirare, purificare ed elevare tutti i rapporti umani
nella vita sociale e politica: “Umanità significa chiamata alla vita
interpersonale”, perché l’immagine e somiglianza di Dio trinitario sono la
radice di “tutto l’ethos umano … il cui vertice è il comandamento
dell’amore”. Il fenomeno culturale, sociale, economico e politico odierno
dell’interdipendenza, che intensifica e rende particolarmente evidenti i
vincoli che uniscono la famiglia umana, mette in risalto una volta di più,
alla luce della Rivelazione, “un nuovo modello di unità del genere umano,
al quale deve ispirarsi, in ultima istanza, la solidarietà. Questo supremo
modello di unità, riflesso della vita intima di Dio, uno in tre Persone, è ciò
che noi cristiani designiamo con la parola “comunione”».
Così quando riusciamo a dar vita a “strutture di comunione” nei vari ambiti: da
quello economico a quello politico, della giustizia, della pedagogia, ecc., realizziamo la
sostanza della DSC in modo, direi profetico. Infatti se col carisma, come abbiamo visto,
siamo in linea con il patrimonio di dottrina della Chiesa, però dobbiamo anche essere
coscienti che il carisma dà un suo apporto specifico, porta come una nuova fioritura che
Chiara esprime così:
«La dottrina della Chiesa è come un albero fiorito sviluppatosi attraverso i secoli.
L’Ideale dà ad esso una nuova fioritura. (…) L’Ideale quasi ricopre la chioma di
quest’albero di un nuovissimo manto di fiori e sembra – e lo è – che tutto l’albero tenda
a questa fioritura, sia in funzione di essa, per essa…»16 .
Ma per conoscere bene la nuova fioritura, per essere coscienti del novum che porta,
occorre conoscere bene tutto l’albero. Solo allora, commenta Marisa Cerini, «quella
nuovissima fioritura dell’albero, quell’Ideale, che Dio ha dato a Chiara, ci si svelerà
nelle sue radici secolari, nelle sue profondità bibliche: avvertiremo di più quanto le
affermazioni di Chiara esprimono e svelano l’unità dell’albero e saremo più preparati a
cogliere bene, senza travisarla, la sapienza, fino a quella più alta e delicata»17.
I nostri testimoni della DSC: Chiara Lubich
CATERINA MULATERO
In questa seconda ora vorremmo presentarvi alcuni di quelli che noi abbiamo
chiamato i "nostri" testimoni della DSC, cioè le personalità più importanti dell'Opera,
che con la loro vita ma anche con le loro idee, con la loro dottrina, hanno dato un
contributo per la DSC.
Chiara
Cominciamo con Chiara. Abbiamo voluto focalizzare la nostra attenzione su
alcuni suoi scritti in cui lei molto esplicitamente parla della DSC per evidenziare il
Cit. in M. Cerini, Teologia dogmatica, Dispensa del corso di scienze religiose e sociali dell’Istituto
Mystici Corporis, 1979, p. 2.
17
Ibidem.
16
10
rapporto che ha con questo sapere, far vedere come lo coglie, come lo vive, e lo fa
vivere.
1) La Magna Charta della dottrina sociale cristiana
Vorrei iniziare con uno scritto degli anni ‘50 in cui Chiara fa un collegamento fra il
Magnificat e la DSC. In questo testo particolarmente pregnante, Chiara parla del
Magnificat come “Magna Charta” della dottrina sociale cristiana18: «La Magna Charta
della dottrina sociale cristiana inizia là dove Maria canta: “Ha rovesciato i potenti dai
troni, ha innalzato gli umili, ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato a mani
vuote i ricchi” (Lc 1,52-53). Nel Vangelo - commenta Chiara - sta la più alta e
travolgente rivoluzione. E forse è nei piani di Dio che anche in quest’epoca, immersa
nella soluzione dei problemi sociali, sia la Madonna a dare a noi tutti cristiani una mano
per edificare, consolidare, erigere e mostrare al mondo una società nuova in cui
riecheggi potente il Magnficat»19.
