Introduzione alla scienza politica
 Scienza politica
Scienza e politica sono entrambe variabili che hanno molto variato, e variano in tempi diversi e
con diverse velocità; prima che l'idea di scienza si incontri in modo significativo con l'idea di
politica - dando vita alla Scienza politica - deve passare un bel po’ di tempo (fino all’inizio del
Novecento): fino a quel momento una storia della Scienza politica si divarica in una storia a
due voci: quella del concetto di scienza e quella del concetto di politica.
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La nozione di Scienza politica si precisa in funzione di due variabili:
1. lo stato dell'organizzazione del sapere, che rinvia all’evoluzione della conoscenza scientifica;
2. il grado di differenziazione strutturale degli aggregati umani, che rinvia all’evoluzione della
società.
 Storia della scienza
Tabella sinottica dei paradigmi scientifici proposti
paradigmi
paradigma
paradigma
"paradigmi"
metafisico-
empiristico-
della complessità
organicistico
meccanicistico
(dall'inizio del 1900)
(antichità
e
(fine 1300-fine 1800)
dimensioni
medioevo)
rapporto
organicistico
meccanicistico
eco-sistemico
espressione di verità
oggettivo
convenzionale,
uomo-natura
linguaggio
contestualizzato
tipo di logica
deduttiva
induttiva
(generale particolare)
(particolare generale)
v. sillogismo
v.metodo
induttiva e abduttiva
sperimentale
tipo di spiegazione
causa metafisica
causa efficiente
condizione probabile,
causazione adeguata
epistemologia
della
corrispondenza
dominante
logico-ontologica
della
rappresentazione
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della costruzione
valori guida
primato della filosofia
primato dell'individuo
sviluppo
e primato
e
sostenibile
della teologia
fiducia nel progresso
umano
PARADIGMA METAFISICO-ORGANICISTICO
Organicismo: l’uomo è considerato come parte essenziale del Cosmo e della Natura. La
Natura è intesa come un grande organismo vivente, gerarchicamente ordinato, dove ogni parte
ha senso in quanto occupa un posto significativo all’interno di questo organismo. Il tutto quindi
domina sulle parti. Le leggi che regolano la Natura sono leggi sovrumane, non definite
dall’uomo né da esso modificabili.
Ne segue che la concezione organicistica considera la
politica, in altre parole l’attività con cui gli uomini regolano la propria vita associata
producendo delle norme vincolanti, come un’attività strettamente dipendente dai vincoli che
derivano dalle leggi naturali e/o divine.
Questa concezione del rapporto tra uomo e Natura è strettamente legata, sul piano
conoscitivo, al primato di una conoscenza scientifica di tipo metafisico e, sul piano del pensiero
politico, all’organicismo politico, cioè a quella teoria politica che interpreta la società alla
stregua di un organismo antropomorfo, ossia di una totalità gerarchica di funzioni, nella quale
ogni parte, o classe, è destinata a svolgere una determinata mansione che, pur essendo
"inferiore" o "superiore", risulta comunque indispensabile alla vita del tutto.
Nel pensiero politico moderno possono essere ricondotte ad una concezione organicistica le
ideologie nazionalistiche e quella comunista in cui il tutto (la nazione, la classe) domina sulle
parti.
Linguaggio come espressione di verità:
- sofisti: dubitavano che fosse possibile scoprire qualcosa di realmente vero ed insegnavano ai
loro allievi l'arte retorica, cioè del convincere senza realmente avere conoscenze certe .
- Socrate: capire la natura di una cosa non è un'impresa da poco e a questo scopo Socrate
sosteneva che il modo più opportuno per conoscere filosoficamente la realtà era il dialogo
allievo-maestro. Socrate infatti si rifiutò di usare la scrittura tanto come strumento didattico,
quanto come mezzo per esprimere il suo pensiero, poiché riteneva che solo il dialogo attivo
potesse essere in grado di seguire la variabilità del ragionamento, mentre la scrittura, che
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tende a fissare una volta per tutte lo stile espositivo ed argomentativo, tende inevitabilmente a
distorcere il fluire del pensiero entro schemi rigidi e predefiniti che rischiano di diventare
dogmatici. Al contrario intendere la ricerca filosofica sotto forma di dialogo significa concepire
la filosofia come una ricerca continua, inesauribile e mai conclusa, come uno sforzo verso la
verità cui l’uomo tende, ma che non possiede mai totalmente. Ciò vuol dire pure che la
conoscenza filosofica non può essere mai completamente insegnata, ma rappresenta il risultato
di un percorso di crescita umana e personale: una forma di saggezza, simile alle filosofie
orientali.
- Platone: per capire la natura di una cosa, è necessario ricorrere alla sua "forma" o "idea", in
quanto la virtù si manifesta in diverse maniere. Eppure, essa viene identificata con una sola
parola. Quindi esiste una "forma", potremmo chiamarla "essenza", comune a tutte le virtù, e
"la virtuosità" che esiste a prescindere dai casi singoli di comportamento virtuoso (il coraggio,
la bontà ecc.). A differenza di Socrate, Platone però utilizzò anche la scrittura per discutere di
filosofia, usando soprattutto la forma dei miti.
- Aristotele: conoscere filosoficamente significa essere in grado di classificare la realtà entro
categorie analitiche precise di cui il linguaggio filosofico è espressione. Aristotele quindi
abbandona il metodo dialogico, l’uso di miti e metafore, l’idea stessa di filosofia intesa come
ricerca aperta e continua. Con Aristotele il passaggio dal dialogo alla scrittura è ormai
compiuto: lo stile espositivo di Aristotele è analitico, descrittivo ed essenziale, spogliato da
ogni riferimento a figure mitiche o metaforiche. La conoscenza filosofica consiste ora in un
sapere enciclopedico, che può essere insegnato e comunicato completamente attraverso la
conoscenza della logica. Il filosofo adesso è un sapiente, non più un saggio.
Logica deduttiva: Il ragionamento deduttivo coincide per Aristotele con il procedimento del
sillogismo stesso, il quale, se vuole essere dimostrativo, deve sempre partire da premesse
universali capaci di riferirsi alla sostanza o all’essenza necessaria degli oggetti considerati (dal
generale al particolare). Il sillogismo è il ragionamento per eccellenza in cui, poste alcune
premesse, ne segue necessariamente una conclusione.
Per esempio:
premessa maggiore: Ogni animale è mortale
premessa minore: Ogni uomo è animale
conclusione: Ogni uomo è mortale
Causa metafisica:
- Platone: oggetto proprio della conoscenza scientifica sono, per Platone, le idee intese come
entità immutabili e perfette che esistono per loro conto, indipendentemente dal pensiero
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umano e si trovano infatti in una zona diversa dalla nostra, chiamata metaforicamente dal
filosofo iperuranio. L’ambito della conoscenza viene distinto in due diversi gradi di conoscenza:
l’opinione e la scienza (dualismo gnoseologico, relativo alla conoscenza) cui corrispondono due
diversi tipi di essere, che sono le cose e le idee (dualismo ontologico, relativo all’essere reale).
- Aristotele: egli al contrario del suo maestro Platone, privilegia la conoscenza del mondo delle
cose anziché quella del mondo delle idee che considera un inutile doppione. Qui la causalità
finisce per assumere le sembianze di un nesso logico (sillogismo) in virtù del quale la causa
funge da ragione necessaria del suo effetto, il quale è perciò deducibile da essa. In altri
termini, l’effetto viene dedotto dalla causa, non è un evento separato da essa, ma è contenuto
in essa come logica derivazione della causa stessa.
Epistemologia della corrispondenza logica-ontologica (Aristotele): le proposizioni sono
enunciati dichiarativi, cioè un’espressione linguistica di senso compiuto che esprime dei giudizi
e può essere detta quindi vera o falsa. La proposizione costituisce l’espressione verbale di un
pensiero che procede componendo o dividendo concetti, a seconda che essi siano congruenti
tra loro. Secondo Aristotele possiamo attribuire un giudizio di verità o falsità non a dei termini
o concetti isolatamente presi ("uomo", "bianco") ma solo ad una qualche combinazione tra
essi. La verità o falsità quindi sta nel pensiero o nel discorso, non nell’essere o nella cosa.
D’altra parte, ciò che misura la verità è l’essere o la cosa, non il pensiero o il discorso. In altri
termini il vero, per Aristotele, consiste nel congiungere ciò che è realmente congiunto e nel
disgiungere
ciò
che
è
realmente
disgiunto
(realismo
gnoseologico
e
linguistico).
Di
conseguenza per Aristotele fra linguaggio, pensiero ed essere esistono necessari legami.
Primato della filosofia:
Platone: la superiorità della conoscenza filosofica, come conoscenza assolutamente certa e
immutabile, secondo la dottrina delle idee platoniche, va letta in opposizione al relativismo
sofistico che aveva caratterizzato il periodo della democrazia della polis. Se l’umanesimo
sofistico e socratico poneva nell’uomo, e non fuori dell’uomo, la fonte dei giudizi e il criterio del
conoscere e dell’agire, Platone pone invece la fonte di ogni conoscenza fuori dal mondo umano.
Aristotele: Egli distingue infatti tra filosofia prima (o metafisica) che considera l’essere in
quanto tale, prescindendo dalle determinazioni che formano l’oggetto delle scienze particolari,
e filosofie seconde che approfondiscono lo studio di particolari ambiti. Ma in questo caso il
primato della filosofia non ha alcuna implicazione politica, poiché per Aristotele occorre
distinguere tra la sapienza (sofia), la forma di conoscenza più alta derivante dallo studio della
filosofia, e la saggezza (fronesis), cioè la capacità di agire convenientemente nel campo delle
faccende umane che rende in grado di distinguere ciò che è bene da ciò che è male per l’uomo,
derivante dall’esperienza del vivere: secondo Aristotele è bene che i governanti siano saggi
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piuttosto che sapienti. Con Aristotele la filosofia e la politica acquistano così due ambiti di
competenza e due finalità conoscitive distinte e separate.
Primato della teologia:
Cristianesimo
l’unità tra filosofia e religione quindi è un
presupposto, un dato di partenza, che guida e sorregge tutta la ricerca filosofica dei pensatori
cristiani.
S. Agostino: in polemica con lo scetticismo, si rifà alla teoria della conoscenza di Platone,
sostenendo che nell’uomo esistano delle verità o dei criteri di giudizio che non possono
derivare dalla mutevole percezione dei sensi, ma da idee innate che per Agostino provengono
direttamente da Dio. Dio quindi è il fondamento di tutto ciò che è, Egli è la causa prima di tutte
le cose e il fine verso cui tutte le cose tendono (spiegazione teleologica).
S. Tommaso d’Aquino: rileggendo Aristotele in chiave cristiana, definisce rigorosamente il
rapporto tra filosofia e religione, tra ragione e fede, sostenendo che, poiché l’uomo ha come
suo fine ultimo Dio, non può fare affidamento sulla sola ricerca filosofica, fondata sulla ragione,
per giungere alla conoscenza di Dio; ecco allora che si è resa necessaria la rivelazione divina
che ha avuto la funzione di istruire l’uomo fornendogli le certezze di cui aveva bisogno per
giungere alla conoscenza della verità.
PARADIGMA EMPIRISTICO- MECCANICISTICO
Meccanicismo: secondo questa concezione la Natura viene pensata come "un grande
orologio" governato da leggi naturali che l’uomo, come osservatore esterno, può indagare e
scoprire attraverso il metodo empirico. La natura quindi non è più concepita come un
organismo antropomorfico, bensì come un grande meccanismo nel quale vi è un ordine
oggettivo, causale, relazionale. La scienza che studia la natura quindi non è più di tipo
qualitativo, bensì quantitativo, non si illude cioè di conoscere le essenze metafisiche ma indaga
invece le proprietà evidenti e quantificabili dei fenomeni: figura, grandezza e movimento. La
concezione meccanicistica nel pensiero politico si fonda sulla contrapposizione tra lo stato di
natura, dove domina la legge del più forte, e la società civile fondata su un pactum unionis, su
un accordo tra gli individui, con cui viene istituito lo Stato, cioè un’autorità sovra-individuale le
cui leggi (umane) s’impegnano ad osservare. Con la concezione meccanicistica il potere politico
si emancipa quindi dal potere religioso. il meccanicismo concepisce il tutto come la sommatoria
delle sue parti: adesso è l’individuo che sta all’origine del vivere sociale. Lo Stato moderno
occidentale, secondo la concezione meccanicistica, nasce infatti come società contrattuale e,
quindi, come Stato di diritto e come Stato laico, legittimato dai componenti la società e non
dall’alto.
