Parole contemporanee modulo 13 TU 2008
democrazia: un sistema non garantito
lezione 6
Democrazia un sistema non garantito
1. democrazia - sistema non garantito: alcune segnalazioni preventive e in
corso d’opera nella storia del pensiero filosofico e politico
1.1 segnali classici (non omogenei) di allarme e di analisi
1.1.1. il pericolo nella degenerazione interna; la deriva ciclica: timocrazia – oligarchia –
democrazia – tirannia. Nell’opera Politeia (Repubblica) Platone costruisce le linee di una Stato
ideale sede di giustizia; ma prende anche in analisi le forme (le costituzioni) storiche che
caratterizzano gli stati esistenti; ne individua quattro, ne studia la natura e coglie la dinamica del
loro divenire interno in forma ciclica.
« — Anche io, fece egli, desidero udire quali siano le quattro costituzioni che tu dicevi. — Non ti
sarà difficile udirlo, dissi: sono infatti, queste che io dico e che hanno lor propri nomi, anzitutto
quella lodata dai più, la cretese e questa laconica [poi chiamata timocrazia; la costituzione
ambiziosa di onori]; e una seconda, e in secondo luogo lodata, e chiamata oligarchia, costituzione
piena di molti mali; poi la democrazia, da quella differente e a lei in ordine seguente, e infine la
tirannide bella e buona, che supera tutte, queste altre, quarto ed estremo malanno di una città.
(Platone, Repubblica, 544 bc)»
1.1.1.1. il particolare passaggio: perché e quando lo stato democratico tende a degenerare nella
forma della tirannia: « — Su dunque, amico caro, qual è il carattere della tirannide? Che infatti essa
trapassi a tale dalla democrazia, possiam dirlo evidente. — Evidente. E non sorgon forse a un
dipresso allo stesso modo dall’oligarchia la democrazia, e dalla democrazia la tirannide? — Come?
[…] — Ora anche quel bene che pone a sé come termine la democrazia, non sarà l’insaziabilità di
questo a dissolvere anche lei? — Cos’è che dici essa si pone qual termine? — La libertà, feci.
Questo infatti potrai udire in una città retta a democrazia che è il massimo bene che essa abbia, e
che per questo in essa soltanto valga la pena di vivere a chi sia libero per natura. — Si dice infatti,
disse, e molto, questa sentenza. — Or dunque, ciò che io stavo per domandare, non sarà
l’insaziabilità di questo e l’incuranza degli altri beni a mutare questa costituzione, e a far sì che
abbia bisogno della tirannide? (Platone, Repubblica 562 abc)
1.1.1.2. quale strategia facilita e determina il passaggio dalla democrazia alla demagogia e quindi
alla tirannia. « — Che ciascuno di quei privati che si fanno pagare, e che costoro chiaman sofisti e
considerano rivali nell’arte, niun’altra educazione impartiscono che non siano appunto queste
opinioni del volgo, da esso espresse quando si raduna, e questa chiamano sapienza: come sarebbe di
uno che apprendesse gli umori e gli appetiti di una bestia cresciuta grande e gagliarda, come bisogni
accostarlesi e come toccarla, e quando sia più intrattabile o più mansa e perché, e le singole voci che
via via ha l’abitudine di emettere, e quali sian quelle, in bocca a un altro, per cui essa si ammansisce
o si infuria; e avendo appreso tutto ciò col viverci insieme e col passar del tempo, lo chiamasse
sapienza, e sistematolo come in una arte si volgesse a insegnarla, senza nulla sapere in verità cosa
sia bello o brutto, buono o cattivo, giusto o ingiusto di tali opinioni e desideri, ma solo applicando
tutti questi nomi alle opinioni della grande bestia, chiamando buone le cose di cui quella si diletta,
cattive quelle per cui si arrabbia, né avendo altra ragione alcuna da dare su di esse, ma chiamando
giuste e belle le cose necessarie, senza aver mai egli veduto né essendo in grado di mostrare ad altri
di quanto in realtà le nature del necessario e del buono differiscan tra loro. Un tipo simile, per Zeus,
non ti par egli sia un ben curioso educatore? — A me certo!, disse.» (Platone, Repubblica 493 abc)
1.1.2. democrazia, positivo contesto di opportunità
1.1.2.1. è il sistema di cui una società intera dispone (se non lo spreca) per scegliere di essere
governata dai migliori. «C’è chi la chiama democrazia, c’è chi la chiama con il nome che più gli
piace; in realtà è un’aristocrazia con l’approvazione della massa» (Platone, Menesseno 238 cd)
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1.1.2.2. ambivalenza del “demos”: dipendente e refrattario (meno subalterno di quanto dia a
vedere). Nella Commedia I Cavalieri, di Aristofane, il coro si rivolge al Demo e gli rinfaccia: «Tu
ascolti sempre gli oratori a bocca aperta; anche se sei presente, il tuo spirito è assente» e il Demo
risponde: «È a bella posta che faccio l’idiota.» Edoardo Ruffini, coetaneo e amico di Gobetti, uno
dei pochi professori universitari (12 su 1213) che non giurarono fedeltà al fascismo, commenta: «il
dilemma è tutto qui». Il punto più disperante per i riformatori sociali, ivi compresi i più drastici di
tutti, cioè i rivoluzionari, è infatti la non riducibilità della concreta realtà umana alle loro analisi, e
la conseguente refrattarietà, quando più quando meno accentuata, dei concreti soggetti rispetto agli
“esperimenti” tentati sulla loro pelle. (Canfora Luciano 2002 Critica della retorica democratica,
Laterza, Roma-Bari, p.13, 85)
1.2 segnali moderni, in corso d’opera, di allarme e di analisi
1.2.1. Uno stacco dalla tradizione antica: distingui tra libertà degli antichi e libertà dei moderni:
Benjamin Constant
«Signori, io mi propongo di farvi notare alcune distinzioni, ancora piuttosto nuove, tra due generi di
libertà, le cui differenze sono rimaste finora inavvertite, o per lo meno troppo poco considerate.
L’una è la libertà il cui esercizio era così caro ai popoli antichi; l’altra, quella il cui godimento è
particolarmente prezioso alle nazioni moderne. […] Cominciate col domandarvi, Signori, che cosa
intendono ai giorni nostri un Inglese, un Francese, un abitante degli Stati Uniti d’America, col nome
di libertà. È per ciascuno il diritto di non essere sottomesso ad altro che alle leggi, di non poter
essere né arrestato né detenuto né messo a morte né maltrattato in alcun modo per effetto della
volontà arbitraria di uno o di più individui. È per ciascuno il diritto di esprimere la propria opinione,
di scegliersi la propria attività e di esercitarla; di disporre della proprietà privata, e di abusarne
anche; di andare e venire senza ottenerne il permesso, e senza render conto dei propri motivi e dei
propri passi. È per ciascuno il diritto di riunirsi ad altri individui, sia per conferire sui propri
interessi, sia per professare il culto preferito da lui e dai suoi consociati, sia semplicemente per
riempire i suoi giorni e le sue ore nel modo più conforme alle sue inclinazioni, al suo capriccio.
Finalmente, è il diritto, per ciascuno, di influire sulla amministrazione del governo, sia mediante la
nomina di tutti i funzionari - o di determinati funzionari sia mediante comunicazioni, petizioni,
interrogazioni, di cui l’autorità sia più o meno obbligata a tener conto. Confrontate ora con questa
libertà quella degli antichi. Quest’ultima consisteva nell’esercitare collettivamente ma direttamente
varie parti della sovranità tutt’intera, nel deliberare, sulla piazza pubblica, della guerra e della pace,
nel concludere trattati d’alleanza con gli stranieri, nel votare le leggi, nel pronunciare i giudizi,
nell’esaminare i conti, gli atti, la gestione dei magistrati, nel farli comparire davanti a tutto il
popolo, nel metterli in istato di accusa, condannarli o assolverli; ma mentre questo era ciò che gli
antichi chiamavano libertà, essi ammettevano come compatibile con questa libertà collettiva
l’assoggettamento completo dell’individuo all’autorità del tutto sociale. Non troverete presso di loro
quasi alcuno di quei godimenti che abbiamo visti far parte della libertà presso i moderni. Tutte le
azioni private sono sottomesse a una sorveglianza severa. Nessun margine si lascia all’indipendenza
individuale, né sotto il rapporto delle opinioni, né sotto quello dell’attività, né - specialmente - sotto
quello della religione. La facoltà di scegliere il proprio culto, facoltà che noi consideriamo come
uno dei più preziosi nostri diritti, sarebbe parsa agli antichi un delitto e un sacrilegio. Nelle cose che
a noi sembrano le più futili l’autorità del corpo sociale s’immischia e comprime la volontà
individuale. […]
Da quanto ho esposto risulta che noi non possiamo più godere della libertà degli antichi, che
consisteva nella partecipazione attiva e costante al potere collettivo. La libertà, per noi, deve
consistere nel godimento pacifico dell’indipendenza privata. Nell’antichità la parte che prendeva
ciascuno alla sovranità nazionale non era come al nostro tempo una vana astrazione. La volontà di
ciascuno aveva un’influenza reale; l’esercizio di tale volontà era un piacere vivo e rinnovantesi. Di
conseguenza, gli antichi erano disposti a fare molti sacrifici per conservare i loro diritti politici e la
loro partecipazione all’amministrazione dello stato. Ciascuno, sentendo con orgoglio tutto quel che
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valeva il suo volo, trovava, in questa coscienza della sua importanza personale, il più ampio
compenso.
Questo compenso non esiste più oggi per noi. Perduto nella moltitudine, l’individuo non vede quasi
mai l’influenza che esercita. Mai la sua volontà non s’impone alla massa; niente fa risaltare l’opera
sua agli occhi suoi propri. L’esercizio dei diritti politici non ci offre dunque più che una briciola
delle soddisfazioni che vi trovavano gli antichi, e in pari tempo i progressi della civiltà, la tendenza
mercantile dei tempi, i frequenti rapporti fra i popoli, hanno moltiplicato e variato all’infinito i
mezzi della privata felicità.
Ne segue che noi dobbiamo essere molto più attaccati degli antichi alla nostra indipendenza
individuale. Giacchè gli antichi, quando sacrificavano questa indipendenza ai diritti politici,
sacrificavano il meno per ottenere il più; ma noi, facendo il medesimo sacrificio, rinunceremmo al
più per avere il meno.
Era fine degli antichi la partecipazione al potere sociale per tutti i cittadini della medesima patria:
questo essi chiamavano libertà. È fine dei moderni la sicurezza nel loro privato piacere: e chiamano
libertà le garanzie accordate dalle istituzioni a questo piacere. […] La libertà individuale, ripeto,
ecco la vera libertà moderna. La libertà politica ne è la garanzia; la libertà politica è quindi
indispensabile. Ma chiedere ai popoli d’oggi di sacrificare, come quelli d’un tempo, l’intera libertà
individuale alla libertà politica è il mezzo più sicuro di disamorarli dell’una; e giunti a questo non si
tarderebbe poi a rapir loro anche l’altra. […] Il pericolo della libertà antica era che attenti
unicamente ad assicurarsi la partecipazione al potere sociale gli uomini si rassegnassero facilmente
a lasciar andare i diritti e i godimenti individuali.
Il pericolo della libertà moderna è che assorbiti nel godimento della nostra indipendenza privata e
affaccendati pei nostri interessi particolari si rinunzi troppo facilmente al diritto di partecipare al
potere politico. […] Lungi, dunque, dal rinunciare ad una delle due specie di libertà delle quali vi
ho parlato, bisogna, come ho dimostrato, apprendere a combinarle l’una con l’altra.» 82
Constant Benjamin 1819 Discorso sulla libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni,
Canova, Treviso 1966
1.2.1.1. riletture: portata politica della tradizione liberale nella costruzione della teoria moderna
della sovranità e del suo controllo. (M. Foucault)
- Il principio della frugalità “A virtuous and laborious people could always be ‘cheaply gouverned’
in a republican system” (B. Franklin). Arte di governare che lega la propria organizzazione e
efficacia non alla crescita indefinita dello stato in termini di forza, ricchezza, potenza, ma
scegliendo piuttosto il minimo che il massimo.
- Il principio regolatore del “governo frugale” deriva dalla comparsa di un nuovo luogo di
formazione di verità (veridizione): il mercato; rispettato nel proprio naturale, ideale andamento
diventa luogo di definizione del prezzo naturale (Smith, “buon prezzo” Fisiocratici) e di prima
giustizia distributiva.
1.2.2. l’indicazione di una pericolosa possibile frattura (anche nella distinzione di B. Constant): il
difficile abbinamento di libertà privata e interesse civile nel regime democratico: A. de Tocqueville
«A coloro che si son costruito un regime democratico ideale sogno brillante che credono di poter
realizzare agevolmente, ho voluto dimostrare che avevano ornato il quadro di falsi colori, poiché il
governo da loro preconizzato se procura beni reali agli uomini che possono sopportarlo, non ha
affatto i tratti seducenti di cui la loro immaginazione l’adorna. Ed ho voluto dimostrare, altresì, che
questo governo non può sostenersi che in certe condizioni di diffusione dell’istruzione, di
consolidata moralità privata, di viva fede: tutte cose che noi non abbiamo affatto, e che bisogna
procurar di ottenere prima di pensare alle conseguenze politiche. […] Nella vita di ogni popolo
democratico c’è un passaggio assai pericoloso, quando il gusto per il benessere materiale si sviluppa
più rapidamente dell’abitudine alla libertà. Arriva un momento in cui gli uomini non riescono più a
cogliere lo stretto legame che unisce il benessere di ciascuno alla prosperità di tutti. Una nazione
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che chieda al suo governo il solo mantenimento dell’ordine è già schiava in fondo al cuore e da un
momento all’alto può presentarsi l’uomo destinato ad asservirla. Non è raro vedere pochi uomini
che parlano in nome di una folla assente o distratta e che agiscono in mezzo all’universale
immobilità cambiando le leggi e tiranneggiando a loro piacimento sui costumi. Non si può fare a
meno di rimanere stupefatti di vedere in quali mani indegne possa cadere anche un grande popolo.
