MODELLI DI VITA BUONA NELLE DIVERSE TRADIZIONI MORALI E LORO FONDAMENTI 1. 2. 3. 4. 5. il modello del FINE ULTIMO – assume l’esistenza di un fine ultimo alla luce del quale sia buono/cattivo tutto ciò che avvicina/allontana da esso; il modello del FINE IMMEDIATO – rappresentato dalla tradizione utilitaristica il modello dell’ETICA DEL DOVERE (razionalistica o deontologica) –Kant; riscoperto grazie a John Rawls; il modello dell’ETICA DELLE VIRTU’ – ispirato ad Aristotele, rilanciato da Alisdair McIntyre; vuol far derivare le virtù non dalla tradizione bensì dalla vita stessa dell’individuo o delle comunità; il modello dell’ETICA DEL VOLTO – cerca di indurne i riferimenti morali, ponendo al centro del discorso morale non tanto la virtù quanto piuttosto la relazione. 1. ETICA DEL FINE ULTIMO A) BENE COME FINE ULTIMO A1 – PLATONE (428-348 aC) - Individua il “Bene” come fine ultimo e meta-valore. È l’idea iperuranica (cfr. Repubblica); non è possibile definirlo in quanto superiore alla verità e all’essere, così lo si assimila alla luce del sole (mito della caverna). Nell’evoluzione del pensiero platonico il Bene da essenza superiore (idea - ontologico) diventa meta della vita morale umana (ideale – etico). Mantiene ontologia ed etica legate tra loro. A2 – CARTESIO (1596-1650) - espone i principi di una morale provvisoria (cfr. Meditazioni metafisiche): (1) conformarsi; (2) perseverare; (3) cambiare i propri desideri. Il bene dell’uomo consiste nel raggiungimento della perfezione della natura umana (“non desideriamo avere più braccia o più lingue di quelle che abbiamo”) la cui essenza principale è la razionalità. Gli errori sono dovuti a un difetto di volontà: voler assumere per vero anzitempo quanto la ragione non ha terminato di esaminare. Come per Platone, il bene è più ontologico (porzione della natura umana) che etico. B) IL FINE ULTIMO COME CONDIZIONE TERRENA DA RAGGIUNGERE Nel XX secolo il fine ultimo perde il suo tratto ontologico e rientra in un orizzonte terreno. Per MARX (1818-1883) l’idea di bene si lega all’ideale rivoluzionario di una società di eguali senza classi sociali. Riduzione all’Homo Oeconomicus. - Per NIETZSCHE (1844-1900) il bene si lega alla fedeltà ai valori della terra, tramite il rifiuto di ogni tradizione morale ispirata a valori trascendenti che pongono il senso della vita aldilà di essa. La morale cristiana è una morale da schiavi. L’uomo è ridotto alla dimensione dionisiaca. C) FELICITA’ COME FINE ULTIMO C 1) ARISTOTELE (384-322 aC) - Occorre anzitutto distinguere bene e felicità. Tutti ricercano la felicità (eudaimonia), ma non tutti concordano su quale sia il bene capace di garantirla. La felicità non può ridursi alle ricchezze, né al piacere, né agli onori. “Se l’opera propria dell’uomo è l’attività dell’anima secondo ragione (…) il bene umano risulta essere l’attività dell’anima secondo virtù, e se le virtù sono più d’una, secondo la migliore e la più perfetta”. Esistono 2 tipi di virtù: dianoetiche (riferite all’intelletto: scienza, intelligenza, sapienza, arte, saggezza) ed etiche (disposizioni a scegliere il giusto mezzo tra un difetto e un eccesso: il coraggio tra viltà e temerarietà; giustizia: virtù etica per eccellenza). La saggezza è la virtù etica che discerne il giusto mezzo in ambito etico. C2) TOMMASO D’AQUINO (1225-1274) - Riprende Aristotele e lo adatta alla rivelazione cristiana: la felicità diventa fine ultimo trascendente. Non si parla più di eudaimonia ma di visio beatifica Dei. La felicità non si può dunque raggiungere in questo mondo. Come per Aristotele, la vita secondo ragione e secondo virtù è la strada per la felicità però la libertà dell’uomo è minor quando ridotta a opportunità di scelta tra una cosa e l’altra, mentre è maior quando è adesione al bene senza vincoli né costrizioni. La volontà dell’uomo non può che dirigersi verso il bene (appetitum boni) che la ragione stessa le indica come suo oggetto formale. Perché allora si sbaglia? Perché (1) non è detto che la ragione indichi il giusto bene (cioè il sommo bene) e pertanto la volontà male orientata cade in errore. Oppure (2) la ragione indica la giusta direzione ma la volontà è ostacolata dalle passioni. Nel primo caso, occorre formare rettamente la coscienza tramite l’esercizio delle virtù. Nel secondo caso entrano in gioco le passioni: di per sé moralmente neutre, si riferiscono all’irascibile (tensione a un bene arduo) e al concupiscibile (desiderio di un bene di facile conquista). Le virtù (come disposizioni interiori che permettono il sano esercizio della ragione e il sano dominio degli appetiti) concorrono al sostegno di ragione e volontà: temperanza e fortezza regolano le passioni del concupiscibile e dell’irascibile; la prudenza permette il corretto esercizio della ragione (come auriga virtutum); infine la giustizia perfezionerebbe la volontà. 