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Linguaggio oggettivo: poiché il fine della scienza è la conoscenza oggettiva del mondo e
delle sue leggi, si presuppone che debba esistere un solo e unico linguaggio scientifico
standardizzato, e quindi neutrale, che è poi il linguaggio della natura, in grado di rappresentare
fedelmente i fenomeni naturali in modo oggettivo (realismo gnoseologico). La scienza viene
concepita infatti come un sapere matematico che si fonda sul calcolo e la misura: la fisica (e
gradualmente tutte le altre discipline che vogliono conformarsi al paradigma scientifico
empiristico-meccanicistico), nello sforzo di darsi una veste rigorosa, procede ad una
matematicizzazione dei propri dati, entro formule precise. La "quantificazione" si configura
quindi come una delle condizioni imprescindibili dello studio della natura e come uno dei punti
di forza del nuovo metodo inaugurato da Galilei che alla deduzione matematica assegna infatti
un ruolo basilare nella stessa "scoperta" scientifica.
Logica induttiva: già Galilei deduzione ed induzione vengono perciò utilizzate entrambe in
modo del tutto nuovo; infatti articola il lavoro della scienza in due parti fondamentali:
a) il momento ipotetico-deduttivo, che egli chiama "risolutivo" o analitico, che consiste nello
scomporre un fenomeno complesso nei suoi elementi semplici, quantitativi e misurabili,
formulando un’ipotesi matematica sulla legge da cui dipende, secondo la formula "se....allora";
b) il momento osservativo-induttivo, che chiama "compositivo" o sintetico, che consiste nella
verifica e nell’esperimento, attraverso cui si tenta di riprodurre artificialmente il fenomeno, in
modo tale che, se l’ipotesi supera la prova, risultando veri-ficata (fatta vera), essa venga
accolta e formulata in termini di legge; se invece non supera la prova e risulta smentita, possa
venire sostituita da un’altra ipotesi.
La novità sta nel fatto che ora la logica matematica permette di avanzare nuove ipotesi.
Bacone afferma che l’induzione aristotelica, cioè l’induzione puramente logica che non incide
sulla realtà, è infatti un induzione per semplice numerazione dei casi particolari. Invece
l’induzione che è utile per la nuova conoscenza scientifica si fonda sulla scelta e
sull’eliminazione dei casi particolari: scelta ed eliminazione che vengono ripetute più volte,
sotto il controllo dell’esperimento, fino a giungere alla determinazione della vera natura e della
vera legge del fenomeno.
Anche Cartesio e Newton argomentano tesi a partire dal concetto di logica induttiva.
Causa efficiente: secondo Galilei la Natura è un ordine oggettivo causalmente strutturato di
relazioni governate da leggi, e il metodo scientifico costituisce il modo in cui l’uomo può
arrivare a scoprire quei nessi causali deterministici e certi che definiscono l’ordine naturale
delle cose. Ponendosi contro ogni considerazione finalistica e quindi contro ogni spiegazione di
tipo teleologico, Galilei sostiene che non dobbiamo cercare perché la Natura opera in un certo
modo (causa finale) ma solo come essa opera (causa efficiente). La scienza deve descrivere i
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fenomeni, non ricercarne l’essenza. Galilei non intende con questo negare in assoluto
l’esistenza
di
finalità
e
di
essenze,
ma
semplicemente
accantonarle,
ritenendone
metodologicamente non scientifica la ricerca.
Epistemologia della rappresentazione: con Kant avviene il riconoscimento della differenza
del piano ontologico (cosa in sé) da quello gnoseologico (il fenomeno) con un ribaltamento del
rapporto tra soggetto osservante e realtà conosciuta. Gli strumenti cognitivi (i giudizi sintetici a
priori) dell’osservatore diventano cruciali per la conoscenza scientifica sul piano gnoseologico.
Non vi è più corrispondenza necessaria tra la realtà della cosa in sé (che rimane sconosciuta
all’uomo) e quella del fenomeno (che può essere conosciuto).
Con Kant si cambia quindi concezione epistemologica: conoscere scientificamente non significa
più indagare sulle essenze del vero essere sul piano logico-ontologico, ma cercare le cause dei
fenomeni attraverso lo strumento conoscitivo dei giudizi sintetici a priori che, essendo concepiti
come
uguali
per
tutti
gli
uomini,
possono
produrre
quindi
conoscenza
generale
e
universalmente accettata.
Con Kant passiamo così da un’epistemologia dove piano ontologico e gnoseologico sono
sovrapposti, che possiamo chiamare epistemologia delle corrispondenze logico-ontologiche, ad
un’epistemologia della rappresentazione, dove la conoscenza scientifica si muove su un piano
solo gnoseologico ed è in grado di fornire una rappresentazione fedele della realtà, simile ad
una fotografia, che è un prodotto artificiale, ma rispecchia fedelmente la realtà dell’oggetto
umanamente osservato.
Primato dell’individuo e fiducia nel progresso: mentre nel Medioevo si pensava che
l’uomo fosse solo una parte di un ordine cosmico già dato (organicismo) che doveva essere
conosciuto intellettualmente, nel Rinascimento si pensa invece che l’uomo debba costruire e
conquistare il proprio posto nel mondo; quest’ultimo può essere pensato come il risultato
dell’azione svolta dagli uomini e dagli altri esseri viventi (meccanicismo). Inizia così quel
processo di laicizzazione del sapere che caratterizzerà l’età moderna, che consiste nella
rivendicazione per ogni disciplina della propria libertà operativa. Ciò avviene attraverso un
lungo e travagliato processo che coinvolge tutti gli ambiti umani di conoscenza.
Il movimento filosofico e culturale del Positivismo nel XIX secolo vede nel metodo scientifico
empiristico-meccanicistico la fonte del progresso e dello sviluppo dell’umanità. Secondo i
positivisti, la scienza è l’unica conoscenza possibile, e il metodo scientifico empiristicomeccanicistico è l’unico metodo valido: ciò significa che la metafisica è priva di valore. La
filosofia tende a coincidere quindi con la totalità del sapere positivo, in altre parole, con
l’enunciazione dei principi comuni alle varie scienze: il suo compito diventa quello di realizzare
una conoscenza unificata e generalissima (nomologica) che comprenda tutte le scienze
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empiriche. Il metodo scientifico va esteso quindi a tutti i campi, compresi quelli che riguardano
l’uomo e la società, che fino allora ne erano stati esclusi. La sociologia, intesa da Comte come
fisica sociale, diviene la scienza prediletta dai positivisti.
PARADIGMI DELLA COMPLESSITA’
Eco-sistemicismo: La "scoperta" di essere parte della natura ha prodotto una serie di vere e
proprie rivoluzioni culturali in vari campi del sapere. L’approccio ecologico vede adesso
l’individuo come un sistema complesso in cui si combinano elementi biologici, psichici e sociali.
Anche l’ambito privato della vita di ognuno finisce con l’assumere così una valenza politica, e
questo è proprio uno degli elementi che caratterizza le società complesse. il temine "eco-logia"
ha, nella prima parte, la stessa radice tematica di "eco-nomia" (oikos=ambiente), ma si
differenzia per la seconda parte tematica (logos=discorso o pensiero, anziché nomos=norma).
Le due discipline propongono, infatti, due modalità radicalmente diverse di intendere il
rapporto tra l’uomo e il suo ambiente, tra la parte e il tutto, e propongono sostanzialmente due
diversi modelli di sviluppo, i quali partono da epistemologie diverse: l’economia si rifà alla fisica
(dal modello empiristico-meccanicistico verso un modello probabilistico), l’ecologia si rifà alla
biologia (dall’organicismo verso un modello di complessità sistemica).
Linguaggio convenzionale e contestualizzato:
convenzionale: la crisi del meccanicismo dell'Ottocento innesca una sfiducia nelle certezze
scientifiche e nella capacità dell'uomo di avere certezze riguardo alla realtà ed al futuro.
Questa sfiducia, questa impossibilità di determinare come vanno e prevedere come andranno
le cose, vede la nascita, nei primi del Novecento, del neopositivismo o empirismo logico. I
massimi esponenti di questa tradizione sono F.L.G. Frege, A.N. Whitehead, B. Russell e in un
primo momento L. Wittgenstein, i quali vedono nella filosofia un lavoro di "chiarificazione
concettuale" del linguaggio scientifico al fine di porre delle basi empiriche alla conoscenza
tramite un linguaggio unificato della scienza. Questo arduo e complesso compito porta i filosofi
ad esaminare la natura del significato degli enunciati della lingua. Per i neopositivisti la
conoscenza dipende puramente da fattori linguistici ed empirici e quindi da regole linguistiche e
da procedure di verifica degli enunciati che determinano il significato e la verità delle
proposizioni. Dal momento in cui si stabilisce che non esiste un metodo di verifica per vedere
se un enunciato è vero, falso o addirittura privo di significato, per i neopositivisti la
proposizione risulta priva di senso. Il criterio di verificazione, che permette appunto di stabilire
se un enunciato ha significato o meno, riflette l'empirismo radicale del neopositivismo,
permette di giungere alla conclusione che il linguaggio scientifico può essere costituito solo da
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enunciati sintetici in quanto solo questi sono riconducibili ad osservazioni o percezioni, di cui,
utilizzando la terminologia di Russell, abbiamo conoscenza diretta ed immediata.
Contestualizzato: i neopositivisti affermano che la lingua che parliamo non esprime la realtà
così com'è: essa piuttosto proietta un ordine, un senso, e ciò fa sì che il mondo ci appaia così
come la nostra lingua lo ha strutturato. W.V.O. Quine e i pragmatisti invece si distanziano
molto dalla visione neopositivistica spostandosi verso un approccio decisamente pragmatico,
poiché recuperano la dimensione analogica della comunicazione. Il significato per Quine è
determinato da comportamenti linguistico-sociali e non da un riferimento diretto tra, appunto,
parola e oggetto. In questo consiste la "relatività ontologica" di Quine in cui la realtà che noi
pensiamo dipende non da come stanno effettivamente le cose che osserviamo, ma dagli stimoli
che ci portano a comportarci in una maniera piuttosto che in un'altra, che sono stimoli
linguistici e sociali.
Inoltre i costruttivisti affermano che la nostra vita quotidiana si svolge inevitabilmente entro
contesti diversi che incidono sulla nostra capacità di interpretare e dare significato alle azioni
delle persone e dei luoghi con cui ci troviamo ad interagire e che, nello stesso tempo, ci
suggeriscono come adeguare il nostro comportamento. Da cio deriva che è impossibile non
comunicare e che nessuna comunicazione è decontestualizzata. Inoltre la comunicazione
incontra spesso paradossi: ciò che è interessante per le scienze sociali è che ci si può
imbattere:
- in paradossi logici, o antinomie, nella costruzione per esempio di una teoria scientifica;
- in definizioni paradossali, se non si definiscono attentamente le espressioni linguistiche
utilizzate;
- in paradossi pragmatici che sono spesso riscontrabili durante la ricerca empirica, come per
esempio nei questionari e nelle interviste (paradosso del mentitore).
Logica induttiva e abduttiva: la sfida della complessità nel discorso scientifico viene
affrontata almeno in due modi diversi che possono essere così riassunti:
- se si crede che la ricerca scientifica consista nel semplificare una realtà complessa al fine di
renderla meno problematica, si privilegia allora la logica induttiva, come è stato proposto dai
neopositivisti che rimangono ancorati ancora entro un’epistemologia della rappresentazione;
- se si ritiene, invece, che «la funzione della scienza sia piuttosto quella di trasformare in
problema ciò che è convenzionalmente evidente» (Weber 1974), viene privilegiata allora la
logica abduttiva, proposta dai costruttivisti (epistemologia della costruzione).
Logica induttiva -> forma di ragionamento che nell'esame di uno o più casi particolari giunge
ad una conclusione la cui portata si estende al di là dei casi esaminati.
Logica abduttiva -> è un procedimento di prova indiretta, semidimostrativa, in cui la premessa
maggiore è evidente, la minore invece è solo probabile, o comunque più facilmente accettata
dall'interlocutore, che non la conclusione che si vuole dimostrare.
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Condizione probabile: usare il termine probabilità non vuol dire rinunciare al principio di
spiegazione causale (causa => effetto), ma rendere questo principio di spiegazione più
articolato e complesso, introducendo un fattore X di incertezza. Questa modalità di spiegazione
non muta pertanto in modo radicale l’epistemologia della rappresentazione, anzi, nel momento
di costruzione del campione vengono di fatto riproposti gli stessi requisiti di rappresentatività a
specchio
tipici
dell’epistemologia
della
rappresentazione,
anche
se
sotto
una
logica
probabilistica.