[…] Quando provo ad immaginare in quale sembiante il dispotismo apparirà nel mondo, vedo una
folla immensa di uomini, tutti simili ed uguali che girano senza posa su se stessi per procurarsi
piaceri minuti e volgari di cui nutrono la loro anima. Ognuno di essi, considerato a sé, è come
estraneo al destino di tutti gli altri: i figli e gli amici più vicini esauriscono per lui 1’intera razza
umana, e quanto al resto dei suoi concittadini egli è loro accanto ma non li vede, li tocca ma non li
sente. L’uomo vive solo in se stesso e per se stesso: e se è vero che gli resta ancora una famiglia, è,
altresì, vero che non ha più patria. Al di sopra di tutti questi si leva un potere immenso e
provvidenziale, che si preoccupa da solo di garantire i loro piaceri e che veglia sulla loro sorte: un
potere assoluto, insinuante, regolatore, preveggente e tollerabile. Se esso si proponesse il compito di
preparare gli uomini all’età virile, potrebbe rassomigliare alla potestà paterna; ma, al contrario,
cerca di fissarli irrevocabilmente all’infanzia e preferisce che i cittadini godano, purchè non pensino
ad altro. […] Ecco un concetto che non sarà mai ripetuto abbastanza: nulla è più fecondo di
meravigliosi risultati dell’arte di essere liberi; ma nulla è più difficile dell’imparare ad essere liberi.
Altrettanto non può dirsi del dispotismo: questo si presenta spesso come il sostegno del buon diritto,
l’ausilio degli oppressi, il fondatore dell’ordine, insomma, come la forza riparatrice di tutti i mali
sofferti. I popoli s’addormentano nella transitoria prosperità che esso fa nascere, e al momento del
risveglio si ritrovan miserabili; la libertà, invece, nasce tra le tempeste, si consolida penosamente tra
le discordie civili e solo quando essa è già antica si apprezzano i suoi benefici. […] … negli Stati
Uniti ognuno ha un interesse a che tutti obbediscano alle leggi, poiché chi oggi non fa parte della
maggioranza potrebbe farne parte domani, e potrebbe, quindi, trovarsi in condizione di esigere dagli
altri il rispetto che manifesta per le volontà del legislatore. Perciò, il cittadino americano si
sottomette alla legge, per spiacevole che sia, non solo come al volere del maggior numero, ma
anche come al suo proprio e la considera alla stregua di un contratto nel quale è parte. Neg1i Stati
Uniti non v’è, pertanto, quella numerosa e turbolenta folla che, guardando alla legge come ad un
nemico, l’ha in sospetto e la teme; ed è, anzi, impossibile non avvedersi del fatto che tutte le classi
mostrano una grande fiducia nella legislazione del paese e nutrono per essa una sorta di affetto
paterno... »
Tocqueville Alexis de, 1835 La democrazia in America, in Antologia degli scritti politici., (a cura di
V. De Caprariis), il Mulino, Bologna 1961
2. il fondamento: la sovranità e la sua sede
L’età moderna (dal punto di vista politico-sociale) inizia con il concetto di sovranità e con
l’affermazione che la sovranità risiede nel popolo (o la tesi “della sovranità popolare”, la
democrazia). La riflessione sulla democrazia, nelle moderne teorie politiche (sia di origine empirica
che razionalistica), ruota quindi attorno al concetto di sovranità e agli aspetti che la caratterizzano
quando si colloca in una concreta e fisica sede storica. La storia politica registra un trasferimento di
sede materiale della sovranità (Dio, Impero, Chiesa, Monarchia…), solo nella democrazia, che
afferma la sovranità popolare, essa si presenta nei suoi due caratteri fondamentali: come principio
immanente (cioè non derivato ma proprio), come principio trascendente (trascende la sede empirica
e storica, materiale, in cui la sovranità è collocata come esercizio, e risiede per definizione nella sua
realtà giuridica; è quindi meglio indicarla come principio trascendentale).
2.1. l’immanenza: la sovranità risiede nel popolo in modo originario e non derivato (non vi è
autorità esterna che trasferisca) è perciò inalienabile, costituisce l’essenza politica del popolo. In
modo radicale Rousseau che su questo principio disegna l’ideale di una democrazia diretta: «Nel
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momento in cui il popolo è legittimamente riunito in corpo sovrano, cessa ogni giurisdizione del
governo, il potere esecutivo è sospeso, e la persona dell’ultimo cittadino è tanto sacra e inviolabile
quanto quella del primo magistrato, perché dove si trova il rappresentato non vi sono più
rappresentanti.» (Contratto sociale) Sono note le sue simpatie per la democrazia diretta che, senza
deleghe, rispetta la sovranità autonoma e immanente del popolo [ma nel rispetto della distinzione
tra “volontà generale” e “volontà di tutti”]
2.1.1. dalla natura immanente della sovranità e dalla sua inalienabilità deriva che il politico,
delegato, è servizio e non potere (Lutero), governa e amministra per delega ma non è sovrano
(Rousseau)
2.2. la trascendenza (la distanza): né l’istituzione politica empirica storicamente esistente, né la
persona fisica (il popolo o le dinastie reali) che momentaneamente esercitano la sovranità possono
considerarla empiricamente propria, perciò con riferimento ad esse è trascendente; tuttavia è
immanente con riferimento alla persona giuridica (non fisica) del sovrano (re o popolo), perciò, è
immanente ma in senso trascendentale: spetta per costituzione alla persona giuridica, ne è l’essenza
politica. Immanenza e trascendenza sono aspetti posti a garanzia dell’autonomia della sovranità (del
suo carattere non derivato) e della sua continuità. La trascendenza del potere (sia la sua lontananza
dal sociale, sia la rivendicazione di una origine divina) si trasforma, nell’età moderna, in esercizio
trascendentale dell’autorità. Il tema della “trascendenza – immanente” della sovranità è consegnato
a una lunga tradizione e a molte tesi.
2.2.1. la tesi antica dei “due corpi del re”: in analogia con la dottrina cristologia della Chiesa di
Roma (Cristo: due nature, divina e umana, in un’unica persona) la sovranità non risiede nella natura
fisica del re (la sua persona fisica) ma nella sua natura giuridica (la persona giuridica); non in
questo popolo, ma nel popolo (anche se non esiste, ovviamente, alcun popolo astratto). La persona
giuridica resta anche in assenza della persona fisica sua sede momentanea; assume forme diverse
(non solo nel campo della sovranità) ma agisce come soggetto storico (e torna in espressioni
ricorrenti: l’istituzione monarchica, gli interessi della nazione, l’opinione pubblica, la libertà del
popolo ecc.)
2.2.2. la sovranità in cerca di sede (o la politica come metafora): la trascendenza della sovranità è
all’origine della sua trasmissione e del suo mutamento di sede. È un trasloco, spesso rivoluzionario,
(in cerca di sede adatta) in cui sono in questione più aspetti: il soggetto storico sede della sovranità
(re, popolo), le istituzioni che la ospitano e la esprimono (unicità o divisione dei poteri, quali poteri,
quale rapporto tra loro), le persone che la esercitano e a quale titolo (eredità / eleggibilità, forza /
competenza…).
2.2.3. la distinzione tra volontà generale e volontà di tutti, centrale nella teoria di Rousseau. Nel
contratto che dà vita alla società come realtà politica, ciascun individuo aliena ogni diritto, in modo
totale e senza riserve, ponendolo nelle mani della comunità. Tale cessione è una rigenerazione che
trasforma l’individuo da realtà particolare e separata in cittadino, trasforma un gruppo di soggetti
isolati in un popolo; con il contratto infatti ciascun contraente si impegna ad abbandonare gli
impulsi passionali e individualistici per seguire la ragione e la volontà generale: questa «è sempre
retta e tende sempre all’utilità generale», è la «volontà dell’io comune». La volontà generale si
distingue sia dalla volontà individuale, soggettiva, sia dalla volontà di tutti, semplice somma di
quelle individuali; queste sono segnate dall’individualismo e non sanno orientarsi, come accade
invece alla volontà generale, verso il bene comune. Per questa sua capacità di garantire la coesione
della comunità, l’uguaglianza dei cittadini (nei diritti e nei doveri) e la libertà, la volontà generale
(non la volontà di tutti) è fondamento delle leggi, criterio ispiratore delle norme giuridiche.
2.2.4. il rapporto tra stato (istituzioni) e società non è diretto, ma mediato; nella distanza tra stato e
società si colloca lo spazio del politico: le libere associazioni (come i partiti) che definiscono
progetti di Stato; esse esprimono il doppio fondamento delle democrazie liberali: priorità del
cittadino come sede naturale dei diritti sociali, policentrismo associativo libero dei cittadini che nella
società acquisiscono ed esprimono le proprie potenzialità
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2.2.5. il passaggio attraverso il diritto: la volontà popolare non delibera come un assoluto, in libero
arbitrio, ma si esercita nell’ambito e nelle forme del diritto («La sovranità appartiene al popolo, che
la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione» Costituzione italiana art.1.)
2.2.6. la chiarificazione del concetto di sovranità popolare è fornita dalla descrizione, fondamentale
e fondante, del passaggio della società attraverso il contratto (contratto sociale)
2.3. il contratto: la democrazia è un contratto / patto / accordo (Hobbes, Spinoza, Locke, Rousseau
... e tutta la tradizione contrattualista)
2.3.01. secondo quasi tutte le teorie politiche dell’età moderna la società (e lo Sato) esplica la
propria funzione di garanzia nei confronti della libertà dell’uomo in quanto a suo fondamento è
posto un contratto. La società è un patto e, di conseguenza, il politico deriva da quel contratto e ha
la propria finalità nel bene dei contraenti, anche quando il suo potere è assoluto (come per Hobbes).
2.3.02. gli strumenti concettuali ricorrenti e in intreccio, nella costruzione delle teorie politiche
dell’età moderna: tre concetti/elementi, tre fasi e sedi, tre tipologie di diritti, tre componenti dei
sistemi teorici politici, tre tradizioni delle dottrine politiche
natura
stato di natura
diritti naturali
postulati
giusnaturalismo
indole naturale degli uomini
società
società civile
leggi naturali
assiomi
contrattualismo
(utilitarismo)
Stato
Stato politico
leggi positive
teoremi
positivismo giuridico
leggi politiche / civili
(utilitarismo)
2.3.03. gli intrecci tra gli elementi in vista di una teoria:
- 1. le teorie liberali si fondano sul rispetto di queste distinzioni, considerate presupposto/condizione
di libertà in due direzioni: a garanzia dello Stato e della sua funzione civile, a garanzia del cittadino
e dei suoi diritti. I sistemi totalitari (e derivati o affini) si battono per la coincidenza dei tre livelli,
riducono il 2° al 3° e il 3° al 1°.
- 2. la distinzione a tre livelli è dettata dall’esigenza di formulare il concetto di sovranità come
concetto politico trascendentale: il concetto di sovranità è fondamento dello stato moderno se la
sovranità è considerata un principio immanente e (perciò) assoluto (non derivato). La trascendenza
del potere (assolutismo antico e medievale) si trasforma in esercizio trascendentale dell’autorità
nella nuova sede giuridica del popolo.
- 3 la definizione specifica dei tre livelli è fortemente ipotecata dalla forma politica che si intende
legittimare (varia da teoria a teoria: Stato assoluto, liberale, democratico), ma la distinzione nei tre
livelli permette di cogliere la forma politica come un mezzo e non come un fine. La tendenza di una
forma politica a presentarsi come un fine e non come un mezzo (ad es. la forma democratica è fine
di ogni moderna società) deriva solo dalla sua maggior vicinanza al riconoscimento e alla garanzia
dei diritti
- 4 le teorie politiche, e le competenze dello stato, fanno riferimento alla società come struttura di
base; non hanno applicazione diretta nelle istituzioni e associazioni esistenti nella società, come
imprese, sindacati, chiese, università, famiglie… ; queste devono sottostare a vincoli derivanti dalla
loro appartenenza al sociale, vincoli che pongono condizioni formali di giustizia – equità; viceversa,
i vincoli e le regole di singole istituzioni (chiese, partiti…) non possono essere estese alla società di
base.
- 5 è necessario distinguere tra i termini ricorrenti di comunità, associazione, società
- 5.1 Comunità, associazione: gruppo di persone che affermano unitariamente la stessa dottrina
comprensiva (totalmente o parzialmente comprensiva); di una associazione si entra a par parte
volontariamente e altrettanto volontariamente (anche se talvolta dolorosamente) si può da essa
uscire
- 5.2 Società: si tratta di un contesto imprescindibile, non si entra volontariamente né è possibile
uscire; ci si trova ad essere in quanto si esiste Questo dato (appartenenza non volontaria ma
imprescindibile) determina la società come luogo del pluralismo associativo libero e ragionevole; è
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un insieme di sottoinsiemi (associazioni, comunità), un contesto in cui possono sorgere comunità e
associazioni nei vincoli posti dalla giustizia – equità.
