Pavia, 6 febbraio 2010

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Pavia, 6 febbraio 2010
L’enciclica “Caritas in veritate”
parla al mondo (di oggi)
Intervento di Andrea Olivero
Presidente Nazionale ACLI
Portavoce Forum Terzo Settore
Premessa
Su questa ultima enciclica di Benedetto XVI sono già intervenuto più volte e in occasioni diverse e
qualificate. Più la rileggo e rifletto su di essa – sui 6 capitoli in cui è articolata – e più mi rendo conto
di avere davanti un testo veramente innovativo che possiamo considerare “un prontuario sociale
cristiano per il XXI secolo” (Bartolomeo Sorge), una bussola per orientarci sui temi della politica,
dell’economia, del lavoro e della tecnica, ossia della questione sociale di ieri che si è trasformata nella
questione antropologica di oggi.
In questo mio intervento vorrei soffermarmi in particolare sulle indicazioni che l’enciclica offre su quattro
distinte realtà: la politica, l’economia, il lavoro, la tecnica.
Il punto di partenza di Benedetto XVI è chiarissimo: «la Chiesa non ha soluzioni tecniche da offrire e non
pretende minimamente d’intromettersi nella politica degli Stati. Ha però una missione di verità da
compiere, in ogni tempo ed evenienza, per una società a misura dell’uomo, della sua dignità, della sua
vocazione» (n.9).
Per realizzare questa missione di verità, è necessario innanzitutto compiere una svolta culturale per dare
vita ad un “nuovo pensiero”, ad una nuova mentalità, ad una metànoia, come dice il Vangelo, poiché
senza tale discontinuità tutto resterebbe immutato come prima.
Si leggono infatti al n.53 dell’enciclica queste parole impegnative: “Oggi l’Umanità appare molto più
interattiva di ieri (basti pensare alla globalizzazione, ai flussi migratori, alla società in rete). Tuttavia
questa maggiore vicinanza si deve trasformare in vera comunione . (…) Serve un nuovo slancio del
pensiero per comprendere meglio le implicazioni del nostro essere una famiglia.
L’interazione tra i popoli del pianeta ci sollecita a questo slancio affinché l’integrazione avvenga nel
segno della solidarietà”. (n.53)
Abbiamo dunque bisogno di un nuovo pensiero che vada oltre l’individualismo moderno e si apra ad una
antropologia della relazione, dell’interdipendenza e della solidarietà.
1. Per il rinnovamento della politica
Questa “mancanza di pensiero” che era già stata denunciata più di 40 anni fa da Paolo VI nella
Populorum progressio (n.85) è diventata oggi, come dice Benedetto XVI, «mancanza di fraternità
tra gli uomini e tra i popoli» (n.19).
Questa enciclica mostra un coraggio insolito e chiama le cose per nome, introducendo categorie di
pensiero non abituali nel linguaggio politico. La parola fraternità, ad esempio, ricorre 39 volte nel
testo, in cui si aggiunge che la giustizia è la misura minima della carità, ma che quest’ultima la supera
e la completa con la logica del dono, della gratuità e del perdono.
E’ attorno a questa concezione più ampia e più dinamica che viene visto e approfondito l’insieme dei
fenomeni connessi allo sviluppo, al lavoro, alla globalizzazione, alla crisi economica, all’ambiente.
Proprio perché la carità è «la principale forza propulsiva per lo sviluppo di ogni persona e
dell’umanità» (n.1), è giusto evitare quelli che il Papa chiama «sviamenti e svuotamenti di senso a
cui la carità è andata e va incontro, con il conseguente rischio di fraintenderla» (n.2). C’è un
sentimentalismo, ad esempio, che svuota dall’interno la carità, per cui «l’amore diventa un guscio
vuoto da riempire arbitrariamente. E’ il fatale rischio dell’amore in una cultura senza verità. Esso è
preda delle emozioni e delle opzioni contingenti dei soggetti, una parola abusata e distorta fino a
significare il contrario».
