Pubblichiamo il testo dell`intervento di Mario

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Pubblichiamo il testo dell'intervento di Mario Ricciardi, Docente di Relazioni Industriali
all'Università di Bologna al convegno Aisri-Adapt tenutosi a Modena il 19/20 marzo 2003 sul tema
"Il decentramento delle politiche del lavoro e della contrattazione collettiva".
Non si può affrontare l’argomento senza dire “da dove veniamo”. Senza dire, cioè, che il settore
pubblico proviene da una tradizione, fino a tempi recenti, di forte centralizzazione del diritto del
lavoro. La stessa legge fondamentale del nuovo ordine - il decreto legislativo 29 del 1993 - è nata
con una forte impronta centralistica, dettata dalla congiuntura economica difficile nella quale questa
legge fu approvata. In realtà, fino alla metà degli anni novanta, le traiettorie della contrattazione, nei
settori privati e nei comparti pubblici sono state notevolmente diverse: ancora nei contratti
nazionali del quadriennio 1995-98 gli spazi per la contrattazione decentrata erano davvero esigui.
Ciò mentre il decentramento contrattuale aveva potuto estendersi e consolidarsi, nel privato, sia
pure con alterne vicende, almeno dagli anni sessanta.
Negli ultimi cinque-sei anni si è verificata una svolta, in due direzioni.
Il primo cambiamento è quello della diversificazione contrattuale, cioè l’inizio di un processo per
cui i contratti nazionali diventano sempre più diversi tra loro, e tendenzialmente più coerenti con le
esigenze delle amministrazioni dei vari comparti: amministrazioni che, avendo diverse
organizzazioni del lavoro, diversi compiti e professionalità al loro interno, richiedono differenti
discipline di aspetti fondamentali, come la classificazione professionale e le flessibilità.
Questo è un primo elemento se vogliamo anche di “decentramento” contrattuale, rispetto ad un
sistema nel quale, fino a pochi anni fa i contratti sembravano fatti, come notò qualcuno, “con la
carta carbone” Oggi non è più così, e sarà sempre meno così.
La seconda tendenza recente è quella verso il decentramento contrattuale vero e proprio, cioè
verso un nuovo ruolo della contrattazione d’amministrazione e territoriale.
A sei anni dall’approvazione del decreto 396 del 1997 si può dire che la contrattazione nazionale ha
abbondantemente utilizzato la possibilità, che la legge le offre, di dirottare materie verso la
contrattazione integrativa, e che ciò è avvenuto non solo per impulso sindacale ma anche per
volontà delle amministrazioni.
A sollecitare questo intenso funzionamento della contrattazione integrativa ha certamente
contribuito il fatto che, la contrattazione nazionale ha di recente messo a disposizione delle
amministrazioni una vasta tastiera di strumenti utilizzabili per l’innovazione gestionale: dai nuovi
sistemi di inquadramento, all’aggiornamento e all’approfondimento delle tipologie di lavoro
flessibile, alla valorizzazione delle professionalità più elevate attraverso le cosiddette “posizioni
professionali”, e altro ancora. Forse, paradossalmente, di innovazione ne è arrivata perfino troppa e
tutta insieme, in un settore come quello pubblico abituato a lunghi periodi di stasi, piuttosto che a
benefici shock innovativi.
Quali sono stati i risultati che questo ha prodotto nella contrattazione integrativa? Naturalmente il
quadro è molto variegato e difficile da valutare, anche per la grande estensione della contrattazione
integrativa stessa. Ciò significa che, se si rifugge dal sensazionalismo o dalle tesi preconfezionate,
ogni giudizio sull’andamento e la qualità della contrattazione nel settore pubblico non può che
essere delineato, così come del resto negli altri settori, con prudenza e con i necessari chiaroscuri
E’ soprattutto nei comparti a più consolidata autonomia, nei quali l’efficienza è più direttamente
visibile e soggetta al controllo degli utenti, che la contrattazione ha prodotto gli effetti più positivi,
come rivelano le ricerche ormai abbastanza numerose prodotte in materia. Se non ci si ferma alla
superficie, si può infatti apprezzare la crescita di esperienze di gestione del personale e di relazioni
sindacali anche fortemente innovative e legate al cambiamento organizzativo, i molti casi di
amministrazioni che fanno ormai stabilmente ricorso a sistemi avanzati di valutazione permanente
del personale, l’elevata percentuale di amministrazioni che fondano la “carriera” dei propri
dipendenti anche sulla valutazione delle prestazioni e delle capacità individuali, o il fatto che molte
amministrazioni fondano le progressioni di carriera e retributive del personale sulle esigenze
dell’innovazione organizzativa e gestionale, e non soltanto sulla soluzione di situazioni pregresse.