2.3.1. i termini del contratto sociale; i contenuti del contratto, più che esprimere i temi di un
contratto sottoscritto, indicano il fine della convivenza sociale e, conseguentemente, il compito e
l’impegno dello Stato:
2.3.1.1. Hobbes: in assenza di leggi sociali e politiche lo stato di natura è per definizione luogo del
diritto senza limiti (jus in omnia) per tutti e quindi del “bellum omnium contra omnes”; la totalità
del diritto è il massimo della violenza; per uscire da una simile barbarie è necessario trasferire
(trasloco / metafora) questo diritto ad un’unica persona (giuridica) mediante un contratto di
rinuncia, fonte di civiltà, di Stato e di diritto positivo. «Questo è più del consenso o della concordia:
si tratta di una unità reale di tutti loro in una sola e identica persona, costituita mediante il patto di
ogni individuo con ciascuno degli altri; come se ognuno di essi avesse detto all’altro: io autorizzo, e
cedo il mio diritto di governarmi a quest’uomo o a questa assemblea di uomini, a condizione che tu
ceda a lui il tuo diritto, e autorizzi allo stesso modo tutte le sue azioni. Ciò fatto, la moltitudine così
unita in un’unica persona è detta Stato, in latino civitas. Questa è la generazione del grande
Leviatano, o piuttosto (per parlare con maggiore reverenza), di quel Dio mortale, cui dobbiamo,
sotto il Dio immortale, la nostra pace e la nostra difesa. Infatti per questa autorità, che gli è stata
data da ogni singolo uomo dello Stato, gli è conferito l’uso di tanto potere e di tanta forza, da essere
in grado, con il terrore da essi suscitato, di conformare le volontà di tutti alla pace interna e all’aiuto
reciproco contro i nemici esterni. In lui risiede l’essenza dello Stato, che, per definirlo, è una
persona unica, dei cui atti si sono fatti individualmente autori, mediante patti reciproci, una grande
moltitudine di uomini alfine che possa usare tutta la loro forza e tutti i loro mezzi come riterrà
opportuno, in vista della loro pace e della loro difesa comune.» Hobbes, Thomas 1651 Leviatano,
Editori riuniti, Roma 1982 A restare nella “barbarie”, nello stato di natura, nella pienezza del
diritto senza limiti è lo Stato che ha il monopolio della violenza per garantire la pace e l’ordine
(assume su di sé il male redimendolo). «Hobbes concentra il male (il Leviatano), la forza gratuita
allo stato puro, nelle mani del governo; così facendo le fa subire una “transustanziazione”, da
elemento di guerra (bellum omnium contra omnes quale era in natura) diventa elemento di ordine
oltre che fonte di sovranità, pone il politico al di fuori di ogni canone morale tradizionale» Revelli
Marco 2003 La politica perduta, Einaudi, Torino.
2.3.1.2. Spinoza: in natura ogni impulso, in quanto naturale, ha diritto alla propria espressione:
«poiché è legge suprema di natura che ciascuna cosa si sforzi di persistere per quanto può nel
proprio stato, e ciò non in ragione di altra cosa, ma soltanto di se stessa, ne segue che ciascun
individuo ha a ciò pieno diritto, e cioè, come ho detto, ad esistere e a operare così come è
naturalmente determinato.» Ne consegue che «come il sapiente ha pieno diritto a tutto ciò che la
ragione gli detta … così anche l’ignorante e il pusillanime hanno sommo diritto a tutto ciò che
l’istinto loro suggerisce, ossia a vivere secondo le leggi dell’istinto». Per uscire dalla situazione di
disagio che ne deriva, contese, odi, ira, inganni…, è necessario un patto di società: investire
sull’istinto della ragion e regolare ogni cosa sulla sua base: «… essi, per vivere in sicurezza e nel
miglior modo, dovettero necessariamente unirsi e far sì da avere collettivamente il diritto che
ciascuno per natura aveva su tutte le cose e che questo fosse determinato, non più dalla forza e
dall’istinto di ciascuno, ma dal potere e dalla volontà di tutti. Ma, inutilmente si sarebbero proposti
di fare ciò, se avessero voluto continuare a seguire soltanto ciò che l’appetito suggerisce, giacché
dalle leggi dell’appetito ciascuno è trascinato in modo diverso; essi dovettero perciò
fermissimamente stabilire e convenire tra loro di regolare ogni cosa secondo il solo dettame della
ragione, alla quale nessuno osa opporsi apertamente, per non apparire privo di mente, e di frenare
l’istinto in ciò che esso suggerisce di dannoso agli altri, e di non fare agli altri quello che non
volevano fosse fatto a sé, e di difendere infine il diritto altrui come il proprio.»
Spinoza Baruch 1670 Trattato teologico politico, Einaudi, Torino 1972
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2.3.1.3. Locke: nessun individuo è mai esistito in natura in totale solitudine ma sempre in situazioni
di gruppo e all’interno di relazioni indispensabili alla vita e alla sopravvivenza; quindi l’uomo è
naturalmente portato ai legami sociali. L’assenza di leggi condivise rappresenta tuttavia un rischio
per le libertà naturali; si impone un patto sociale destinato a garantire e difendere quelle libertà e
quei diritti. Si tratta della versione più esplicita del pensiero liberale e giusnaturalista: esistono
diritti naturali che precedono, fondano e vincolano nella società lo Stato. Afferma Locke: «poiché
gli uomini sono tutti per natura liberi, uguali e indipendenti, nessuno può essere tolto da questa
condizione e assoggettato al potere politico di un altro senza il suo consenso. L’unico modo con cui
uno si spoglia della sua libertà naturale e s’investe dei vincoli della società civile consiste
nell’accordarsi con altri uomini per congiungersi e riunirsi in una comunità, per vivere gli uni con
gli altri con comodità, sicurezza e pace, nel sicuro possesso delle proprie proprietà, e con una
garanzia maggiore contro chi non vi appartenga».
Locke John 1690 Due trattati sul governo, Utet, Torino 1968
2.3.1.4. Rousseau: «L’uomo è nato libero, ma si trova ovunque in catene». Alla semplicità in cui
l’uomo si trova nello stato di natura (una situazione che diventa per Rousseau una pura ipotesi di
studio), incolto ma libero, la società oppone vincoli, obblighi e convenzioni chiamandoli “civiltà”,
costringe così l’uomo in catene che tuttavia ricopre con le “ghirlande di fiori” del progresso; ad esse
l’uomo si consegna con crescente e irresponsabile allegria. Nonostante i “lumi funesti dell’uomo
civile» è tuttavia solo all’interno della società che l’uomo può realizzare le proprie potenzialità nella
direzione della “perfettibilità”, a condizione che ogni individuo si apra alla dimensione del
cittadino. Ognuno, con un contratto sociale, abdica alla volontà individuale per la volontà generale,
soggetto che realizza il bene comune. «Quanto meglio lo Stato è costituito, tanto più gli affari
pubblici prevalgono su quelli privati nello spirito dei cittadini. Vi sono anzi molto meno affari
privati, perché una volta che la somma della felicità comune costituisce la parte più considerevole
della felicità di ciascun individuo, a costui ne rimane meno da cercare nell’ambito delle sue attività
particolari. In uno Stato ben governato ciascuno corre alle assemblee; sotto un cattivo governo
nessuno vuoi fare un passo per recarvisi, perché nessuno prende interesse a quello che vi si fa,
perché si prevede che la volontà generale non vi predominerà, e perché infine le cure domestiche
assorbono completamente. Le buone leggi ne fanno fare di migliori, le cattive ne portano di
peggiori. Non appena qualcuno dice della cosa pubblica: «Che me ne importa?» lo Stato deve
considerarsi perduto. L’intiepidimento dell’amor di patria, l’attività dell’interesse privato,
l’immensa estensione degli Stati, le conquiste, l’abuso del governo, hanno fatto escogitare
l’espediente dei deputati o rappresentanti del popolo nelle assemblee della nazione. È ciò che in
certi paesi si osa chiamare il terzo stato. Così l’interesse particolare di due ordini è messo al primo e
al secondo posto; l’interesse pubblico non è che al terzo.» Rousseau Jean Jacques 1762 Il contratto
sociale, Einaudi, Torino 1975 . [Le tesi di B.Constant si configurano in antitesi a questa teoria di
Rousseau]. Il contratto sociale di cui parla Rousseau, non è consegnato al passato, accaduto alle
origini del sociale, ma viene continuamente rinnovato e reso reale nella partecipazione diretta dei
cittadini alle scelte per il bene pubblico, nell’ideale (irraggiungibile, ma vale come punto di
riferimento) della democrazia diretta fondata sulla volontà generale e sua espressione.
2.3.2. un aspetto comune: la natura formale del contratto. Le formule del contratto sociale sono tra
di loro diverse a causa della forma diversa di Stato cui danno origine, ma in tutte il contratto ha
natura formale: non impone vincoli definiti ma formula il criterio universale che permette alla
libertà di essere tutelata e realizzata all’interno del sociale; come gli assiomi di una teoria precedono
le proposizioni (i teoremi) e le rendono possibili.
2.4. la logica circolare del sociale: le teorie richiamate sono sorrette dall’obiettivo di fornire una
teoria della società, su basi (apparentemente) descrittive e empiriche, come contesto di garanzia per
l’uomo, di conseguente nascita e definizione del concetto di diritto e di dovere. Sono tutte sorrette
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da una logica di tipo circolare. La società genera quel contratto (diritto, principio, valore) che la
fonda e legittima, ma solo se ne rispetta il vincolo che quel diritto determina; la società emana quel
diritto che la vincola; sia l’emanazione che il vincolo sono condizioni di esistenza della società in
senso moderno, cioè giuridico (come fatto di diritto e non come fatto fisico).
2.4.1. una prima conseguenza: prende così evidenza la dinamica di immanenza e trascendenza,
apparentemente contraddittoria o paradossale, che definisce la società: assolutamente autonoma
come fonte del diritto, assolutamente dipendente dal diritto.
2.4.2. una seconda conseguenza: prende evidenza un’altra dinamica della società fondata sul diritto:
il suo perenne essere in cammino. L’immanenza del diritto nel sociale come sua sede di nascita;
l’assenza di una autorità esterna al sociale come autorità legislativa assoluta e “divina” tolgono al
diritto un’assolutezza che lo rende astorico. Il diritto è diritto ed è sociale in quanto indica le
condizioni attraverso le quali la società può mutarlo e gli aspetti del diritto che essa può mutare.
Nessun cambiamento può tuttavia avere come effetto quello di mettere la società nelle condizioni di
non poter cambiare il diritto a cui decide di vincolarsi; nel diritto moderno e nella sua natura
contrattuale è posta l’impossibilità di una dittatura.
3. Democrazia: il riconoscimento di diritti universali
I tre elementi contesto della moderna sovranità, distinti e legati: natura, società, Stato.
Le tre tipologie dei diritti della moderna democrazia, distinti e legati: naturali, sociali, politici.
3.01. una prima premessa teorica: immanenza e trascendenza del diritto.
3.01.1. immanenza: Si possono ricostruire, in schema, tre tappe ideali della concezione moderna
dello stato e della società. La prima: venuto meno l’ordine religioso dell’universo, è l’ordine
politico a occuparne il posto e lo Stato a considerarsi fonte della società delle sue funzioni del suo
ordine e della sua forza. La formazione degli Stati moderni nazionali è legata alla storia delle
monarchie più che, come vorrebbero i romantici, alla storia dei popoli. La seconda: lo sviluppo
dell’industria pone al centro della vita sociale l’economia e, con la rivoluzione industriale, una
nuova struttura sociale in termini di divisione di funzioni - classi, una diversa logica di mobilità
sociale e una conseguente diversa politica di gestione del sociale. La terza: con l’allargarsi dei diritti
di partecipazione a definire il volto politico della società (democrazia e suffragio universale) trova
condivisione la tesi, già moderna, che la società ha un fondamento esclusivamente sociale. «Nel
corso di quattro secoli … si è imposta l’idea che la vita sociale trovasse il proprio fine in se stessa,
che l’integrazione della società e la razionalità del suo funzionamento, così come la sua capacità di
adattarsi ai cambiamenti, costituissero lo strumento principale per misurare il bene e il male. … Il
carattere esclusivamente “sociale” della società, l’autofondazione della società esprimono la fiducia
illimitata di queste società nella propria capacità di autotrasformazione» (Touraine Alain 2004 La
globalizzazione e la fine del sociale, il Saggiatore, Milano 2008, p. 64,65). Un’autonomia che
sottintende la consapevolezza della società di poter agire su se stessa, rimanda ad una dinamica
immanente, ma non è autochiusura, anzi è definita da una essenziale stato di apertura.
3.01.2. trascendenza. La concezione dell’autosufficienza del sociale non esclude ma implica una
trascendenza; una trascendenza immanente. A partire dalla riflessione platonica, con sistematicità,
la costruzione delle teorie di Stato e di società si affida al ragionare per analogia. Platone, nella
Repubblica, mette infatti in costruzione e descrizione un doppio soggetto: l’uomo e lo Stato; la
tripartizione funzionale dello Stato ideale ha un suo corrispettivo nella tripartizione funzionale della
sua visione dell’uomo (senza che se ne possa stabilità una priorità cronologica o metafisica); su tale
rapporto poggia la convinzione che il cittadino ha nello Stato e solo nello Stato libertà, giustizia e
realizzazione. Una analogo parallelo uomo-società è possibile sul tema immanenza trascendenza.
Nelle antropologie filosofiche antiche e contemporanee (da Eraclito a Levinas) l’uomo è segnato da
una intrinseca trascendenza e da un immanente rimandare, intenzionare ad altro («Per quanto tu
possa camminare, e neppure percorrendo intera la via, tu potresti mai trovare i confini dell’anima:
così profondo è il suo lógos.» Eraclito fr. 43; « la “riduzione fenomenologica” di Husserl in cui
l’identità della coscienza pura porta in sé, in guisa di “io penso”, inteso come intenzionalità ego
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cogito cogitatum — qualsiasi “trascendenza”, qualsiasi alterità: “qualsiasi esteriorità” si riduce o
ritorna all’immanenza di una soggettività che essa stessa e in se stesa si esteriorizza.» Levinas).
Analogamente, il sociale registra nella propria autonomia, e proprio come sua condizione di
autosufficienza il rimando ad una trascendenza, una trascendere immanente: l’idea che la società si
realizzi in quanto le relazioni sociali sono il luogo della concretezza dei principi universali
dell’umanità. «L’idea di modernità …si contrappone a quella di una società che costituisce essa
stessa il proprio fondamento, la propria legittimità. E al contrario, afferma di esistere solo perché
riconosce e difende l’esistenza di fondamenti non sociali dell’ordine sociale. Ne dà prova
l’importanza assegnata alla ragione, che è universalista e non dipende interamente dal suo ruolo nel
funzionamento della società.» (Touraine, o.c. p. 68). Ma più che di contrapposizione è meglio
parlare di implicazione. Le stesse teorie contrattualiste della ragione politica moderna pongono nel
sociale (autonomia immanente) un contratto che vincola il sociale a principi universali
(un’autonomia che si fonda su di una trascendenza scoperta a partire dall’immanenza più profonda).
