Intervento del card. Tarcisio Bertone, segretario di Stato Vaticano, all'inaugurazione della mostra «Apocalisse. L'ultima rivelazione» Eccellenze Reverendissime, Signor Decano dell’Abbazia di St. Florian, Signor Sindaco, Signor Presidente della Regione Friuli Venezia Giulia, Onorevoli Deputati e Senatori, distinte Autorità, Signori e Signore, desidero rivolgere il mio ringraziamento a quanti mi hanno invitato a presenziare questa sera all’inaugurazione della mostra, intitolata: «Apocalisse. L’ultima rivelazione». Mi è stata così offerta l’occasione di recarmi nuovamente in questa terra friulana, dalle cui cime e bellezze mi lascio conquistare. Con deferenza saluto i signori Sindaci, le Croci di ogni Pieve e parrocchia e i rappresentanti tutti di questi paesi, la cui antica tradizione di fede cristiana è frutto dell’opera evangelizzatrice della madre Aquileia: un tesoro da custodire per il progresso della civiltà in Occidente. Un saluto speciale agli studiosi, ai sostenitori, alle giovani guide e ai volontari che hanno messo a disposizione energie e mezzi per offrirci un pregevole itinerario artistico e teologico, come pure ai cori che hanno voluto allietare quest’atto solenne, ponendosi così in ideale continuità con il cantico nuovo dei redenti descritto nelle pagine dell’Apocalisse. Nel percorso tratteggiato dall’esposizione, da oggi sarà possibile ammirare un centinaio di capolavori provenienti da importanti musei del mondo, che aiuteranno i visitatori a rileggere l’ultimo libro della Sacra Scrittura. In esso Giovanni si rivolge alle Chiese d’Asia – Efeso, Smirne, Pergamo, Tiàtira, Sardi, Filadelfia, Laodicéa - esortandole a rimanere salde nella fede e a non lasciarsi né sedurre né spaventare dalle potenze malvagie di questo mondo, in apparenza soverchianti, ma in realtà destinate al fallimento. L’Apocalisse, dunque, non è l’inquietante annuncio di un catastrofico epilogo per il cammino dell’umanità, ma la grandiosa proclamazione del fallimento delle forze infernali e del mistero di Cristo morto e risorto come salvezza per la storia e per il cosmo. Mi si permetta, allora, di sottolineare quattro aspetti del messaggio che ci proviene dalle ultime pagine della Sacra Scrittura, fedelmente riecheggiati dalle immagini d’arte esposte nella sede museale qui accanto. Innanzitutto, meditare l’Apocalisse significa misurarsi con l’evento della divina Rivelazione. La stessa parola Αποκάλυψις, apokalupsis, è un termine greco che significa appunto "rivelazione". L’attuale stagione spirituale dell’Occidente spesso fatica a concepire la necessità e persino la possibilità che Dio si riveli, rivolgendo all’uomo, nella sua concreta vicenda terrena, una parola chiara, umanamente comprensibile, universalmente valida e definitiva. Dopo tante atroci esperienze di oppressione, di intolleranza e di totalitarismo avvenute purtroppo nel corso del secolo XX, si teme che ogni affermazione di una verità assoluta nasconda un principio di arroganza, capace di trasformare le idee in ideologie. Delusi dalla razionalità illuministica e dall’ottimismo positivista gli uomini del nostro tempo sono giunti a sospettare che non sia possibile in fondo conoscere la verità. Le amare esperienze passate e quelle purtroppo ancora presenti, dimostrano invece che quando l’uomo attribuisce importanza assoluta all’opera delle sue mani o del suo intelletto, allora impone ai propri simili un’obbedienza che volge presto in oppressione. Ma quando l’uomo riconosce se stesso come creatura e confessa l’assolutezza di Dio, allora la fede infonde in lui una certezza che nulla ha a che vedere con l’arroganza, perché la sua radice è l’umiltà. Ricollocarci dinanzi alla prospettiva di una divina rivelazione, di una apocalisse del Dio vivente, è quindi salutare. Ci dona anzitutto una sicurezza giusta, non presuntuosa o smisurata: i credenti, infatti, non sono sicuri di sé ma di Dio. L’insicurezza che ci assale e di cui facciamo dolorosamente l’esperienza, non riguarda le cose di Dio ma le cose terrene, le nostre pianificazioni per il futuro sul cui conto il mondo tenta in continuazione di rassicurarci, tra illusione e spensieratezza. Ebbene, la sicurezza derivante dalla fiducia nella Provvidenza divina ci apre gli occhi circa il fatto che la salvezza è nelle mani di Dio, non nelle nostre. Alla luce di ciò, è evidente che il miglior antidoto all’ideologia è proprio la fede nella divina