2. ETICA DEL FINE IMMEDIATO Non è facile rintracciare quale sia il fine ultimo dell’uomo, più semplice appare definire un fine immediato, perseguibile tramite calcolo preciso di piacere, utilità e preferenze. JEREMY BENTHAM (1748-1832) e l’UTILITARISMO Antenato di questa impostazione è EPICURO (341-271 aC) che nella Grecia delle filosofie ellenistiche (323-31 aC) fa del piacere l’essenza della felicità e il supremo criterio di valutazione morale. Distingue il piacere stabile (privazione del dolore) e mobile (gioia e allegria vissute ed espresse). Il primo è il piacere più alto. Perciò epicureo distingue i piaceri naturali (necessari e non) da quelli non naturali, per raggiungere atarassia (imperturbabilità dell’animo) e aponia (assenza di dolore fisico). Come Epicuro, BENTHAM nota che l’uomo agisce per ricercare il piacere e fuggire il dolore. La felicità sarebbe dunque la somma totale dei piaceri, condizione di per sé inattingibile per l’uomo che sperimenta sempre un qualche dolore. Occorre ripiegare dunque sulla ricerca del benessere: il massimo del piacere col minimo del dolore. Il piacere è oggetto di calcolo in base ad alcune variabili: intensità, durata, certezza, prossimità, fecondità, assenza di dolore, estensione ad altre persone del piacere. È un calcolo quantitativo, non legato a intenzioni bensì a conseguenze immediate dell’agire umano. Il problema è conciliare gli interessi della collettività: Bentham rifiuta l’egoismo morale e sposa una prospettiva filantropica: è convinto che il piacere del singolo dipenda anche dal piacere altrui (è uno dei parametri del calcolo…) e dunque che esista una armonia naturale degli interessi (trasposizione morale del liberismo economico). La virtù è una: quella che porta a massimizzare il piacere e l’utilità del maggior numero di persone. Ha dunque carattere meramente strumentale in vista di una “utilità” dell’azione che di fatto coincide con il piacere. DAL PIACERE ALLA PREFERENZA - Dopo Bentham, l’utilitarismo si sviluppa gradualmente, divenendo il modello di filosofia morale di riferimento per la tradizione anglosassone. Si iniziano a distinguere qualitativamente i piaceri. Problema: qual è il fondamento del criterio assiologico chiamato a discernere qualitativamente la superiorità di un piacere rispetto a un altro? Si prosegue con l’introdurre l’esame delle preferenze soggettive, spostando al questione dal piacere alla preferenza: Jonh Harsanyi ad esempio distingue preferenze sociali e antisociali, razionali e irrazionali, vere e manifeste. Altri ricorrono all’intuizionismo: G.E. Moore sostiene che le preferenze utilizzabili sono quelle che si intuiscono essere buone, ma il rischio di arbitrarietà e soggettivismo è altissimo. OLTRE L’UTILITARISMO: CONSEQUENZIALISMO E PROPORZIONALISMO - Nella seconda metà del XX sec. l’utilitarismo approda al CONSEQUENZIALISMO: dalla scelta del soggetto (di problematica valutazione) si passa ad esaminare le conseguenze pratiche della scelta. A differenza di Bentham, si pone tra parentesi il soggetto stesso e si valuta l’azione (e le sue conseguenze) in sé e per sé. Si tralasciano virtù e intenzioni e si esaminano solo azioni e circostanze: l’agire diventa un “evento”. Lo schema di ragionamento prevede che: (1) il piacere (soddisfare le preferenze individuali) è un bene; (2) il piacere si può calcolare e tanto maggiore esso è, tanto maggiore è la moralità dell’azione che l’ha prodotto, (3) quindi per valutare la moralità di una azione basta verificare quanto piacere essa produrrà. Ma quali conseguenze valutare? Una applicazione del consequenzialismo è il PROPORZIONALISMO (Fuchs, Scholz): si parla di “bene premorale” che diventa “bene morale” nel momento in cui si sviluppano le conseguenze: l’aborto ad esempio è un bene premorale: buono quando salva la vita della madre, cattivo quando compiuto gratuitamente. Osservazioni: tra i critici interni, Amartya Sen (premio Nobel per l’economia nel 1998) propone correttivi di natura deontologica; tra i critici esterni citiamo John Rawls e l’etica razionalistica nel suo complesso. 3. ETICA DEL DOVERE Evitando di incentrarsi su moventi eterogenei (fine ultimo o immediato) per valutare la moralità dell’azione, l’etica del dovere fa dipendere quest’ultima dalla conformità a un “dovere”, una razionalità. IMMANUEL KANT (1724-1804) - Senza libertà non c’è responsabilità dunque moralità: la libertà è un postulato (necessario ma non dimostrabile) della moralità (ne è la ratio essendi). L’agire umano segue principi morali: massime e imperativi ipotetici e categorici. La legge morale kantiana non è dunque definita da “cosa” è comandato ma da “come”, cioè dall’avere una forma di legge universale, dunque dalla forma e dall’universalità. Esistono 3 formulazioni dell’imperativo categorico tra cui il test di universalizzabilità. La legge morale è dunque autonoma. Ancora: una azione è legale se conforme a una legge esteriore, mentre è morale se conforme alla legge di ragione interiore (intenzione). Nella Dialettica emergono due ulteriori postulati morali oltre alla libertà: l’esistenza dell’anima immortale (che garantisce un tempo sufficiente per raggiungere il perfezionamento morale che equivale alla massima virtù) e l’esistenza di Dio (garante della felicità commisurata alla virtù raggiunta): così si garantisce la soluzione dell’aporia del Sommo Bene (virtù + felicità). JOHN RAWLS (1922-2002) E LA RIPRESA DI KANT - Nel 1971 Rawls pubblica Una teoria della giustizia in cui riprende una etica deontologica (deon = dovere) e la applica alla filosofia politica. Attinge al contrattualismo di Locke e Rousseau, immaginando una “posizione originaria”, in cui vi sia un “velo d’ignoranza” che impedisca di