«…la modernità si definisce attraverso il fatto di dare fondamenti non sociali ai fatti sociali e di
imporre la sottomissione della società a princìpi o valori che, in sé, non sono sociali…. Il primo
principio è la credenza nella ragione e nell’azione razionale. … Il secondo principio fondatore
dell’umanità è il riconoscimento dei diritti dell’individuo» (Touraine, o.c. p.99-100). Nel contratto,
delineato da Spinoza, la società nasce in forza della decisione di far leva sulla ragione per gestire il
sociale e risolverne ogni tipo di controversia. Il concetto stesso di contratto sociale definisce una
società capace di autofondazione e perfettibilità sulla base di principi universali che individua nella
propria essenza sociale e pone a diritto fondamentale a cui si subordina come a valore che fonda il
sociale e non ne dipende. Solo in quanto luogo reale dei diritti universali, la società diventa un fine
e non un mezzo
3.02. una seconda premessa teorica: Kelsen: la sovranità nella forma del diritto puro; il diritto è un
insieme di norme.
Hans Kelsen, nell’opera Lineamenti di dottrina pura del diritto 1934, versione teorica del
contemporaneo positivismo giuridico, indica le linee per la fondazione autonoma del diritto sulla
base dell’assunto generale che la validità del diritto è legata alla sua autonomia (l’autonomia è
condizione di validità); «ho intrapreso a svolgere una dottrina pura del diritto, cioè una dottrina
depurata da ogni ideologia politica e da ogni elemento scientifico naturalistico, una dottrina
giuridica, cosciente del suo carattere particolare dovuto alla autonomia del suo oggetto.»
3.02.1. condizioni di validità della norma: una norma è valida per il fatto di essere emanata, statuita;
è il senso di atto di volontà. Una norma non emanata non è una norma; una norma naturale è una
contradictio in adjecto (se intesa come strettamente naturale, non è emanata); i diritti o le norme
naturali sono i diritti o le norme emanati come “naturali”: prendono esistenza e forma solo nell’atto
positivo della loro emanazione; solo così si evita il rimando all’infinito quanto al fondamento o si
evita di negare l’autonomia del legiferare (positivismo giuridico)
3.02.2. condizioni di validità della norma: una norma è valida solo se può essere osservata o violata
«Nell’essere statuita da atti umani e nell’efficacia come condizione di validità consiste la positività
della morale e del diritto».
3.02.3. condizioni di validità della norma : l’autonomia del diritto implica la totale assunzione di
responsabilità degli atti di volontà giuridici nei confronti del vivere civile (a controbattere alle
accuse di indifferenza morale e politica delle teorie di Kelsen) e “l’importanza dell’ideale formale a
cui deve tendere il diritto oggetto della dottrina pura del diritto, cioè l’ideale di assicurare la pace su
di una base relativamente permanente” (R.Treves)
3.03. una terza premessa teorica: operazione vocabolario sulle tre tipologie di diritti: definizioni.
«I diritti politici sono poteri di azione che riguardano la partecipazione della persona — come
singolo o come membro di un gruppo — alla formazione delle decisioni pubbliche, e più in
generale all’esercizio del potere politico: ad esempio, diritto di voto (elettorato attivo), di candidarsi
a cariche pubbliche (elettorato passivo), di promuovere referendum, di proporre leggi di iniziativa
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popolare.
I diritti sociali sono pretese della persona verso lo Stato o più in generale l’organizzazione pubblica,
dirette al godimento di prestazioni rilevanti per la qualità della vita: ad esempio diritto
all’istruzione, alla cultura, all’assistenza sanitaria, alla previdenza e all’assistenza sociale (beni
primari).
I diritti civili (dell’uomo, umani, fondamentali, individuali, naturali), secondo l’accezione
consolidata, riguardano essenzialmente la sfera delle libertà della persona, in senso sia fisico sia
morale: ad esempio, libertà personale contro le coercizioni arbitrarie; libertà di circolazione,
soggiorno ed emigrazione; inviolabilità del domicilio; libertà e segretezza della corrispondenza e
delle altre forme di comunicazione interpersonale; libertà di riunione e di associazione; libertà di
credo e professione religiosa; libertà di manifestazione del pensiero; garanzia contro l’imposizione
di prestazioni personali; libertà dell’espressione artistica, della ricerca scientifica e del relativo
insegnamento.» (Roppo Vincenzo 1995 I diritti civili, in La politica italiana. Dizionario critico
1945-1995, Laterza, Roma-Bari)
3.1. Lo stato di natura e i diritti naturali: lo stato di natura ricorda mitologici e utopici stati
originari e presociali, ma non dà vita a ipotesi improponibili di uscita dal sociale per tornare alle
origini come a momenti storicamente accaduti. Come ogni discorso sulle origini, il concetto di
“stato di natura” diventa il luogo dei postulati, e si postula ciò (e solo ciò) che è indimostrabile e
indispensabile per la costruzione della teoria. Negli autori citati spesso diventa sinonimo di “indole
naturale dell’uomo” ed è un luogo teorico che segnala il divario tra potenzialità umane, realtà
sociale, gestione politica. Dunque è contesto per delineare i diritti naturali individuali; cioè quei
diritti che la società e la legge definiscono naturali a segnalarne la caratteristica di fondamento e
vincolo del sociale.
3.1.1. l’età dei diritti (Norberto Bobbio).
«Il mio primo scritto sull’argomento risale al 1951: nacque da una lezione sulla Dichiarazione
universale dei diritti dell’uomo tenuta il 4 maggio a Torino per invito della Scuola di applicazione
d’arma’. Rileggendola ora dopo tanti anni mi accorgo che in essa sono contenute, se pur soltanto
accennate, alcune tesi da cui non mi sono più allontanato:
- 1. i diritti naturali sono diritti storici;
- 2. nascono all’inizio dell’età moderna, insieme con la concezione individualistica della società;
- 3. diventano uno dei principali indicatori del progresso storico. VIII
Dal punto di vista teorico ho sempre sostenuto, e continuo a sostenere, confortato da nuovi
argomenti, che i diritti dell’uomo, per fondamentali che siano, sono diritti storici, cioè nati in certe
circostanze, contrassegnate da lotte per la difesa di nuove libertà contro vecchi poteri,
gradualmente, non tutti in una volta e non una volta per sempre. Il problema, su cui sembra che i
filosofi siano chiamati a dare la loro sentenza, del fondamento, addirittura del fondamento assoluto,
irresistibile, inoppugnabile, dei diritti dell’uomo, è un problema mal posto: la libertà religiosa è un
effetto delle guerre di religione, le libertà civili, delle lotte dei parlamenti contro i sovrani assoluti,
la libertà politica e quelle sociali, della nascita, crescita, e maturità del movimento dei lavoratori
salariati, dei contadini con poca terra o nullatenenti, dei poveri che chiedono ai pubblici poteri non
solo il riconoscimento della libertà personale e delle libertà negative, ma anche la protezione del
lavoro contro la disoccupazione, e i primi rudimenti d’istruzione contro l’analfabetismo, e via via
l’assistenza per la invalidità e la vecchiaia, tutti bisogni cui i proprietari agiati potevano provvedere
da sé. Accanto ai diritti sociali, che sono stati chiamati diritti della seconda generazione, oggi sono
emersi i cosiddetti diritti della terza generazione, che costituiscono una categoria a dire il vero
ancora troppo eterogenea e vaga per consentirci di capire di che cosa esattamente si tratti. Il più
importante è quello rivendicato dai movimenti ecologici: il diritto vivere in un ambiente non
inquinato. Ma già si affacciano nuove richieste che non saprei chiamare se non diritti della quarta
generazione riguardanti gli effetti sempre più sconvolgenti della ricerca biologica che permetterà
manipolazioni del patrimonio genetico di ogni singolo individuo. Quali saranno i limiti di questa
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possibile, sempre più certa nel prossimo futuro, manipolazione? Ancora una prova, se ce ne fosse
bisogno, che i diritti non nascono tutti in una volta. Nascono quando devono o possono nascere.
Nascono quando l’aumento del potere dell’uomo sull’uomo, che segue inevitabilmente al progresso
tecnico, cioè al progresso della capacità dell’uomo di dominare la natura e gli altri uomini, crea o
nuove minacce alla libertà dell’individuo oppure consente nuovi rimedi alla sua indigenza: minacce
cui si contravviene con richieste di limiti del potere; rimedi cui si provvede con la richiesta allo
stesso potere di interventi protettivi. Alle prime corrispondono i diritti di libertà o a un non fare
dello stato, ai secondi, i diritti sociali o a un fare positivo dello stato. Per quanto le richieste dei
diritti possano essere disposte cronologicamente in diverse fasi, o generazioni, le loro specie sono
sempre, rispetto ai poteri costituiti, soltanto due: o impedirne i malefici o ottenerne i benefici. Nei
diritti della terza e della quarta generazione vi possono essere diritti tanto dell’una quanto dell’altra
specie.» XIII-XV. Bobbio Norberto 1990 L’età dei diritti, Einaudi, Torino
3.1.2. mappe a confronto, a segnalare una situazione del diritto in necessaria evoluzione
La natura storica dei diritti naturali (per quanto ossimorica possa essere l’affermazione) segnala due
garanzie: esistono diritti posti a fondamento delle relazioni sociali e ambientali (diritti naturali;
l’enunciato è formale e non indica contenuti), sono il risultato storico di riflessioni e scelte che ne
hanno permesso il vaglio e l’adozione universale (nella loro formulazione contenutistica i diritti
hanno natura storica). Nella loro veste storica devono ospitare ed esprimere nuove urgenze e nuove
consapevolezze della realtà in divenire. Il timore che la loro storicità li renda precari non coglie la
natura formale del concetto di “diritti naturali”, trascura la loro necessaria universalizzazione (sono
enunciati di inclusione non di esclusione), è parallela alla sfiducia nei confronti dell’umanità,
dimentica che ogni diritto presentato come naturale e immodificabile è un risultato storico.
L’efficacia del diritto è legata alla sua capacità di fissare, secondo mutevoli sensibilità, urgenze
fondamentali universali; se finora ponevano al centro i diritti umani, ora si interroga sui diritti degli
animali, dell’ambiente, del passato, presente, futuro …. Mappe a confronto, come esempio.
1789
proposta “oggi” (1992)
proposta “oggi” (Sen–Nussbaum)
Diritto all’uguaglianza.
Diritto alla libertà e alla sicurezza.
Diritto a riconoscere un’unica autorità:
la Nazione.
Diritto di fare tutto ciò che non nuoce
agli altri.
Diritto di fare tutto ciò che la legge non
vieta.
Diritto di concorrere alla formazione
delle leggi.
Diritto di non essere accusati o
imprigionati se non nelle forme legali.
Diritto di essere giudicati in base a
leggi non retroattive.
Diritto alla presunzione d’innocenza.
Diritto d’opinione.
Diritto d’espressione.
Diritto di non soggiacere agli arbitri
della forza pubblica.
Diritto all’equità fiscale.
Diritto al controllo della tassazione e
dell’impiego che verrà fatto del gettito
delle imposte.
Diritto al controllo
dell’amministrazione pubblica.
Diritto alla separazione del poteri.
Diritto di proprietà.
Diritto alla diversità.
Diritti delle donne.
Diritto alla pace.
Diritto alla privacy.
Diritto all’informazione e al
sapere.
Diritti ecologici.
Diritto alla tutela della salute,
Diritto alla difesa del patrimonio
genetico.
Diritto alla partecipazione e al
controllo delle decisioni.
Diritto alla giustizia.
Diritto d’obiezione di coscienza.
Diritto all’abitazione.
Diritto al lavoro e a un reddito
minimo garantito.
Diritto all’uso del proprio tempo.
Diritto al controllo della
produzione e del commercio.
Diritti dei viventi non umani.
Diritto alla buona morte.
1) vita, cioè la capacità di condurre una
vita di durata normale;
2) salute fisica, cioè la capacità di essere
in buona salute e ben nutriti;
3) integrità fisica, cioè la capacità di
disporre del proprio corpo;
4) sensi, immaginazione e pensiero, cioè
la capacità di far uso dei sensi,
dell'immaginazione e del pensiero,
usufruendo di una istruzione adeguata,
ecc.;
5) emozioni, cioè la capacità di provare
emozioni, affetto, amore;
6) ragione pratica, cioè la capacità di
compiere scelte etiche consapevoli;
7) appartenenza, cioè la capacità di vivere
in comune con altri e di godere delle basi
sociali del rispetto di sé;
8) altre specie, cioè la capacità di vivere
in relazione con le altre specie;
9) gioco, cioè la capacità di ridere e
giocare;
10) controllo del proprio ambiente
politico e materiale, cioè la capacità di
partecipare alle scelte politiche, di avere
proprietà e lavoro.
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3.2. La società e i diritti sociali
3.2.1. la distinzione diritti individuali - diritti sociali è di tipo analitico, tende a cogliere lo specifico
sociale, ne sottolinea il compito, gli ambiti e i limiti. L’intreccio tra le due tipologie è, nella realtà,
indispensabile: «senza un’equa distribuzione delle risorse essenziali (dei «beni primari»), cioè senza
il soddisfacimento dei diritti sociali fondamentali che sono stati rivendicati dai movimenti socialisti,
le libertà individuali restano vuote, i diritti fondamentali di libertà si trasformano di fatto in privilegi
per pochi, e la loro garanzia perde con ciò il valore di precondizione della democrazia.» (Bovero
Michelangelo 2000 Contro il governo dei peggiori. Una grammatica della democrazia, Laterza,
Roma-Bari p. 42)
3.2.2. una conferma per assurdo dello stretto legame diritti naturali – diritti sociali.
«Secondo una dialettica strettamente hegeliana tra universale e particolare, proprio quando un
essere umano viene privato della sua particolare identità sociopolitica, che rappresenta la sua
cittadinanza determinata, egli smette in un sol colpo di essere riconosciuto o trattato come essere
umano. Paradossalmente, vengo privato dei diritti umani proprio nel momento in cui vengo ridotto a
un essere umano “in generale” e dunque divento portatore ideale di quei “diritti umani universali”
che mi appartengono indipendentemente dalla mia professione, sesso, cittadinanza, religione,
identità etnica ecc.» (Žižek, o.c.p.59-60)
3.2.3. la relazione tra le due forme dei diritti come possibile contesto di inganno. È quanto accade
«in modo particolare oggi, nell’era della “società del rischio”, nella quale l’ideologia dominante
spaccia l’insicurezza causata dallo smantellamento dello stato sociale come un’opportunità per
nuove libertà». (Žižek, o.c. p.25).; due esempi: la “flessibilizzazione” del lavoro presentata come
«liberazione dalle catene di una occupazione fissa, come una possibilità di reinventare te stesso e
realizzare il potenziale nascosto della tua personalità», il taglio dell’assistenza sanitaria (diritto
sociale) e la necessità di una copertura integrativa presentata come un’opportunità in più per
scegliere (diritto naturale).