Dunque «senza verità, la carità scivola nel sentimentalismo» (n.3). Ed è per questo motivo che un
Cristianesimo di carità senza verità può venire facilmente scambiato per una riserva di buoni
sentimenti, utili per la convivenza sociale, ma marginali» (n.4). Il rischio attuale, afferma Benedetto
XVI, è che all’interdipendenza dei popoli non corrisponda un’interazione necessaria perché possa
scaturire uno sviluppo veramente umano e solidale: «La società sempre più globalizzata ci rende
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vicini, ma non ci rende fratelli» (n.19). Proprio la fraternità è allora il criterio decisivo, capace di dare
il giusto risalto anche a quei criteri dell’agire morale che vengono presentati al termine dell’enciclica,
come il principio di sussidarietà, di solidarietà e di reciprocità, strettamente collegati con la giustizia e
il bene comune (nn.57-58). La ragione, da sola, è certamente in grado di cogliere l’uguaglianza tra gli
uomini e di stabilire una convivenza civica tra loro, ma non riesce a fondare la fraternità (n.19)
Sul rinnovamento della politica vorrei fare ancora un’osservazione e richiamare l’invito del presidente
della Cei, Angelo Bagnasco, ai “cattolici impegnati in politica ad essere sempre coerenti con la fede
che include ed eleva ogni istanza e valore veramente umani”. Il motivo del Cardinale Bagnasco si
ricollega e rilancia quello di Benedetto XVI (7 settembre 2008) quando a Cagliari disse che per
evangelizzare il mondo del lavoro, dell’economia, della politica, si rende necessaria una nuova
generazione di laici cristiani impegnati, capaci di cercare con competenza e rigore morale
soluzioni di sviluppo sostenibile.
Come cristiani laici impegnati nel sociale non dobbiamo avere paura di vivere e testimoniare la fede nei
vari ambiti della società e nelle molteplici situazioni dell’esistenza umana. Sui temi della vita, della
giustizia, della legalità, dell’integrazione degli immigrati, della famiglia e del lavoro, ma anche della
sfida educativa in generale.
2. Ripensare profondamente l’economia
Possiamo allora affermare che la parola “fraternità” assume una posizione di grande rilievo nell’enciclica
e porta alla luce nuovi aspetti della dottrina sociale cattolica. L’essere fratelli esprime un legame
costitutivo, che “precede” la nostra libera decisione di agire in modo solidale.
In altre parole, si può dire che la fraternità (che riceviamo da Dio) fonda la vera solidarietà: «non come
filantropia, ma come “carità nella verità”, capace di muovere lo sviluppo dal di dentro: Le povertà,
comprese quelle materiali, nascono dall'isolamento, dal non essere amati o dalla difficoltà di amare. Le
povertà spesso sono generate dal rifiuto dell'amore di Dio, da un'originaria tragica chiusura in se
medesimo dell'uomo» (n.53).
Aprire le porte della politica e dell’economia al principio di fraternità significa allora promuovere
finalmente la civilizzazione della politica e dell’economia, farla finita con lo schema ideologico
amico-nemico e con il clima di continua delegittimazione che è agli antipodi del bene comune.
Nella Caritas in veritate la fraternità viene inoltre tradotta laicamente nella cultura del dono che si
collega all’antropologia della relazione, al tema della condivisione, al gesto dello “spezzare il pane”,
in una parola, alla tradizione francescana dell’economia civile.
L’Enciclica dice testualmente che “la carità nella verità pone l’uomo davanti alla stupefacente
esperienza del dono” (n.34), che con la sua eccedenza, il suo ‘di più ’, la sua gratuità, non solo va
oltre a ciò che è contemplato nelle regole del mercato, ma è in grado di superare la logica mercantile.