Naturalmente, accanto ai benefici e alle potenzialità benefiche, si sono verificati anche problemi, in
parte derivanti da immaturità dei soggetti a livello decentrato, in parte anche da un certo
bipolarismo distorto che proprio la rapidità della crescita della contrattazione integrativa, e il
contesto in cui essa è avvenuta, hanno probabilmente contribuito a determinare.
Guardando ai principali accordi nazionali si può infatti rilevare che all’espansione della
contrattazione integrativa non ha corrisposto uno snellimento simmetrico della contrattazione
centrale. Spesso, anzi, i nuovi livelli si sono venuti sovrapponendo ai vecchi, creando un
sovraccarico negoziale che contrasta, se non altro, con l’idea che la privatizzazione del sistema
contrattuale pubblico debba significare anche semplificazione regolativa. Accanto a questo, un
ulteriore elemento che rende difficile il funzionamento del sistema è l’enorme quantità di punti di
contrattazione, che sono circa 25000.
Quale potrebbe, e dovrebbe essere così stando le cose, la costruzione di una prospettiva capace di
implementare gli aspetti positivi del decentramento contrattuale,e di cominciare a risolverne i
problemi? La risposta non è difficile: l’apertura una fase di sedimentazione delle numerose
innovazioni introdotte, di sostegno e di formazione dei soggetti contrattuali, di riflessione e di
semplificazione dell’intiero sistema. Per fare qualche esempio, la semplificazione dovrebbe
riguardare la riduzione del numero dei livelli contrattuali ,riportandolo ad un più netto bipolarismo
centro-periferia. Allo stesso modo, non v’è dubbio che sia opportuno un alleggerimento del
contratto nazionale capace di dare spazio alle chances di autodeterminazione gestionale degli enti,
soprattutto in quei comparti dove esse sono più pronunciate, e più accompagnate da un controllo
sociale sui risultati. Appare auspicabile, infine, che si estendano forme di contrattazione territoriale
e multi-ente, in quelle realtà in cui le dimensioni delle amministrazioni non sono tali da garantire
buoni risultati della contrattazione.
Alla luce dei fatti, insomma, il rafforzamento e la crescita anche qualitativa della contrattazione
integrativa nel lavoro pubblico è affidata, da un lato, ad una regolazione nazionale abbastanza a
maglie larghe da lasciare spazio allo sviluppo di una contrattazione integrativa coerente con le
esigenze gestionali degli enti, alla valorizzazione delle buone pratiche, e ad intensi processi di
formazione e circolazione delle esperienze.
Proiettando ora lo sguardo verso il futuro, almeno quello prossimo, è possibile ipotizzare che lo
sviluppo della contrattazione integrativa nel pubblico segua appunto la strada di uno sviluppo
progressivo, che consenta di implementarne gradualmente gli aspetti positivi, e di accrescerne il
ruolo di strumento che aiuta la crescita delle amministrazioni?
La risposta è difficile: sul futuro della contrattazione collettiva nella pubblica amministrazione
sembrano pesare tendenze contrastanti.
Si è affacciata innanzitutto, a partire almeno dalla legge di riforma del titolo quinto della
costituzione, una tendenza che si potrebbe definire “destrutturante” dell’attuale sistema contrattuale.