3.3. Lo Stato e i diritti politici
3.3.1. il quadro ampio degli aspetti e dei problemi: democrazia diretta / democrazia rappresentativa
(la riserva generale sul voto espressa da J.-J. Rousseau); il diritto ad essere rappresentati come
diritto universale o riservato (le condizioni); gli ambiti a gestione della rappresentanza (ambiti
elettivi) e gli ambiti del diritto di voto (elezione diretta/indiretta); i sistemi elettorali e i difetti
strutturali del voto (Kenneth Arrow, il teorema dell’impossibilità [a definire una maggioranza
sicura]); le maggioranze richieste per la validità di una votazione; rischi della democrazia come
“dittatura della maggioranza” (J. Stuart Mill); i costi della politica e la deriva aristocratica della
democrazia …
3.3.2. la verifica del funzionamento democratico dei diritti politici non è il criterio di maggioranza
(che resta condizione di accettazione di delibere) o del consenso; «la democrazia funziona non
quando ha il massimo consenso, ma quando riesce a gestire, al suo interno, il massimo del
dissenso» (GianEnrico Rusconi).
3.4. a proposito dei diritti naturali “in evoluzione”. O l’evoluzione come diritto dei diritti
“naturali” (in quanto) universali.
3.4.1. Solo la natura storica dei “diritti naturali” permette di scoprire, a partire dagli effetti, come
alcuni di essi sorreggono comportamenti di prevaricazione e oppressione, si sono manifestati come
meccanismo ad excludendum (o la potenzialità violenta del diritto; il diritto e il suo rovescio).
Slavoy Žižek (Contro i diritti umani, il Saggiatore, Milano 2005) ricorda le operazioni politiche
giustificate sulla base del «diritto all’interferenza umanitaria», o all’esportazione della democrazia
(“fondamentalismo democratico” Garcia Marquez), «i “diritti umani delle vittime sofferenti del
Terzo Mondo” rappresentano oggi il diritto dei poteri occidentali di intervenire politicamente,
economicamente, culturalmente e militarmente nei paesi del Terzo mondo a proprio piacimento, in
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democrazia: un sistema non garantito
lezione 6
nome della difesa dei diritti umani» (ivi p.61); il diritto alla sicurezza contro il terrore e la
legittimazione della guerra e della tortura; la difesa della vita e l’accanimento terapeutico; ecc.
3.4.2. ridistribuzione e riconoscimento. Il confronto tra le tavole dei diritti naturali, sopra richiamati,
rivendicati con diversa priorità e centralità in successione storica, permette di cogliere una tendenza:
il passaggio dalla ridistribuzione al riconoscimento; in altre parole, le richieste per lo più
economiche (ridistribuzione), vengono affiancate e talvolta sostituite da richieste culturali o morali;
queste ultime fanno spesso riferimento ad appartenenze comunitarie e si manifestano con forza,
clamore dotate di maggior rilevanza nell’informazione collettiva o si presentano come prioritarie e
condizione perché vengano soddisfatte e garantite le richieste distributive (gestite e garantite sulla
base dell’appartenenza comunitaria). («Questo dibattito [ridistribuzione e riconoscimento] ha
coinvolto molti studiosi, tra i quali, in particolare, Nancy Frazer, docente alla New School
University di New York, e Axel Honneth, successore di Jürgen Habermas alla cattedra di filosofia
dell’università di Francoforte.» Touraine Alain 2004 La globalizzazione e la fine del sociale. Per
comprendere il mondo contemporaneo, il Saggiatore, Milano 2008). (Sul tema dei rischi impliciti
nel riconoscimento come contesto dei diritti e le cautele necessarie si tornerà al momento della
diagnosi dei rischi della democrazia come processi degenerativi interni. Cfr. 4.4.)
3.5. a favore dei diritti, la “fine del sociale”
«Bisogna deporre modi di pensare legati alla difesa del sistema sociale, che elabora e allo stesso
tempo impone i propri valori, norme, forme di autorità, definizioni di status e di ruoli. La modernità
è il contrario dell’autocreazione della società.
Ciò che stiamo vivendo è la distruzione della società, ovvero della visione sociale della vita sociale;
la distruzione di tutte le categorie nelle quali eravamo rinchiusi come in un’armatura da più di un
secolo. Vediamo crollare intorno a noi società di produzione e venir meno le lotte sociali che, con il
loro pungolo, ci hanno regalato svariati secoli di vantaggio sul resto del mondo. È normale che
molti scorgano solo i resti di una costruzione così monumentale. Anch’io sottolineo spesso il ritorno
della violenza e della guerra e ho messo in evidenza il trionfo del mercato rispetto al lavoro e alla
creazione. Ma accanto a queste nubi cupe che occupano larga parte del nostro cielo, scorgo anche i
primi barlumi di una modernità i cui princìpi (la fede nella ragione e il riconoscimento dei diritti
individuali universali) si affermano sulle rovine dei sistemi sociali.
Ben lungi dall’essere immersi in un mondo in cui esisterebbero solo l’interesse e il piacere, siamo
messi sempre più di fronte alla nostra responsabilità di esseri liberi. Come ho detto prima, sulle
rovine dei sistemi sociali emergono, in modo sempre più manifesto, due forze che non sono, né
l’una né l’altra, sociali: le forze naturalizzate del mercato, della violenza e della guerra da un lato, e,
dall’altro, l’appello, a sua volta non sociale, perché assoluto e universale, ai diritti e alla ragione. La
nostra storia non viene più definita dal suo senso e dall’eventuale punto di arrivo; e neppure dallo
spirito del tempo o di un popolo, ma dallo scontro di forze naturali — mercati, guerre e catastrofi —
con la modernità e con il soggetto. 105-106
Se la nozione di società è stata a lungo una nozione creativa, questo è dovuto al fatto che faceva
appello alla modernità contro le comunità per rovesciarle, si richiamava, cioè, a princìpi
universalistici come la ragione e i diritti universali di ogni individuo. Ma oggi la modernità va
anche oltre la società. La sociologia critica ha scoperto nel funzionamento delle società più dominio
che razionalità, più doveri che diritti, e ci è perciò risultato sempre più difficile credere che,
integrandosi nella società, aderendo alle sue norme e leggi, l’essere umano diventi un individuo
libero e responsabile. Siamo al contrario sempre più consapevoli di ciò che oppone individuo e
società, e società e modernità; perché l’individuo moderno è sempre più spesso definito in rapporto
a se stesso, e la modernità è il ricorso costante, al di là delle norme e dei doveri sociali, a un
universalismo dei diritti che può, certo, scadere in un edonismo manipolato dal commercio e dai
media, ma può anche essere il luogo di un appello al soggetto nel suo universalismo liberatore.
La modernità è stata per lungo tempo rinforzata dall’idea di società, ma oggi per svilupparsi si trova
costretta a sbarazzarsene, anche combattendola e appropriandosi del soggetto, che è sempre più in
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diretta opposizione all’idea di società. 106-107 È l’idea dei diritti umani, insieme a quella di
soggetto, a offrire la migliore difesa di fronte a tutte le forme di dominio sociale. 109
Le vittime a un certo punto smettono di essere soltanto vittime; prendono coscienza della loro
situazione, protestano, parlano. Un momento cruciale, verificatosi quando alcuni operai qualificati,
che di solito lavoravano in officine più che in fabbrica, cominciarono ad analizzare la loro
situazione in termini di dominio di classe e definirono ciò che erano — lavoratori — contro chi si
battevano — il profitto — e in nome di cosa reclamavano i loro diritti — il progresso, la modernità.
…La crescente importanza delle soggettività ha sconvolto un modo di ragionare fondato
sull’oggettività, sulla ragione impersonale, sul calcolo e l’interesse e ha radicato ancora di più il
modello occidentale nella modernità, poiché l’affermazione dei diritti umani, individuali e
universali, è tra le componenti basilari della modernità. Il richiamo al diritto alla soggettività si è
fatto sentire con ancor più forza nel momento in cui il modello europeo di modernizzazione fondato
sulla costruzione della società entrava in crisi e il collettivismo si tingeva di tonalità cupe. 114
La distruzione dell’idea di società non può salvarci da una catastrofe, a meno che non porti alla
formazione dell’idea di soggetto, alla ricerca di un’azione che non miri al profitto, al potere e alla
gloria, ma che affermi la dignità di ogni essere umano e il rispetto che merita.
Ritorniamo ora alle ragioni del declino della nozione di società. La questione chiave è sapere se
l’individuo si forma diventando cittadino o al contrario distaccandosi dalle norme, gli statuti e i
ruoli che le istanze d’autorità e le «agenzie di socializzazione», come la scuola e la famiglia, non
riescono più a rendere accettabili ai suoi occhi. La prima idea fu al centro della costruzione delle
nostre società di tipo democratico. Le società autoritarie, populiste o comunitariste fanno appello al
superamento degli interessi individuali a profitto di una partecipazione il più completa possibile a
un’entità collettiva, un popolo, una razza, una fede religiosa, una lingua o un territorio. La
grandezza delle nostre democrazie liberali sta invece nell’aver concepito le istituzioni come mezzo
di creazione di individui liberi e responsabili, che si preoccupano di agire in base a criteri
universalistici. 117 (citazioni e pagine di 3.5. da Touraine Alain 2004 La globalizzazione e la fine
del sociale. Per comprendere il mondo contemporaneo, il Saggiatore, Milano 2008)
4. diagnosi dei rischi della democrazia come processi degenerativi interni
4.1. rischi da un recente incontro: democrazia e società di massa.
Totalitarismo e democrazia, formule antitetiche, ma molto vicine se considerate dal punto di vista
dell’evoluzione ciclica della forme di Stato, come tratteggiato da molti pensatori politici, da Platone
fino a Popper, insistono sulla stessa base storica materiale: la società di massa; entrambe
coinvolgono le masse e le mobilitano; i confini tra loro rischiano di essere labili. La storia
contemporanea è storia della democrazie e dei processi che l’hanno combattuta servendosi delle
procedure e degli strumenti propri della stessa democrazia. Sociologia e psicologia, linguistica e
semiotica, scienze politiche e filosofia si sono dedicate, fin dagli inizio del ‘900, allo studio della
società di massa con lo scopo di metterne in evidenza la dinamica e fornire strumenti di lettura e di
gestione (governance). Per cogliere la possibile evoluzione della democrazia in un contesto di
società di massa è utile richiamare una specifica ambivalenza (antinomia), che può essere indicata
con la nota affermazione “individualismo di massa”, così descritta da Karl Mannheim (1893-1947):
«Da una parte, la democrazia incoraggia la libertà e lo sviluppo della personalità individuale;
stimola l’autonomia individuale dando ad ognuno una parte di responsabilità politica. D’altro canto,
tuttavia, la democrazia sviluppa anche un potente meccanismo sociale che induce l’individuo a
rinunciare alla sua autonomia. Quando degli strati non ancora maturi per la responsabilità politica
vengono all’improvviso ammessi a condividere il potere, è plausibile che essi facciano uso di
meccanismi di questo genere piuttosto che stimolare la libertà individuale. La democrazia
ufficialmente emancipa l’individuo; in realtà, tuttavia, quest’ultimo tende a rinunciare al diritto di
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seguire la sua coscienza e cerca rifugio nell’anonimato delle masse. […] Noi sappiamo che i
pensatori dell’Illuminismo sentivano che l’uomo comune non era ancora maturo per il loro stesso
modo razionale pensare. La religione, essi pensavano, era ancora necessaria per mantenerlo entro
certi li miti. Ad uno stadio molto successi vo, quando la democrazia degenera in dittatura, noi
vediamo qualcosa di simile. Le élite al potere sono interessate esclusivamente al potere, disilluse e
ciniche nei confronti di tutte le ideologie, compresa l’ideologia ufficiale; allo stesso tempo, esse
badano a che la fede delle masse nel mito ufficiale rimanga intatta. Il pensiero dei leader è
integralmente orientato alla realtà e razionale, eccetto che per l’irrazionalità del loro desiderio di
potere; quello delle masse è controllato e drogato dalla demagogia.» Per affrontare il tema
democrazia, Mannheim invita ad abbandonare il presupposto che la “equipara con tutto ciò che vi è
di più perfetto”; se è vero che “una tendenza alla democratizzazione è il nostro destino ineluttabile»,
è altrettanto vero che essa può venire gestita non allo scopo di garantire le libertà e il miglior
governo, ma asservimento e dittatura. «L’affermazione secondo cui la tendenza della nostra epoca è
verso un sempre più pieno sviluppo di modelli di pensiero e di comportamento democratici può
suonare paradossale alla luce della frequenza con cui oggigiorno delle dittature stanno scalzando la
democrazie. Queste dittature tuttavia non costituiscono la prova del fatto che la realtà politica stia
diventando sempre meno democratica nella sua essenza. Le dittature possono sorgere solamente in
democrazie; esse sono rese possibili dalla maggiore fluidità introdotta nella vita politica dalla
democrazia. La dittatura non è l’antitesi della democrazia; essa rappresenta un possibile modo in cui
una società democratica può cercare di risolvere i suoi problemi. Una dittatura plebiscitaria può
essere caratterizzata come la autoneutralizzazione della democrazia politica. Mano mano che una
democrazia politica diventa più ampia e nuovi gruppi entrano nell’arena politica, le loro attività i
impetuose possono portare a delle crisi e a delle situazioni di stallo in cui i meccanismi della
decisione politica si paralizzano. Il processo politico può allora entrare in cortocircuito fino ad
arrivare ad una fase dittatoriale. Questo è il rischio che minaccia proprio quelle società in cui la
democrazia politica raggiunge in poco tempo il suo pieno sviluppo. […] Possiamo dire in
conclusione che le democrazie normalmente non vengono distrutte da nemici non democratici; il
loro collasso è un risultato del lavoro di innumerevoli fattori autoneutralizzanti che si sviluppano
all’interno del sistema democratico.»