verificare le conseguenze delle decisioni prese (così si distacca dall’utilitarismo). Quanto concordato assume i connotati di un vero e proprio imperativo categorico kantiano. Nella posizione originaria emergerebbero due principi: (1) l’eguaglianza nell’assegnazione di diritti e doveri fondamentali (mettendo così insieme libertà e uguaglianza: la libertà del singolo deve essere la maggiore possibile, compatibilmente con quella altrui); (2) le ineguaglianze economiche e sociali (ricchezza, potere…) sono giuste solo se producono benefici compensativi per ciascuno e, in particolare, per i membri meno avvantaggiati della società. Rispetto al secondo principio, afferma che le disuguaglianze sociali devono essere combinate in base a due criteri: (a) il principio di differenza (il più grande beneficio dei meno avvantaggiati) che si collega al principio di maximin (massimo del minimo); (b) il principio di riparazione (maggior attenzione ai nati con meno doti) che è una sorta di principio delle “pari opportunità”. Osservazioni: l’etica deontologica è detta razionale perché la ragione non è un mero strumento ma la fonte della legge morale. Nel “fine ultimo” la ragione governa le passioni dell’uomo, nel “fine immediato” calcola utilità e piaceri, mentre nell’etica deontologica la ragione esprime la moralità dell’uomo e di una collettività. Serrata e rigorosa, tiene poco conto dei limiti dell’umano. MODELLI DI VITA BUONA NELLE DIVERSE TRADIZIONI MORALI E LORO FONDAMENTI Definire dei modelli di vita buona – con tutti i limiti che questo tentativo comporta – permette di classificare le diverse filosofie morali e comprendere gli odierni approcci ai problemi morali. E offre altresì un aiuto al confronto tra l’etica cattolica e l’etica laica e i diversi modelli di riferimento cui esse si ispirano. Modelli diversi significano infatti valori e principi diversi, ma anche diverse domande e questioni. Si possono definire 5 modelli di filosofia morale (3 definiti e 2 abbozzi): 6. il modello del FINE ULTIMO – di lunga tradizione, riferimento principale per la teologia morale cattolica, assume l’esistenza di un fine ultimo alla luce del quale sia buono/cattivo tutto ciò che avvicina/allontana da esso; 7. il modello del FINE IMMEDIATO – rappresentato dalla tradizione utilitaristica, con diverse accezioni e varianti; 8. il modello dell’ETICA DEL DOVERE (razionalistica o deontologica) – il massimo rappresentante è Kant; è stato riscoperto nel XX secolo grazie a John Rawls; 9. il modello dell’ETICA DELLE VIRTU’ – ispirato ad Aristotele, rilanciato da Alisdair McIntyre; si differenza dal “fine ultimo” per il tentativo – tuttora in via di definizione – di non far derivare le virtù dalla tradizione bensì dalla vita stessa dell’individuo o delle comunità; 10. il modello dell’ETICA DEL VOLTO – come l’etica delle virtù, parte anzitutto dalla vita concreta delle persone e cerca di indurne i riferimenti morali, ponendo al centro del discorso morale non tanto la virtù quanto piuttosto la relazione; ha avuto fortuna in ambito pedagogico nell’odierno contesto multiculturale. 1. ETICA DEL FINE ULTIMO Questo modello comprende tutte le etiche che ammettono un fine ultimo per l’essere umano in base al raggiungimento del quale giudicare bene o male l’agire dell’uomo. La domanda che la precede è: qual è il fine ultimo dell’uomo? A) BENE COME FINE ULTIMO A1 – PLATONE (428-348 aC) Individua il “Bene” come fine ultimo e meta-valore. È l’idea iperuranica che sta al di sopra di tutte le altre, fondamento dello stato ideale (cfr. Repubblica); non è possibile definirlo in quanto superiore alla verità e all’essere, così lo si assimila alla luce del sole (mito della caverna) che è principio di vita (calore per l’essere) e di conoscenza (luce per la verità). Nell’evoluzione del pensiero platonico (cfr Filebo) si nota che il Bene da essenza superiore (idea ontologico) diventa meta della vita morale umana (ideale – etico). Il Bene è definito da bellezza, proporzione e verità; è presente sia nel pensiero, sia nel piacere; mantiene ontologia ed etica legate tra loro. A2 – CARTESIO (1596-1650) Il massimo esponente del razionalismo cartesiano espone i principi di una morale provvisoria (cfr. Meditazioni metafisiche) proponendosi poi una fissazione definitiva cui non giungerà mai: (1) conformarsi a usi e costumi del paese in cui si vive; (2) perseverare nei proponimenti morali assunti fino alla verifica di essi (per uscire dal bosco, si deve sempre procedere diritto, non vagare in tondo…); (3) cambiare i propri desideri piuttosto che aspirare invano a modificare la realtà esterna. Il bene dell’uomo consiste nel raggiungimento della perfezione della natura umana (“non desideriamo avere più braccia o più lingue di quelle che abbiamo”) la cui essenza principale è la razionalità. Questo rimanda al Discorso sul metodo e all’importanza di ritenere vero solo l’idea evidente (chiara e distinta). La perfezione morale ultima si raggiunge tramite gli atti virtuosi, cioè quelle azioni dell’animo che fanno acquistare all’uomo una qualche perfezione. Poiché il metodo rende la ragione infallibile nella ricerca della verità, gli errori sono dovuti a un difetto di volontà: voler assumere per vero anzitempo quanto la ragione non ha terminato di esaminare. Come