Causa adeguata: correlati alla visione probabilistica sono i
concetti weberiani di possibilità
oggettiva e di causa accidentale e causa adeguata, secondo cui un fenomeno per poter essere
compreso nella sua complessità deve essere analizzato entro il suo contesto spazio-temporale.
Partendo da queste coordinate, l’osservatore sarà in grado di individuare plausibilmente non
una sola causa, certa o probabile, ma una possibilità, sufficientemente adeguata per quel
contesto, e solo in questo senso "oggettiva", che gli consenta di poter comprendere, e quindi
spiegare, il fenomeno indagato inserendolo entro il suo sistema di significazione della realtà.
Epistemologia dela costruzione: nell'ambito della conoscenza scientifica occorre tenere
conto di quella particolare relazione tra:
a) soggetto (sistema osservante o interpretante) e
b) oggetto (sistema osservato entro il suo contesto, o referente), che si realizza attraverso
c) l'intermediazione linguistica e dei sistemi di significato, che permettono a loro volta di
giungere al
d) prodotto di questo rapporto conoscitivo, che per comodità qui chiameremo sistema
conosciuto.
In primo luogo bisogna precisare che oggi ci troviamo in una fase di transizione verso il
"paradigma", o meglio, il metodo della complessità, in cui coesistono, sul piano epistemologico,
due diverse concezioni del "sistema conosciuto" che fanno riferimento a due epistemologie
differenti e quindi devono essere attentamente distinte: neopositivismo e costruttivismo.
Considerazioni: la complessità, secondo questa prospettiva, riguarda perciò la realtà oggettiva
del fenomeno indagato, come avveniva secondo i "giudizi sintetici a priori" kantiani, ed è una
caratteristica del modello analitico solo nella misura in cui quest'ultimo rappresenta la
complessità dell'oggetto indagato (realismo gnoseologico). In questo caso si è portati a
pensare che non vi sia il problema della separazione tra sistema osservato e sistema
osservante, poiché si ritiene che la distanza tra soggetto e oggetto sia garantita dal
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procedimento della ricerca stessa. Invece, proprio perché l'osservatore non ammette, o non è
consapevole, di essere parte attiva nel processo conoscitivo, diventa sempre più probabile la
confusione fra i vari livelli (a), (b) e (c), e quindi si verifica l'ipostatizzazione del modello
utilizzato, cioè la confusione del modello analitico (sistema osservante e concetti significanti)
con la realtà oggetto di studio (sistema osservato).
Ma il sistema conosciuto può essere inteso anche come una mappa costruita per analizzare la
realtà; in questo caso, la distinzione tra sistema osservato e sistema osservante deve essere
una preoccupazione costante del ricercatore, poiché è da questa distinzione che dipenderà la
scientificità della sua ricerca. In questo senso Weber parla di avalutatività, cioè della necessità
di distinguere il sistema di valore dello scienziato dal sistema di riferimento dell'oggetto della
sua ricerca, al fine di aumentare la "lucidità" con cui il ricercatore può leggere i fatti sociali su
cui sta indagando, senza dare nulla per scontato.
Sviluppo umano sostenibile: La crisi di valori che segna la cultura del nostro tempo può
essere letta come una conseguenza del processo di secolarizzazione culturale iniziato con la
rivoluzione scientifica e proseguita con la crisi del mito del progresso. Non si può più credere in
un progresso lineare e sempre crescente, come voleva il Positivismo, ma occorre anzitutto
problematizzare proprio il concetto di sviluppo, individuandone i fini, gli attori, le responsabilità
e soprattutto i limiti. Il concetto di sviluppo umano sostenibile, insieme alla pace e all’ambiente
costituiscono le basi di riferimento di una nuova generazione di diritti di cittadinanza.
 La scienza politica
Possiamo ritenere che la Scienza politica, nel senso moderno del termine, cominci a delinearsi
come disciplina autonoma quando privilegia lo studio del potere politico, inteso come attività
umana e non come istituzione politica storicamente e territorialmente definita.
I primi a proporre questo oggetto di studio furono i teorici della "scuola machiavellica italiana"
- Mosca, Pareto e Michels -, studiosi che provenivano da formazioni e da aree disciplinari
diverse (rispettivamente il diritto costituzionale e la storia delle dottrine politiche, l'economia,
la sociologia) e che rivolsero la loro attenzione alle modalità di formazione e di ricambio delle
classi dirigenti e della "classe politica". In questo contesto la metodologia proposta è quella
positivista che va alla ricerca di "leggi sociali".
Tuttavia, l'esperienza del fascismo e del nazismo e della seconda guerra mondiale fecero sì che
in Europa gli studi politologici e delle altre scienze sociali venissero emarginati.
La Scienza politica ha cominciato pertanto a configurarsi come disciplina autonoma sia nella
definizione dell'oggetto di studio sia sul piano metodologico solo negli anni del secondo
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dopoguerra, grazie soprattutto al contributo determinante del comportamentismo statunitense.
Con il comportamentismo viene introdotto il metodo delle scienze empiriche, elaborato dal
neo-positivismo: da questo momento si può parlare di "scienza empirica della politica" o di
"scienza della politica".
Nel contesto comportamentista si riapre il dibattito sul potere politico che vede contrapporsi le
tesi dei pluralisti e degli elitisti. E dagli Stati Uniti, con Easton, giunge la proposta di
privilegiare come oggetto di studio della Scienza politica l'analisi del sistema politico, inteso
come insieme di strutture e processi decisionali attraverso cui vengono allocate in modo
imperativo le risorse di una società.
Sul piano metodologico, il comportamentismo propone lo studio empirico dei comportamenti
manifesti e delle attività umane, secondo una prospettiva astorica, in contrapposizione allo
studio delle istituzioni storicamente determinate.
Le teorie scientifiche di ispirazione comportamentista si presentano pertanto come teorie
astoriche e nomologiche, mentre la ricerca empirica fa uso, per la prima volta, di tecniche di
rilevazione empirica quantitative, come i sondaggi, le interviste strutturate su questionari,
l'analisi statistica multivariata, secondo le indicazioni dell'operazionalismo di Lazarsfeld.
Anche il metodo comparato trova in questo periodo negli Stati Uniti un momento di grande
espansione, sempre all'interno della scuola neopositivista: nasce così la Politica comparata
come settore di ricerca specifico della disciplina.
Parallelamente a questa "scienza di leggi" si sviluppa anche una "scienza di società" di matrice
weberiana che, se trova spazio nella Sociologia, non ne trova invece, in questo periodo, presso
gli studiosi di Scienza politica, formatisi prevalentemente, se non esclusivamente, secondo un
orientamento metodologico neopositivista.
Solo a partire dagli anni Settanta con la "scoperta" della complessità sociale si creano le
condizioni per una "rivoluzione" nella ricerca politica e sociale, che Pasquino (1985, p. 31) ha
definito "weberiana".
Nella fase del post-comportamentismo, dalla fine degli anni Settanta a oggi, si riapre il
dibattito sul metodo, si riprende a discutere e a problematizzare gli itinerari di ricerca,
proponendo sostanziali innovazioni entro la disciplina sia sul piano metodologico sia su quello
degli "oggetti" su cui fare ricerca.
La storia della scienza politica in Italia: durante il ventennio fascista la Scienza politica
decadde a dottrina dello stato e per poter parlare di una Scienza politica consolidata bisognerà
aspettare gli anni Sessanta. Nella cultura dominante del secondo dopoguerra vi erano infatti
più elementi che concorrevano a far sì che la politica non venisse considerata come un ambito
da analizzare scientificamente.
In primo luogo, il neoidealismo di scuola crociana negava la possibilità di una scienza empirica
della politica.
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In secondo luogo, la cultura marxista ufficiale alimentava un orientamento prevalentemente
speculativo che impediva uno sviluppo delle scienze sociali empiriche.
Leoni propone un oggetto di studio preciso per la disciplina, intesa come "scienza dello Stato".
A partire da questo "oggetto" privilegiato, l'autore è in grado di elaborare i concetti
empiricamente utilizzati nelle sue analisi.
Bobbio riscopre le "radici culturali" della Scienza politica italiana e quindi le "fonti autorevoli"
del metodo empirico, parlando un linguaggio accettabile per il mondo accademico italiano del
tempo, con il risultato di ridare spazio e dignità scientifica alla nuova disciplina e al metodo
empirico nella scienza politica.
Sartori avvicina, negli anni Settanta, la Scienza politica italiana al comportamentismo
statunitense, rafforzando di fatto, all'interno della disciplina, un'opzione epistemologica
neopositivista.
Solo nella fase più recente del post-comportamentismo (fine anni Settanta, anni Ottanta) si
comincia a delineare anche in Italia un mutamento, tanto in relazione all'oggetto quanto in
relazione al metodo di studio. L'analisi dei sistemi complessi orienta inoltre la ricerca verso la
riscoperta delle istituzioni politiche entro cui si muove l'attore politico (neoistituzionalismo), ma
anche dello Stato e della sua crisi, proprio perché quello dello Stato è il contesto istituzionale,
storico e geografico entro cui si svolge la maggior parte le ricerche.
Il caso del sistema politico italiano presenta inoltre una serie di caratteristiche peculiari, per
esempio rispetto ai paesi anglosassoni, tanto sul piano culturale quanto su quello territoriale e
politico locale, tali che non sembra possibile prescindere dall'analisi della sua vicenda storica,
andando ben oltre le origini dello Stato unitario, per comprendere le logiche del sistema di
azione e del sistema di valori che orientano la vita politica dei nostri giorni.
Oggetti e metodi della scienza politica: alcuni possibili percorsi di lettura
paradigma
paradigma empirico-
‘paradigmi’ della complessità
scientifico
meccanicistico
metodo
epistemologia della rappresentazione
epistemologia
costruzione
positivismo
neopositivismo
costruttivismo
-teoria dell’elite
-comportamentismo
-idealtipi weberiani
(Mosca,
(elitisti,
oggetto
analisi
del
potere
politico
Michels)
Pareto,
pluralisti,
neoelisti)
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della
-strutturalfunzionalismo
-sistema politico come
(Parsons, Almond)
formazione storica
(Farneti, Rokkan)
-approccio sistemico
analisi
del
(Easton)
sistema
politico
-approccio
della
civic
culture
(Almond, Verba)
-comparazione
contesti
analisi
dei
sistemi
e
sistemi
-politica comparata
significati
-teoria
-neoistituzionalismo
dell’attore
per
di
razionale
complessi
 Lo Stato
Vi sono, nella teoria politica, almeno due grandi filoni di pensiero in cui si articola la riflessione
riguardante lo Stato:
- per il primo di essi, lo Stato non è un prodotto specifico della modernità occidentale, ma una
realtà politica che si può riconoscere se non in ogni società ed in ogni periodo storico,
sicuramente anche in una molteplicità di situazioni non riconducibili all’esperienza occidentale
moderna. La filosofia della storia di Hegel (1967) associa il termine “Stato” a tutte «le
istituzioni che realizzano, in ogni epoca, la sintesi di forza e valori etici entro società strutturate
in senso in egualitario» (Portinaro 1999), ed anche autori ideologicamente lontani fra loro
come Friederich Engels e Gaetano Mosca propendono per un’estensione dell’applicazione del
concetto di “statualità” che vada ben oltre i confini della modernità occidentale.
- un secondo filone, il cui riferimento principale è costituito da Carl Schmitt, connette la genesi
della statualità al superamento delle guerre civili di religione in Europa e conseguentemente
individua la modernità europea come “epoca dello Stato”. In questo secondo filone, possiamo
trovare autori lontanissimi rispetto a Schmitt, come David Easton che sostiene esplicitamente:
«Prima del secolo diciassettesimo per il lungo periodo durante il quale gli uomini vissero e si
governarono l’un l’altro (…) non esisteva nessuno Stato. Al massimo vi fu una forma
frammentaria di vita politica. La Grecia ebbe la sua comunità cittadina, mal tradotta oggi con
l’espressione città-Stato; il medioevo ebbe il suo sistema di feudalità; le comunità esotiche di
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oggi hanno i loro consigli, dirigenti e capi. (…) Si tratta di forme politiche in transizione, preStati o Stati nascenti» (Easton 1963).