Notiamo subito che, di tutto il canto del Magnificat, Chiara prende in
considerazione due versetti, il 52 e il 53 dove è scritta, coma già attuata, la rivoluzione
sociale che Gesù porterà. Le ardite affermazioni di Chiara non ci devono meravigliare,
perché Maria è la realizzazione piena dei disegni di Dio sull’umanità. E’ in lei che trova
compimento il piano di Dio. Quindi, se la dottrina sociale cristiana è uno strumento per
aiutare il popolo di Dio e l’umanità tutta a percorrere il cammino verso la realizzazione
dei piani di Dio, il canto del Magnificat può a ragione essere considerato la “Magna
Charta” della dottrina sociale cristiana.
Alba Sgariglia esprimendo con acutezza questa rapporto fra il Magnificat e la
dottrina sociale cristiana, ci aiuta a penetrarlo un po’ di più: «Il canto del Magnificat –
secondo la Sgariglia - ci mostra come Maria non soltanto fa, ma anche legge e scrive la
storia. Ella indica le modalità storiche e sociali nelle quali Dio compie il suo progetto:
sovvertire le attese dei ricchi e dei potenti e realizzare la sua salvezza con i poveri e gli
umili. E Maria che è Madre non può non avere tale fiduciosa speranza di fronte alla
ingiusta e differenziata condizione sociale dei suoi figli. Una vera funzione materna non
può prescindere da una tale prospettiva: promuovere la storia e lo sviluppo di ogni
singolo e di tutti gli uomini per costruire una società nuova più giusta, più solidale, più
fraterna, nella certezza che in Dio tale disegno è già compiuto»20.
2) L'enciclica Populorum progressio
Un altro momento in cui Chiara parla esplicitamente della DSC si è avuto con la
pubblicazione dell’enciclica di Paolo VI Populorum progressio (1967). Si sente che
Chiara ha letto e riletto questa enciclica, l'ha “gustata”, perché la Populorum progressio
è un'enciclica molto bella anche dal punto di vista letterario. Chiara in un suo scritto
mostra un'accoglienza piena dei contenuti della Populorum progressio, ma nello stesso
tempo mostra anche una sua personale comprensione maturata alla luce del carisma.
Il collegamento tra il Magnificat e la dottrina sociale della Chiesa e, più in generale tra Maria e la
DSC, è presente nel Compendio al n. 59.
19
C. LUBICH, Maria trasparenza di Dio, Città Nuova, Roma 2003, p. 98.
20
.A. SGARIGLIA, Per un’economia di comunione sulle tracce di Maria, in “Polo Lionello, casa degli
imprenditori”, Firenze 2003, p 15.
18
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Così è dello sviluppo, tema centrale dell’enciclica: «Lo sviluppo - dice Chiara - per il
Santo Padre è il nuovo nome della pace e, andando al succo della sua enciclica, è
sinonimo di terra in cui è in atto una fratellanza universale, che è premessa e
preannunzio del compimento del testamento di Gesù: tutti fratelli, tutti ad aiutarsi, i beni
in comune su tutta la terra, una autorità mondiale “in grado d’agire efficacemente sul
piano giuridico e politico”21. E’ il disegno di Dio sul mondo, oggi. All’uomo, a ciascuno
di noi il realizzarli»22. In questo brevissimo commento compaiono alcuni capisaldi della
dottrina di Chiara in campo sociale: la fratellanza universale vista come compimento del
testamento di Gesù e la comunione dei beni su scala planetaria, oltre alla necessità di
una qualche forma di autorità mondiale. Qui Chiara, con parole profetiche, mette in luce
dei punti che, solo accennati in questa enciclica, saranno ampiamente sviluppati in
quelle successive e, adesso sono pienamente presenti nel Compendio23.
3) L’enciclica Centesimus annus
Nel momento solenne e fondante della nascita dell’Economia di Comunione,
Chiara fa più volte riferimento alla DSC. Parlando di come è nata e poi è stata vissuta la
comunione dei beni nell’ambito del Movimento, ella sottolinea che questa pratica, nata
guardando alle prime comunità cristiane, via, via «è stata arricchita di tutti quegli
apporti che ci ha fornito la dottrina sociale cristiana, soprattutto attraverso le encicliche
sociali»24.