per Platone, il bene è più ontologico (porzione della natura umana) che etico. B) IL FINE ULTIMO COME CONDIZIONE TERRENA DA RAGGIUNGERE Nel XX secolo il fine ultimo perde il suo tratto ontologico e rientra in un orizzonte terreno. Per MARX (1818-1883) l’idea di bene si lega all’ideale rivoluzionario di una società di eguali senza classi sociali, in cui il lavoro sia fonte di senso per tutti e non per i soli borghesi; la rivoluzione è una necessità storica (“la borghesia produce da sé i propri seppellitori” – nascita della coscienza di classe e materialismo storico) e si tratta solo di innescarla. Riduzione all’Homo Oeconomicus. Per NIETZSCHE (1844-1900) il bene si lega alla fedeltà ai valori della terra, tramite il rifiuto di ogni tradizione morale ispirata a valori trascendenti che pongono il senso della vita aldilà di essa. La morale cristiana è una morale da schiavi (umiltà e perdono nati dal risentimento e dalla debolezza – cfr la genealogia della morale). Più che necessità storica (Marx), è un evento mitologico legato all’avvento del SuperUomo (cfr. Così parlò Zaratustra). L’uomo è ridotto alla dimensione dionisiaca (ebbrezza, istinto, vitalismo) senza una reale aspirazione a libertà e destino eterno. C) FELICITA’ COME FINE ULTIMO C 1) ARISTOTELE (384-322 aC) Occorre anzitutto distinguere bene e felicità: (1) bene indica la meta, felicità il cammino; (2) riguardano due tradizioni filosofiche tra loro diverse: Platone e Aristotele; (3) perché il bene comprende la felicità come una delle sue parti, ad esempio distinta dalla virtù (Kant). Per Aristotele (cfr. Etica Nicomachea) tutti ricercano la felicità (eudaimonia), ma non tutti concordano su quale sia il bene capace di garantirla. La felicità non può ridursi alle ricchezze (sono un mezzo), né al piacere (instabile e proprio degli animali), né agli onori (transeunti e dipendenti dagli altri). Essa consiste in una attività, più precisamente nell’esercizio della virtù: “Se l’opera propria dell’uomo è l’attività dell’anima secondo ragione (…) il bene umano risulta essere l’attività dell’anima secondo virtù, e se le virtù sono più d’una, secondo la migliore e la più perfetta”. Esistono 2 tipi di virtù: dianoetiche (riferite all’intelletto: scienza, intelligenza, sapienza, arte, saggezza) ed etiche (disposizioni a scegliere il giusto mezzo tra un difetto e un eccesso: il coraggio tra viltà e temerarietà; giustizia: virtù etica per eccellenza). La saggezza è la virtù etica che discerne il giusto mezzo in ambito etico. C2) TOMMASO D’AQUINO (1225-1274) Riprende Aristotele e lo adatta alla rivelazione cristiana: la felicità diventa fine ultimo trascendente. Non si parla più di eudaimonia ma di visio beatifica Dei. La felicità non si può dunque raggiungere in questo mondo. Come per Aristotele, la vita secondo ragione e secondo virtù è la strada per la felicità poiché meglio risponde alle esigenze della natura umana. Tommaso precisa però che la libertà dell’uomo è minor quando ridotta a opportunità di scelta tra una cosa e l’altra, mentre è maior quando è adesione al bene senza vincoli né costrizioni. La volontà dell’uomo non può che dirigersi verso il bene (appetitum boni) che la ragione stessa le indica come suo oggetto formale. Perché allora si sbaglia? Perché (1) non è detto che la ragione indichi il giusto bene (cioè il sommo bene) e pertanto la volontà male orientata cade in errore. Oppure (2) la ragione indica la giusta direzione ma la volontà è ostacolata dalle passioni. Nel primo caso, occorre formare rettamente la coscienza tramite l’esercizio delle virtù (soprattutto dianoetiche); il giudizio di coscienza si baserà su divina rivelazione (Scrittura) e legge naturale (iscritta nell’uomo e nel cosmo). Nel secondo caso entrano in gioco le passioni: di per sé moralmente neutre, si riferiscono all’irascibile (tensione a un bene arduo) e al concupiscibile (desiderio di un bene di facile conquista). Se la ragione e la volontà governano le passioni, esse possono diventare alleate nel perseguimento del bene. Diversamente, ostacoleranno la volontà nel seguire le indicazioni della ragione. Le virtù (come disposizioni interiori che permettono il sano esercizio della ragione e il sano dominio degli appetiti) concorrono al sostegno di ragione e volontà: temperanza e fortezza regolano le passioni del concupiscibile e dell’irascibile; la prudenza permette il corretto esercizio della ragione (come auriga virtutum); infine la giustizia perfezionerebbe la volontà (come per Aristotele, la giustizia è il “volere secondo ragione”). Osservazioni: bene e fine ultimo non sono termini specifici di questo modello (anche Kant ne parla); le virtù sono riferite al modello classico delle virtù cardinali (novità emergono invece in Mc Intyre); la ragione è strumento (mentre nell’etica razionalista ha ruolo determinante); non si specificano sentimenti e rapporti (come invece farà l’etica del volto). 