In questa sede però è importante capire la tipoicità dello stato moderno e il suo contesto; a
partire dal XV secolo, e a partire dal continente europeo, lo Stato è divenuto la forma di
gestione centralizzata del potere politico su un determinato territorio (Weber): la dispersione
territoriale del potere tipica del Medioevo lascia il posto alla centralizzazione del potere che
caratterizza la modernità.
Il sistema feudale: il rapporto imperatore-vassallo presenta, al contempo, elementi di
gerarchia e di contrattualità: mentre il patronato della polis classica finiva per rafforzare e
cristallizzare sempre più la struttura del potere diseguale della società (è necessario ricordare
che le polis classiche si “tenevano insieme” sulla base dell’accettazione generale della
disuguaglianza considerata come un fattore naturale), ed i clienti vivevano perennemente nel
terrore che il potente revocasse le garanzie per la loro sussistenza, nel sistema feudale il
vassallo si appropria degli strumenti per garantirsi la protezione adeguata (e al contempo per
assicurare la sopravvivenza alle genti di cui è “signore”), garantendo, in cambio, l’impegno di
fornire il proprio aiuto all’imperatore quando necessario, ed il riconoscimento formale della sua
supremazia. In sostanza, in virtù di questo scambio il vassallo esercita personalmente entro il
proprio feudo svariate funzioni di dominio, giungendo pertanto ad esercitare il potere di
disporre dell’esistenza materiale della maggior parte della popolazione, in particolar modo dei
contadini, e dei ceti più umili del mondo rurale. Inoltre se il rapporto imperatore-vassallo, pur
nella sua evidente asimmetria presuppone un riconoscimento di onorabilità e rispetto reciproci,
quello vassallo-sudditi resta di natura estremamente oppressiva: la maggioranza schiacciante
della popolazione europea nell’età di mezzo vive una condizione di piena “eterodirezione”.
Con l’incremento del potere de facto dei vassalli, l’intero potere politico reale si frantuma e si
disperde. L’unità fondamentale dell’intera struttura diviene il feudo. Il feudatario, in virtù dei
suoi redditizi diritti signorili e delle risorse umane di cui può agevolmente avvalersi, diviene più
rilevante delle cariche pubbliche (conti e missi) nei rapporti con il potere centrale. Nel 1037,
durante l’assedio di Milano, l’imperatore Corrado II è costretto a riconoscere espressamente il
principio di ereditabilità del feudo, e con esso il ruolo sempre più influente assunto dalle élite
nobiliari locali. Questa forma di legittimazione del potere ha delle conseguenze molto rilevanti,
che configurano un ordine politico molto dissimile rispetto a quanto verrà realizzato nell’ambito
della statualità moderna: non soltanto i sudditi, ma anche l’imperatore e i Signori territoriali
sono vincolati all’osservanza della legge divina. Una legge che non prevede deroghe e non può
contemplare, conseguentemente, alcuno stato d’eccezione (appartenendo, l’ambito della
eccezionalità, all’esclusivo dominio di Dio).
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La rinascita della città e il sistema dei ceti: Il ritorno alla centralità cittadina ha come cause
la ripresa economica e il mutato clima culturale che fanno seguito all’avvento dell’anno Mille.
Notevole è il contributo di Weber in questo senso; egli, definendo la città in termini economici,
afferma:
a- la città viene concettualmente intesa come un insediamento circoscritto: essa è una borgata
molto estesa
b- sotto il profilo economico, la città consiste in un insediamento in cui gli abitanti vivono
prevalentemente di redditi industriali e commerciali, anziché di attività agricole.
c- sotto il profilo politico-sociale la città rimanda ad un’idea di controllo del proprio mercato
interno (inteso come fenomeno urbano).
Weber distingue due grandi visioni del mondo e concezioni della vita. Di fronte all’Oriente in cui
prevale l’elemento magico-rituale, l’Occidente svilupperebbe una concezione razionale del
mondo, sin dall’emancipazione dalla magia presso gli ebrei, attraverso la polis greca ed il
razionalismo giuridico e sociale di Roma, per giungere alla moderna ascesi intramondana
dell’etica protestante, considerata come principale matrice culturale del capitalismo.
Elemento forte di distinzione non può essere che la città: Weber si riferisce alla peculiarità
occidentale della città come centro relativamente autonomo di potere, mentre in altri contesti
storici la realtà cittadina si ritrova sempre subordinata a sistemi di potere più vasti.
Inoltre Weber è consapevole di come la città tardomedievale sia portatrice di elementi di
significativa novità e di sfida alle forma tradizionali di legittimazione dell’autorità politica.
La peculiarità che Weber intende porre in evidenza è la dimensione propriamente politica della
città ed il rapporto contraddittorio della medesima rispetto alla statualità.
Con la rinascita delle città avviene l’ingresso di una nuova e dirompente forza nelle relazioni
politiche precedentemente caratterizzate dal conflitto fra l’Impero e i feudi. La città, infatti,
rinasce (dopo secoli di abbandono e decadenza) principalmente come centro produttivo e
commerciale in espansione, ma al contempo anche come nuovo soggetto politico influente e
relativamente autonomo. Il ceto è pertanto un’aggregazione di individui che si riconoscono
sulla base di un’attività economica. Esso si dota di istituzioni di controllo dell’attività svolta dai
propri membri, l’appartenenza dei quali è in relazione all’esercizio di una data professione.
L’organizzazione politica del “sistema dei ceti” prevede la presenza di organi di ceto ufficiali,
detti stati, espressamente costituiti per bilanciare il potere del signore territoriale. Nelle
assemblee del sistema dei ceti la concezione culturale dei ruoli politici si modifica rispetto al
feudalesimo: il Principe non viene più considerato come titolare di una carica feudale, ma
pubblica. Il processo di “pubblicizzazione” del ruolo del Principe rende la sua figura
istituzionalmente più elevata rispetto alle assemblee dei ceti: egli detiene una carica che
prescinde dagli accordi congiunturali e revocabili dei ceti e rappresenta un riferimento politico
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stabile, proprio mentre le entità politiche locali cadono preda di una sostanziale instabilità e di
violente lotte intestine per l’acquisizione delle cariche più influenti.
Evoluzione dei conceti di Stato e sovranità: la teoria politica generalmente attribuisce a
Machiavelli un primo discorso organico ed articolato sullo Stato. Sebbene non vi sia ancora una
teoria sullo Stato moderno egli propone una tipologia delle forme di governo: regno (governo
di uno), aristocrazia (governo di pochi), politia (governo di molti), in cui ognuna di queste
forme “rette” prevede una propria forma “degenerata” (rispettivamente: tirannide, oligarchia e
democrazia, intesa come demagogia, lungo un continuum modulato dalla legge naturale dei
cicli storici, la polibiana anakiklosis) ad una bipartizione: principato (governo di uno) e
repubblica (governo dei più). Rimuovendo la distinzione fra forme di governo rette e forme
degenerate, l’unico criterio per distinguere la buona dalla cattiva politica resta il successo,
identificato con la capacità di conservare lo Stato (si impone la stabilità come valore). Per
Machiavelli la religione diviene un instrumentum regni, subordinato alla razionalità strumentale
orientata al mantenimento/rafforzamento del proprio potere.
Anche il concetto di sovranità ha una matrice decisamente pregressa rispetto alla modernità:
ignoto nell’esperienza politica classica, il termine ha un’origine vernacolare, ovvero del tutto
interna all’esperienza linguistica volgare, e si ritrova nel Medioevo: souverainetè compare per
la prima volta nel XIII secolo. Qui il termine “sovranità” trova una prima definizione precisa,
grazie ad un proemio che Marino da Caramanico premette alla sua glossa del Liber
Costitutionum federiciano: “Il Re che non riconosce alcun superiore è Imperatore nel suo
regno”. Anche da questa prima, embrionale, definizione emerge il carattere sostanzialmente
duplice della sovranità: il potere del Re è comparato, all’interno del territorio del Reame, al
potere dell’Imperatore (potestas legittima e “plena et rotunda”); contemporaneamente, però, il
suo dominio (ciò che poi verrà chiamato “Stato”) emerge come nuova totalità parziale: perché
a differenza del potere imperiale (che si considera sconfinato, coincidendo, il territorio
imperiale, con il mondo civilizzato), quello del nuovo sovrano è drasticamente limitato
territorialmente dalla vigenza di altri poteri aventi prerogative simili alle proprie. Ma la prima
trattazione sistematica del tema della sovranità viene effettuata da Jean Bodin, il quale utilizza
la categoria di “sovranità” per mettere fine ai sanguinosi scontri fra le opposte fazioni
confessionali. Una distinzione fondamentale che Bodin introduce nella teoria della sovranità
riguarda la differenza fra titolarità ed esercizio della medesima (una distinzione che risulta
ancora attuale in ambito costituzionale, si pensi al dettato della Costituzione repubblicana
italiana), articolando una prima distinzione fra “forme di Stato” e “di governo”. In virtù di
questa distinzione Bodin può includere nel proprio sistema di pensiero anche quelle forme di
ordine politico che la teoria classica ritiene “degenerate”. Distinguendo fra Stato (o meglio:
regime) e governo, Bodin può considerare “degenerate” le forme puntuali di governo, come
vizio nelle modalità di esercizio della sovranità (sia da parte di un principe, che di un consiglio
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di “ottimati”, o di un assemblea popolare democratica, che possono corrompere la propria
azione calpestando le leggi naturali). In questo modo, la corruzione non è mai del “regime” in
sé, ma del governo che in quel momento lo guida.
Lo stato assoluto: l’assolutismo implica il ridimensionamento in primo luogo delle pretese dei
nobili, ma successivamente anche di quelle dei ceti e delle loro assemblee rappresentative (gli
Stati generali francesi non verranno più convocati dal 1614 al 1789). Il processo di
espropriazione del potere politico è subìto dai ceti con sentimenti spesso contrastanti: da un
lato persiste la volontà di conservare le proprie prerogative politiche e di resistere alle pretese
assolutistiche del Principe, ma dall’altro lato vi è la consapevolezza che un’adeguata tutela dei
propri interessi necessita la costruzione di un ordinamento avente un’estensione territoriale e
un’articolazione giuridica adeguate alle nuove sfide emergenti.
Per lo stesso motivo la borghesia urbana accetta uno scambio in virtù del quale rinuncia alla
possibilità di partecipare alla vita politica in cambio di ordine e sicurezza per i propri affari (una
scelta destinata a ripetersi nella storia). Il mercantilismo è la politica economica del regime
assolutista e consiste nell’istituzione di un sistema statale uniforme e articolato per il controllo
dell’economia a tutela degli interessi dei ceti economicamente dominanti: il mercato
concorrenziale nasce, infatti, dall’appropriazione monopolistica dello Stato.
- Hobbes: lo Stato viene ad assumere un compito epistemologico: deve stabilire (ricordiamo
che siamo in un’epoca di conflitti asperrimi di matrice religiosa) la verità delle persone, cioè la
loro identità sociale: è infatti l’incertezza (riguardo l’identità altrui) che rende impossibile la
convivenza, sostiene Hobbes, e quindi deve essere abolita.
Il progetto politico moderno, quindi, si origina connettendosi al grandioso tentativo di edificare
lo Stato-macchina (che sia scomponibile e ricomponibile), come strumento tecnico di
neutralizzazione (rimozione) del conflitto, di derubricazione del politico all’amministrativo, di
frantumazione dell’idea di persona inserita nella complessa gerarchia delle appartenenze sociali
a favore di quella di individuo atomizzato e suddito.
Per giustificare il passaggio allo Stato assoluto come strumento tecnico di neutralizzazione del
conflitto politico, Hobbes ricorre all’espediente antropologico dell’homo homini lupus: l’uomo
allo Stato di Natura è identico e famelico, e quindi senza un’autorità distinta e dominante che
faccia rispettare le leggi si perverrebbe alla catastrofe della guerra, palese o latente, di tutti
contro tutti. Quindi, Hobbes si presenta come il principale difensore dello Stato assoluto in
particolare contro la volontà eversiva dei suoi negatori puritani; ma in realtà l’intera opera di
Hobbes si regge su una grande contraddizione per cui nel Leviatano possiamo riscontrare i più
profondi fondamenti tanto dell’affermazione quanto della negazione dell’ordine statale, per la
cui comprensione è necessario fare riferimento all’espistemologia hobbesiana che costituirà il
paradigma analitico della modernità, in quanto «non solo Hobbes fu direttamente impegnato
19
nelle controversie politiche dell’epoca, ma nelle sue opere riscontriamo un legame strettissimo
tra l’impostazione metodologica e le risposte date alle concrete esigenze storico-politiche».