Il principio di gratuità è invece intrinseco all’economia stessa. «L’essere umano - afferma il Papa – è
fatto per il dono, che ne esprime e attua la dimensione di trascendenza» (n.34)
Benedetto XVI vuole che la logica del dono entri “nel” mercato e dice un secco “no” al mito
dell’efficienza che discrimina le persone e premia i più forti.
Il mercato da solo non basta. L’economia ha bisogno di regole e dunque di etica sociale. È tempo allora di
porre fine alla separazione tra la sfera economica e la sfera sociale e di re-incorporare l’economia nel
sociale. È in questo modo che l’economia diventa civile.
Questo invito alla "civilizzazione dell'economia" porta a superare la dialettica mercato-Stato, creando
nuove forme di democrazia, partecipazione, redistribuzione e socialità nell'attività economica. È una
prospettiva che non solo scardina la tradizionale visione dell'economia capitalistica, ma allarga anche
le responsabilità della società civile.
Nell’enciclica vengono elogiate le attività non profit, anche al di là del cosiddetto Terzo Settore, il
commercio equo e solidale, le attività mutualistiche e sociali, il microcredito e la cosiddetta economia
civile e di comunione che sono apparse negli ultimi decenni e che non trovano spazio nel mercato
tradizionale. Purtroppo queste attività non vengano adeguatamente favorite dal sistema fiscale,
giuridico, troppo legato alla logica del profitto. Non si tratta soltanto di creare settori o segmenti etici
dell’economia e della finanza, ma – dice il Papa - «l’intera economia e l’intera finanza siano etiche e lo
siano non per un’etichettatura dall’esterno, ma per il rispetto di esigenze intrinseche alla loro stessa
natura” (n. 45).
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Quello che il Papa prospetta è un sistema dove «soggetti che liberamente scelgono di informare il proprio
agire a principi diversi da quelli del puro profitto, senza per ciò stesso rinunciare a produrre valore
economico» (n.37), questi soggetti – che spesso sono mossi da motivazioni religiose – non si
sostituiscano però alle imprese che operano a fini di lucro, di cui l’enciclica non auspica in nessun
modo la sparizione, né allo Stato, che mantiene il suo ruolo di dettare regole e leggi, ma portino lo
«spirito del dono» (n.37) in tutte le fasi del processo economico.
Allora proprio «questa concezione più ampia favorisce lo scambio e la formazione reciproca tra le
diverse tipologie di imprenditorialità, con la contaminazione virtuosa di competenze dal mondo non
profit a quello profit e viceversa, da quello pubblico a quello proprio della società civile, da quello di
economia avanzate a quello dei paesi in via di sviluppo» (n.41).
L’obiettivo da conseguire è che bisogna dare forma e organizzazione a quelle iniziative economiche che,
pur senza negare il profitto, intendono andare oltre la logica dello scambio degli equivalenti e del
profitto fine a se stesso» (n.38).
Ma occorre agire con intelligenza perché incombe il rischio, nota Benedetto XVI, che la logica del
mercato (spesso non aperta all’etica e alla socialità) e la logica dello stato, si mettano d’accordo fra
loro per escludere questo terzo tipo di attore dell’economia contemporanea (n.36). Quando ciò
avviene «vengono meno la solidarietà nelle relazioni tra i cittadini, la partecipazione e l'adesione,
l'agire gratuito, che sono altra cosa rispetto al “dare per avere”, proprio della logica dello scambio, e
al “dare per dovere”, proprio della logica dei comportamenti pubblici, imposti per legge dallo Stato»
(n.39). Certo il mercato della gratuità non esiste e non si possono disporre per legge atteggiamenti
gratuiti.
3. Una coalizione mondiale per il lavoro decente
Il tema del “lavoro decente” è particolarmente caro alle Acli poiché da un decennio lo abbiamo assunto,
in seguito alla raccomandazione che Giovanni Paolo II fece nel Giubileo dei lavoratori a Roma nel
2000. Qualcuno ricorderà che su questo stesso tema della coalizione mondiale per il lavoro dignitoso le
Acli hanno anche organizzato un Forum internazionale con la partecipazione di tutte le
organizzazioni cristiane dei lavoratori in ogni parte del mondo.