2. ETICA DEL FINE IMMEDIATO Non è facile rintracciare quale sia il fine ultimo dell’uomo, più semplice appare definire un fine immediato, perseguibile tramite calcolo preciso di piacere, utilità e preferenze. JEREMY BENTHAM (1748-1832) e l’UTILITARISMO Con Bentham si entra nel cuore di un nuovo modello di filosofia morale che ruota attorno al calcolo di piaceri e dolori per giudicare della moralità di un azione. Antenato di questa impostazione è EPICURO (341-271 aC) che nella Grecia delle filosofie ellenistiche (323-31 aC) fa del piacere l’essenza della felicità e il supremo criterio di valutazione morale. L’agire umano tende a massimizzare il piacere e rifuggire il dolore. Distingue il piacere stabile (privazione del dolore) e mobile (gioia e allegria vissute ed espresse). Il primo è il piacere più alto. Perciò epicureo distingue i piaceri naturali (necessari e non) da quelli non naturali, indicando nei primi (naturali e necessari: bere acqua per dissetarsi) i soli da soddisfare per raggiungere atarassia (imperturbabilità dell’animo) e aponia (assenza di dolore fisico). Disciplina di vita, ascetismo, uso della saggezza per discernere i desideri: questi sono i mezzi per raggiungere quella felicità immediata che è ben lontana dall’edonismo di successive riletture della filosofia epicurea. Come Epicuro, BENTHAM nota che l’uomo agisce per ricercare il piacere e fuggire il dolore. La felicità sarebbe dunque la somma totale dei piaceri, condizione di per sé inattingibile per l’uomo che sperimenta sempre un qualche dolore. Occorre ripiegare dunque sulla ricerca del benessere: il massimo del piacere col minimo del dolore. Il valore di una azione si lega dunque al piacere che essa genera: maggiore è il piacere, più l’azione è buona. Il piacere è oggetto di calcolo in base ad alcune variabili: intensità, durata, certezza, prossimità, fecondità, assenza di dolore, estensione ad altre persone del piacere. È un calcolo quantitativo, non legato a intenzioni bensì a conseguenze immediate dell’agire umano. Con questo approccio Bentham evita l’ascetismo (che considera buono l’agire che diminuisce la felicità: è il caso, secondo Bentham, di moralisti e fanatici religiosi, mossi comunque dal piacere della fama o del paradiso…) e l’emotivismo (che lega la valutazione morale al sentimento momentaneo, il quale è però segno del piacere, vero movente – per Bentham – dell’agire umano). Il problema è conciliare gli interessi della collettività: Bentham rifiuta l’egoismo morale e sposa una prospettiva filantropica: è convinto che il piacere del singolo dipenda anche dal piacere altrui (è uno dei parametri del calcolo…) e dunque che esista una armonia naturale degli interessi (trasposizione morale del liberismo economico). Poiché tale armonia non sempre si riscontra, occorre una sanzione esterna o un premio a opera del legislatore per promuovere l’utilità collettiva. La virtù (disposizione ad agire acquisita con ripetizione degli atti) a differenza di Aristotele non determina la moralità di una azione (che dipende solo dalle conseguenze in termini di piacere/dolore) ma individua il grado di responsabilità dell’agente (un conto è rubare per istinto, oppure per un piano preordinato). Non parla di elenchi di virtù poiché la virtù è una: quella che porta a massimizzare il piacere e l’utilità del maggior numero di persone. Ha dunque carattere meramente strumentale in vista di una “utilità” dell’azione che di fatto coincide con il piacere. DAL PIACERE ALLA PREFERENZA Dopo Bentham, l’utilitarismo si sviluppa gradualmente, divenendo il modello di filosofia morale di riferimento per la tradizione anglosassone. Si iniziano a distinguere qualitativamente i piaceri (John Stuart Mill afferma che i piaceri umani sono diversi da quelli animali e pure diversi tra loro). Problema: qual è il fondamento del criterio assiologico chiamato a discernere qualitativamente la superiorità di un piacere rispetto a un altro? Si prosegue con l’introdurre l’esame delle preferenze soggettive, spostando al questione dal piacere alla preferenza: Jonh Harsanyi ad esempio distingue preferenze sociali e antisociali, razionali e irrazionali, vere e manifeste. Si elabora in proposito un test di universalizzabilità per eliminare quelle preferenze soggettive che verrebbero meno se si estendessero a tutti gli individui. Ma è problematico immedesimarsi realmente negli altri e valutare uno scenario così complesso. Altri ricorrono all’intuizionismo: G.E. Moore sostiene che le preferenze utilizzabili sono quelle che si intuiscono essere buone, ma il rischio di arbitrarietà e soggettivismo è altissimo. Altre soluzioni al test di universalizzabilità sono venute dal proporre di valutare non i singoli comportamenti (ut. dell’atto), ma almeno delle norme (utilitarismo della norma). Questo ha portato ad esempio Richard Hare a distinguere due livelli di utilitarismo: quello della riflessione filosofica in senso stretto (cui si applicherebbe l’ut. dell’atto) e quello del livello pratico quotidiano (ut. della norma). OLTRE L’UTILITARISMO: CONSEQUENZIALISMO E PROPORZIONALISMO Nella seconda metà del XX sec. l’utilitarismo approda al CONSEQUENZIALISMO: dalla scelta del soggetto (di problematica valutazione) si passa ad esaminare le conseguenze pratiche della scelta. A differenza di Bentham, si pone tra parentesi il soggetto stesso e si valuta l’azione (e le sue conseguenze) in sé e per sé. Si tralasciano virtù e intenzioni e si esaminano solo azioni e circostanze: l’agire diventa un “evento”. Lo schema di ragionamento prevede che: (1) il piacere (soddisfare le preferenze individuali) è un bene; (2) il piacere si può calcolare