Mannheim Karl Saggi di sociologia della cultura, A.Armando, Roma 1998
Il contratto sociale di Hobbes chiedeva agli uomini di rinunciare alla volontà decisionale di governo
per trasferirla, unita e coerente, nell’unica persona giuridica del sovrano (re o parlamento); il
sovrano avrebbe poi restituito ai cittadini la libertà nelle forme e nell’ambito del diritto positivo. I
regimi assoluti in contesto democratico (la demagogia) chiedono agli uomini la rinuncia alla
ragione e al pensiero libero e indipendente e al controllo del potere politico. L’analisi delle derive
interne alla democrazia suggerisce l’uso dell’espressione (dal prefisso abusato) “postdemocrazia”
(così Crouch Colin, Postdemocrazia, Laterza, Roma-Bari 2003).
4.1.1. deriva demagogica (populismo) della democrazia a partire da elementi che la caratterizzano
secondo una logica ricorrente: puntare su di un rapporto diretto tra governo e società, saltando le
mediazione del diritto, delle leggi, del voto, dei partiti come sede di discussione e di progetti
4.1.1.1. collocare la felicità di un popolo nella esaltazione diretta e immediata dell’individualismo,
rafforzando lo iato (già registrato da Tocqueville e Constant) tra interessi individuale e bene
comune.
4.1.1.2. utilizzare il concetto fondativo di sovranità popolare per rivendicare un legame diretto di
legittimazione popolare e una competenza totale, al di fuori e al di sopra delle forme del diritto
(giustificare i propri atti dichiarandosi “eletto dal popolo”, al di fuori di ogni controllo e
giudicabilità); il concetto politico-giuridico, astratto, di sovranità popolare è confuso con l’idea di
una società trasformata in comunità (ente omogeneo compatto e corale, massa indistinta delegante,
“la gente”)
4.1.1.3. l’enfasi del consenso e la deriva sondaggista. Deriva legata alla “democrazia dell’opinione”,
alla gestione e legittimazione della democrazia con riferimento alla “gente” e ai sondaggi. Prassi
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che materialmente rimette in primo piano la società e “il popolo”, e quindi si presenta come
autentica realizzazione di democrazia e di partecipazione (addirittura fatto di democrazia diretta,
vista l’ampiezza dei coinvolgimenti popolari – referendari nazionali e locali) in realtà mette a
rischio molti aspetti della realtà politica democratica, a livello di rappresentanti e di rappresentati: 1.
nega la possibilità di un pensiero di governo programmato e responsabile, governare è qui cogliere e
seguire gli umori del popolo; 2. dimentica che gli eletti rappresentano la nazione e non sono
mandatari degli loro elettori del loro collegio elettorale o della propria parte politica; 3.
enfatizzando il consenso non affronta il problema reale di come il consenso è garantito (anche il
fascismo e il nazismo e in generale i regimi autoritari possono esibire un alto consenso popolare
espresso anzi, proprio in regimi totalitari, in un voto “plebiscitario”); 4. ignora la logica
commerciale, nella forma di “corto circuito”, posta all’origine del consenso della “gente”:
l’omologazione dei consumi culturali, delle abitudini di pensiero e degli stili di vita: trasforma il
popolo in un’entità indistinta e magmatica indicata, demagogicamente, con il termine “la gente”.
Una simile entità, sociologicamente non definibile, si pone all’origine di un procedimento sociale
circolare ben definito: la società, considerata come pubblico, cioè come soggetto commerciale, è il
destinatario di consumi standardizzati ma, successivamente, dalle abitudini indotte del pubblico si
ricava (attraverso ricorrenti “sondaggi”) la legittimazione a fornir prodotti standard. Il corto circuito
del sondaggio: costruisce la domanda nelle forme della pubblica opinione, pilota in tal modo la
risposta incanalandola all’interno di possibilità precostituite. «L’impudenza della domanda
retorica: “guarda che cosa vuole la gente!”, è di appellarsi, come a soggetti pensanti, alla stessa
gente che è suo compito specifico divezzare dalla soggettività» Horkheimer M., Adorno T.W. 1947
Dialettica dell’ Illuminismo. L’industria culturale. Illuminismo come mistificazione di
massa.Einaudi, Torino 1974 p. 156
4.1.1.4. la gestione della comunicazione e dell’informazione affidata alle formule del “parlare
chiaro”, “dire come stanno le cose” ecc. coincide con il ricorso ad un lessico, generico, comune e
condiviso, tendenzialmente volgare (vedi il giornale e il movimento di Giannini, L’uomo
qualunque) che in modo semplificato e sbrigativo annulla i problemi e l’informazione. A livelli più
sofisticati, l’informazione politica si modella su quella della pubblicità: «i messaggi stringati che
richiedono sforzi di concentrazione minimi; l’uso delle parole per formare immagini di alto impatto
anziché argomentazioni che facciano appello all’intelligenza. La pubblicità non è una forma di
dialogo razionale: non dimostra con delle prove, ma associa i suoi prodotti a un insieme particolare
di immagini. Non consente replica: il suo scopo non è suscitare la discussione, ma indurre
all’acquisto. L’adozione dei suoi metodi ha aiutato i politici ad affrontare il problema della
comunicazione di massa, ma non è servita alla causa della democrazia». (Crouch Colin
Postdemocrazia, Laterza, Roma-Bari 2003). Il ricorso al linguaggio pubblicitario si impone ancor
più nel caso della “personalizzazione della politica elettorale” che «fa uso di una personalità
carismatica per sostenere un insieme vago e incoerente di politiche che non riflettono alcun
interesse articolato» (ivi)
4.2. il deficit partecipativo come crisi della democrazia
4.2.1. il ricorrente lamento del deficit democratico, sullo sfondo di un inesistente modello (Meny –
Surel. Uno sguardo retrospettivo sulla storia della democrazia mostra che l’insoddisfazione dei
cittadini nei confronti dei vari aspetti del sistema è una costante.
4.2.1.1. I “mali” e le “disfunzioni” del servizio diventano attacco critico indiscriminato alla
istituzioni.
4.2.1.2. la disillusione democratica si manifesta nel calo della partecipazione (anche al voto) o in
movimenti “politici” che si definiscono antipolitici. Nell’esibita disillusione è, però, presente un
equivoco, in particolare l’idea che esista un modello unico di democrazia e che questo appartenga si
definisca secondo un modello ideale: «Ma, sostiene Dahl, la distanza costante tra sostegno alla
democrazia e delusione nei confronti del suo funzionamento è il frutto di una definizione erronea
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democrazia: un sistema non garantito
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della democrazia, la quale deriva dalla combinazione di entrambe le dimensioni (1. l’esistenza di
diritti esigibili, 2. la partecipazione reale alla vita politica) e non solo dalla realtà della
partecipazione. Questa distinzione fra mondo ideale e mondo reale della democrazia è interessante
perché permette di relativizzare l’ampiezza del malessere democratico. In linea di massima i valori
democratici non sono contestati. In compenso è il loro funzionamento quotidiano che è
problematico. Di conseguenza se è spiacevole che i cittadini non partecipino di più o che siano
insoddisfatti, non bisogna arrivare troppo rapidamente a conclusioni pessimistiche. La democrazia
non è rimessa in discussione nei suoi principi, il sistema ritrova un funzionamento soddisfacente
quando i «livelli» del reale e dell’ideale tendono a sovrapporsi. Questo ottimismo è tuttavia
giustificato solo se la distanze tra funzionamento reale e ideale non è insormontabile.». Mény Yves
– Surel Yves, Populismo e democrazia, il Mulino, Bologna 2001, p.31)
4.3. la cattiva retorica della democrazia (il riferimento è all’opera di Canfora Luciano 2002
Critica della retorica democratica, Laterza, Roma-Bari)
Ripetuti luoghi comuni, professati con enfasi, consegnano la democrazia alla retorica formale
impedendo una conoscenza corretta della sua natura e dei suoi effetti, così come una scelta adeguata
del rapporto tra cittadino e società che la democrazia dovrebbe garantire.
4.3.1. il motivo della democrazia come partecipazione e consenso popolare; in realtà: 1. il sistema
di voto in atto trasforma la democrazia in oligarchia (Raymond Aron, Del carattere oligarchico dei
regimi costituzionali-pluralistici; Gramsci, Quaderno 13); 2. più importante del consenso è il modo
con cui viene ottenuto; 3. occorre mutare la prospettiva: l’essenza della politica democratica è che le
decisioni vengano prese non dalla collettività, ma per la collettività (R. Aron).
4.3.2. il motivo del “voto utile” in nome della “governabilità” come valore per tutti è, nella realtà,
vittoria del voto “moderato”, per la continuità, e ha l’effetto di restringere l’arco delle opzioni;
4.3.3. il motivo stesso del voto, essenza della democrazia, fa passare in secondo piano la
conoscenza dei settori decisivi per il vivere sociale sottratti agli effetti del voto. Nessun modello è
storicamente realizzato allo stato puro, la stessa democrazia è regime misto con settori a forte
impostazione oligarchica:
4.3.3.1. sia nelle istituzioni: organismi non elettivi (internazionali e nazionali) decidono (per
tecnicismi e competenze) in settori rilevanti: Fondo monetario, Banca europea, Tribunali
internazionali, “multinazionali” (soprattutto se delocalizzate, “aziende fantasma”, attraverso
l’esternalizzazione dei processi produttivi opportunamente frazionati), servizi segreti (con relativo
segreto di Stato), circolazione finanziaria, religioni organizzate, malavita organizzata … Più in
generale, a segnalare una nuova prassi, viene usata l’espressione “autoritarismo democratico” : «La
possibilità di acquisire consenso in modo democratico stanno diminuendo. … La capacità dello
Stato di imporre decisioni sta modernizzandosi e crescendo… è diventato possibile compensare con
mezzi autoritari la perdita di potere democratico – mantenendo la facciata democratica. È questo
che si intende per autoritarismo democratico» Beck Ulrich, La società cosmopolita, il Mulino,
Bologna 2003;
4.3.3.2. sia nei “rappresentanti”: il ceto politico esprime tendenzialmente le classi medio-alte e
abbienti; anche in democrazia, e con frequenza crescente, conseguono la maggioranza movimenti
antiegualitari e oscurantisti, «questo è il principale motivo per cui le formazioni politiche di destra
ostentano una particolare devozione al meccanismo parlamentare» - Canfora). Questi dati spiegano
l’avvento di prassi democratiche in paesi finora interessati da sistemi politici totalitari o dittatoriali
(Russia, America latina, Africa), la difesa della democrazia parlamentare nei paesi ad economia
“capitalistica”, la debolezza di analisi politiche rivoluzionarie ispirate a modelli di utopia.
4.3.4. con maggior precisione: si passa dalla teoria “oligarchica” alla teoria “elitaria”. Quest’ultima
«è capace di comprendere come le “maggioranze” che si formano nei “regimi rappresentativi” siano
il frutto di capacità di influenza (di “irradiazione”, per usare l’espressione usata da Gramsci), della
capacità –diremmo noi – di creare il consenso. L’elitista vede ciò che l’oligarca non vede: che cioè
il trionfo del numero, in democrazia, è solo apparente. … come in altre scienze, anche nelle scienze
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sociali “la prima apparenza delle cose è contraria alla loro realtà” (Mosca)» - Canfora, o.c.
Avvertire questo dato e cercarne le ragioni è avviare un intervento di analisi e di progetto rispettoso
del modello di democrazia in atto, senza compiacimenti e senza demonizzazioni, al di là della
presentazione retorica della democrazia cui si ricorre sia nella sua celebrazione che nella sua
demolizione; entrambe infatti si fondano su di un a priori ideale).
4.3.5. contro l’enfasi della “maggioranza” numerica: «nel fatto è fatale le prevalenza di una
minoranza organizzata, che obbedisce a un unico impulso, sulla maggioranza disorganizzata. La
forza di qualsiasi minoranza è irresistibile di fronte ad ogni individuo della maggioranza, il quale si
trova da solo davanti alla totalità della minoranza organizzata; e nello stesso tempo si può dire che
questa è organizzata appunto perchè è minoranza.» (Canfora, o.c.)
4.3.6. contro l’enfasi della partecipazione: «La democrazia prospera quando aumentano per le
masse le opportunità di partecipare attivamente, non solo attraverso il voto ma con la discussione e
attraverso organizzazioni autonome alla definizione delle priorità della vita pubblica … anziché
rispondere passivamente ai sondaggi elettorali … (tuttavia) anche se le elezioni continuano a
svolgersi e condizionare i governi, il dibattito elettorale è uno spettacolo saldamente controllato,
condotto da gruppi rivali di professionisti esperti nelle tecniche di persuasione e si esercita su un
numero ristretto di questioni selezionate da questi gruppi»- Crouch Colin 2003 Postdemocrazia,
Laterza, Roma-Bari p.6
4.4. derive comunitaristiche nella democrazia. Un rischio recente e in forte diffusione.
«È però importante premettere che i diritti culturali non possono essere considerati una mera
estensione dei diritti politici; questi ultimi devono essere accordati a tutti i cittadini, mentre i diritti
culturali proteggono, per definizione, popolazioni o gruppi particolari. È il caso, per esempio, dei
musulmani che chiedono di poter celebrare il ramadan; ma è anche il caso dei gay e delle lesbiche
che reclamano il diritto di sposarsi. Non si tratta più, quindi, del diritto di essere come gli altri, ma
di essere altri. I diritti culturali non riguardano solo la protezione di una tradizione o di pratiche
sociali differenti; obbligano a consentire, contro l’universalismo astratto dei Lumi e della
democrazia politica, che ognuno, individualmente e collettivamente, possa costruirsi le proprie
condizioni di vita e trasformare la vita sociale in funzione della particolare modalità con cui
vengono articolati i princìpi generali della modernizzazione e le «identità» specifiche. 193-194
Si parla spesso, a questo proposito, di diritto alla differenza, un’espressione che, per la sua
incompletezza, rischia di essere pericolosa. effetti, si tratta del diritto di combinare una differenza
culturale con la partecipazione a un sistema economico sempre più globalizzato, esclude sia l’idea
che la modernità troneggi sopra tutti gli attori sociali, sia che una sola cultura sia in grado di andare
incontro alle esigenze modernità.