Sempre in quell’occasione Chiara annovera l’enciclica Centesimus annus appena pubblicata ma già da lei “meditata” - , fra gli elementi che hanno contribuito alla
nascita del progetto EdC. Lei stessa nel suo indimenticabile e carismatico discorso
alla Mariapoli Ginetta, fece una sintesi dell’enciclica e sottolineò come “la meditazione
sulla Centesimus annus” fosse stato uno degli elementi che avevano contribuito a far
maturare il lancio del nuovo progetto. Chiara, penetrando nell’enciclica, ne aveva colto
l’ispirazione più autentica e, così, avrebbe portato il progetto EdC ad incarnare ed
attualizzare suoi importanti punti (pensiamo ad esempio alla concezione dell’impresa, al
suo ruolo nell’economia moderna)25. Allo stesso tempo, lanciava anche un’importante
operazione di approfondimento culturale in cui avrebbero così preso il via nuove linee
culturali, come quella, particolarmente feconda, della cultura del dare.
4) “Risurrezione di Roma”
Per concludere, solo un brevissimo accenno all’intenso e conosciuto testo di Chiara
"Resurrezione di Roma", che è ricchissimo di contenuti e può essere sviscerato anche
dal punto di vista della DSC.
«Se io guardo questa Roma così com'è…»: inizia così lo scritto “Risurrezione di
Roma”, inizia cioè con uno sguardo sulla città; uno sguardo che non si ferma in
superficie ma si fa carico del disagio sociale della città. Poi, nello snodarsi delle
riflessioni, Chiara giungerà a proporre una originale metodologia di “carattere trinitario”
21
Populorum progressio n. 78.
C. LUBICH, Scritti Spirituali/2, Città Nuova, Roma 1978, p. 34.
23
Vedi nn. 82,103,131.
24
C. LUBICH, L’economia di comunione, storia e profezia, Città Nuova, Roma 2001, p. 12.
25
Cf Compendio nn. 336-339.
22
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per rispondere a questo, come ad ogni disagio sociale: si tratta di dar vita a “cellule
vive” che rivitalizzino tutto il tessuto sociale.
Sono questi solo brevi accenni a un testo che meriterebbe – proprio dal punto di
vista della DSC – una sua approfondita trattazione.
Frutti del carisma dell’unità e DSC: attività, opere, azioni sociali, organismi
Per chiudere, vorremmo soffermarci, sempre in relazione alla DSC, su qualcuno dei
frutti che il carisma dell'unità porta.
Sappiamo che una delle caratteristiche della DSC è di essere un sapere orientato
all’azione, all’organizzazione della società e al suo funzionamento26. E’ logico quindi
che sotto la spinta di questi insegnamenti siano, col tempo, nate organizzazioni nuove,
opere, azioni sociali, ecc.
E’ noto come anche nell’ambito del Movimento dei focolari siano sorte
innumerevoli opere sociali, le più varie. Guardando la loro nascita, il loro sviluppo, i
loro obiettivi possiamo trovare piena consonanza con l’insegnamento sociale della
Chiesa, in particolare con alcune idee-forza che esso propone.
La forte sottolineatura che il Compendio fa della fraternità27 e del suo rapporto col
comandamento dell’amore reciproco visto come «lo strumento più potente di
cambiamento, a livello personale e sociale» (n. 55), è al cuore di tante realizzazioni
concrete scaturite dal carisma dell’unità. Possiamo infatti notare che le opere da esso
generate, presentano delle caratteristiche comuni: nascono dall’amore reciproco vissuto,
cioè dall’unità; il loro percorso storico si snoda nella dinamica trinitaria dell’amore
reciproco; l’orizzonte cui guardano è la fratellanza universale.
L’esperienza di Fontem è molto significativa su questi aspetti28.