e tanto maggiore esso è, tanto maggiore è la moralità dell’azione che l’ha prodotto, (3) quindi per valutare la moralità di una azione basta verificare quanto piacere essa produrrà. Ma quali conseguenze valutare? Quali dipendono dal soggetto e quali no? G.E. Moore parla di conseguenze “probabili”, ma con alto grado di soggettivismo. Henry Sidgwick parla invece di conseguenze “previste”: ma questo crea un circolo vizioso tra piacere come conseguenze previste e viceversa. Mentre il tomismo introduce criteri per le azioni a “duplice effetto” (non voler il male, azione buona o neutra come mezzo, proporzione tra fine voluto e non, necessità dell’azione), il consequenzialismo riduce il problema al calcolo delle conseguenze positive che l’agire produce. Una applicazione del consequenzialismo è il PROPORZIONALISMO (Fuchs, Scholz): si parla di “bene premorale” (una azione o un evento considerato in sé, astraendo dalle conseguenze) che diventa “bene morale” nel momento in cui si sviluppano le conseguenze: l’aborto ad esempio è un bene premorale: buono quando salva la vita della madre, cattivo quando compiuto gratuitamente. Osservazioni: l’etica del fine immediato, pur individuando in diversi elementi il fine immediato (utilità, preferenza, piacere) alla fine si orienta sulla valutazione consequenzialistica delle azioni. Teorie diverse sono accomunate dall’etichette di “utilitarismo”. Etica ed economia convergono nella ricerca di modelli matematici per il calcolo delle preferenze collettive. Tra i critici interni, Amartya Sen (premio Nobel per l’economia nel 1998) propone correttivi di natura deontologica; tra i critici esterni citiamo John Rawls e l’etica razionalistica nel suo complesso. 3. ETICA DEL DOVERE Evitando di incentrarsi su moventi eterogenei (fine ultimo o immediato) per valutare la moralità dell’azione, l’etica del dovere fa dipendere quest’ultima dalla conformità a un “dovere”, una razionalità. STOICISMO La filosofia stoica precorre l’etica del dovere. Il cosmo è sostenuto da un ordine necessario ed eterno (Logos) che si riflette anche nell’agire dell’uomo che è virtuoso quando vive “secondo natura” ovvero secondo ragione. A differenza di Kant, il dovere morale non è solo formale ma assume contenuti precisi: onorare genitori, famiglia, patria. Ricercano la apatia (assenza di emozioni) e l’atarassia (assenza di turbamenti). Parlano del sommo bene come virtù (per Kant invece sarà virtù + felicità). Lo Stoicismo, nelle sue diverse varianti (Zenone, Cleante, Crisippo) si configura dunque come un’etica del dovere non formale, in cui la ragione non è ragione del singolo uomo ma Logos universale. IMMANUEL KANT (1724-1804) Vertice dell’Illuminismo, chiude l’epoca moderna e apre al Romanticismo. La ragione, criticata nei suoi limiti, diviene però il criterio del ben conoscere e del ben agire. Nella Critica della Ragion Pratica (1788) Kant distingue la dottrina degli elementi (principi) da quella del metodo (applicazioni). La prima comprende l’Analitica (il corretto funzionamento della ragione etica) e la Dialettica (contraddizioni e postulati). Mentre nella conoscenza del mondo ragione e volontà concordano, nell’agire morale tra di esse si apre lo spazio della libertà umana la quale deve voler seguire le indicazioni della ragione, ma non lo deve con necessità, altrimenti si vanificherebbe ogni discorso morale. Senza libertà non c’è responsabilità dunque moralità: la libertà è un postulato (necessario ma non dimostrabile) della moralità (ne è la ratio essendi). L’agire umano segue principi morali: massime (consigliano al singolo) e imperativi (comandano per tutti); questi ultimi si distinguono in ipotetici (valgono per tutti quelli che si propongono un certo fine: se vuoi esser promosso, devi studiare) e categorici (valgono per tutti a priori: non uccidere). La legge morale kantiana non è dunque definita da “cosa” è comandato ma da “come”, cioè dall’avere una forma di legge universale, dunque dalla forma e dall’universalità. Esistono 3 formulazioni dell’imperativo categorico: 1. agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere come principio di una legislazione universale (test di universalizzabilità); 2. agisci in modo da trattare l’umanità nella tua e altrui persona sempre come un fine e mai come un semplice mezzo 3. agisci in modo che la tua volontà possa considerare se stessa, mediante la sua massima, come universalmente legislatrice. La legge morale è dunque autonoma, indipendente da moventi eteronomi quali: la ricerca della felicità, la volontà di Dio, l’obbligo di leggi del governo, il sentimento fisico del piacere, il sentimento morale, l’educazione ricevuta, la ricerca della perfezione. Ancora: una azione è legale se conforme a una legge esteriore, mentre è morale se conforme alla legge di ragione interiore (intenzione). Unico sentimento ammesso: il rispetto per il dovere morale. Nella Dialettica emergono due ulteriori postulati morali oltre alla libertà: l’esistenza dell’anima immortale (che garantisce un tempo sufficiente per raggiungere il perfezionamento morale che equivale alla massima virtù) e l’esistenza di Dio (garante della felicità commisurata alla virtù raggiunta): così si garantisce la soluzione dell’aporia del Sommo Bene (virtù + felicità). JOHN RAWLS (1922-2002) E LA RIPRESA DI KANT Nel 1971 Rawls pubblica Una teoria della giustizia in cui riprende una etica deontologica (deon = dovere) e la applica alla filosofia politica, con l’intento di legittimare il liberalismo abbandonando l’utilitarismo per un contrattualismo come base etica generale. Dichiara egli stesso di ispirarsi a Kant per delineare una società armonica e giusta in cui la legittima soddisfazione degli interessi si accompagni a una equa distribuzione. Attinge al contrattualismo di Locke e Rousseau, ma non presuppone uno stato di natura precedente, bensì immaginando una “posizione originaria”, a monte dell’attuale sistema sociale, in cui vi sia un “velo d’ignoranza” che impedisca di verificare le conseguenze delle decisioni prese (così si distacca dall’utilitarismo). Il “velo” implica una sorta di amnesia per le preferenze personali rispetto all’interesse collettivo: si tratta di una realtà virtuale in cui ogni attore agisce razionalmente e liberamente per definire contratti fondativi dettati dalla giustizia in senso stretto, ignorando la propria posizione di partenza e dunque condizioni che potrebbero ispirare parzialità o discriminazione. Quanto concordato assume i connotati di un vero e proprio imperativo categorico kantiano. Nella posizione originaria emergerebbero due principi: (1) l’eguaglianza nell’assegnazione di diritti e doveri fondamentali (mettendo così insieme libertà e uguaglianza: la libertà del singolo deve essere la maggiore possibile, compatibilmente con quella altrui); (2) le ineguaglianze economiche e sociali (ricchezza, potere…) sono giuste solo se producono benefici compensativi per ciascuno e, in particolare, per i membri meno avvantaggiati della società. Rispetto al primo principio, Rawls precisa le libertà degli individui: politica, di parola ed espressione, di pensiero, personale, di proprietà privata, dalla detenzione arbitraria. Rispetto al secondo principio, afferma che le disuguaglianze sociali devono essere combinate in base a due criteri: (a) il principio di differenza (il più grande beneficio dei meno avvantaggiati) che si collega al principio di maximin (massimo del minimo) che prevede che le disuguaglianze siano ammesse solo se contribuiscono a migliorare le aspettative del gruppo meno fortunato della società; (b) il principio di riparazione (la società deve prestare maggior attenzione ai nati con meno doti o in posizioni sociali meno favorevoli) che è una sorta di principio delle “pari opportunità”. In The Laws of People (1999) Rawls applica la “posizione originaria” al diritto dei popoli e alle relazioni internazionali ispirandosi ancora a Kant (cfr. Per la pace perpetua). Emergono però alcune difficoltà: paesi diversi non hanno una stessa concezione di bene (come invece accade in una società) e i singoli popoli si considerano liberi ed eguali con criteri differenti. Tuttavia Rawls elenca alcuni principi di giustizia internazionale, tra cui eguaglianza tra i popoli, diritto di autodifesa e rispetto dei diritti umani. Può ogni popolo partecipare a questo “contratto”? Rawls distingue 5 tipi di popoli: (1) popoli liberali (pronti ad aderire ai principi internazionali); (2) popoli gerarchici decenti (non strettamente democratici ma pronti ad aderire); (3) popoli fuorilegge (senza mire espansionistiche); (4) popoli non bisognosi di assistenza; (5) popoli benevolmente autoritari (onorano i diritti umani ma non hanno procedure consultive). Solo i primi due popoli potrebbero far parte di una “società dei popoli”. Notevole sforzo di analisi, ma i casi concreti e attuali sono assai più complessi. Osservazioni: l’etica deontologica è detta razionale perché la ragione non è un mero strumento ma la fonte della legge morale. Nel “fine ultimo” la ragione governa le passioni dell’uomo, nel “fine immediato” calcola utilità e piaceri, mentre nell’etica deontologica la ragione esprime la moralità dell’uomo e di una collettività. Serrata e rigorosa, tiene poco conto dei limiti dell’umano. 4. ETICA DELLE VIRTU’ Si lega al modello del fine ultimo (Aristotele) ma cerca di dare un fondamento più esistenziale all’etica filosofica, non riducendola a insieme di comandi, ma fondandola sui bisogni profondi dell’uomo. IL RITORNO AD ARISTOTELE PHILIPPA FOOT (1920-2010) è una delle prime rappresentanti del ritorno ad Aristotele che è il cuore dell’etica delle virtù (cfr. La natura del bene, 2001). Il concetto di “bene” non può essere ridotto a semplice predicato, come voleva G.E. Moore, ma ha una sua sostanzialità cui si accede nella vita quotidiana. In generale, “buono” è ciò che favorisce lo sviluppo dell’umanità nel suo specifico, cioè la capacità di distinguere vizi e virtù, in una parola: la moralità. Un giudizio morale non è asettico o dettato dalla sola ragione ma nasce da bisogni e desideri umani, per cui (1) si allontana dall’idea di doveri morali rigorosi e universali e (2) accosta sempre più l’etica alla natura umana. ELIZABETH ANSCOMBE (1919-2001) propugna l ritorno all’etica delle virtù per evitare l’utilitarismo (cfr. Modern Moral Philosophy, 1958) convinta che l’etica deontologica sia velleitaria e oppressiva; propone di sostituire al concetto di “dovere morale” quello di “desiderio” e “bisogno”. ALASDAIR McINTYRE (1929) Con “Dopo la virtù. Saggio