L’analisi politica di Hobbes è condotta a partire dal particolare, secondo la presunzione
meccanicistica per cui per la conoscenza del tutto è necessaria l’indagine della singola parte
determinata, dalla quale il tutto viene a dipendere come il risultato di una costruzione
meccanica. Viene così sovvertita la concezione aristotelica del rapporto fra il tutto e le parti che
aveva retto per l’intero Medioevo; ed un siffatto cambiamento non potrà non coinvolgere
globalmente la concezione dell’ordine morale e politico.
Con il patto sociale, che istituisce la totalità artificiale dello Stato-Leviatano, il diritto naturale
viene volontariamente sovvertito dai soggetti di natura. Si tratta di un pactum unionis che
ricomprende in sé ciò che per i giusnaturalisti sono il pactum societatis (atto con cui una
moltitudo diventa populus) ed il pactum subiectionis (patto che definisce i modi e i limiti della
soggezione del popolo al sovrano); risulta evidente, da tutto quanto abbiamo fin qui
ricostruito, quanto sia preponderante la dimensione del pactum subiectionis nella logica
pattizia hobbesiana.
- la critica di Vico: come per Hobbes, anche per Vico lo stato primitivo dell’umanità è uno
stato ferino, caratterizzato da una realtà di vita irrelata, asociale, in cui non esiste neppure la
famiglia, uno stadio primitivo in cui può insorgere solo un’autorità monastica (ossia “solitaria”,
tipica dell’uomo non associato). Vi è una differenza sostanziale, però, che distingue la
concezione originaria dell’uomo di Vico da quella di Hobbes: per Hobbes lo “stato di natura” è
un’ipotesi razionale, che serve a dimostrare – in negativo – cosa sarebbe l’esistenza umana se
non ci fosse un potere sovrano ad inibirne gli istinti, ma anche la prospettiva terribile che si
pone di fronte alla società se viene meno l’autorità dello Stato (assoluto). Secondo Vico lo
stato “ferino” è un evento storico collocato all’inizio delle vicende umane e, soprattutto, Vico
sostiene che l’umanità non è passata direttamente dallo stato “ferino” all’ordine “statale”: fra
questi due estremi il filosofo napoletano vi colloca una variante che rende molto più complessa
la narrazione circa l’origine dell’autorità politica rispetto alle prospettive dei giusnaturalisti, uno
stadio intermedio che non è più “preistorico”, ma non è ancora “statale”. Vico denomina tale
stadio lo “stato delle famiglie”, poiché in tale stato si originano le prime forme di vita associata
(le famiglie, appunto).
Si può dedurre che per Vico, a differenza di Hobbes, esiste socialità anche prima dell’istituzione
dello Stato. Tale stadio (“stato delle famiglie”) è più volte definito da Vico “stato di natura”: la
differenza rispetto ad Hobbes (e ai giusnaturalisti) riguarda il fatto che per Vico lo “stato di
natura” non è lo stato primitivo dell’umanità, ma il primo stato di socialità post-ferino. In
questo stato, all’originaria autorità monastica subentra un’autorità economica (da oikos, casa,
si tratta quindi di un’autorità familiare, in particolare è l’autorità del patriarca sulla famiglia di
tipo “patriarcale”, quindi anche sui “servi”). Soggetti all’autorità economica sono i membri della
famiglia e la servitù, ossia i “clientes” o famoli, cioè individui che, non ancora fuoriusciti dallo
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stato “ferino” e, pertanto, ancora necessitanti di protezione, non possono fare altro che
sottomettersi alle prime famiglie.
Confrontando la teoria politica vichiana con quelle precedentemente esposte, in particolare con
la teoria politica di Hobbes, è possibile evidenziare alcune peculiarità:
a) Vico, rispetto ad Hobbes, reintroduce la liceità dei giudizi di valore nell’analisi dei fenomeni
politici;
b) rispetto alle teorie cicliche aristotelico-polibiane dispone in modo inedito il succedersi delle
forme classiche di governo (da monarchia-aristocrazia-democrazia a repubblica aristocraticarepubblica popolare-principato);
c) mentre, all’inizio del corso storico, nel passaggio dallo stato ferino a quello delle famiglie la
causa è esogena (il fulmine di Giove), gli altri passaggi avvengono per cause endogene: la
rivolta dei clientes nel passaggio dallo stato delle famiglie alla repubblica aristocratica, la lotta
dei plebei per il riconoscimento dei propri diritti nel passaggio dalla repubblica aristocratica a
quella popolare, il conflitto fra le fazioni che conduce al principato. Ora, dato il giudizio di
valore positivo espresso da Vico nei confronti delle ultime due forme di Stato del corso storico,
si evidenzia che per Vico, a differenza che per Hobbes, il conflitto non è distruttivo, bensì –
come per Machiavelli – è condizione essenziale per il miglioramento sociale e la difesa della
libertà. Vico sviluppa la lezione di Machiavelli, che preannuncia – tramite l’accettazione della
“disarmonia” politica – il tema moderno della “società civile”, ed esprime una concezione
antagonistica e pluralistica della storia;
d) la conclusione di un corso storico – e, quindi, il salto ad un ricorso, che si origina attraverso
una nuova fase “ferina” – è imputabile secondo Vico al trionfo della barbarie della riflessione,
cioè una “seconda barbarie” – una barbarie avente un’origine razionalistica – che rende gli
uomini “fiere più immani” rispetto a quell’originaria “prima barbarie del senso” (v. cpv. 1106,
della Scienza nuova seconda). Secondo Vico, pertanto, il processo di civilizzazione dell’uomo
non è caratterizzato solo da effetti positivi, così come non lo è il processo di “statalizzazione”,
dal momento che una “seconda barbarie” (più pericolosa della prima) si sviluppa proprio
all’interno della forma politica statuale.
- sovranità interna e sovranità esterna: (Ferrajoli) idea di sovranità di «due vicende
parallele e divergenti»: quella della sovranità interna, ovvero del monopolio dell’uso legittimo
della coercizione entro determinati confini, e della sua limitazione per mezzo della formazione
degli stati costituzionali e democratici di diritto; e quella della sovranità esterna, «che è la
storia della sua progressiva assolutizzazione, giunta al suo apice nella prima metà di questo
secolo con le catastrofi delle due guerre mondiali. Neppure cronologicamente le due storie
coincidono: quella della sovranità esterna è iniziata per prima e, diversamente da quella della
sovranità interna, è ancora lontana dall’essersi conclusa e continua a prospettarsi come una
permanente minaccia di guerra e distruzioni per il futuro dell’umanità».
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Costruzione dello spazio politico moderno: Ferrajoli afferma che all’assolutizzazione della
sovranità esterna nel diritto internazionale corrisponderà un percorso lungo e tortuoso nella
direzione di una limitazione della sovranità interna, da cui scaturirà la fine dell’assolutismo
regio e la transizione allo Stato liberale, un mutamento politico che comporterà il superamento
della concezione della sovranità come potere superiorem non recognoscens.
Per comprendere come si giunge all’imposizione di limiti interni alle prerogative dello Stato è
necessario fare riferimento al concetto di società civile, ovvero ad un complesso di fenomeni
relativamente autonomi rispetto allo Stato, generato dalle attività private degli individui. La
società civile emerge, ed acquisisce coscienza di sé, proprio in virtù del passaggio
dall’ordinamento cetuale a quello assolutistico: quando il monarca assoluto espropria i ceti
delle loro prerogative politiche, questi si concentrano sugli aspetti prevalentemente privati
dell’esistenza: si ritraggono dall’arena politica, ma rafforzano sfere relativamente autonome in
cui il dominio assolutistico del Principe è meno intrusivo.
Locke e la società civile: la sfida all’assolutismo è condotta in virtù di una concomitanza di
interessi economici e politico-filosofici: sono due le "gambe" sulle quali, secondo Locke, si
regge la società civile che si sta progressivamente affermando come attore politico (prima in
Inghilterra che nell’Europa continentale): il mercato e l’opinione pubblica . Nella società civile,
quindi, avvengono degli scambi che non riguardano solo la circolazione delle merci, ma anche
quella delle idee e dei giudizi politici.
Secondo la teoria politica di Locke gli uomini, nell’edificare la società politica, hanno rinunciato,
a favore del potere politico supremo, solo al potere personale di usare la forza contro un
proprio simile, ma hanno conservato il potere di giudicare moralmente le sue azioni. Questo
potere di giudicare in primi tempo si rivolge ad altri privati e poi si estende alla cosa pubblica.
Dai ceti alle classi sociali: Si è utilizzato il termine classe, in luogo di quello di ceto, per
evidenziare
un
mutamento
nella
stratificazione
sociale
che
caratterizza
il
passaggio
dall’autunno del Medioevo all’età moderna. Se il "ceto" può essere definito come "un gruppo di
individui aventi lo stesso status (ossia aventi lo stesso "trattamento" giuridico)", risulta
un’impresa proibitiva pervenire ad una definizione altrettanto sintetica e, soprattutto, univoca
di "classe" (studi di Marx e Weber).
I confini di una classe dipendono da elementi complessi legati alla divisione sociale del lavoro,
come detenere (o meno) la proprietà dei mezzi della produzione materiale, ed il possesso
esclusivo della risorsa del capitale monetario, che consentono di assicurarsi sul mercato una
porzione del prodotto sociale tale da procedere a nuove accumulazioni e nuovi impieghi del
capitale stesso.
22
La "personificazione" dello Stato che abbiamo visto essere realizzata dalle dottrine hobbesiana,
e la sua rappresentazione come "ente esterno e superiore" risponde alle esigenze delle élite
borghesi di veder garantito (all’interno dei confini della classe) un certo equilibro fra le fazioni
in competizione: il monarca assoluto essendo, di fatto, separato dal processo economico,
risulta essere un soggetto "neutro" rispetto alle singole fazioni borghesi in competizione
reciproca. Nello stesso tempo la forza militare dello Stato assoluto garantisce (all’esterno dei
confini della classe) un’adeguata protezione dei traffici commerciali (sia sul versante interno
del territorio dello Stato, contro le minacce di nobili feudatari e banditi, sia sul versante
esterno nella competizione con i mercanti degli altri paesi). Il sistema assolutistico entra in
crisi, quando le tendenze espansionistiche insite nel potere assoluto minacciano la proprietà e i
delicati gangli del mercato, ovvero di quel contesto in cui la classe borghese consente ai suoi
confliggenti interessi interni di trovare espressione, e quando le tendenze critiche insite nella
società civile non restano più confinate alla dimensione privata, ma invadono anche la sfera
pubblica corrodendo i presupposti assolutistici del potere sovrano.
La nascita del liberalismo: La teoria politica, tramite la quale la classe che "conta"
economicamente rivendica il diritto di "contare" anche politicamente, la dottrina che si
contrappone all’assolutezza del potere del principe e alla conseguente impotenza politica degli
individui è il liberalismo. -> il parlamentarismo è la teoria istituzionale che ridisegna l’assetto
dei poteri statuali nella mutata condizione generale.
I due versanti della sovranità imboccano due tracciati opposti: mentre sul versante della
sovranità esterna nulla si rivela in grado di limitare il potere degli Stati europei, il versante
interno della sovranità statuale torna ad essere oggetto di controversia: il principe deve
rispondere formalmente e sostanzialmente del proprio operato di fronte al parlamento. Lo
Stato liberale assume la forma giuridica della monarchia costituzionale ma questo processo di
costituzionalizzazione del potere politico non avviene simultaneamente in tutti i paesi europei,
in quanto dipende dal livello di sviluppo e di consapevolezza assunti dalla società civile nei
confronti dello Stato: risulta incontestabile che lo sviluppo della società civile sia avvenuto
molto prima in Inghilterra, rispetto ai paesi dell’Europa continentale.
L’effetto politico di questo grande protagonismo della società civile inglese consiste nella
normalizzazione della critica al potere fuori e dentro il parlamento: nascono all’interno
dell’assemblea parlamentare i concetti di "maggioranza" e "opposizione", termini che
inizialmente stanno ad indicare i favorevoli alla politica del monarca e i contrari a tale politica.
Nel parlamento si istituzionalizza una forma di lotta pacifica fra due settori distinti dell’élite
dominante, i quali cercano di guadagnare il maggior consenso politico possibile nell’opinione
pubblica che, fuori dal parlamento (nei club, nei coffee house, nelle società di pubblica utilità),
si appassiona alle questioni socialmente più rilevanti.
23
Il modello societario e il modello statalista: Due processi di strutturazione dello spazio
pubblico: “modello inglese” (societario) e “modello francese” (statalista).