rivelazione e non tanto l’illuminismo o l’irenismo di chi vorrebbe conciliare tutte le visioni, anche quelle obiettivamente inconciliabili. Non a caso gli epigoni di pericolose ed agguerrite ideologie hanno sempre combattuto l’esperienza della fede cattolica come la loro più diretta e insopportabile antagonista. Questa visione della Rivelazione divina raggiunge il suo culmine nell’affermazione giovannea: «Dio è amore» (1Gv 4,8). Non a caso, dunque, Benedetto XVI vi ha dedicato la sua prima enciclica, della quale vale la pena richiamare le prime battute dell’introduzione: « “Dio è amore; chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui”. Queste parole della Prima Lettera di Giovanni esprimono con singolare chiarezza il centro della fede cristiana: l’immagine cristiana di Dio e anche la conseguente immagine dell’uomo e del suo cammino. Inoltre, in questo stesso versetto, Giovanni ci offre per così dire una formula sintetica dell’esistenza cristiana: “Noi abbiamo riconosciuto l’amore che Dio ha per noi e vi abbiamo creduto”» (n. 1) . In tal senso l’appello di questa mostra è un invito alla cultura del nostro tempo a misurarsi in maniera nuova con la rivelazione cristiana, e con la sua essenza appena ricordata. Certo, continueranno a riemergere correnti di pensiero relativista. L’antichità ce ne mostra, però, l’esito. Il tardo platonismo divenne lo strumento intellettuale per rifiutare la pretesa cristiana e per giustificare il politeismo. Affermava che siccome non si può riconoscere il divino, lo si può solo adorare in multiformi manifestazioni, nelle quali si esprimono il mistero dell’uomo e del cosmo, ed ognuna ha la stessa validità delle altre. Nella tarda antichità questo tentativo di restaurazione del politeismo, giustificato dal punto di vista filosofico e quindi apparentemente razionale, non ebbe futuro. Rimase un’astrazione, dalla quale non poteva scaturire la forza di speranza e di verità che serve all’uomo, se vuole vivere e costruire davvero relazioni di amore e di pace. Veniamo così ad un secondo aspetto. L’Apocalisse non è una qualsiasi rivelazione: è una visione. A Giovanni vengono rivolte alcune parole ma vengono soprattutto mostrate le realtà del cielo. In alcuni passaggi del testo si legge persino che egli vide e udì il canto degli angeli e dei beati nei cieli. Egli, dunque, è un veggente, non solo un uditore. Ciò non è senza conseguenze, nel concepire e presentare correttamente l’esperienza della fede: la fede nasce senz’altro dalla credibilità di un annuncio ma è nondimeno un vedere. La teologia e la prassi ecclesiale non devono mai separare la loro intima connessione: il Figlio è logos, Parola, ma anche eikon, Immagine. Come sapientemente illustra il concetto di Rivelazione di san Bonaventura, il volgersi di Dio verso l'uomo è l’evento di un incontro vivo, sempre più grande di quanto possa essere espresso dalle parole umane, anche fossero le parole della Sacra Scrittura. La Rivelazione è un appello “in atto” fino a quando abbia raggiunto le persone vive cui era destinato. Il vedere di cui parla l’Apocalisse è il segno di questa vivezza della Rivelazione rispetto ad ogni linguaggio umano. All’origine della fede di Giovanni e della fede della Chiesa sta il fatto che più volte gli Apostoli videro realmente il Signore Gesù Risorto, e in lui videro rifulgere la gloria di Dio stesso, sua intima sostanza. Non furono trascinati nell’esaltante avventura della missione cristiana da una luce della coscienza, né ci trasmisero una semplice illuminazione, ma la memoria di un incontro e la possibilità di rinnovarlo noi stessi. Tuttavia anche la visione interiore non è senza significato. Vedere interiormente, attraverso la preghiera per esempio, non è frutto di sola fantasia ma vera e propria maniera di verificare, come lo fu delle grandi visioni dei santi. Le immagini percepite sono un impulso proveniente dall’Alto, per questo motivo il linguaggio immaginifico è un linguaggio simbolico. A questo proposito è chiarificatore il commento teologico del Card. Ratzinger fatto in occasione della pubblicazione della terza parte del segreto di Fatima (13 maggio 2000), sul tipo di visione che ebbero i tre pastorelli. In esso spiega le diverse forme di percezione o di visione: la visione con i sensi, quindi la percezione esterna corporea, la percezione interiore e la visione spirituale (visio sensibilis - imaginativa - intellectualis) Il centro di ogni tipo di visione si situa là dove questa diviene appello e guida verso la volontà di Dio. Voglio ora rivolgere lo sguardo al terzo punto, legato alla questione del senso e dell’esito della storia umana. È il punto che il testo dell’Apocalisse indica con maggiore forza e che la mostra di Illegio ci pone dinanzi allo sguardo: il male ha le ore contate. Davvero, l’ultimo libro della Bibbia potrebbe essere definito per eccellenza “il libro della speranza”, considerando come ci offra la sorprendente visione dell’agitarsi inutile del grande Drago e del destino di eterno tormento, di totale rovina cui approderà lui e, con lui, la morte. Infatti, non è il Drago, ma l’Agnello immolato a rifulgere, ritto e vivente, sul trono dell’Onnipotente, circondato dall’universale adorazione di cielo e terra. Vorrei cogliere l’occasione per riproporvi un brano carico di speranza pronunciato da Benedetto XVI durante l’Udienza generale di mercoledì 23 agosto 2006, durante la quale ha presentato la figura di Giovanni, il veggente di Patmos, autore dell’Apocalisse. «Giovanni – ha detto il Santo Padre - vuol dirci innanzitutto due cose: la prima è che Gesù, benché ucciso con un atto di violenza, invece di stramazzare a terra sta paradossalmente ben fermo sui suoi piedi, perché con la risurrezione ha definitivamente vinto la morte; l'altra è che lo stesso Gesù, proprio in quanto morto e risorto, è ormai pienamente partecipe del potere regale e salvifico del Padre. Questa è la visione fondamentale. Gesù, il Figlio di Dio, in questa terra è un Agnello indifeso, ferito, morto. E tuttavia sta dritto, sta in piedi, sta davanti al trono di Dio ed è partecipe del potere divino. Egli ha nelle sue mani la storia del mondo. E così il Veggente vuol dirci: abbiate fiducia in Gesù, non abbiate paura dei poteri contrastanti, della persecuzione! L'Agnello ferito e morto vince! Seguite l'Agnello Gesù, affidatevi a Gesù, prendete la sua strada! Anche se in questo mondo è solo un Agnello che appare debole, è Lui il vincitore!». È questa la certezza che segretamente sostiene gli operatori del bene nell’umanità. Forse non raccoglieranno i frutti dei semi che hanno piantato, forse faticheranno nel lavorare campi ostili e quasi sterili, ma il buon seme produrrà, un giorno, il frutto buono, poiché nell’Agnello, crocifisso e risorto, hanno futuro e lieta fine tutte le storie dell’innocenza, del sacrificio e della bontà che quaggiù tanti sanno ancora scrivere. È per questo che nell’Apocalisse l’apparizione di Cristo coincide sempre con una visione di moltitudini vastissime. Il Signore risorto non è solo. Egli si manifesta, circondato dai quattro esseri viventi, circondato soprattutto da una grande schiera – vidi turbam magnam, quam dinumerare nemo poterat – di uomini e di angeli che cantano. Il loro canto è l’espressione del risolversi nel giubilo dell’esistenza di chi ha seminato il bene talora nelle lacrime. Una tale visione non poteva che maturare preparata provvidenzialmente dall’esperienza del popolo eletto. Ha illustrato tanto efficacemente questo processo il Cardinale Ratzinger, ora Benedetto XVI, in un discorso pronunciato il 20 settembre del 2002, su “Libertà e religione nell’identità dell’Europa”. In esso dimostrava come i grandi popoli antichi, nel bacino mediterraneo come nell’estremo Oriente, hanno sviluppato visioni statiche della storia umana e del cosmo, visioni cicliche del tempo e del destino dei viventi. Oggetto dell’interesse prevalente, all’interno di simili civiltà, non poteva che essere il mantenimento di un ordine costituito, spesso motivato cercandone le ragioni nell’ordine dell’universo stesso: era la visione dei dominanti a improntare nell’intimo la cultura e la visione religiosa di quei popoli. L’idea di progresso e il principio della speranza, invece, potevano germogliare solamente dalla radice di Iesse, in Israele, poiché il popolo scelto dal Dio dell’Alleanza era piccolo, inerme, schiacciato da ogni parte da soverchianti potenze, senza una terra propria e sempre a rischio di deportazione. Non interessato ovviamente al mantenimento dell’ordine costituito, spesso motivato dall’esigenza della conservazione dell’impero contro le minacce interne ed esterne. «Per la fede dello stesso Israele – dice Ratzinger – l’orientamento verso il futuro diventa sempre più evidente. Non l’eternamente immobile, l’oggi sempre uguale a