Non è questa la sede per ricostruire il complesso dibattito che si è svolto, su questo argomento,
nell’ultimo biennio. Si può ricordare tuttavia che tali tendenze si basano su almeno due tipi di
interpretazione della riforma . Una interpretazione che estremizza il disposto dell’art. 117 cost. ,
dando alla locuzione “tutela e sicurezza del lavoro” un significato onnicomprensivo, e tale da
“poter far passare tutto il diritto del lavoro dalla competenza esclusiva dello stato a quella
concorrente della regione”. Vi è
poi un’altra lettura, che, pur proponendosi di salvaguardare la dimensione nazionale del diritto del
lavoro e del diritto sindacale in quanto facenti parte dell’ordinamento civile, ma ritenendo che gli
aspetti organizzativi aventi natura pubblicistica siano invece di competenza regionale, sostiene che
regioni ed enti locali possano pienamente autodeterminarsi nel costituire strutture per la
contrattazione collettiva, e le correlate procedure negoziali. Ciò che coinvolgerebbe, per ora,
almeno i comparti degli enti locali e della sanità, ma che potrebbe riguardare, in prospettiva,anche il
personale di altri settori come la scuola. Si tratta di una discussione ancora in corso, e di grande
interesse, che ha tuttavia alcuni significativi agganci con la politica sindacale.
Non è difficile vedere infatti, come le tesi sopra ricordate possano fornire un potenziale supporto
tecnico-giuridico non solo a chi ritiene che la contrattazione “ a convoglio”, così come essa è stata
per un certo periodo attuata nel lavoro pubblico sia penalizzante per le esperienze più dinamiche ed
innovative, ma anche a chi pensa che quella del progressivo sfaldamento dell’omogeneità del
settore pubblico sia la scorciatoia per portare ad un decisivo indebolimento, se non ad una
eliminazione, del contratto nazionale.
Chi parla ritiene che il ruolo del contratto nazionale di lavoro vada invece difeso, sia pure con i
necessari adattamenti. Per motivarne le ragioni basterebbe citare le parole scritte da Massimo
D’Antona nel numero d’esordio della rivista “il lavoro nelle pubbliche amministrazioni”, in un
saggio che resta fondamentale per comprendere modi e ragioni della riforma cui egli diede il
contributo che conosciamo. “La rilevanza del livello nazionale –scriveva D’Antona – sembra
inevitabile(…). Solo rendendo vincolanti le opzioni compiute autonomamente, ma ad un livello
capace di realizzare sintesi di interessi diversi, si possono scongiurare i rischi del
decentramento,contrattuale: il rischio di incrementare i differenziali salariali tra amministrazioni o
aree geografiche di un medesimo comparto, senza alcun riferimento alla produttività, a scapito
dell’equità e dell’efficienza; e quello della minore controllabilità delle dinamiche complessive del
costo del lavoro pubblico, a scapito dell’equilibrio della finanza pubblica e del rispetto dei vincoli
derivanti dall’unione monetaria”. Alle ragioni enumerate da D’Antona c’è, poco da aggiungere, se
non sottolineare che ogni forma di destrutturazione del sistema andrebbe in direzione diversa da
quella della crescita graduale del decentramento contrattuale . A ciò va aggiunto, peraltro, che tale
posizione sembra tanto più difendibile quanto più la contrattazione nel pubblico impiego abbandoni
definitivamente la fisionomia di un “convoglio” che comprime ed omogeneizza verso il basso i
contenuti della contrattazione, per fondarsi invece sempre più sulla diversificazione tra i comparti e
sul decentramento contrattuale.
Se quella della destrutturazione sembra una prospettiva che si gioca più sul periodo medio-lungo, e
sulle ancora incerte prospettive del federalismo, vi è invece una tendenza che appare più attuale, e
che va in direzione esattamente opposta. Mentre si parla di federalismo, infatti, sembrano
moltiplicarsi i fattori che potrebbero determinare un’ inversione di tendenza in senso
centralizzatore, che hanno per di più la logica stringente delle esigenze economiche in una fase di
difficoltà per le finanze pubbliche .
E’ appunto per vigilare sui conti dello stato, che nella legge finanziaria per l’anno 2002 sono stati e
rafforzati i vincoli sulla contrattazione integrativa, riservando un ruolo inedito di co-decisione al
Governo nell’approvazione delle ipotesi di accordo proprio nei comparti in cui la contrattazione
integrativa è di solito più vivace, come quelli delle autonomie.
Ma se qui siamo ancora nell’ambito dei controlli, tendenze anche più evidenti in senso
centralizzatore si avvertono nell’àmbito delle politiche. Da un lato, infatti, la crescita del costo della
vita oltre le previsioni determina richieste sindacali di utilizzazione delle risorse contrattuali per
difendere il potere d’acquisto delle retribuzioni cui le pubbliche amministrazioni faticano a
resistere, e che si traduce in una riduzione delle somme da destinare alla contrattazione integrativa.