- modello societario: la fase assolutistico-cortese è molto breve e sostanzialmente incompiuta,
la penetrazione del territorio non si traduce nell’annientamento dei corpi intermedi (fra
Sovrano e singolo individuo), l’aristocrazia terriera riesce a riprodurre il proprio dominio anche
nella nuova economia di mercato e a svolgere il proprio ruolo storico di intermediazione fra
comunità locale e potere centrale, mentre l’esercizio del dominio politico (e conseguentemente
della sua critica) si istituzionalizza nel Parlamento e si radica nello spazio pubblico. La società
condiziona la formazione dello Stato e le sue politiche, secondo una logica che la scienza
politica definisce bottom-up (dal basso all’alto).
- modello statalista: l’assolutismo favorisce il processo di "spoliticizzazione" della proprietà
terriera e, conseguentemente, la perdita di ruolo dell’aristocrazia come "classe politica" (la
nobiltà cessa, cioè, di far parte della struttura verticale del potere politico, esautorata dagli
apparati burocratici di Stato), la neutralizzazione dei corpi intermedi rende il rapporto fra lo
Stato e i singoli individui im-mediato: qualsiasi organo amministrativo si frapponga fra i due
estremi del sistema assolutista può mediare solo per ordine del sovrano: ogni potere cala
dall’alto. È lo Stato che "manipola" la società, secondo una logica top-down (dall’alto al basso).
Codice napoleonico (1804): rappresenta un’opera immensa e di grandiosa presunzione
intellettuale volta alla risistemazione dell’intero ordinamento giuridico secondo i dettami della
Ragione: il codificatore presume di poter fornire risposte esaustive a qualsiasi problema possa
insorgere dal proprio corpo sociale (ogni questione che viene sollevata dai membri della società
civile trova la propria soluzione all’interno del sistema delle norme codificate, che si
caratterizza, pertanto, per gli assunti di completezza e di coerenza).
≠
Common law: all’interno della tradizione di vigenza plurisecolare della common law (il cui
nucleo fondamentale è costituito dalla cristallizzazione delle sentenze normanne e sassoni
dell’XI secolo), il giudice produce la legge, dopo essere stato "attivato dal basso", ossia dopo
che i soggetti privati hanno sollevato al suo cospetto una controversia, allo scopo di ottenere
una sentenza.
Lo Stato liberale:
- cittadinanza e nazione: è al termine del XVIII secolo che incomincia a diffondersi il
concetto di cittadinanza, in riferimento all’appartenenza alla "comunità nazionale", come nuova
forma di "legame sociale" in grado di sostituire i valori di riferimento tradizionali e religiosi
dell’Antico Regime: la comunità nazionale è una produzione simbolica che riflette e legittima il
sistema di potere strutturato intorno allo Stato e al mercato.
24
La nazione come "mito politico" si afferma, pertanto, con la comparsa sulla pubblica "ribalta" di
grandi masse, in cui i fattori trascendenti della morale religiosa si traducono meno
autonomamente che in passato in qualificazioni di comportamento vincolanti sul piano politico.
Si tratta di un mito che seduce le masse con una forza ancor maggiore rispetto al mito coevo
del "progresso" e, non raramente, combinandosi con esso. Nello stesso tempo muta anche il
significato di patria: mentre nell’Alto Medioevo essa indicava un paese, una provincia, un luogo
d’origine; la Chiesa tardomedievale propone una concezione di patria communis per richiamare
il concetto di Civitas Dei, oppure di Civitas romana sovraordinata rispetto ai domini particolari
dell’ordine mondano.
Ma è nella Francia di Luigi XIV che il termine nazione muta decisamente il proprio significato:
per il monarca assolutista la nazione "consiste interamente nella persona del Re". Saranno poi i
libertini, durante la rivoluzione francese, a contrapporre a questi significati un nuovo concetto
di “nazione dei cittadini”.
Il mito della nazione è diretto in primo luogo ai gruppi sociali che nella competizione regolata
dal mercato risultano svantaggiati, la finalità per la quale viene inventata tale entità astratta
consiste primariamente nel disinnescare la pericolosità degli effetti alienanti che scaturiscono
da un assetto di potere che vede le istituzioni politiche egemonizzate dalla classe dominante
nel mercato: a tal fine viene costruita l’idea di un legame naturale che connetta fra loro i
singoli individui (compresi quelli appartenenti agli strati maggiormente indigenti).
Al contempo, se si tiene presente come la definizione dei confini statuali e l’imposizione del
monopolio della coercizione
all’interno dei medesimi, abbia origine in atti di appropriazione
violenta risulta comprensibile come l’idea di nazione, in quanto produzione simbolica unificante
le esperienze politico-culturali di coloro che vivono in un determinato territorio, risponda alla
necessità di contrastare la "vischiosità" dei sentimenti d’identità verso precedenti costruzioni
politiche territoriali
In entrambi i casi, in quello dell’integrazione verticale relativa alla stratificazione delle classi
sociali il mito della nazione alimenta e mantiene un comportamento di lealtà dei sudditi nei
confronti dello Stato, consentendo alle elites dominanti di associare all’immagine del
medesimo, quella degli interessi generali, appunto della "Nazione" .
- repubblicanesimo e nazionalismo: la cittadinanza moderna nasce da un’esigenza
"difensiva": tutelare la sfera del singolo individuo dalle possibili altrui intromissioni, in modo
tale che gli sia consentito di soddisfare i propri bisogni (economici) attraverso lo scambio
fondato sul libero consenso. I diritti soggettivi vengono riconosciuti in virtù dell’appartenenza
individuale all’entità territoriale della città e non al gruppo familiare o parentale. Si identifica
però
la
tensione
fra
repubblicanesimo
e
nazionalismo:
l’interpretazione
fornita
dal
repubblicanesimo post-illuminista del patriottismo e della libertà nazionale (che in questa
chiave interpretativa è sempre riferita alla "nazione dei cittadini"), non è affatto incompatibile
con la tendenza al cosmopolitismo di derivazione kantiana, ovvero con la propensione all’intesa
25
cooperativa e alla ricomposizione pacifica degli interessi con le altre nazioni. La tensione
repubblicanesimo/nazionalismo pone in rilievo due differenti modalità di considerare il rapporto
sovranità
interna/sovranità
esterna:
se
prevale
una
concezione
costruttivista
del
repubblicanesimo, secondo la quale la formazione di una volontà democratica è connessa
all’esistenza dei circuiti comunicativi di uno "spazio pubblico" politico imperniato sulle libere
associazioni e sulla circolazione delle informazioni per mezzo della stampa e di altri medium di
massa, l’attenzione viene posta sulle potenzialità del processo democratico di trasformazione
del carattere e dell’esercizio della sovranità interna. Se, invece, prevale l’impostazione
nazionalistica
"schmittiana", secondo la quale per autodeterminazione democratica si deve
intendere l’autoaffermazione e l’autorealizzazione dell’entità organica, naturale ed omogenea
della "Nazione", acquisisce rilevanza centrale il versante della sovranità esterna.
- diritti di cittadinanza e diritti dell’uomo: tale linea di discrimine, che si viene così a
determinare fra gli appartenenti alla comunità (inclusi) e gli altri (esclusi), porta Ferrajoli a
considerare la cittadinanza l’elemento per cui «i diritti dell’uomo finiscono di fatto per
appiattirsi sui diritti del cittadino. È in questo modo che la cittadinanza, se all’interno è la base
dell’uguaglianza, all’esterno opera come privilegio e come fonte di discriminazione nei riguardi
dei non-cittadini.
Parallelamente, lo stesso concetto di "diritti umani fondamentali" necessita di ulteriori
specificazioni: facendo riferimento al contesto entro cui la teoria dei diritti fondamentali ha
avuto origine e si è sviluppata: l’esperienza dei diritti fondamentali non può essere considerata
separatamente dall’esperienza delle grandi rivoluzioni borghesi che hanno segnato la storia
dell’Occidente moderno e contemporaneo.
Solo dopo un lungo processo, segnato da discontinuità e da notevolissime differenze
territoriali, la cittadinanza riesce a produrre uguaglianza all’interno dei confini statuali.
- diritti di cittadinanza civile e politica:
Marshall individua una "catena" esplicativa
dell’estensione dei diritti di cittadinanza, secondo la quale il Settecento rappresenta il secolo
del conseguimento della cittadinanza civile, l’Ottocento il secolo della cittadinanza politica, il
Novecento di quella sociale.
Diritti civili -> il diritto di proprietà incomincia a divenire centrale non solo per il borghese ma
anche per i lavoratori: la rivoluzione industriale è anche resa possibile dal fatto che i contadini
poveri abbiano il potere di disporre liberamente del proprio lavoro, ovvero possano "vendere" il
proprio lavoro all’imprenditore contro la concessione di un salario. I nuovi rapporti sociali
derivano dal libero consenso e, quindi, dall’accordo reciproco sulla spinta della necessità
economica
Diritti politici -> tale acquisizione, tuttavia, avviene in tempi diversi all’interno dei diversi paesi.
Il suffragio universale maschile viene ottenuto in Francia nel 1848, in Germania nel 1871, in
Italia nel 1912 e in Inghilterra solo nel 1918. Inoltre l’elettorato dell’800 è ristretto:
26
vi sono solo maschi con un certo reddito e un certo grado di istruzione.
- i partiti politici: in questa fase, oligarchico-liberale, della storia delle istituzioni politiche
europee, la competizione partitica si struttura attraverso il conflitto dei c.d. partiti di notabili:
anche se sono sostanzialmente dei comitati elettorali, anch’essi (come tutte le organizzazioni
partitiche), sono pur sempre in grado di condizionare la "mappa" delle candidature. Questo
fatto evidenzia un elemento essenziale della competizione politico-elettorale moderna destinato
a persistere: prima della selezione derivante dalla competizione elettorale, avviene quella
(spesso meno evidente) compiuta dal gruppo dirigente dei partiti (che rappresentano le
principali agenzie di reclutamento del personale politico). In questo periodo si nota la
diffidenza dei partiti operai riguardo alle attività parlamentari (è considerato un tranello
borghese). Esistono però i partiti popolari che hanno orientato la propria azione al
superamento dello "stallo" oligarchico-liberale, al fine di ottenere politiche di redistribuzione del
reddito e di sicurezza sociale, rispettando la divisione formale dei poteri.
Successivamente con l’ingresso delle organizzazioni del movimento operaio nello spazio del
sistema politico formale il contesto politico-sociale si trasforma in modo decisivo: si strutturano
i partiti popolari di massa, che richiedono la presenza di figure con caratteristiche particolari, i
c.d. "professionisti della politica".
L’età aurea del partito di massa coincide con il lasso di
tempo intercorrente fra la fine dell’Ottocento e la Seconda guerra mondiale e comporta delle
comseguenze sociali molto rilevanti: i rappresentanti delle classi subalterne non possono
avvalersi, come i borghesi liberali, di redditi propri che consentano loro di occuparsi di politica
"a tempo pieno": inizialmente i rappresentanti dei partiti operai sono di estrazione borghese,
successivamente le porte della carriera politica si schiudono anche, seppur con molte difficoltà,
agli esponenti delle classi popolari.
La remunerazione dell’attività politica professionistica inizialmente poggia sulle spalle del
partito, tramite il meccanismo dell’autofinanziamento (che rappresenta la risorsa vitale anche
per alimentare le componenti simboliche fondamentali della politica dei partiti di massa:
tesserazione, cerimonie pubbliche, iniziative sociali, bandiere…), successivamente diviene un
onere cui deve fare fronte lo Stato.
L’ingresso dei
partiti popolari
di
massa
nelle istituzioni
elettive liberali
ne modifica
sostanzialmente le dinamiche interne: il parlamento che, nella fase oligarchico-liberale era
caratterizzato da rapporti fluidi e da alleanze sporadiche e mutevoli, ora si struttura in divisioni
rigide in blocchi partitici contrapposti. Si notano inoltre figure di nuovi attori sociali.
Realismo politico e costituzionalismo: nella teoria politica post-rivoluzionaria la riflessione
sul potere sovrano si articola, complessivamente, in due filoni distinti: il filone del realismo
politico e quello del costituzionalismo.
