Scrivere e fare ricerca sui distretti industriali non è più in Italia tanto

Scrivere e fare ricerca sui distretti industriali non è più in Italia tanto facile. La sensazione è che il
tema stia un po’ passando di moda e che nell’agenda della politica economica – nazionale e
regionale – le priorità siano altre. Eppure, nel dibattito internazionale non si è mai parlato così tanto
di sistemi regionali dell’innovazione, distretti tecnologici, high-tech clusters ed economia della
conoscenza localizzata. Lo stesso modello di Gary per l’analisi delle Global Value Chain da molta
importanza alle dimensioni spaziali dell’organizzazione economica. Io e Stefano abbiamo raccolto e
commentato una bibliografia ragionata su queste prospettive nel libretto appena pubblicato da
Marsilio. Non voglio perciò tornare a discutere qui tale letteratura quanto piuttosto provare a
rispondere alla seguente domanda: ma perché proprio in Italia l’analisi e la politica economica per i
sistemi locali dell’innovazione riscuote così poco interesse?
Siamo davvero al paradosso: in un paese dove la piccola e media impresa – grazie anche al tessuto
connettivo delle economie distrettuali – è riuscita ad affermarsi come protagonista della modernità
industriale, sembra crescere l’ostilità verso un modello organizzativo che si sta invece affermando
come strumento di politica per l’innovazione in diverse aree dell’economia mondiale. Una risposta
potrebbe essere questa: se l’economia italiana ha attraversato una fase difficile è anche a causa dei
distretti del made in Italy. Perciò, è naturale che le strategie di “riaggiustamento industriale”
guardino altrove: alla grande impresa, alla nuova economia dei servizi, alle politiche per la ricerca e
l’innovazione tecnologica. Questo ragionamento sembra plausibile ma è parziale. Come abbiamo
documentato nel nostro libro, non è affatto vero che la causa del declino industriale dell’Italia sia
imputabile ai distretti del made in Italy. Mediamente, i distretti vanno meglio del resto
dell’economia e in diversi casi si evidenziano segnali di ripresa incoraggianti. Inoltre, non ha senso
parlare di distretti come di una categoria omogenea (non tutti i distretti procedono alla stessa
velocità) e indifferenziata (all’interno dei distretti alcune imprese corrono, altre chiudono).
Soprattutto, è sbagliato guardare ai distretti come a delle statue di cera: immobili e sempre uguali a
se stessi, imbalsamati come cadaveri!
Ecco una possibile risposta al paradosso di cui sopra: in Italia si fa fatica a parlare di sistemi locali
dell’innovazione non solo per la resistenza dei nostalgici della grande impresa manageriale, ma
soprattutto a causa dell’ortodossia distrettuale! Ne ho avuto conferma qualche giorno fa, quando
un’autorevole esponente di tale ortodossia mi ha riferito di un terrificante intervento dell’On.
Giaretta – sottosegretario alle attività produttive con delega ai distretti – che al tradizionale
appuntamento di Artimino si è permesso sostenere – udite! udite! – che i distretti stanno cambiando,
aprendosi alle reti di fornitura internazionale. Davvero scandaloso. Anche perché per sostenere
questa “agghiacciante” posizione, Giaretta ha citato l’indagine Tedis sulle imprese distrettuali, da
cui risulterebbe che i distretti più dinamici sono proprio quelli che hanno all’estero una parte
consistente dei fornitori strategici. Inammissibile.
Ebbene si, ci hanno scoperto! Le analisi che da anni, qui a Tedis, cerchiamo di fare nei distretti ci
dicono che l’ecologia distrettuale è molto più vitale, aperta e disorganica di quel presepe ipersocializzato descritto negli studi vetero-marshalliani. Nei distretti che noi abbiamo studiato ci sono
più reti di imprese, anche in concorrenza fra loro, e meno coesione istituzionale. Più innovazione e
meno tradizione. Più creatività e meno comunità. Più differenziazione e sempre meno omogeneità.
Più strategie di condivisione della conoscenza e non più “comunità di destino”.
Tutto questo non si può più chiamare distretto industriale? Va bene. Accordato. Parliamo allora di
sistemi locali dell’innovazione. Dove le esternalità tecnologiche ritrovano senso economico e anche
sociale. E dove le piccole e medie imprese possono ritrovare condizioni per crescere localmente,
senza per questo dover rinunciare alle opportunità di strategie metanational.
L’eresia oramai è consumata. Noi andiamo avanti.
GC