I diritti culturali mobilitano più di altri, perché sono più concreti riguardano sempre una
popolazione particolare, di solito minoritaria. Ma la loro rivendicazione espone anche a grandi
pericoli, i pericoli che ci fa correre qualsiasi forma di particolarismo: in breve, i diritti culturali
minacciano il principio stesso del «vivere insieme». L’idea dei diritti turali sembra opporsi
direttamente a quella di cittadinanza. 194
Il riferimento ai diritti culturali, però, fa appello a entità concrete definite più solidamente e
profondamente della cittadinanza o anche dell’appartenenza a una classe. 194
La legge, dunque, non deve riconoscere la libertà di esercizio di un culto se non è in grado di
proteggere colui o colei che non vuole più essere un fedele di quella Chiesa, desidera uscirne o,
eventualmente, aderire a un’altra religione. 196» (Touraine, o.c.)
Una presa di posizione all’interno del dibattito sul tema della ammissibilità (e delle condizioni di
ammissibilità) delle rivendicazioni culturali come diritti per lo più di carattere comunitario e
consegnate a “movimenti sociali”, da intendere come formazioni politiche specifiche:
«1. che i movimenti sociali costituiscono una categoria molto particolare nel più vasto ambito delle
azioni di rivendicazione;
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2. che questi movimenti si definiscono attraverso la rivendicazione di nuovi diritti;
3. che i «nuovi movimenti sociali», sicuramente molto diversi dai precedenti, esigono tutti il
riconoscimento di un nuovo tipo di diritti, i diritti culturali;
4. che queste richieste sono nuove e non si ritrovano né nella società industriale né nelle società
preindustriali;
5. che i diritti culturali, come i diritti sociali prima di essi, possono diventare strumenti
antidemocratici, autoritari o addirittura totalitari se non vengono strettamente collegati ai diritti
politici, che hanno un carattere universale, e se non trovano posto all’interno dell’organizzazione
sociale e in particolare del sistema di ripartizione delle risorse sociali. 197-198
(citazioni e pagine di 4.4. da Touraine Alain 2004 La globalizzazione e la fine del sociale. Per
comprendere il mondo contemporaneo, il Saggiatore, Milano 2008)
5. la democrazia irrinunciabile
5.1. la natura formale della democrazia
5.1.1. la tesi: «Ma la democrazia è formale per definizione. In quanto forma di governo, essa è
definita da un insieme di regole che riguardano, per usare il linguaggio semplificante e
chiarificatore di Bobbio, il chi e il come delle decisioni politiche - a chi spetta decidere, e in base a
quali procedure - non il che cosa, il contenuto di tali decisioni. La democraticità di una decisione
politica - di una legge, di una norma assunta come decisione collettivamente valida, come «volontà
generale» - dipende dalla sua forma, non dal suo contenuto: la democrazia consiste, non in certe
«regole da decidere», da assumere come decisione collettiva a esclusione di altre, ma in certe
«regole per decidere». […] … le regole della democrazia prescrivono la distribuzione più
egualitaria possibile del potere politico, o meglio del diritto-potere di influire sulle decisioni
collettive; ma non indicano, non possono indicare per che cosa vada usato tale potere, per assumere
quali decisioni, per intraprendere quale indirizzo politico, per perseguire quale ideale. Dunque la
cosiddetta democrazia sostanziale, se intesa nel senso di democrazia pour le peuple - di governo «a
favore» del popolo, o dei ceti svantaggiati ecc. -, se identificata con un particolare indirizzo o
contenuto politico delle decisioni collettive, non è come tale democrazia; lo è soltanto la
democrazia par le peuple, «attraverso» il popolo, o meglio attraverso le regole che consentono e
favoriscono la partecipazione dei cittadini al processo decisionale politico. La società democratica,
ossia governata democraticamente, assumerà di volta in volta come indirizzo politico quello che
sarà risultato scelto dai cittadini in base all’applicazione e al rispetto delle regole democratiche.
Quale che sia il suo contenuto concreto, «liberale» o «socialista» (o, per esempio, «ecologista» o
quant’altro). […] In quanto formale per definizione, in quanto metodo per decidere, la democrazia
è di per sé agnostica rispetto ai fini sociali ultimi, ai modelli prescrittivi di buona società propugnati
dalle diverse ideologie.»
Bovero Michelangelo 2000 Contro il governo dei peggiori. Una grammatica della democrazia,
Laterza, Roma-Bari p. 34ss
5.1.2. ma non è formalismo: «Ovviamente, tutto ciò non significa affatto che la democrazia, in
quanto essenzialmente formale, in quanto eminentemente laica, non abbia alcuna relazione con il
mondo dei valori politici - come forse vorrebbe una interpretazione nichilistica, a mio avviso
limitativa e fuorviante, della laicità.
I valori che, pur non essendo connotati della democrazia come tale, ne costituiscono però la
precondizione, perché soltanto la loro garanzia istituzionale consente alla democrazia di esistere,
sono anzitutto quelli che provengono dalla tradizione liberale. Coincidono con quelle che Bobbio ha
chiamato le «quattro grandi libertà dei moderni»: la libertà personale, che consiste nel diritto a non
essere arrestati arbitrariamente, e di cui può essere considerata un corollario la libertà di muoversi
non impediti da barriere oppressive; la libertà di opinione e di stampa, o meglio la libertà di
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esprimere, manifestare e diffondere il proprio pensiero, che equivale al diritto di dissenso e di
critica pubblica; la libertà di riunione, che può tradursi nel diritto di protesta collettiva; la libertà di
associazione, che comporta il diritto di dar vita a veri e propri organismi collettivi, come i liberi
sindacati e i liberi partiti, e che apre perciò la possibilità di una scelta politica effettiva per i cittadini
- apre cioè l’orizzonte della democrazia in senso proprio. […] Diretta-rappresentativa, formalesostanziale, liberale-socialista, ideale-reale... Tentiamo una sintesi? La democrazia può essere
diretta o rappresentativa, e questa può conoscere diverse varianti istituzionali, il giudizio sulle quali
è quanto mai controverso. Ma nel mondo attuale, paradossalmente, una democrazia diretta, o meno
indiretta, corre il rischio di essere meno democratica. La democrazia è formale per definizione; e
per questo è anche necessariamente laica, è costitutivamente tollerante. Ma ciò implica a sua volta
che la democrazia come tale non può essere né liberale, né socialista: può bensì ospitare di volta in
volta l’uno e l’altro contenuto di programmi ideali (e altri ancora), ma non si identifica con alcuno
di essi. Anzi, la democrazia consiste nella possibilità del loro ricambio e alternanza. Non per questo
la democrazia è incompatibile con predicati di valore: libertà individuale, equità sociale, tolleranza
ed eguaglianza politica sono la sostanza etica della democrazia nel suo concetto ideale. Ma la
democrazia reale, nei regimi reali che chiamiamo democrazie, quanto è distante dalla democrazia
ideale, quanto vicina alla democrazia apparente?». (Bovero, ivi)
5.2. democrazia liberale nella forma di un “pluralismo ragionevole”:.J. Rawls
5.2.1. il problema del pluralismo e l’obiettivo della democrazia liberale: «Ora, il problema grave è
questo: una società democratica moderna non è caratterizzata soltanto da un pluralismo di dottrine
religiose, filosofiche e morali comprensive, ma da un pluralismo di dottrine comprensive
incompatibili e tuttavia ragionevoli. Nessuna di queste dottrine è universalmente accettata dai
cittadini; né c’è da attendersi che in un futuro prevedibile una di esse, oppure qualche altra dottrina
ragionevole, sia mai affermata da tutti i cittadini, o da quasi tutti. Il liberalismo politico assume che,
ai fini della politica, una pluralità di dottrine comprensive ragionevoli ma incompatibili sia il
risultato normale dell’esercizio della ragione umana entro le libere istituzioni di un regime
democratico costituzionale; e assume anche che una dottrina comprensiva ragionevole non respinga
gli aspetti essenziali di un regime democratico. Naturalmente una società può avere in sé anche
dottrine comprensive irragionevoli e irrazionali, o perfino folli; e in questo caso il problema è quello
del contenimento, del fare in modo che tali dottrine non minino l’unità e la giustizia della società.
[…] La principale conclusione - sulla quale tornerò fra breve - ricavabile da queste osservazioni è
che il problema del liberalismo politico si pone in questi termini: come è possibile che esista e duri
nel tempo una società stabile e giusta di cittadini liberi e uguali profondamente divisi da dottrine
religiose, filosofiche e morali incompatibili benché ragionevoli? Detto in altro modo: come è
possibile che dottrine comprensive profondamente contrapposte, benché ragionevoli. convivano e
sostengano tutte la concezione politica di un regime costituzionale? Quali sono la struttura e il
contenuto di una concezione politica capace di conquistarsi il sostegno di un simile consenso per
intersezione? Sono queste (insieme ad altre) le domande cui cerca di rispondere il liberalismo
politico.»
5.2.2. ragione e ragionevolezza: «le varie dottrine comprensive sono al loro interno razionali (non
irrazionali), devono politicamente essere ragionevoli (riconoscere dall’interno delle loro dottrine
comprensive diverse e contrastanti, quindi razionalmente e per ragionevolezza, le regole
democratiche; una chiesa, per es. può scomunicare gli eretici, ma non bruciarli)»
5.2.3. il consenso per intersezione: « Il problema del liberalismo politico è quello di costruire una
concezione della giustizia politica (per un regime democratico costituzionale) che la pluralità delle
dottrine ragionevoli - e questa pluralità è sempre un aspetto della cultura di un regime libero e
democratico - possa far propria. L’intenzione non è né quella di sostituire tali visioni comprensive
né quella di dar loro un fondamento vero.» «“dobbiamo vedere l’unità sociale come il risultato di un
consenso per intersezione intorno a una concezione politica della giustizia” fondata sull’idea di una
struttura di base, cioè il complesso di istituzioni “politiche, sociali ed economiche di una società e il
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modo in cui esse si combinano in un sistema unificato di cooperazione sociale esteso da una
generazione all’altra… quindi stabile”.»
5.2.4. il principio della differenza (uguaglianza e differenza): « (a) Ogni persona ha lo stesso titolo
indefettibile a uno schema pienamente adeguato di uguali libertà di base compatibile con un
identico schema di libertà per tutti gli altri (principio di uguaglianza).(b) La disuguaglianze sociali
ed economiche devono soddisfare due condizioni: primo, devono essere associate a cariche e
posizioni aperte a tutti in condizioni di equa uguaglianza delle opportunità; secondo, devono dare il
massimo beneficio ai membri meno avvantaggiati della società (principio di differenza).
5.2.4.1. tra i fattori di rischio della democrazia: la ricorrente de-differenziazione; il facile,
sbrigativo, ricorrente e diffuso processo di riduzione, negazione, misconoscimento, annullamento
delle differenze; «…ovunque si possono scorgere processi di de-differenziazione, cioè fenomeni in
cui viene revocata quella differenziazione che pareva scontata, o in cui essa non compare affatto.
Così l’economia e le tecniche di marketing invadono e occupano la sfera della politica, magari per
condurre da qui una lotta per ridurre lo spazio autonomo dell’amministrazione della giustizia: è il
caso di quel laboratorio politico italiano chiamato berlusconismo.» Genovese Giuseppe 2008 Gli
attrezzi del filosofo. Difesa del relativismo e altre incursioni, manifestolibri, Roma p. 15 (e i
riferimenti al tema in Donati, Oltre il multiculturalismo, o.c.)
Sviluppi o contesto: si tratta di de-differenziazione in contesto culturale, sociale, istituzionale;
esempi: il definirsi sia imprenditore che operaio; rivoluzionario e conservatore; di sinistra e di
destra (la “vera” sinistra e la “vera” destra “facciamo ciò che la sinistra ha promesso ma non è
riuscita a fare”), fascista e comunista; politico e religioso; libertino e fedele ai valori della famiglia;
legare la politica all’economia-azienda; legare la politica allo sport e politicizzare lo sport, (il
governo è una squadra…). La de-differenziazione, con la negazione della differenza, diventa la
negazione del confronto, del mutamento, del controllo democratico.
5.2.5. la regola del maximin: «La regola del maximin può essere formulata così: dobbiamo
individuare l’esito peggiore di ogni alternativa possibile e adottare poi quell’alternativa il cui esito
peggiore è migliore degli esiti peggiori di tutte le altre.»
Rawls John 1993 Liberalesimo politico, ed. di Comunità, Torino 1999
Rawls John 1971 Giustizia come equità, Feltrinelli, Milano 1991
5.3. sviluppi e potenziamenti della democrazia (post-democrazia)
5.3.1. empowerment come nuova forma di governance: dalla democrazia rappresentativa alla
democrazia partecipativa-deliberativa nella forma dell’“empowerment”.
«L'aggettivo inglese deliberative (deliberativo), riferito alla democrazia, racchiude in sé il doppio
significato di discutere e decidere. Nell'arena deliberativa i cittadini sono chiamati non solo a
dibattere tra loro o con i politici, ma a giocare un ruolo significativo nel processo decisionale. E’
centrale a questo proposito l'idea di arrivare alle decisioni coinvolgendo tutte le parti in causa o i
loro rappresentanti. Il metodo utilizzato è il dibattito inserito in un contesto strutturato di
collaborazione, basato su un'informazione adeguata e una pluralità di opinioni, con precisi limiti di
tempo entro i quali pervenire a decisioni. Idealmente le arene deliberative contribuiscono a far
sentire i cittadini informati e partecipi, non isolati, ignoranti e impotenti. Aiutano politici e
amministratori a governare meglio e a colmare il divario che troppo spesso li separa dalla società
civile.