Filone realista: si incontrano molte teorie che si prefiggono di "svelare", dove, al di là
dell’aspetto formale, effettivamente risiede il potere reale:
27
per Marx il potere reale risiede nella classe economicamente dominante
per Mosca il potere risiede nell’élite politica
per Pareto nella particolare frazione dell’élite sociale individuabile come "classe eletta di
governo"
per Wright Mills nel complesso della "élite del potere" (ovvero nelle strutture fortemente
compenetrate del potere politico-amministrativo, di quello economico e di quello militare)
secondo i pluralisti democratici come Dahl e Riesman il potere risiede, al contrario, in una
molteplicità di gruppi sociali in competizione reciproca, che prende il nome di poliarchia
per i neo-elitisti Bachrach e Baratz il potere è detenuto da chi gestisce l’ambito delle nondecisioni e della mobilitazione del pregiudizio.
Filone costituzionalista: mira in primo luogo a limitare il potere attraverso il diritto. Se ci si
riferisce
alle
costituzioni
rigide
che
caratterizzano
l’orizzonte
europeo
continentale
contemporaneo delle democrazie liberali, per difendere la vita delle persone dalle ingerenze del
potere (legislativo), si ricorre alla "gerarchia delle fonti" che subordina le leggi ordinarie del
parlamento alle norme costituzionali. L’attività di vigilanza sulla congruità delle leggi ordinarie
rispetto alla norma costituzionale è svolta dalla Corte Costituzionale, la cui attività a difesa
delle Costituzioni rigide rappresenta un elemento essenziale per gli equilibri della democrazia
liberale. Il costituzionalismo si connota di elementi "valoriali" che consentono l’individuazione
di "una cornice di regole, principi di giustizia e diritti per l’integrazione della società", entro cui
strutturare il conflitto politico "regolato". Si afferma, quindi, il principio di costituzionalità come
argine alle possibili derive decisionistiche dell’uso della legge ad opera degli
stessi
rappresentanti della comunità nazionale: la sovranità appartiene al popolo e viene esercitata
tramite i suoi rappresentanti in Parlamento che, però, sono vincolati dalla Costituzione e
controllati dall’apposita Corte.
Paradossi del positivismo (Kelsen): Hans Kelsen, influenzato dalla scuola neo-kantiana di
Marburgo e dal neo-positivismo del "Circolo di Vienna", elabora la Dottrina pura del diritto, che
tende a rimuovere il concetto stesso di sovranità
e le sue insidie ed in base alla quale «la
forma giuridica coincide con la peculiare figura della "validità" del diritto che consente di
risolvere il "valore" della norma nella procedura attraverso cui viene posta. In questo contesto
la legittimazione di una norma non si basa né nella sua giustizia e nemmeno nella sua
intrinseca razionalità, ma soltanto nel suo essere una norma "valida", legittimata cioè da una
norma di rango superiore». Si tratta di una concezione giuridica che concepisce la
legittimazione dell’ordinamento sulla base della ragione procedurale.
Conseguenze: si postula l’autonomia del diritto e lo Stato è ridotto al solo ordinamento
giuridico. La critica di C. Schmitt: Kelsen deve separare drasticamente il diritto dalla natura
(intesa anche come "natura dei comportamenti giuridici", ovvero sociologia del diritto),e dalla
morale e dalla politica (cioè dalla valutazione "etica" della norma dal criterio giusto/ingiusto –
28
che apparteine, appunto, all’etica – e dal criterio opportuno/inopportuno – che appartiene alla
valutazione politica).
Lo Stato sociale: esso si prefigura a partire dagli anni trenta del novecento.
- i diritti di cittadinanza sociale: le basi dello Stato sociale keynesiano, così come oggi lo
conosciamo in Europa, sono poste nella Gran Bretagna del 1942, con il rapporto Beveridge, il
quale rappresenterà la base operativa della politica laburista del dopoguerra. Con la vittoria
laburista in Inghilterra e, prima ancora, con il New Deal americano, lo Stato modifica il suo
assetto, perché oltre alle funzioni “tradizionali” di intervento dello Stato nell’economia, si
aggiungono altri compiti determinanti – e connessi fra loro – come il controllo del ciclo
economico e delle crisi ed il controllo del consenso popolare.
Il controllo del ciclo economico consiste nello stabilizzare con opportune misure di politica
economica e finanziaria l’andamento ciclico dello sviluppo capitalistico: il ruolo dello Stato,
secondo Keynes, consiste nell’accumulare risorse durante le fasi espansive (tramite la leva
fiscale), al fine di sostenere la spesa aggregata (cioè il potere d’acquisto della popolazione)
nelle fasi di recessione. La crisi del ’29 dimostra che il il mercato è incapace di autoregolarsi e
Roosvelt vara una serie di misure d’intervento statali.
Strettamente connesso alla questione di controllo dei cicli economici risulta il problema del
controllo del consenso popolare: in società come quelle occidentali, alle classi dirigenti si pone
la questione di gestire il consenso di masse molto numerose, nei confronti del sistema
economico e politico. Le masse, dopo il terribile accadimento rappresentato dalla “Grande
guerra”, risultano ormai sradicate rispetto alla loro collocazione tradizionale e facilmente
mobilitabili da parte di elite politiche esterne alla vecchia matrice oligarchico-liberale:
nazionalisti, fascisti, popolari, socialdemocratici, socialisti, sono presenti sulla ribalta politica e
organizzano il proprio seguito di massa.
Come si garantisce questo consenso? Sostanzialmente tramite un nuovo progetto di intervento
politico orientato alla diffusione dei servizi sociali, al perseguimento del “pieno impiego” e al
mantenimento della popolazione “eccedente”. Dunque, mentre lo Stato liberale classico “lascia
fare” – regolando prevalentemente la condotta sulla base di prescrizioni normative – lo Stato
sociale diviene soggetto di azione diretta, partecipa come soggetto fra i soggetti privati, si
impone delle “finalità” sociali da perseguire (Bobbio). L’interventismo dello Stato sociale si può
realizzare prelevando sacche di profitto non redistribuite per alimentare la spesa pubblica (lo
Stato compera beni e servizi da parte dei privati), oppure diventando, lo Stato medesimo,
“imprenditore” e creando nuovi posti di lavoro (è quanto avviene, seppur con modalità diverse,
29
in tutta Europa nella seconda metà del Novecento, sull’esempio di quanto era accaduto negli
Usa di Roosevelt).
A tale proposito è utile ricordare che Zolo rileva una particolarità distintiva dei diritti sociali,
rispetto alle altre fattispecie di diritti: mentre si può affermare che i diritti civili e i diritti
politici, nelle moderne democrazie, almeno formalmente, possono essere difesi da un’autorità
costituita (la Magistratura), sono cioè azionabili in giudizio, i diritti sociali non potrebbero
essere difesi in questo modo; in quanto i diritti civili sono, solitamente, garantiti contro lo Stato
(vengono formulati nel corso dei secoli XVII e XVIII, nella fase di transizione dall’assolutismo
allo Stato liberale) e prevedono, per lo Stato stesso, una prescrizione di non-fare (tanto
nell’originaria accezione lockiana della tutela dei diritti alla vita, alla libertà e alla proprietà,
quanto nelle più recenti formulazioni dei diritti all’integrità fisica o alla privacy), mentre i diritti
sociali sono intesi come garantiti dallo Stato e prevedono, per il medesimo, una prescrizione di
fare. I diritti sociali, cioè, contengono delle richieste di prestazione che dipendono dall’attività
statale e sono legate, al contempo, da congiunture economiche il cui andamento esula dalla
“buona volontà” dei governanti e dei governati di un singolo paese.
- il compromesso keynesiano e lo Stato fordista: il compromesso keynesiano, legato al
modello di produzione di massa fordista, sostituisce, nel Novecento, l’ideologia liberista del
mercato autoregolantesi tipica dell’Ottocento. Il modello socio-economico fordista-keynesiano
condiziona anche la politica: nel corso del Novecento, lo spazio politico dei paesi europei si
struttura sui partiti di massa, espressioni del movimento operaio socialista e cattolico; il
compromesso fra le classi non si realizza soltanto all’interno della fabbrica, ma anche nel
parlamento.
Il sistema fordista-taylorista consente il compromesso sociale, a patto che vi sia abbondanza di
ricchezza prodotta da redistribuire tendenzialmente "per tutti" (ciò determina, come si è
sottolineato in
precedenza,
l’incremento
continuo
della
produzione
e
la
conseguente
alimentazione del mito della "crescita illimitata"), innescando un "circolo virtuoso": l’aumento
della produttività comporta degli aumenti salariali, quindi l’incremento della spinta al consumo
e, perciò, l’aumento del prelievo fiscale da parte dell’erario.
Inoltre, il modello si basa sulla "stabilità" sociale e sulla stabilità politica: se i lavoratori non
accettano la disciplina – tayloristica – di fabbrica, se i sindacati interferiscono nelle attività
produttive, il verificarsi di economie di scala è messo a rischio.
Le conseguenze culturali per gli attori sociali sono molto importanti: la classe operaia nasce
come soggetto politico antagonista rispetto al capitale ma, quando il compromesso fordistakeynesiano si rivela funzionale, accetta lo scambio: rinuncia all’antagonismo (e alle velleità
rivoluzionarie), in cambio della legittimazione delle proprie rappresentanze (parlamentari e
sindacali) e di incrementi salariali e politiche redistributive.
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- i limiti dello sviluppo e i movimenti di protesta: durante i movimenti del ’68 a condurre
la protesta sono i "beneficiari" dello sviluppo e ciò diviene un elemento fondamentale per
l’analisi di queso fenomeno. La contestazione riguarda: gli autoritarismi vecchi ma anche
nuove
forme
di
costrizione
legate
alle
componenti
autoritarie
del
taylorismo
e
all’organizzazione del lavoro industriale, cercando di far emergere tematiche post-materialiste,
fino ad allora marginalizzate sia dalla destra che dalla sinistra, come la tutela dell’ambiente, la
qualità della vita, l’identità e la libertà sessuale, la riappropriazione del proprio corpo. Inoltre
difficili sono i rapporti tra queste forme di protesta e i partiti della sinistra.
Il mito dello sviluppo infinito si incrina nel 1973, in seguito al primo shock petrolifero, che
colpisce particolarmente lo sviluppo fordista legato all’industria dell’automobile. Lo shock del
’73 si ripete nel 1977 incrinando anche il mito dell’esportabilità dello sviluppo fordista nel
mondo. Le prima analisi di queste crisi rappresentano la base ideologica delle classi politiche
successive (sin da Tatcher e Reagan): la crisi dello sviluppo è imputabile allo Stato sociale, ma
non si tratta solo di apporre dei correttivi economici, anche l’eccessiva partecipazione
rivendicata in particolare dalle generazioni più giovani è responsabile di un "sovraccarico" del
sistema. Ne consegue un mutamento degli obiettivi dell’agenda politica: alla riduzione della
spesa sociale si deve accompagnare il ripristino di "legge" e "ordine".
Un "semplice" ritorno allo Stato liberale, nella seconda metà del Novecento, appare impossibile
perché, nel corso dei decenni, la società ha subìto dei mutamenti sostanziali.
Sostanzialmente, nel corso del XX secolo, la società si burocratizza ed esercita (attraverso
l’attività di queste organizzazioni burocratiche) un grande potere di condizionamento nei
confronti dello Stato. Nella società industriale avanzata, però, gli interessi (ed anche le
opinioni) sono sempre più organizzati, attraverso l’attività continua ed istituzionalizzata di
gruppi d’interesse e gruppi di pressione, cioè, come ci ricorda Michels, vengono interpretati da
élite che non sempre (o molto raramente) mantengono un reale contatto con la propria base.
Sulla ribalta, oltre ai partiti politici, vi sono, sempre, le organizzazioni imprenditoriali e i
sindacati, ossia interessi organizzati politicamente rilevanti, che costituiscono la struttura dello
Stato "neocorporato". Quando si parla di Stato "neocorporato", con riferimento alle esperienze
democratiche contemporanee, ci si riferisce ad una condizione che non si traduce in ostilità al
parlamento e alla democrazia e che definiamo corporativismo liberale. Esso rappresenta una
prassi politica di governo consolidata con protagonisti i grandi gruppi d’interesse e gli interessi
organizzati al fine di produrre un’economia "concertata" e controllata. La finalità del
"neocorporativismo" (o corporativismo "liberale") è la riduzione del conflitto: una maggior
"pace sociale" comporta l’aumento del reddito nazionale e, quindi, una maggiore solidità dello
Stato.