Nella Caritas in Veritate, il concetto di dignità del lavoro viene richiamato in diversi punti. Al n. 63, il
Papa sottolinea come la parola «decente» applicata al lavoro stia ad indicare «un lavoro che, in ogni
società, sia l'espressione della dignità essenziale di ogni uomo e di ogni donna: un lavoro scelto
liberamente, che associ efficacemente i lavoratori, uomini e donne, allo sviluppo della loro comunità;
un lavoro che, in questo modo, permetta ai lavoratori di essere rispettati al di fuori di ogni
discriminazione; un lavoro che consenta di soddisfare le necessità delle famiglie e di scolarizzare i
figli, senza che questi siano costretti essi stessi a lavorare; un lavoro che permetta ai lavoratori di
organizzarsi liberamente e di far sentire la loro voce; un lavoro che lasci uno spazio sufficiente per
ritrovare le proprie radici a livello personale, familiare e spirituale; un lavoro che assicuri ai lavoratori
giunti alla pensione una condizione dignitosa».
Al n. 32 si sottolinea come «la dignità della persona e le esigenze della giustizia richiedono che,
soprattutto oggi, le scelte economiche non facciano aumentare in modo eccessivo e moralmente
inaccettabile le differenze di ricchezza e che si continui a perseguire quale priorità l'obiettivo
dell'accesso al lavoro o del suo mantenimento, per tutti». E sempre al n. 63, Benedetto XVI sviluppa il
tema della dignità del lavoro connettendolo di nuovo alla questione della giustizia con un riferimento
esplicito al tema della povertà, affermando che: «i poveri in molti casi sono il risultato della violazione
della dignità del lavoro umano, sia perché ne vengono limitate le possibilità (disoccupazione, sottooccupazione), sia perché vengono svalutati i diritti che da esso scaturiscono, specialmente il diritto al
giusto salario, alla sicurezza della persona del lavoratore e della sua famiglia».
Da non dimenticare, infine, la sottolineatura del Papa per il valore della famiglia, sulla quale al n.44
afferma: «Diventa così una necessità sociale, e perfino economica, proporre ancora alle nuove
generazioni la bellezza della famiglia e del matrimonio, la rispondenza di tali istituzioni alle esigenze
più profonde del cuore e della dignità della persona. In questa prospettiva, gli Stati sono chiamati a
varare politiche che promuovano la centralità e l'integrità della famiglia, fondata sul matrimonio tra
un uomo e una donna, prima e vitale cellula della società, facendosi carico anche dei suoi problemi
economici e fiscali, nel rispetto della sua natura relazionale.»
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4. Le ambiguità della tecnica e lo sviluppo autentico
La Caritas in veritate affronta la complessa questione della tecnica nell’ultimo capitolo. La
preoccupazione principale dell’enciclica sembra essere quella di dimostrare che la vera potenza della
modernità, la tecnica, possa svolgere un ruolo positivo (se ben orientata) e che quindi non vada
confusa la critica dura alla “assolutizzazione della tecnica” (come della finanza e dell’economia) con
una abiura della tecnica in sé. Anzi. «Nella tecnica si esprime e si conferma la signoria dello spirito
sulla materia. (...) La tecnica permette di dominare la materia, di ridurre i rischi, di risparmiare fatica,
di migliorare le condizioni di vita. Essa risponde alla stessa vocazione del lavoro umano: nella tecnica,
vista come opera del proprio genio, l'uomo riconosce se stesso e realizza la propria umanità. La tecnica
è l'aspetto oggettivo dell'agire umano, la cui origine e ragion d'essere sta nell'elemento soggettivo:
l'uomo che opera». (n.69). Ma deve essere chiaro che «la tecnica non è mai solo tecnica». Essa
rimanda sempre all’uomo che opera, per cui deve essere collocata dentro la vocazione umana: è data
dall’uomo come « dono e non (come) risultato di autogenerazione» (n.68). E dunque va inserita « nel
mandato di “coltivare e custodire la terra”, che Dio ha affidato all'uomo» (n.69).