Essa nasce nel momento in cui la Chiesa vive l’intensa stagione del Concilio
Vaticano II e il continente africano matura la stagione della decolonizzazione. In questo
contesto particolarmente fecondo, il Movimento dei focolari e il popolo Bangwa vivono
una singolare esperienza di fraternità, diventano laboratorio di relazioni fraterne capace
di informare una società di decine di migliaia di persone e di garantirne una crescita
umana e spirituale impensate.
Fin dal primo incontro con i Bangwa, in Chiara è ben presente che la fratellanza
universale è l’idea che deve guidare il rapporto con questo popolo. Due sue brevi ma
incisive frasi ci aiutano a penetrare nella sua comprensione di questo concetto e di come
lo ritenesse adatto per questa nuova esperienza: «L’unità si fa con i diversi» e «Insieme,
ciascuno è più bello».
E quanto fossero diversi i due protagonisti di questo cammino si manifestò sempre
più col tempo, sino a raggiungere un momento molto critico. Dopo un po’ di anni
dall’arrivo dei Focolari, quando già si erano costruite tante cose, i Bangwa mostrarono
di avvertire il peso di una sorta di dipendenza nei loro confronti e, quindi, una sorta di
26
Cf Compendio n. 83.
Cf Compendio nn. 4, 17, 51, 54, 144.
28
Cf B. CALLEBAUT, M. NKAFU, Fontem: un laboratorio di fraternità, in “Nuova Umanità” 162
(2005).
27
13
insofferenza nella loro presenza. Lucio dal Soglio narra che tutti i membri del focolare
concordarono che l’unico modo per rimanere lì era di realizzare una reale fraternità
vivendo concretamente in condizioni di reale parità. Da qui la decisione: «Stiamo qui
per vivere assieme con i Bangwa, non per fare cose grandiose, neanche per salvare le
vite dei Bangwa, le salviamo se i Bangwa ce lo chiedono. Non vogliamo fare un super
ospedale, non vogliamo fare un’università, non vogliamo insegnare questo o quel
programma, facciamo quello che vediamo insieme con loro di fare». Questa svolta,
questa nuova comprensione di come dovevano essere lì, è stata percepita come un
momento di grazia. Da quel momento la parità fra i due soggetti fu compresa e vissuta
come base dell’uguaglianza e della fraternità: la vera fratellanza universale cominciava
da lì.
Questo cammino è coerente con la DSC. Il Compendio ripetutamente mette in luce
il nesso inscindibile fra uguaglianza e fraternità e come una vera fraternità si possa
realizzare solo su una base di autentica uguaglianza29.
Anche dal punto di vista della crescita e dello sviluppo economico la base di
partenza è la fraternità. Per darle concretezza Chiara lancia l’ “Operazione Africa” che
diventerà un’esperienza di autentica reciprocità. Saranno soprattutto i giovani (ma non
solo) ad essere interpellati. Rispondendo con slancio ed entusiasmo, riusciranno ad
innescare un dinamismo di reciprocità, di vero scambio di doni, che sarà arricchente per
tutti coloro che ne saranno coinvolti. Ne risulterà un’esperienza di reale uguaglianza,
base per la fraternità.
Ma c’è un’ulteriore tappa nell’esperienza di Fontem che ci interessa.
Nella sua visita a Fontem fatta nel 2000 Chiara in un suo memorabile discorso al
fine di salvaguardare la vocazione di Fontem come “Città sul monte”, chiede a tutti un
passo concreto: un patto d’amore vicendevole, forte e vincolante. E’ come una rinascita,
è un riandare alle radici di Fontem per fare un passo avanti: allargare l’intesa tra Chiara
e il Fon di Fontem a tutto il popolo con un patto collettivo. Da lì sono partiti poi gli
incontri della “Nuova evangelizzazione”, incontri che hanno coinvolto tutti: Fon, Chief,
medici, studenti, professori, tutti.
E anche qui non possiamo non notare la sintonia con la DSC che insiste
fortemente sulla necessità della nuova evangelizzazione che vede strettamente legata
alle opere: «Il bisogno di una nuova evangelizzazione fa comprendere alla Chiesa che il
suo messaggio sociale troverà credibilità nella testimonianza delle opere»30.
