29 maggio 2014
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Guglielmo Tell
Torino, 11 maggio 2014. Come già scritto in moltissime occasioni, il Rossini Opera Festival di
Pesaro non ha eguali e se ne ammirano le rarità delle esecuzioni, l’attenzione alle scoperte, alle
edizioni critiche, alle diverse versioni con cui certi titoli sono stati storicamente proposti, al
rispetto dell’intenzione del compositore, alla qualità medio alta, talvolta altissima, degli artisti ed
interpreti coinvolti.
William Fratti
Gioachino Rossini è stato il vero precursore del melodramma dell’Ottocento e del Novecento, il
padre della musica d’avant-garde, soprattutto nel repertorio serio e drammatico ed è ingiustamente
troppo poco rappresentato. Guglielmo Tell, il suo ultimo capolavoro teatrale, contiene pagine che
sono state inarrivabili per molti decenni, almeno fino alla seconda meta del XIX secolo e tagliarne
anche solo una virgola è da considerarsi peccato capitale.
Lo spettacolo andato in scena al Teatro Regio è stato proposto lo scorso
agosto a Pesaro in versione integrale, nell’originale francese, mentre a
Torino è stato eseguito nella traduzione ritmica italiana di Calisto Bassi
ripristinata da Paolo Cattelan, ma brutalmente sforbiciata, facendo
scomparire i da capo delle cabalette di duetti e terzetti, della seconda aria
di Matilde, la prima parte della scena dell’arrivo dei ribelli di svizzeri e
l’aria di Jemmy. Trattandosi di un’opera così bella, ma così
ingiustamente poco rappresentata – e molti spettatori non avranno neppure l’occasione di rivederla
– sarebbe stato più opportuno proporre tutta la partitura. Tagliare parti di Guglielmo Tell, anche se
talvolta si tratta di ripetizioni, equivale ad amputare arti o prelevare un rene e parte del fegato ad un
gigante per rimpicciolirlo un poco.
Detto ciò, dell’allestimento di Graham Vick, qui ripreso da Lorenzo Nencini, se ne è già parlato
lo scorso agosto, sottolineandone pregi e difetti; ma nel rivederlo a distanza di mesi, molti tratti
precedentemente oscuri ora lasciano spazio a maggiori squarci di comprensione. Non è piacevole
andare a teatro col libretto delle istruzioni, le regie dovrebbero essere immediate e questo
spettacolo è invece particolarmente complesso, ma avendo voglia di ragionare un poco, si può
perlomeno intendere il forte messaggio contro ogni tipo di oppressione, che vede il suo apice nelle
danze di terzo atto, ideate da Ron Howell e riprese da Ilaria Landi. Così, invece di contestare, il
pubblico più inorridito avrebbe potuto pensare che tali umiliazioni personali e sessuali sono
purtroppo ancora la cruda verità di molti regimi. Andare a teatro deve essere un’attività piacevole,
ma anche intelligente, altrimenti tanto vale restare inebetiti davanti alla TV spazzatura.
Sul fronte musicale Gianandrea Noseda – già colpevole delle amputazioni – fa un buon lavoro di
concertazione e conduce la bravissima Orchestra del Teatro Regio lungo la partitura rossiniana con
ottima disinvoltura. Fiati e percussioni, fin dal secondo movimento della sinfonia, sono davvero
eccellenti. In certe pagine il maestro è sinceramente toccante ed emozionante, anche se forse dirige
più alla maniera verdiano popolare che non con maggior stile rossiniano.
Dalibor Jenis è un protagonista convincente, anche se vocalmente non completamente ferrato in
questo ruolo. Innanzitutto sarebbe preferibile un timbro più scuro con più facilità di discesa alle
note gravi, in cui spesso si trova in difficoltà. Nei passaggi più centrali o medio acuti certe note
hanno una bella limpidezza, ma per il resto risulta abbastanza opaco, povero di fraseggio e poco
appassionante. La celebre aria di terzo atto è eseguita correttamente, ma appaiono migliori i
recitativi precedenti.
Angela Meade, astro nascente dello Stato di Washington, già protagonista sui più importanti
palcoscenici di tutto il mondo, ha una bellissima voce, delicata ma piena e certamente
musicalissima. Durante l’aria di sortita di Matilde dimostra di possedere buona tecnica, soprattutto
sui fiati, con filati raffinatissimi e intonazione impeccabile, per cui le si può perdonare qualche
piccola imprecisione. Col procedere dell’opera si nota sempre di più l’importanza delle sue corde,
la rotondità dei suoni e la sua capacità di mantenersi leggera lungo tutta la partitura.
John Osborne è un eccellente Arnoldo ed è un vero peccato che la sua parte sia quella
maggiormente tagliata: sopravvive il da capo della cabaletta dell’aria di quarto atto, ma quelle di
duetti e terzetti scompaiono miserabilmente, non permettendo al pubblico di godere appieno della
sua bella voce, né di misurare la sua resistenza nella lunga parte. Il tenore esibisce acuti
limpidissimi, mezze voci finissime, un canto elegantissimo e una morbidezza, soprattutto nel
passaggio, davvero encomiabile.
Anna Maria Chiuri è una bravissima Edwige , musicalissima e ben omogenea, affiancata
da Marina Bucciarelli nel ruolo di Jemmy, eseguito con giudizio, con ottima capacità di salita
all’acuto nei numerosi concertati, la cui unica colpa è quella di avere una voce ancora piccola, non
sufficiente per quel gigante che è il grand-opéra rossiniano.
Mikeldi Atxalandabaso è un azzeccatissimo pescatore, corretto e aggraziato, anche se non eccelso
e strabiliante; Fabrizio Beggi è un Melcthal riuscitissimo, dotato di vocalità scura e fare
autoritario; efficaceRyan Milstead nei panni de Leutoldo; sufficiente il Rodolfo di Luca Casalin;
adeguato il cacciatore di Giuseppe Capoferri.
Sapientemente eseguito è il ruolo di Gualtiero, in cui Mirco Palazzi esprime una bella vocalità
cantabile,anche se il personaggio appare un po’ troppo moderato. Musicalissimo è il Gesler
di Luca Tittoto, scenicamente autorevole, addirittura fastidiosamente viscido, come si conviene al
suo personaggio e alle azioni che compie, con una linea di canto ben omogenea.
Eccellente la prova del Coro del Teatro Regio diretto da Claudio Fenoglio.
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