L’enciclica riconosce, dunque, i benefici materiali apportati dalla tecnica, ma nello stesso tempo denuncia
il rischio concreto di comportamenti ispirati da una mentalità secondo la quale «l'unico criterio della
verità è l'efficienza e l'utilità» (n.70).
L’enciclica tuttavia apre al nuovo, arricchendo l’antropologia tradizionale con il riconoscimento della
tecnica stessa quale componente fondamentale dell’uomo.
E’ doveroso inoltre sottolineare il fato che il Papa elogia lo sviluppo: «L'idea di un mondo senza sviluppo
esprime sfiducia nell'uomo e in Dio» (n.14). Tra le varie motivazioni una spicca in particolare: «l'uomo
è costitutivamente proteso verso l'« essere di più» (n.14).
«Senza la prospettiva di una vita eterna», lo sviluppo « rimane privo di respiro. Chiuso dentro la storia,
esso è esposto al rischio di ridursi al solo incremento dell'avere» (n.11). Esso non è garantito dalla sola
economia, né può essere assicurato dalla sola politica: «le istituzioni da sole non bastano, perché lo
sviluppo umano integrale è anzitutto vocazione [...]. Un tale sviluppo richiede, inoltre, una visione
trascendente della persona, ha bisogno di Dio: senza di Lui lo sviluppo o viene negato o viene affidato
unicamente alle mani dell'uomo, che cade nella presunzione dell'auto-salvezza e finisce per
promuovere uno sviluppo disumanizzato» (n.11).
In definitiva il «tema di fondo, lo sviluppo, il progresso, resta ancora un problema aperto» (n.33). Oggi
sempre più al termine “sviluppo” si accosta l’attributo “sostenibile”, che è rivelativo di una nuova
concezione dello sviluppo che comporta limiti fisici e prima ancora limiti morali.
Conclusione. Per uno statuto di cittadinanza della religione cristiana
Oggi appartengono alla polis del XXI secolo cittadini credenti e non credenti, autoctoni e migranti, per
questo è necessario che tutti contribuiscano a stabilire le regole dell’etica pubblica. Anche i cattolici
sono tenuti a svolgere il loro ruolo in questo contesto plurale facendo valere la loro identità e i loro
valori. Osserva Benedetto XVI che la dottrina sociale della Chiesa “è nata per rivendicare questo
‘statuto di cittadinanza’ della religione cristiana (n.56). Se un punto di novità va messo in luce,
questo è rappresentato proprio dai forti legami esistenti tra etica della vita ed etica sociale (n.15), tra
questione sociale e questione antropologica che sono strettamente connesse tra loro, come abbiamo
affermato nella nostra premessa.
Uno sviluppo integrale è tale quando è non solo materiale ma anche spirituale. E’ allora evidente che in
una società dove contano soltanto beni materiali e si chiudono le porte ai bisogni spirituali dei
cittadini, emarginando la religione dalla sfera pubblica, non si favorisce il pieno sviluppo dell’uomo.
Vorrei allora concludere con queste parole del Papa al n.57: « Per i credenti, il mondo non è frutto del
caso né della necessità, ma di un progetto di Dio. Nasce di qui il dovere che i credenti hanno di unire i
loro sforzi con tutti gli uomini e le donne di buona volontà di altre religioni o non credenti, affinché
questo nostro mondo corrisponda effettivamente al progetto divino: vivere come una famiglia, sotto lo
sguardo del Creatore». «Il dialogo fecondo tra fede e ragione non può che rendere più efficace l'opera
della carità nel sociale e costituisce la cornice più appropriata per incentivare la collaborazione
fraterna tra credenti e non credenti nella condivisa prospettiva di lavorare per la giustizia e la pace
dell'umanità».
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