E questa testimonianza a Fontem brilla per il numero di opere realizzate, per lo stile
con cui sono nate, per la forte inculturazione da cui sono segnate: un vero miracolo nella
foresta.
Ma il lancio di una nuova evangelizzazione se è nato a Fontem non si è fermata lì.
Chiara ne ha fatto la base per tutte le “operazioni” che, in seguito sono nate: a Roma, a
Praga, a Trento, ecc. L’annuncio della Parola si è accompagnato con la rivitalizzazione
di interi brani di società, con profonde trasformazioni del tessuto sociale, con un inizio
di un nuovo impegno culturale. Anche con questa azione il carisma è pienamente
29
30
Cf Compendio nn. 145, 192, 194.
Compendio n. 525.
14
coerente con quanto richiesto dalla Chiesa per far fronte alle nuove sfide lanciate
dall’umanità di oggi.
I nostri testimoni della DSC: Nguyen Van Thuân e Igino Giordani
ALBERTO LO PRESTI
Nel presentare le figure di Igino Giordani e del cardinale Nguyen Van Thuân
prende forza una delle nostre considerazioni di fondo. Ci occupiamo di pensiero sociale
cristiano da protagonisti, perché nell’Ideale vi sono figure maestose che – oltre a Chiara
– hanno avuto modo di scrivere con la propria vita e con le proprie opere le pagine più
belle della dottrina sociale della Chiesa. Si pensi che oggi la voce ufficiale della DSC è
un’agenzia che si chiama "Osservatorio internazionale Cardinale Van Thuân per la
Dottrina sociale cristiana". Non solo: in apertura il Compendio stesso commemora e
ricorda Nguyen Van Thuân che, da presidente del Pontificio Consiglio per la Giustizia e
per la Pace, aveva promosso, avviato e curato l'organizzazione iniziale del Compendio.
Generalmente, riteniamo il cardinale Nguyen Van Thuân un vescovo amico del
Movimento dei Focolari, usando con ciò parole nostre. In realtà, lui si descrisse in modo
diverso e più deciso, presentandosi (era il 2001) come un cardinale focolarino!
Aveva conosciuto l'Ideale nei primi anni Settanta, con una visita a Loppiano, iniziando
un rapporto intenso con Chiara che durerà fino agli ultimi istanti prima della morte,
avvenuta nel 2002.
Van Thuân era un vietnamita, proveniva da una famiglia di martiri cristiani che
avevano subìto – a causa della propria fede – una lunga persecuzione. È lo stesso Van
Thuân a ricordarci gli eventi più significativi: la famiglia materna era di un villaggio
popolato interamente da cristiani, che nel 1885 fu distrutto. Furono rinchiusi tutti i
cristiani dentro la chiesa parrocchiale e a questa si appiccò il fuoco. Si salvò solo il
nonno di Van Thuân che per motivi di studi, in quel momento, si trovava in Malesia. La
famiglia paterna, anch’essa cristiana, fu dispersa a causa della fede. Il bisnonno e i suoi
fratelli vennero separati e inseriti in altre famiglie non cristiane, al fine di rimuoverne la
fede. Non ci si riuscì, tanto è vero che dal proprio nonno il futuro cardinale ascoltò il
racconto di quando, a 15 anni, si faceva 30 chilometri di strada a piedi per portare un po'
di riso e un po' di sale al padre, cioè al bisnonno che era in carcere per la sua fede
cristiana.