La democrazia deliberativa vanta un certo numero di prerogative. Luigi Bobbio ne evidenzia tre,
particolarmente importanti. Innanzitutto essa è potenzialmente, pur se non necessariamente, in
grado di generare decisioni migliori, poiché nel corso del dibattito si procede a una ridefinizione dei
problemi e si propongono nuove mediazioni e soluzioni. In secondo luogo le decisioni acquistano
maggiore legittimità se derivate dal processo di deliberazione, in quanto non prodotte separatamente
da un piccolo gruppo ma da una pluralità di persone, alcune delle quali possono anche non
condividere la decisione finale, ma tutte riconoscono la legittimità della procedura attuata. Terzo in
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ordine di citazione, ma non di importanza per i nostri obiettivi, la deliberazione promuove le virtù
civiche insegnando alle persone ad ascoltare, a essere più tolleranti e spesso a costruire rapporti di
fiducia reciproca.
Ancora una volta è Stuart Mill, non Karl Marx, ad anticipare questo tipo di ragionamento
democratico. In Considerazioni sul governo rappresentativo scriveva: «Quella di deliberare è una
funzione cui una pluralità di persone può assolvere meglio di quanto faccia un singolo individuo.
Quando è importante o necessario garantire ascolto e considerazione a molte opinioni contrastanti,
un organo deliberativo è indispensabile». Mill sottolineava anche la «funzione di apprendimento»
propria del deliberare. È sbagliato, ribadiva, attribuire alla propria opinione il carattere di "assoluta
certezza". Ascoltare e dibattere con altre persone, spesso di opinione opposta, aiuta i cittadini e i
loro rappresentanti a crescere e stabilisce un adeguato legame fra "talking and doing", "il discutere e
il fare".
Mill però, come già in altre occasioni, non va oltre. Nella sua opera i principi della deliberazione
non sono applicati a un ampio numero di ambiti così che il processo decisionale, in una forma o
nell'altra, possa diventare abitudine e prerogativa dei cittadini. Al contrario, egli era fortemente
convinto che la maggior parte delle decisioni dovesse essere presa da una singola persona, esperta
dell'argomento. Il timore latente dei great unwashed, ovvero che una massa di individui non istruiti
esercitasse un potere eccessivo, non è mai troppo velato in Mill. Il suo modello di governo stabiliva
che la deliberazione fosse confinata al parlamento, all'assemblea dei rappresentanti eletti in base al
sistema della rappresentazione proporzionale. E anche a questo livello, come abbiamo visto,
prevedeva una radicale divisione di compiti, tra "il parlare e il fare". Il parlamento "parlava", e
questo suo ruolo era assai prezioso. Ma il compito di "fare" spettava a un esecutivo non eletto
composto di esperti. […]
Torniamo ora alle varie proposte contemporanee di democrazia deliberativa a livello locale. Salta
subito agli occhi che molte si muovono in una direzione positiva e che almeno una superi sia Marx
sia Mill nella capacità di introdurre una miscela del tutto originale di democrazia rappresentativa e
partecipativa. Tuttavia è altrettanto chiaro che queste proposte non sono tutte uguali, e la tipologia
che segue introduce necessaria mente elementi gerarchici di valutazione.
Gli esperimenti e le proposte di democrazia deliberativa hanno assunto una gamma di forme
talmente ampia che non mi è possibile rendere giustizia a tutte in questa sede. Mi riferisco alla
tedesca Planungszelle, alle Giurie dei Cittadini americane e britanniche, ai Town Meeting, alle
Consensus Conferences, alla proposta di James Fishkin negli Stati Uniti di indire una giornata
nazionale della deliberazione, agli esperimenti di partecipazione dei cittadini alla gestione
dell'ordine pubblico e della pubblica istruzione a Chicago, al sito e-the-People, all'empowerment dei
genitori danesi nelle scuole elementari e così via. Nel tentativo di classificare queste esperienze
possiamo isolare come minimo due grandi gruppi. Il primo è incentrato sul processo di
campionamento casuale. La giuria dei cittadini, per esempio, come indica il nome, è il microcosmo
di una determinata comunità, convocato generalmente a opera degli amministratori locali, al fine di
deliberare su un tema di pubblico interesse. Per ottenere uno spaccato fedele della comunità, i
giurati vengono "stratificati" per età, istruzione, genere, ubicazione geografica, etnia e talvolta idee
politiche. Il gruppo consta generalmente di una ventina di persone. Riceve ragguagli sull'argomento
in discussione da parte di esperti e i dibattiti al suo interno si svolgono sotto la guida di moderatori.
La giuria resta convocata da uno a cinque giorni e i risultati del suo operato, resi pubblici, sono in
genere presentati come raccomandazioni non vincolanti. I giurati vengono normalmente retribuiti
per il servizio prestato (150 dollari al giorno negli Stati Uniti) ma questo non deve scandalizzare.
Anche nell'antica Atene i cittadini ricevevano una diaria giornaliera per la loro partecipazione
all'agorà. Tra il 1996 e il 2005 in Gran Bretagna, Usa, Australia e in un certo numero di altri paesi
si sono tenute circa 230 giurie dei cittadini. La prima giuria dei cittadini italiana si è riunita a Torino
nell'estate del 2006.» Ginsborg Paul 2006 La democrazia che non c’è, Einaudi, Torino
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5.3.2. la sub-politica o aprire i confini della politica (Ulrich Beck) o «l’attenzione alle “micropolitiche” della democrazia» (Paul Ginsborg) o per una “postdemocrazia” (Colin Crouch)
5.3.2.1. La situazione: «In contrasto con tutte le epoche precedenti (inclusa la società industriale), la
società del rischio è caratterizzata essenzialmente da una mancanza: l’impossibilità di
un’imputabilità esterna delle situazioni di pericolo. In altri termini, i rischi dipendono da decisioni;
essi sono prodotti industrialmente e in questo senso sono politicamente riflessivi. A differenza da
tutte le culture e le fasi di sviluppo sociale precedenti, che avevano a che fare in vario modo con i
pericoli, la società odierna nel fronteggiare i rischi è messa a confronto con se stessa. I rischi sono il
riflesso delle azioni ed omissioni umane, l’espressione di forze produttive altamente sviluppate.
Pertanto, con la società del rischio l’autoproduzione delle condizioni di vita sociali diventa
problema e oggetto di riflessione (anzitutto per via negativa, nella forma dell’esigenza di
prevenzione dei pericoli). L’origine dei rischi che inquietano gli uomini non sta dunque più
nell’esterno, nell’estraneo, nel non-umano, ma nella capacità, storicamente acquisita dall’uomo, di
autocambiamento, di autocostruzione e di autoannientamento delle condizioni riproduttive di tutta
la vita su questa Terra. Ciò significa che la fonte del pericolo non è più l’ignoranza, ma la
conoscenza; non un dominio carente, ma un dominio perfetto della natura; non ciò che si sottrae alla
presa umana, ma il sistema di norme e di vincoli oggettivi stabilito con l’età industriale. … A ciò è
connessa una conseguenza centrale, che occuperà il centro di questo capitolo: i rischi diventano il
motore dell’autopoliticizzazione della modernità nella società industriale; più ancora, nella società
del rischio cambiano il concetto, il luogo e i media della politica.
5.3.2.2. Politica e sub-politica. «Quando non ci si attende più che i contorni di una società
alternativa emergano dai dibattiti parlamentari o dalle decisioni dell’esecutivo, ma dalle
applicazioni della microelettronica, dalla tecnologia dei reattori nucleari e dalla genetica umana,
cominciano a crollare le costruzioni che hanno finora neutralizzato politicamente il processo di
innovazione. Nello stesso tempo, l’agire tecnico-economico nella sua costituzione continua ad
essere protetto contro le esigenze parlamentari di legittimazione. Perciò lo sviluppo tecnicoeconomico si situa tra le categorie della politica e quella della non-politica. Esso diventa una terza
entità, acquistando lo status precario e ibrido di una sub-politica, nella quale l’ampiezza dei
cambiamenti sociali provocati sta in rapporto inversamente proporzionale alla loro legittimazione
[…] il sistema politico rischia di essere esautorato mentre resta viva la sua costituzione
democratica. Le istituzioni politiche diventano amministratrici di uno sviluppo che non hanno
pianificato né sono in grado di strutturare, ma che nondimeno devono in qualche modo giustificare.
[…] In altri termini: accanto al modello della democrazia specializzata acquistano realtà forme di
una nuova cultura politica, nelle quali centri eterogenei della sub-politica, in virtù di un esercizio
effettivo dei diritti costituzionali, influenzano il processo di formazione e di applicazione delle
decisioni politiche.
5.3.2.3. Nuova sede di politica democratica: la «vasta attivazione politica dei cittadini — dai gruppi
di iniziativa, attraverso i cosiddetti “nuovi movimenti sociali”, fino alle forme alternative e critiche
di prassi professionale (tra i medici, i chimici, i fisici nucleari ecc.). Con questa pluralità di forme di
azione diretta extraparlamentare, che mette in discussione tutte le precedenti schematizzazioni
politiche, essi esercitano concretamente i loro diritti finora solo formali, riempiendoli della vita per
la quale ritengono che valga la pena di lottare. Questa attivazione dei cittadini su tutte le possibili
tematiche assume un significato centrale, proprio perché ad essi sono aperti anche gli altri fori
centrali della sub-politica: l’applicazione del diritto e la sfera pubblica dei media. E come
dimostrano gli sviluppi, questi fori possono essere utilizzati, almeno in certi casi, in modo assai
efficace, in particolare per tutelare gli interessi dei cittadini (nella tutela ambientale, nel movimento
antinucleare o nella riservatezza dei dati).
Ora i conflitti si svolgono nel confronto diretto tra il potere statale e i movimenti di protesta dei
cittadini, cioè in uno scenario sociale e politico completamente cambiato e tra attori che a prima
vista sembrano avere soltanto un denominatore comune: la lontananza dalla tecnologia.
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5.3.2.4. Un dissenso indicatore. Nemmeno questo cambiamento delle arene e delle controparti è
casuale. Esso corrisponde anzitutto al livello di sviluppo delle forze produttive nel quale le
tecnologie su larga scala e ad alto rischio (centrali atomiche, impianti di riciclaggio delle scorie
radioattive, diffusione planetaria dei veleni chimici) entrano in un rapporto reciproco diretto con i
mondi vitali, al di fuori dell’arena industriale. Inoltre, qui trova espressione il crescente interesse
alla partecipazione, proprio di una nuova cultura politica. Dal conflitto sugli impianti di riciclaggio
delle scorie radioattive «è possibile imparare che minoranze numeriche (ad esempio i “cittadini che
si oppongono” sul posto) non possono essere respinte come guastafeste e mestatori. Il dissenso che
essi esprimono funge da indicatore. Esso indica [...] un vasto cambiamento di valori e norme nella
società, o differenziazioni finora sconosciute tra i gruppi sociali. Le organizzazioni politiche
istituzionalizzate dovrebbero prendere questi segnali almeno tanto sul serio quanto le scadenze
elettorali. Qui si annuncia una nuova forma di partecipazione politica» (Braczyk et al., 1986, p. 22).
Alla fine, dunque, anche la scienza fallisce come fonte di legittimazione. Non sono gli ignoranti o i
fautori di una nuova età della pietra a mettere in guardia dai pericoli, ma si tratta sempre più di
persone che appartengono esse stesse alla comunità degli scienziati (ingegneri nucleari, fisici,
biochimici, medici, genetisti, tecnici informatici ecc.) così come di innumerevoli cittadini nei cui
casi l’esposizione al pericolo e la competenza si sovrappongono. Essi sanno argomentare, sono bene
organizzati, in qualche caso dispongono di loro riviste e sono in condizione di fornire argomenti
all’opinione pubblica e ai tribunali. […] La situazione rischia di farsi grottesca: la non-politica
comincia ad assumere il ruolo di guida spettante alla politica. La politica sta diventando un’agenzia
pubblicitaria, finanziata pubblicamente, della parte attraente di uno sviluppo che essa non conosce e
che è sottratto alla sua influenza attiva.
5.3.2.5. Aprire i confini della politica. Il punto di partenza di questo progetto per il futuro è
l’apertura dei confini della politica, vale a dire tutto lo spettro di politica principale, politica
secondaria, sub-politica e politica alternativa che si è delineato nelle condizioni di una democrazia
evoluta all’interno di una società differenziata. La diagnosi è che questa perdita di centro della
politica non possa più essere revocata, nemmeno rivendicando più democrazia. La politica si è in un
certo senso generalizzata e quindi è diventata “senza centro”. La non rivedibilità di questa
transizione della politica esecutiva verso un processo politico che ha perduto nello stesso tempo la
sua specificità, il suo contrario, il suo concetto e il suo modo di agire non è però soltanto un motivo
di afflizione. In essa si annuncia una nuova epoca di modernizzazione, che qui è stata caratterizzata
con il concetto di riflessività.
Beck Ulrich 1986 La società del rischio. Verso una seconda modernità, Carocci, Roma 2000, pp.
255- 323
Nella stessa direzione, in forma propositiva e di progetto, il sociale viene indicato come una
autonoma e efficace sede di democrazia, intesa come ruolo attivo dei soggetti e dei nuclei di
iniziativa, e di rinnovamento a fronte di un ceto politico che conserva, arretra, taglia per difendere
l’esistente e per interferire nella logica sociale del mutamento ed escluderne le proposte.
Uno spunto in questa direzione, riferito alla realtà italiana di fine 2008, viene dalle domande
retoriche di Carlo De Benedetti e Federico Rampini Centomila punture di spillo. Come l’Italia può
tornare a correre (con la collaborazione di Francesco Daveri (Mondadori, Milano 2008, dal
capitolo conclusivo): «Ha senso per noi affrontare le sfide dell’internazionalizzazione partendo dal
basso, dalle piccole dimensioni delle comunità in cui viviamo? Gli italiani possono fare qualcosa
per determinare il proprio futuro, se non sono guidati da un governo forte e lungimirante, con idee
chiare e strategie unificanti? In altri termini: per tornare ad avere speranza dobbiamo aspettare
prima di tutto una palingenesi nel ceto politico, la catarsi e il rinnovamento di un’intera classe
dirigente, una svolta epocale con l’avvio delle grandi riforme che ridisegnino il paese da cima a
fondo?».
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