di teoria morale” (1981) McIntyre rilancia definitivamente l’interesse per le virtù aristoteliche. A fronte di una crescente frammentazione etica, ritiene si debba riedificare l’intero sistema. Pars destruens - Avversa l’emotivismo (per cui ogni giudizio morale non è che espressione di un sentimento o un’emozione), rileva i limiti dell’illuminismo (ha fallito nel voler dare fondamento razionale alla morale), dichiara fallito l’utilitarismo (piacere e utilità sono termini troppo ambigui), ritiene che il termine “individuo” abbia eclissato la prospettiva comunitaria che in passato aveva invece fatto fiorire la virtù e i più alti ideali morali. Pars construens – per costruire ex novo un sistema etico condiviso occorre partire dall’esistenza umana, dalle “pratiche di vita” analizzando le quali si possono cogliere atteggiamenti e azioni virtuose. La “pratica di vita” è a metà strada tra una tecnica (usare il pc) e una istituzione (lo stato). Limiti di tale analisi: esistono pratiche di vita malvagie; il legame tra le virtù si fonda su una concezione di vita come unità, altrimenti si frammenta; la definizione delle virtù è parziale (pazienza come virtù di attendere: sì, ma non qualunque cosa…) Le pratiche di vita vanno dunque inserite in una nozione di unità di vita. Ognuno di noi tende a creare tale unità di esperienze raccontando la propria biografia e facendo emergere un ideale di “vita buona” selezionando valori e virtù principali. Per raggiungere tale “unità di vita” occorre però opporsi alla filosofia analitica (che considera le azioni in modo atomistico) e alla sociologia (che separa individuo e ruolo) e sentirsi parte della vita degli altri e sentire gli altri parte della propria. L’unità di vita dipende dunque anche dall’incrocio tra differenti unità di vita: la vita non è solo “mia” ma appartiene al contesto familiare e sociale in cui maturano scelte e tradizioni. La virtù appare alla fine ciò che indirizza al raggiungimento dei diversi valori interni alle pratiche, favorisce l’unità di vita singola e nel suo inserirsi in una tradizione di comunità. Osservazioni: si richiama ad Aristotele, ma in un contesto di concretezza, storicità e vita comune degli uomini. È una “sensibilità” che si propone di essere via per riedificare un’etica universale. 5. ETICA DEL VOLTO L’etica del volto o delle relazioni interpersonali, di grande impatto all’indomani dell’Olocausto, è più di un’etica: è un’antropologia nuova che mette al centro le relazioni e non l’individuo. Ma è meno di un’etica perché affida il giudizio morale al gioco delle relazioni, senza predeterminarlo troppo. Si ricollega alla filosofia personalista di Emmanuel Mounier (1905-1950). MARTIN BUBER (1878-1965) E IL PRINCIPIO DIALOGICO Nella vita dello spirito non si può parlare di individuo senza fare riferimento alla sua relazione con gli altri. Di fronte a un Io sta necessariamente un Tu, riconosciuto come altro da me ma con pari dignità. Il Tu fa prendere coscienze a me stesso di essere Io. Le scienze naturali parlano dell’Esso, non dell’Io, poiché considerano l’individuo al di fuori della relazione. Al fondamento di ogni relazioni sta poi un Tu con la T maiuscola, un sommo analogato quasi inafferrabile: è il Tu di Dio che da Adamo in poi ha sempre interpellato l’uomo. Tre relazioni dunque – io-esso; io-tu; io-Tu – stanno alla base dell’essere umano rispettivamente inteso come soggetto, persona e Figlio. Alla luce del principio dialogico, il male è sempre la negazione dell’altro o la riduzione del tu ad esso. Mantenere aperta la relazione e la comunicazione è la via per non “cosificare” se stessi e gli altri. EMMANUEL LEVINAS (1905-1995) E L’ETICA DEL VOLTO In Levinas il principio dialogico di Buber diventa etica del volto. Etica strettamente connessa ad antropologia e viceversa. La relazione può essere origine delle norme etiche. Il rapporto con l’altro lascia infatti emergere la differenza tra gli esseri umani e la necessità di non inglobare l’altro in me: l’etica del volto è dunque un’etica della differenza (vs tradizione occidentale fondata sull’Essere che annulla ogni differenza). Se reggo lo sguardo e il volto dell’altro, allora ho stabilito con lui una relazione profonda, altrimenti o mi sento ferito e dominato o cerco io stesso di dominare. Esistono forme diverse di alterità: maschi e femmine (la differenza sessuale è alla base dell’eros); genitori e figli (per prendere coscienza della propria origine); le diverse culture (apertura al multiculturalismo). L’altro interpella la mia responsabilità: il suo sguardo mi impone di non uccidere e di non usare violenza, ma altresì di promuovere amicizia e relazione profonda. Qui sta il fondamento della giustizia: oltre a me e all’altro c’è infatti anche un terzo e questa è l’immagine della società, in cui siamo chiamati a considerare le relazioni con gli altri come fonte di responsabilità e appello alla singola coscienza, cui non si prescinde neppure di fronte a norme di convivenza civile generali. L’etica di Levinas si presenta come etica della santità: una tensione con orizzonte religioso, in cui anche la teologia viene ricondotta all’antropologia, non in senso riduttivo, bensì come rilettura dell’esperienza di Dio alla luce del principio di alterità e di responsabilità.