La testimonianza della fede cristiana non s’interruppe mai. Il piccolo Nguyen Van
Thuân è cresciuto vicino alla devozione della nonna, che recitava il Rosario ogni giorno
pregando per i preti e per la Chiesa. Quando Van Thuân sarà prelevato e posto in
carcere, la mamma non pregherà per la sua salute fisica, ma perché non gli si
indebolisca la fede in quella situazione di sofferenza. La biografia di Van Thuân è fatta
soprattutto di queste cose. Poi, sappiamo pure che nel 1953 fu ordinato sacerdote, che
studiò diritto canonico, e siccome era molto abile nell'azione pastorale, mentre faceva il
professore prima e il rettore del seminario dopo, le vocazioni in Saigon crebbero in
modo vertiginoso. Con Paolo VI divenne vescovo in quella che oggi si chiama Ho Chi
Minh City. Nel 1975, il governo comunista, senza nessun processo, lo prelevò e lo portò
in carcere. Van Thuân si fece tredici anni di carcere, di cui nove in isolamento. Senza
alcun processo, in completa assenza di qualsiasi garanzia. Ma Van Thuân non si
15
rassegnò a questa condizione, non visse tutto questo come una sconfitta. Il suo motto da
vescovo era "Gaudium et Spes", e la parola che esprime meglio la forza interiore di Van
Thuân, e la sua serenità d’animo, è "speranza". Anche il suo libro più noto richiama
questo principio: Il cammino della speranza, ed egli ne fa non un principio di passiva
fiducia in un avvenire migliore, ma una condizione per vivere l’attimo presente con
profonda coerenza e totale donazione d’amore:
«Gesù, io non aspetterò; vivo il momento presente, colmandolo di amore.
La linea retta è fatta di milioni di piccoli punti uniti uno all'altro.
Anche la mia vita è fatta di milioni di secondi e di minuti uniti l’uno all'altro.
Dispongo perfettamente ogni singolo punto e la linea sarà retta. Vivo con
perfezione ogni minuto e la vita sarà santa.
Il cammino della speranza è fatto di piccoli atti di speranza. La vita di speranza è
fatta di brevi minuti di speranza»31.
Queste sono le cose che Van Thuân scriveva in carcere, e anche il modo con il
quale vi riusciva testimonia il suo eroismo. Infatti, Van Thuân era stato condotto in
carcere privo di tutto, e allora un bambino di sette anni che gironzolava gli rimediava
dei piccoli pezzetti di carta, sui quali il cardinale scriveva le sue meditazioni. Poi, il
bambino le consegnava alla sua famiglia, e qui venivano trascritte e destinate alla
comunità cristiana. Alcune di queste meditazioni sembrano costituire l’ossatura di
alcune della parti del Compendio: fra le tante corrispondenze si provi a comparare
quanto vi è scritto nei punti 545-546 – riguardo alla speranza e al ruolo dei laici – e
quanto invece scaturisce dal carcerato Van Thuân: «Il laico dev'essere colui che ama la
sua missione nel mondo, quella di rendere l'eternità presente nel tempo. Egli crede (il
laico) che Dio gli ha affidato il mondo e i suoi fratelli per condurli all'eterna salvezza.
Egli sa con certezza che Dio solo può dare la salvezza, ma che chiede la collaborazione
dell'uomo in questo lavoro. Il laico è colui che sa sperare, garantisce la speranza e porta
la speranza agli altri»32.
Van Thuân visse con profondo amore le sue giornate di prigionia, e questa carità si
rivelò subito come contagiosa, a tal punto che i responsabili del carcere decisero di far
ruotare le guardie addette alla sua sorveglianza, per prevenire la possibile influenza del
cardinale sui militari. Alla fine, dovettero tornare sui propri passi, e preferirono che
fossero sempre le stesse le guardie addette a Van Thuân, ritenendole ormai corrotte e
scongiurando, con ciò, il possibile contagio di tutti gli agenti.
Van Thuân usò i pezzettini di carta che riusciva a racimolare per trascrivere il
Vangelo, così come se lo ricordava, utilizzando solo la memoria. Ne risultarono trecento
massime bibliche, trecento frasi brevi che costituirono il suo Vangelino in quegli anni di
carcere. In uno di questi pezzettini di carta scrisse il paradigma dell’amore, che si
traduce nei sette aspetti. E aggiunse che in questi sette aspetti, anche lì nel regime
ristretto di una prigione, poteva cercare di essere in unione con la missione della Chiesa
universale.