se stesso, ma il domani, il futuro non ancora presente appare come il luogo della salvezza». Con gradualità si affermò nel giudaismo e poi nel Cristianesimo, grazie al decisivo insegnamento della vicenda del Signore Gesù, la certezza che il ribaltamento delle situazioni di oppressione non può verificarsi nel tempo e ad opera dell’uomo, ma oltre il tempo e ad opera di Dio. Il compimento sospirato ci sarà, ma si entra in esso varcando la soglia del tempo e non coltivando negli oppressi il risentimento: nell’Apocalisse la lotta violenta non è lo stile dei figli della luce, ma dei suoi avversari. Per la liberazione degli oppressi è indispensabile la scoperta del versante soprannaturale della realtà e l’attesa del futuro e della vera e propria fine del mondo. Non ci resta che l’ultimo punto, suggeritoci dalla bellezza e dagli squarci di orrore che l’Apocalisse presenta, come nel chiaroscuro di un dipinto caravaggesco. Ciò orienta il nostro pensiero ad una considerazione: il bello è l’ambiente naturale dell’uomo redento, è, per così dire, il nostro destino. Giova qui ricordare l’importanza dell’educazione alla bellezza nella visione cristiana della vita. Il cristianesimo attesta che la suprema aspirazione del cuore umano sarà la visio beatifica del Paradiso. Ecco che allora dinanzi ad ogni bellezza ci sentiamo come portati sul limitare tra visibile e invisibile, tra materia e spirito, e l’immagine può risvegliare i sensi nostri a tutta la loro potenzialità spirituale, confermandoci nel presentimento di essere fatti per il Paradiso. L’arte stessa esiste come memoria e segno di questo sentimento. Essa colpisce l’uomo con una sorta di nostalgia e di desiderio di perfezione. L’uomo percepisce che nelle forme belle c’è qualcosa di più della semplice opera dalla mano dell’autore materiale. Come se la bellezza delle immagini evocasse in qualche modo quella del mondo eterno. Per i varchi della preghiera e dell’arte, l’uomo può affacciarsi alla liturgia celeste e questa può irradiare la sua benefica luce all’interno di questo nostro spazio e di questo nostro tempo, alimentando la speranza. La bellezza di questa mostra di Illegio lo rammenta risvegliando in noi la memoria del testo sacro con il suo messaggio di speranza. L’occasione è dunque quanto mai propizia, questa sera, per rendere omaggio all’amore dimostrato da quanti hanno curato questa provvidenziale iniziativa, che ci consente di ammirare un patrimonio artistico di grande valore. Concludo sottolineando che senza dubbio questa esposizione, oltre che preziosa per i messaggi appena meditati, costituisce un “unicum” nel suo genere anche per il luogo dove è allestita. Illegio non è una metropoli né una storica capitale dell’arte. So che, con spirito intraprendente e appassionato, la comunità di questo paese da alcuni anni sta cercando di offrire un servizio ed un messaggio qualificati. Il servizio è quello reso al Vangelo, alla diffusione del pensiero cristiano, alla promozione dei tesori della bellezza e della tradizione cristiane di questa terra friulana e, in qualche modo, di tutta l’Europa. Mi tornano alla memoria, pensando alla vostra generosa prontezza, le rime del Carducci in “Il comune rustico”, sulla gente della Carnia: «Non paure di morti ed in congreghe/Diavoli goffi con bizzarre streghe/Ma del comun la rustica virtù/Accampata a l’opaca ampia frescura/Veggo ne la stagion de la pastura/Dopo la messa il giorno de la festa…». Il Signore vi sostenga, benedetta gente di Carnia; il Signore vi incoraggi a continuare, a Illegio e dovunque, su questa strada innovativa ed antica al tempo stesso. Sia concesso ai visitatori di Illegio e a tutti noi – è questo il mio augurio –, che, attraverso l’ammirazione di queste opere d’arte, siamo condotti all’incontro con il Signore Gesù e possiamo vederne tutta la sfolgorante bellezza. Affido questo voto alla celeste intercessione della Vergine Maria Immacolata, venerata in questo luogo, e di san Michele Arcangelo, che nel racconto apocalittico ci vengono mostrati, in virtù del Redentore, vittoriosi sull’immenso Drago. La loro umiltà nel voler servire Dio fu strumento per realizzare l’opera di Colui che vuole vederci partecipi della sua gloria, il Re dei Re e Signore dei Signori: una meraviglia ai nostri occhi! Niente di più bello, dunque, è il saluto tipico di questa terra, che sono lieto di rivolgere a tutti voi: Mane cum Deo - Mandi! Mandi!