1 Anticipazioni / Le carte di Giovanni Giolitti Il “colpo di Stato” del maggio 1915 Nell’ultimo volume della monumentale opera che raccoglie scritti pubblici e privati di Giovanni Giolitti sono contenuti alcuni documenti inediti che fanno luce sui modi e sui tempi dell’intervento dell’Italia nella Prima guerra mondiale. In seguito, per scongiurare nuovi conflitti, alcuni uomini politici, guidati proprio da Giolitti, cercarono di trasferire il potere supremo dal “governo del re” al Parlamento, espressione della volontà nazionale, senza toccare lo Statuto. Ma fallirono perché l’Italia dei primi anni Venti pensava di avere altre emergenze… di Aldo A. Mola Il 24 giugno 1920 Giolitti festeggiò l’onomastico con un capolavoro da statista superiore qual fu. Settantottenne, da pochi giorni tornato per la quinta volta alla guida del governo, “di concerto con tutti i ministri” presentò il disegno di legge n° 543. Un solo articolo di poche righe: “I trattati e gli accordi internazionali, qualunque sia il loro oggetto, non sono validi se non dopo l’approvazione del Parlamento. Il Governo del Re non può dichiarare la guerra senza la preventiva approvazione delle due Camere” (corsivo nostro). In tal modo Giolitti intendeva conciliare la monarchia rappresentativa con la democrazia parlamentare, armonizzare vieppiù lo Statuto albertino con la sovranità popolare. Le decisioni supreme, quelle che mettono in gioco milioni di vite e lo Stato stesso, non sarebbero più state assunte dall’esecutivo sotto il mantello delle prerogative regie, ma dal Parlamento: la Camera dei deputati, elettiva, e il Senato, i cui membri continuavano, sì, a essere nominati dal re e vitalizi, ma venivano concordati in Consiglio dei ministri, nel gioco dei pesi e contrappesi tra maggioranza e opposizione costituzionale, e comunque con un minimo margine d’iniziativa per il sovrano. Per Giolitti quel disegno di legge fu l’approdo di lunga meditazione. L’anziano statista, deputato dal 1882, aveva veduto crescere la Nuova Italia. Anzi ne aveva scritto di proprio pugno molte pagine fondamentali: riforme economiche; definizione delle competenze del governo (1901); ampliamento delle libertà civili; sovranità italiana su Tripolitania e Cirenaica riconosciuta dall’Impero turco-ottomano (e da tutte le altre nazioni) con la pace di Losanna (ottobre 1912) al termine di una guerra più lunga e complessa del previsto; e diritto di voto universale maschile. Nel 1914 l’Italia di Vittorio Emanuele III e di Giolitti figurava a pieno titolo tra le grandi potenze. L’importante – come lo statista scrisse ripetutamente ai collaboratori più fidi – era evitare all’Italia un conflitto generale, perché esso ne avrebbe assorbito ed esaurito le risorse indispensabili per il progresso, l’avrebbe ricacciata indietro di mezzo secolo e resa impopolare la monarchia: un gioco più volte spregiudicatamente tentato da repubblicani, che usavano la carta dell’irredentismo per abbattere la Corona più che per completare il Risorgimento. Quasi cent’anni dopo si può affermare che una guerra europea era paventata da tempo, ma nessuno prevedeva quando, perché e come sarebbe iniziata davvero. Senza l’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo a Sarajevo il 28 giugno 1914, la tensione 2 sarebbe rimasta acuta e avrebbe attraversato crisi gravissime ma circoscritte: guerre “di teatro” come era accaduto tante volte dal Congresso di Vienna del 1815. Dopo la guerra russo-giapponese del 1904-1905 alta finanza e grande industria avevano investito capitali giganteschi a sostegno della modernizzazione dell’impero zarista. Proprio i profitti erano incompatibili con la guerra. A differenza di quanto pensava