Particolare fu il rapporto di Van Thuân con l’eucaristia, che riusciva a celebrare
ogni giorno. Infatti, aveva finto dei dolori di stomaco e aveva chiesto un medicinale
speciale, che altro non era che un po’ di vino. Mettendo nel palmo della mano qualche
goccia d'acqua e un goccio di vino, rinnovava la celebrazione eucaristica, ai quali gli
31
32
F.X. Nguyen Van Thuân, Testimoni della speranza, Città Nuova, Roma, 2000, p. 73.
F.X. Nguyen Van Thuân, Il cammino della speranza, Città Nuova, Roma, 1992, p. 189.
16
altri detenuti potevano partecipare nelle ore profonde della notte. In questa situazione di
privazione e di solitudine, l'eucaristia ha per Van Thuân un fondamentale significato
sociale: «come il sole splende diffondendo la sua luce così l'Eucarestia è la luce e la
sorgente dalla quale emana la vita spirituale dell'umanità e la concordia fra le
nazioni»33. È incredibile: Van Thuân in quella circostanza, solo, isolato, senza notizie di
nessun tipo, sente di cooperare per la concordia delle nazioni!
Ancora un aneddoto: al regime serviva un conoscitore della lingua latina che
potesse tradurre i documenti provenienti dalla Santa sede. Chiedono con ciò a Van
Thuân di addestrare qualcuno, e Van Thuân impartisce lezioni giungendo a far recitare
il "Veni Creator", e come esercizio le guardie dovevano più volte cantare quest’inno e
nella prigione si rincorsero le voci gaudenti e liturgiche del "Veni Creator".
Van Thuân venne liberato nel 1988. Giovanni Paolo II lo mise innanzi tutto a
dirigere la Commissione cattolica per le migrazioni e poi lo fece presidente del
Pontificio Consiglio per la Giustizia e per la Pace, dove il cardinale cominciò a lavorare
per il Compendio, cioè il libro che è l'oggetto del nostro corso.
Il Cardinale Van Thuân e Igino Giordani contribuirono in modo molto diverso alla
dottrina sociale cristiana. Abbiamo visto come Van Thuân abbia risposto con la propria
straordinaria vita alle sollecitazioni provenienti dal magistero sociale della chiesa.
Anche Giordani ha avuto una vita straordinaria, profondamente segnata dall’orrore della
guerra mondiale e dalle privazioni della sue lotte per la libertà e in opposizione al
totalitarismo fascista. Ma qui lo ricordiamo soprattutto per la sua intesa produzione
intellettuale. Per fare un esempio, ancora oggi sono molti che – dalla gerarchia
ecclesiastica – ricordano di avere studiato il pensiero sociale cristiano sui libri di
Giordani. Nella prima metà del XX secolo, dire DSC significava soprattutto fare
riferimento all’opera di divulgazione di Igino Giordani. Nel 1942, la prima raccolta de
Le encicliche sociali dei Papi, fu assegnato alla cura di Giordani. Per un motivo molto
semplice: era la persona più prestigiosa per questo compito e la Santa Sede - oltre alla
Chiesa italiana - gli riconosceva questo ruolo. Infatti, Giordani aveva scavato nella
visione sociale della Chiesa arrivando fino alla letteratura cristiana antica. E si serviva
di questa complessa e articolata erudizione per tracciare la strada che il cattolicesimo
contemporaneo avrebbe dovuto intraprendere per ricostruire la società cristiana. Nei
padri della chiesa scorgeva soprattutto il coraggio e l’eroismo mostrato nei confronti
della cultura pagana (greca e romana) che ne minacciava la sopravvivenza. A tal fine,
Giordani traduceva e divulgava il pensiero dei Padri non per un interesse solo
meramente intellettuale, ma per riaccendere il fuoco di una fede ardente, che nelle opere
quotidiane e sociali possa riscattare l’umanità nei decenni bui del ventesimo secolo
dilaniato dalle guerre mondiali e dalla contrapposizione ideologica. Giordani non si
fermò neanche ai Padri della Chiesa, ma andò ancora più alla radice, scrivendo un
volume che divenne presto un best seller, anche questo tradotto in tante lingue: Il
messaggio sociale di Gesù.