- cause della crisi dello Stato sociale:
cause esogene: alcuni analisti individuano l’origine della crisi del welfare in fattori esogeni,
come l’inflazione internazionale legata alla guerra del Vietnam e l’incremento costante, sin
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dalla presidenza Kennedy, delle spese militari americane: essendo il dollaro la moneta di
riferimento del commercio mondiale, gli USA hanno potuto "scaricare" l’inflazione sugli altri
paesi (hanno, cioè, "esportato" inflazione), oppure gli shock petroliferi del ’73 e del ’77 che
hanno profondamente turbato le economie del "Primo mondo". Oggi, appare plausibile anche
un’altra ragione di crisi dello Stato sociale, legata alla fine del "socialismo reale": se il
compromesso keynesiano è la risposta dell’Occidente capitalistico alla sfida dell’Ottobre
sovietico in termini di prestazioni dello Stato a favore dei cittadini (politiche sociali), con la
caduta del Muro di Berlino e la fine di quell’esperienza, viene meno l’esigenza di competere su
quel terreno.
cause endogene: altri analisti evidenziano i fattori endogeni della crisi: per alcuni teorici
(Habermas, Offe, Ruffolo), la fine dei "Trent’anni gloriosi", ossia la crisi dello Stato sociale, è
essenzialmente legata a una crisi di natura fiscale (O’Connor 1973). Il costo delle prestazioni
sociali erogate dallo Stato diviene talmente elevato da determinare una pressione molto
rilevante sui settori produttivi più dinamici, tanto da erodere le basi di consenso dell’intero
sistema.
Secondo alcuni autori, il compromesso istituito dal welfare state keynesiano non reggerebbe
più, perché lo sviluppo economico e la diffusione di un maggiore benessere materiale hanno
comportato la trasformazione da una società costituita in maggioranza da classi popolari, ad
una società avente una struttura romboidale, in cui il peso della middle class (una vastissima
ed eterogenea area che si frappone alla ristretta elite alto-borghese ed a una frammentata
working class) diviene (socialmente ed elettoralmente) preponderante.
In realtà, tale spiegazione convince solo parzialmente, in quanto la crescita dei ceti medi è solo
in parte attribuibile al mercato, ed in buona percentuale è dovuta proprio anche alle politiche
redistributive dello Stato sociale.
Paradossalmente il successo dello Stato sociale è una delle cause della sua crisi: proprio
perché esso si è imposto ed ha funzionato, tale riuscita ha posto le premesse della sua crisi.
Sono particolarmente degni di considerazione anche gli effetti che scaturiscono da due
"pilastri" dell’azione politica keynesiana, come il tendenziale perseguimento del pieno impiego
e la riduzione dell’insicurezza sociale: il pieno impiego rafforza il potere contrattuale dei
lavoratori, mentre la riduzione dell’insicurezza sociale (tramite la previdenza, le assicurazioni,
la sanità pubblica) affievolisce lo stimolo a ricercare il lavoro, la volontà di accettare le
mansioni meno qualificate e la stessa capacità lavorativa (si pensi ai regimi socialisti
dell’Europa orientale, la cui caratteristica primaria era la garanzia dei servizi sociali essenziali
nella sostanziale assenza di competizione e la cui caratteristica derivata consisteva, infatti, in
una bassissima produttività). Secondo l’approccio degli "effetti perversi", la combinazione di
questi due elementi produce l’incremento delle richieste dei lavoratori (anche, ma non solo, a
livello salariale), mentre le dinamiche dell’economia globale evidenziano contesti sociali, in
altre zone geopolitiche, in cui l’assenza di protezioni sindacali mantiene il costo del lavoro a
livelli incomparabilmente inferiori rispetto all’Occidente.
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Gli strumenti d’intervento del welfare sul ciclo economico producono effetti perversi per ragioni
endogene e strettamente politiche: in particolare l’utilizzo della spesa pubblica in funzione
anticiclica. Nella fase di espansione dell’economia ("surriscaldamento"), lo Stato "raffredda" il
sistema tramite il ricorso alla leva fiscale, mentre nelle fasi di "stagnazione" l’attore pubblico
deve intervenire tramite l’utilizzo della spesa pubblica per favorire la domanda aggregata:
s’incrementano i salari o si aumenta il numero dei dipendenti pubblici. Quando, però, gli
indicatori segnalano il passaggio dalla stagnazione al surriscaldamento del sistema economico,
lo Stato dovrebbe smettere questo tipo d’intervento per evitare l’implosione del sistema.
Ma la classe politica, in un sistema democratico, è vincolata al consenso dei cittadini e, quindi,
è indotta a predisporre aumenti della spesa pubblica – in particolare durante i periodi della
campagna elettorale – ed è molto meno propensa a ridurre drasticamente le spese.
L’attuale ridiscussione degli assetti politici e sociali comporta che non si discuta più solo della
qualità dei servizi, ma anche delle modalità di accesso alle singole prestazioni: l’accesso ai
servizi, in particolare a quelli sanitari, rappresenta un problema di grande salienza in tutti i
paesi occidentali.
- dallo Stato gestore allo Stato regolatore: riassumendo -> i tratti distintivi dello stato
sociale keynesiano sono l’intervento pubblico nell’economia mediante l’utilizzo sistematico della
leva fiscale, i trasferimenti di risorse e la produzione di servizi e beni meritori (cioè di quei beni
dei quali lo Stato impone l’utilizzo ai cittadini, come l’istruzione elementare o le abitazioni a
prezzo politico per i ceti meno abbienti). Negli anni 70 questo tipo di stato ha vissuto una
profonda crisi in cui viene rimesso in discussione il ruolo dello Stato come gestore diretto
dell’economia, con riferimento particolare all’inefficiente gestione delle imprese pubbliche
(mancanza di trasparenza, eccessiva interferenza di interessi politici e sindacali nella gestione
di tali imprese). Tuttavia, le critiche neo-conservatrice non sono le uniche sollevate nei
confronti dello Stato interventista: emergono considerazioni di carattere più generale
riguardanti la difficoltà, da parte dello Stato gestore, di fronteggiare le crescenti sfide della
complessità: la globalizzazione dell’economia e delle comunicazioni, l’integrazione europea,
l’emergere dei bisogni post-materiali (Inglehart). A ciò si attribuiscono cause endogene: lo
Stato sociale, riuscendo ad elevare la condizione complessiva dell’uomo occidentale, ha creato,
le premesse perché si articolassero nuovi bisogni: rivendicazione delle differenze (a cominciare
da quelle di genere), di nuove autonomie, di nuove modalità di relazione sociale. Ma si
attribuiscono anche cause esogene: i fattori che rendono sempre più difficoltoso il ruolo di
gestore diretto da parte dello Stato (in primo luogo la globalizzazione dell’economia e della
finanza, che sottrae alla leva fiscale il potere di tassare ricchezze molto ingenti, rendendo
sempre più difficoltoso finanziare la vasta gamma di prestazioni sociali garantite dal Welfare),
è possibile comprendere la rilevanza dei mutamenti in atto.
33
Alcuni studiosi propongono un approccio diverso e parlano dello Stato come ente regolatore: è
la lettura proposta da La Spina e Majone, movendo dalla premessa che "l’attuale crisi delle
politiche di gestione diretta nell’Europa occidentale è meno un problema di efficienza
produttiva, e si atteggia piuttosto come crisi di una particolare modalità di regolazione
dell’economia". Si tratta di una posizione che cerca di "salvare" i valori sottostanti alle politiche
interventiste del Welfare, spostando l’attenzione dalle istituzioni ai mezzi che esse utilizzano
per governare. In altri termini, se lo Stato gestore non pare più in grado di assolvere alle
funzioni per le quali era stato progettato, ciò non dovrebbe significare, meccanicamente, la
negazione della validità dell’intervento pubblico come garante delle politiche orientate a
garantire (o, quanto meno, a promuovere) la coesione sociale e, conseguentemente, la
sicurezza dei cittadini. In tale prospettiva, lo Stato regolatore riduce (talvolta in modo drastico)
la propria area di intervento diretto, per porsi come garante delle interazioni fra i soggetti
componenti la società civile, cui viene riconosciuta, pertanto, la capacità di aggregazione ed
organizzazione autonoma oltre alla capacità di produrre autonomamente risorse integrative in
grado di ricadere potenzialmente sull’intero corpo sociale. In questa ottica, lo Stato sociale
viene ripensato sulla base della rinuncia, da parte dell’istituzione statale, all’erogazione diretta
di beni e servizi, almeno parzialmente bilanciato dall’acquisizione, da parte delle istituzioni
pubbliche in senso ampio (non solo dallo Stato, quindi, ma anche dagli altri enti, come i
Comuni, secondo la logica della multilevel governance) del ruolo di coordinamento del sistema.
Verso la costruzione di uno spazio politico europeo: le esperienze, ancora embrionali,
relative alla costruzione, anche politica, dell’Unione Europea ed al protagonismo politico delle
realtà transnazionali
mostrando la non esclusività della stessa forma-Stato,
rendono
ipotizzabile che il mutamento delle strutture produttive, delle tecnologie informatiche, delle
modalità di trasporto e comunicazione, non rechi con sé, come proprio destino immanente ed
ineluttabile, l’affermazione definitiva di un mercato globale e “senza regole”, ma possa
consentire la realizzazione (o, almeno, la progettazione) di nuove forme di ricomposizione del
conflitto politico (di nuove istituzioni politiche), forse di tipo glocale. In fondo, sia l’UE (a livello
sovrastatale) che i distretti industriali (a livello infrastatuale) sono realtà (politiche e sociali)
che sortiscono effetti sull’attività dei mercati, ma non sono prodotte dai mercati.
Secondo alcuni autori, lo stesso sviluppo del mercato necessita dell’affermazione di un certo
tipo di relazioni sociali, basato sulla fiducia. Il mercato, quindi, necessiterebbe, per il proprio
funzionamento di un livello minimo di trasparenza e di fiducia, un aspetto che dovrebbe
convincere, nel lungo periodo, anche gli analisti più “cinici” a porsi il problema del contrasto dei
gruppi criminali transnazionali e del riciclaggio del cosiddetto “denaro sporco”. Inoltre
le società occidentali hanno cercato di edificare nuove istituzioni in cui ricreare forme di
protezione, di mediazione e di garanzia della solidarietà e della fiducia nei rapporti sociali.
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La crisi del welfare, pertanto, ripropone, drammaticamente, la tematica della coesione sociale,
confermando la convinzione che le incerte sorti dello Stato-nazione ed il faticoso, necessario,
confronto riguardante le istituzioni politiche destinate, eventualmente, a succedergli, non
potranno prescindere dalla questione della tutela del legame sociale, probabilmente la
questione più rilevante del nuovo secolo.
È opinione molto diffusa, nella politologia contemporanea, che tali questioni debbano essere
affrontate contemporaneamente a livello locale e ad un livello che sia sufficientemente ampio
da consentire la coordinazione delle forme di regolazione locali e di condizionare, per quanto
possibile, le dinamiche dell’economia globale. Per tali motivi, sia la politologia che la filosofia
politica prestano grande attenzione ai processi contemporanei che riguardano la costruzione
dell’Europa politica, ossia a quell’esperienza molto complessa e controversa che sta
radicalmente modificando la tradizionale concezione dell’ordine politico basato sugli Stati
nazionali sovrani.
Un primo problema riguarda, pertanto, l’elaborazione di strategie che consentano di
combattere l’etnocentrismo in tutte le sue forme. Infatti il particolarismo è una conseguenza
diretta di ciò che Bauman definisce l’economia politica dell’incertezza; se l’Europa vuole
garantirsi una consistenza politica e fronteggiare le spinte particolaristiche che si oppongono a
tale progetto, deve partire dall’elaborazione di una concezione della cittadinanza che consideri
anche il problema della sicurezza nei suoi vari aspetti. Per realizzare un sistema politico
europeo è necessario, pertanto, che vengano considerati anche i vincoli metacontrattuali che
«consentono ad un sistema politico di funzionare anche in presenza di non-convenienze per
singoli membri o attori».
Si ripropone, pertanto, il problema dell’esistenza di un demos europeo: l’identità comune degli
europei non può basarsi sulla ricerca di un ethnos. Il demos indica, invece, un’identità
alternativa all’etnicità, costituita da un soggetto politico che sceglie di “stare insieme” sulla
base di un progetto comune, di una mobilitazione condivisa. Guardare alla costruzione politica
dell’UE, nell’era della crisi dello Stato significa, per la riflessione politica contemporanea,
sviluppare le implicazioni della fine del paradigma uniformante hobbesiano ed esplorare nuove
possibilità di costruzione dell’ordine politico che possono apparire, di primo acchito,
paradossali, «possiamo, per ora, tenerci al dato di fatto che la Repubblica europea può
presentarsi una nei principi e nei valori democratici di fondo e plurale nella loro articolazione
istituzionale».
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