Lenin, l’imperialismo non era affatto la fase suprema del capitalismo e comunque il capitalismo non era affatto in crisi. Poteva rigenerarsi senza la catastrofe europea. Pure l’Impero turco-ottomano, il “grande malato d’Oriente”, aveva troppi guai interni per volere la guerra. Anche il governo di Roma sentiva da tempo venti di guerra, ma non aveva alcun interesse a un conflitto generale. Con la pace di Losanna aveva appena concluso vittoriosamente l’impresa di Libia. Al trattato difensivo con Vienna e Berlino (rinnovato anticipatamente con durata decennale) univa accordi con Londra, Parigi e San Pietroburgo. Dalla nascita il regno aveva alzato difese su tutte le frontiere, compresa quella con la Svizzera, e studiato le conseguenze di possibili aggressioni da parte della Francia o dell’Impero austroungarico, perché la guerra rientrava tra le possibilità. Nulla però diceva che essa fosse necessaria o una fatalità ineluttabile. Lasciato il governo nel marzo 1914 nella certezza che poco o nulla sarebbe cambiato e convinto di tornare presto alla presidenza, da fine giugno Giolitti si trovò invece a fare i conti con un mutamento drastico, dapprima impercettibile poi inarrestabile. Ultimatum, mobilitazioni generali e dichiarazioni di guerra, tra fine luglio e inizio agosto, lo colsero distratto, mentre era in viaggio di cura e di vacanza tra la Francia e Londra, ove non aveva mai messo piede. Quando dalle minacce si passò alle cannonate, il governo di Roma, presieduto da Antonio Salandra, dichiarò la neutralità dell’Italia: decisione condivisa dalle personalità eminenti e da tutti i partiti a eccezione dei nazionalisti, fautori dell’intervento a fianco degl’Imperi Centrali, Germania e Austria-Ungheria, e degli irredentisti, corrivi, all’opposto, a chiedere la guerra contro Vienna, il nemico storico, quasi si potesse entrare in conflitto con uno solo degli Stati schierati in blocchi contrapposti. In pubblico e in privato Giolitti plaudì alla prudenza del governo, esortandolo a provvedere agli interessi supremi dell’Italia e a propiziare il rapido ritorno alla pace, preziosa per un Paese la cui economia dipendeva dall’importazione di materie prime da tutti i contendenti e i cui emigrati si sarebbero trovati in condizioni difficili quanto più il conflitto fosse durato e si fosse inasprito. Meno perspicace e reattivo (forse per ricorrenti problemi di salute), dopo l’attentato di Sarajevo e per tutto il luglio 1914 Giolitti aveva escluso che davvero le Cancellerie mirassero alla guerra e quando questa iniziò confidò nella lungimiranza del ministro degli Esteri, Antonino di San Giuliano. Ma il 5 novembre 1914 s’insediò un secondo governo, profondamente rinnovato. La novità vera fu però la formazione di un quadrumvirato occulto tra Salandra (premier), Sonnino (Esteri), il ministro delle Colonie, Ferdinando Martini, e Salvatore Barzilai. Quest’ultimo non era al governo ma tesseva i rapporti tra l’esecutivo e alcuni ambienti influenti. Il quartetto accelerò il passo verso il capovolgimento delle alleanze e l’intervento dell’Italia nella Grande Guerra a fianco di Regno Unito, Francia e Impero russo contro l’Austria-Ungheria. Come non aveva avvertito la marea montante della conflagrazione europea, così Giolitti non percepì modi tempi e contenuti del processo in corso a Roma. Lo documenta il carteggio inedito con Antonio Cefaly, suo amico carissimo e confidente, conservato parte nell’Archivio Centrale dello Stato, parte nell’Archivio Storico del Senato e parte presso privati. Nel settembre 1914 Giolitti si sottopose al “Mauriziano” di Torino a un intervento chirurgico seguito da polmonite, venti giorni di ricovero, spossatezza: “una peripezia un po’ noiosa”, commentò il 17 ottobre a Cefaly. Nei mesi seguenti precisò in modo inequivocabile la sua linea: neutralità non incondizionata ma armata, nella certezza che si 3 potesse ottenere molto da Vienna senza l’alea di una guerra impossibile da circoscrivere a uno solo dei contendenti del fronte austro-germanico. Angosciato dal suicidio dell’Europa ormai in atto, il settantaduenne statista non vide o preferì non vedere quanto accadeva e gli veniva segnalato dagli amici più fidi sul lavorio di ambienti che da mesi miravano a portare l’Italia in guerra a fianco di Londra e Parigi. Il 22 aprile 1915, in risposta all’ennesimo accorato appello di Cefaly a correre a Roma per riprendere decisamente in pugno il corso degli eventi che si stava consumando al di fuori del Parlamento e all’insaputa persino del governo, Giolitti rispose che non intendeva recarvisi per non attizzare “quei pettegolezzi che tanto danno recano alla nostra vita politica”. “Io, aggiunse, sono sempre fermamente persuaso che con trattative si può, e si deve, evitare la guerra, e che prima condizione per la richiesta di trattative è che il governo abbia la massima forza e si presenti colla sicurezza di avere il paese con sé. Credo poi così evidenti i pericoli di una guerra, e così evidente l’impossibilità di prevedere quale sarà la situazione politica in Europa anche a breve scadenza, che di fronte a così terribili incognite non è possibile che il governo prenda risoluzioni avventate. La guerra durerà lungamente sia che noi vi partecipiamo o no (...) La Germania, qualunque cosa avvenga sarà sempre una potenza di primissimo ordine: quali conseguenze potrà avere per noi la impossibilità di qualunque accordo con essa, la certezza anzi del suo odio per un secolo? Io credo che il governo fa bene a insistere per avere le maggiori concessioni ma ho la più assoluta certezza che non precipiterà alcuna risoluzione e che si rende conto dei veri sentimenti e dei veri interessi del paese...”. Si sbagliava. Infatti, quattro giorni dopo, d’intesa con il Re perfettamente informato di tutti i preliminari, l’ambasciatore d’Italia a Londra, Guglielmo Imperiali di Francavilla, “invocato il santo nome di Dio, ed il suo patrocinio, con profonda interna commozione”, firmò il patto che impegnava l’Italia a entrare in guerra “non oltre trenta giorni” dalla stipula contro “tutti i nemici” (art. 2) delle potenze dell’Intesa: l’Impero austro-ungarico, l’Impero di Germania (nei cui confronti l’Italia aveva debiti storici e nessun contenzioso aperto) e i loro alleati (presenti e futuri). Quel giorno, con quel patto venne tirato il dado senza che né il governo né il Parlamento né il Paese ne conoscessero i termini. La dichiarazione di guerra avvenne ai sensi dell’articolo 5 dello Statuto albertino del 4 marzo 1848 in forza del quale il re “comanda(va) a tutte le forze di terra e di mare; dichiara(va) la guerra; fa(ceva) i trattati di pace, d’alleanza, di commercio ed altri, dandone notizia alle Camere tosto che l’interesse e la sicurezza dello Stato il permettano, ed unendovi le comunicazioni opportune. I trattati che imponessero un onere alle finanze, o variazioni di territorio dello Stato, non avranno effetto se non dopo l’assenso delle Camere”. Il patto di Londra vaticinava ma non garantiva affatto variazioni del territorio dello Stato (Trento, Trieste e altro) se non, come ovvio, in caso di vittoria. Di per sé, quindi, esulava dai trattati da comunicare preventivamente alle Camere e da sottoporre al loro assenso preventivo. Esso però esigeva oneri finanziari non certo superati dal modestissimo concorso promesso dall’Intesa (art. XIV) e quindi andava approvato dal Parlamento, al quale però non poté