D’altro lato, il ridursi dei trasferimenti dallo stato alle autonomie ha anch’esso l’effetto, almeno nel
breve periodo, di ridurre la quantità di risorse spendibili a livello degli enti.
Un’ulteriore tendenza centralizzatrice discende certamente dalle politiche sindacali. Le
organizzazioni sindacali sono tradizionalmente ostili a ogni alleggerimento della contrattazione
nazionale che le costringa a rinunciare a posizioni che ritengono acquisite: da qui nascono anche
molti ostacoli alla razionalizzazione della struttura contrattuale.
Infine, non si può dimenticare che a sottrarre spazio alla contrattazione integrativa potrebbe essere
una certa tendenza, che si va diffondendo in talune amministrazioni, a rivendicare crescenti spazi di
determinazione unilaterale. E occorre ricordare anche che non sono mancati episodi di invasione da
parte della legge in materie di competenza contrattuale; si tratta in qualche caso di “sviste”, ma non
si può dimenticare che vi sono voci che rivendicano apertamente l’ampliamento delle competenze
della legge in materia di lavoro pubblico. Si tratta di tendenze di cui credo non vada sottovalutata la
pericolosità. A tacer d’altro, credo non si debba dimenticare che la continua ricerca di “paletti”
fissati da un’istanza centrale produce inevitabilmente la deresponsabilizzazione delle
amministrazioni, e l’indebolimento della loro capacità innovativa.
Tra le contrastanti tendenze appena ricordate, quale sarà, in concreto, lo spazio della contrattazione
collettiva nel settore pubblico? E’ difficile dirlo, anche perché, per ragioni ben note, la stagione
contrattuale è solo agli inizi; si può tuttavia dire, guardando alla documentazione ufficiale, e
ufficiosa, preparatoria della stagione contrattuale nei comparti più importanti, che gli attori sociali, e
le amministrazioni in particolar modo, più che prestare ascoltato alle sirene dell’ideologia sembrano
predisporsi a mettere in campo ipotesi di aggiustamento pragmatico della struttura contrattuale
esistente nei vari comparti. Così, il comparto degli enti locali sembra orientato a procedere
soprattutto nella direzione di una diversificazione delle discipline contrattuali nazionali tra i vari
settori (regioni, comuni, province) che ne fanno parte, pur conservando l’unicità del comparto. Il
dibattito preparatorio della fase contrattuale, prevede dunque una parziale riforma del sistema di
inquadramento professionale, diversificato per settori, in grado di venire incontro alle esigenze assai
differenziate di amministrazioni, spesso assai diverse per funzioni e dimensioni, come quelle
rappresentate nel contratto. Il ruolo della contrattazione integrativa, che come è noto è
particolarmente sviluppato nel comparto, viene ovviamente confermato. Ma è significativo rilevare
che si chiede proprio al contratto nazionale di definire garanzie generali rispetto ad utilizzazioni
improprie dell’autonomia contrattuale, come la distribuzione a pioggia degli incentivi legati alla
produttività.
In altri comparti, come la sanità, si intende rafforzare il ruolo delle regioni, non tanto con l’intento
di creare un nuovo livello contrattuale, che verrebbe a questo punto ad appesantire la struttura
bipolare, quanto a dare indirizzi più omogenei alla contrattazione nelle diverse aziende sanitarie.
Una tendenza per certi aspetti simile, tendente questa volta ad azzerare la contrattazione di
ministero e a spostarne le competenze a livello regionale sembra farsi largo anche nella scuola.
Si tratta per ora di segnali, che andranno verificati e declinati in una stagione contrattuale
sicuramente non facile. Si può tuttavia fin d’ora registrare che le rappresentanze delle
amministrazioni sembrano intenzionate a non fare un tabù, né un mito, né della centralizzazione né
del decentramento contrattuale, ma semplicemente a cercare, tra strumenti centrali e decentrati, il
mix ottimale per soddisfare le loro esigenze gestionali.
E’ questa, in fondo, una delle lezioni di metodo che ci ha lasciato Marco: quella di un approccio
laico, e senza pregiudizi, alla modernizzazione del sistema.
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