Questo risalire alle radici del cristianesimo serviva a rinnovare gli sforzi per
l’edificazione della società cristiana. Quindi, la vita sociale e politica dei cristiani non
poteva conciliarsi con una dimensione mediocre della condotta quotidiana, ogni
cristiano è chiamato a vivere eroicamente la propria esistenza. Troviamo in una prima
serie di libri, quelli che Tommaso Sorgi ha racchiuso nell’affascinante etichetta di
33
F.X. Nguyen Van Thuân, Il cammino della speranza, Città Nuova, Roma, 1992, p. 73.
17
«Libri del fuoco», questo grande progetto di Giordani fra i quali: Rivolta cattolica,
Segno di contraddizione, Cattolicità.
E Giordani stesso vive con intensità e un certo eroismo la sua stessa vita: non solo
le incomprensioni e le persecuzioni che subì provenienti dal regime fascista, ma anche,
per esempio, una certa insensibilità che ancora nella Chiesa di allora, la prima metà del
ventesimo secolo, c’era rispetto alla condizione del laico, e al posto dei laici nella
Chiesa. Giordani fu un laico in tempi per i quali i laici non erano visti come protagonisti
dell’azione evangelizzatrice della Chiesa, tanto meno pastorale, o missionaria. E'
passato più di mezzo secolo da quando il grande teologo francese Congar sentiva il
bisogno di iniziare il suo lavoro dedicato alla teologia del laicato, Jalons pour une
théologie du laïcat, riportando un aneddoto, da allora in avanti spesso citato. Interrogato
su quale fosse la posizione del laico nella sua Chiesa, un sacerdote rispose che essa era
«duplice. La sua prima posizione consiste nel mettersi in ginocchio davanti all'altare; la
seconda nel sedere davanti al pulpito». Al che il cardinale Gasquet, da cui Congar
riprese l'aneddoto, aggiungeva non senza ironia: quel sacerdote «ne dimenticava una
terza: il laico mette la mano al portafoglio».
Invece, negli scritti di Giordani si trovano espressioni come la «sacerdotalità dei
laici», la «vocazione dei laici», i «laici e la santità». Queste espressioni, a quei tempi,
facevano sudare freddo anche gli amici più intimi della gerarchia ecclesiale. Ma
Giordani tirava dritto per la sua strada, con la convinzione che solo certi profeti possono
avere. Profezia che si avvererà pienamente nel Concilio Vaticano II, il quale – nella
Lumen Gentium – recepirà molto delle istanze rinnovatrici già ben presenti in Giordani.
A guardare bene alcune date, c’è una incredibile coincidenza – che ovviamente non è
tale. La Lumen Gentium viene approvata dai padri conciliari due mesi dopo che
Giordani pubblicò, nel 1964, un altro dei suoi volumi fondamentali: Laicato e
sacerdozio, portando a compimento con questo scritto una questione che lo accompagnò
per tutta la vita. Dalle incomprensioni dei periodi iniziali alla Lumen Gentium: il
profetismo di Giordani non poteva avere consacrazione migliore!
Non fu il solo volume sull’argomento. Ne dobbiamo ricordare almeno un altro, di
tanti anni prima: Noi e la Chiesa (1939), che tratta proprio dell’essere chiesa della
condizione laicale. Per Giordani la vocazione alla santità è di ciascun membro del
popolo di Dio, quindi anche dei laici, i quali hanno una vocazione e una missione dentro
la Chiesa particolare e ordinata alla propria condizione. Quindi non si tratta di un
cristiano di serie inferiore rispetto alla gerarchia della Chiesa, Giordani intese
risollevare da una sorta di “proletariato spirituale” i laici. Eppure, Giordani non mosse
alcuna azione di rivendicazione nei confronti della gerarchia, piuttosto agì sul piano
della piena coscienza e della responsabilizzazione dei fedeli laici. Vivere da cristiani
significa con ciò innalzarsi dalla mediocrità e affrontare gli impegni quotidiani con
l’eroismo evangelico.
18
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