essere proposto perché in forza del suo art. 16 doveva rimanere segreto sino alla sua efficacia, cioè non solo all’ingresso in guerra ma anche alla sua attuazione. La decisione suprema fu dunque del “governo del re” al riparo dell’incipit dell’articolo 5. Le clausole del patto rimasero ignote sino a quando, conquistato il potere con la Rivoluzione d’Ottobre, il governo bolscevico aprì gli archivi dello Zar e lo pubblicò. In tal modo Lenin fece sapere al mondo che tra le sue clausole (art. XV) vi era l’esclusione della Santa Sede dal futuro congresso della pace: con buona pace dei cattolici interventisti (pochi) e di quelli che servivano lealmente la Patria. Si apprese inoltre che tra i territori promessi all’Italia in caso di vittoria il patto non comprendeva affatto la città 4 Fiume. Salandra, Sonnino e molti altri non l’avevano considerata necessaria. Il 3 maggio 1915 il governo denunciò il trattato difensivo del 1882 con Vienna e Berlino e, dopo una temporanea remissione del mandato e frenetiche consultazioni per dar vita a una nuova compagine, il 23 maggio dichiarò guerra all’Impero austro-ungarico in applicazione del patto di Londra: parziale e molto sospetta agli occhi dei nuovi alleati (mai amici), che ne controllarono a vista le mosse e in molti casi le tarparono le ali. La guerra contro la Germania venne dichiarata infatti solo il 25 agosto 1916. Giolitti non era affatto un pacifista. Era cresciuto nello studio della storia. Andava orgoglioso del nonno materno, Gian Battista Plochiù, Legion d’Onore dell’Impero di Napoleone I, e dello zio Alessandro Plochiù, promosso generale per il valore mostrato nella battaglia di San Martino il 24 giugno 1859. Giolitti era il primo ministro che aveva ordinato la guerra contro la Turchia e l’occupazione di Rodi e del Dodecaneso e aveva fatto sapere che la guerra sarebbe durata a tempo indeterminato sino alla vittoria. Però quello era un conflitto circoscritto, anche se più azzardato delle precedenti guerre e spedizioni coloniali in Eritrea, Etiopia, Somalia e Cina. La conflagrazione europea era altra cosa. Stava costando massacri e rovine immense e tutto lasciava prevedere che sarebbe andata di peggio in peggio. Perciò Giolitti, consapevole delle risorse del Paese, riteneva che l’intervento dovesse semmai essere rinviato al momento nel quale potesse risultare davvero decisivo. Fu e rimase contrario all’intervento, anche se in pubblico tacque per non alimentare divisioni. Anzi, dopo Caporetto, sin dal 2 novembre 1917 scrisse a Cefaly che sarebbe andato a Roma anche se non vi fosse stato chiamato perché nessuno poteva stare in disparte mentre la Patria era in pericolo. Anche prima di quella catastrofe, rifletté sull’interpretazione che proprio l’amico calabrese aveva dato della condotta di Salandra: “L’attuale guerra – scrisse Cefaly in un discorso da pronunciare al Senato, mai detto e tuttora inedito – è l’effetto di un audacissimo colpo di Stato compiuto contro gli alti poteri dello Stato medesimo (...) Al Parlamento si fece intendere che non v’era libertà di fare altrimenti, giacché ci trovavamo dinnanzi ad una convenzione già stipulata colla Triplice Intesa e di fronte al fatto compiuto ed il Parlamento si arrese e votò i pieni poteri”. Cefaly separò le responsabilità del Re da quelle del primo ministro. Non mise in discussione la Corona, che agli occhi suoi, come a quelli di Benedetto Croce, di Giustino Fortunato e di altri meridionali, rappresentava l’agognata e faticata unità d’Italia. Tra il 1917 e il 1919 Giolitti disse esplicitamente che occorreva modificare l’articolo 5 dello Statuto. Attaccò frontalmente le prerogative regie, come documentano i discorsi al consiglio provinciale di Cuneo (14 agosto 1917) e di Dronero (2 ottobre 1919) per il rinnovo della Camera del novembre 1919, riproposto nel citato “Carteggio” sulla scorta del loro manoscritto. Il settantacinquenne statista vi denunciò sarcasticamente “la più strana delle contraddizioni” dell’ordinamento politico italiano: non si poteva creare o abolire una pretura o un impiego pubblico senza la preventiva approvazione del Parlamento ma si poteva invece “per mezzo di trattati internazionali assumere, a nome del paese, i più terribili impegni che portino inevitabilmente alla guerra; e ciò non solo senza la approvazione del Parlamento, ma senza che né Parlamento né paese ne siano, o ne possano essere, in alcun modo, informati”. Occorreva dunque la “riforma statutaria”: una sfida alla Corona. Tornato a capo del governo nel giugno 1920, lo statista presentò il disegno di legge che conferiva al Parlamento il potere di dichiarare guerra. Non era necessario modificare lo Statuto. Uomo del Risorgimento, ricordava che secondo la Carta albertina del 1848 la bandiera era quella di Casa Savoia e che la sola religione dello Stato era la cattolica, ma poi, solo con regio decreto e senza toccare lo Statuto, il Regno di Sardegna aveva adottato il tricolore italiano e proclamato che la differenza di culto non costituiva discrimine tra i 5 cittadini. Pur in carenza di documentazione, possiamo ritenere con certezza che Giolitti sottopose a Vittorio Emanuele III il testo di un disegno di legge che, sottoscritto dall’intero governo, toccava le prerogative della Corona. L’iniziativa di Giolitti, sostenuta dall’intero governo, non era un salto nel buio. La relazione sul disegno di legge avvertì che “i rapporti internazionali danno luogo a troppo vaste interferenze, ed hanno troppe possibilità di ripercussioni gravi e lontane, perché del loro orientamento non debba essere chiamato a decidere, in pienezza di libertà e con perfetta cognizione di causa, per mezzo della sua legittima rappresentanza, il popolo, che dovrebbe, poi, accettarne o subirne le conseguenze...”. Precisò tuttavia che esulavano dalla discussione e dall’approvazione del Parlamento “i provvedimenti urgenti che fossero per avventura resi necessari per la difesa del territorio, giacché in tal caso straordinario la necessità suprema di respingere un’aggressione, darebbe giustificazione di qualsiasi provvedimento”. Nessuna retorica pacifistica, dunque: nessun capo reclinato sul ceppo di aggressioni nemiche. La salvezza dello Stato rimaneva suprema regola sufficiente a imporre qualsiasi misura difensiva e offensiva, in linea con la Res Publica romana. Però le Camere non trovarono tempo di discutere e approvare il disegno di legge. Il V ministero Giolitti durò un anno. Il disegno decadde e non venne più ripresentato da nessuno. E gli effetti si sarebbero visti vent’anni dopo con la Seconda guerra mondiale Nel 1852 Cavour aveva compiuto un primo passo: a parte politica estera e guerra (riservati ai ministri del re) per rimanere in sella al governo non bastava l’incarico del re, gli occorreva la fiducia del Parlamento. Dopo il maggio-aprile 1915 e le sue drammatiche conseguenze Giolitti tentò il secondo passo – trasferire il potere vero: esteri e guerra – dall’esecutivo al legislativo, ma fallì. La grande occasione andò perduta. Il re e il governo rimasero incatenati e separati dal parlamento e dal Paese. Perciò molti previdero che le sorti della monarchia sarebbero dipese da chi aveva l’investitura del re anziché il consenso del Paese tramite il parlamento. La monarchia sarebbe durata solo in caso di vittoria del “suo” governo. Simul stabunt, simul cadent. Come infatti accadde. Aldo A. Mola [email protected]