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AVVOCATURA E LIBERALIZZAZIONE INGANNEVOLE
MARCELLO ADRIANO MAZZOLA12
1. L’ingannevole liberalizzazione. - "In principio era il Verbo" (Gv 1,1). L'inizio del vangelo di
Giovanni, in realtà traduce il latino “in principio erat Verbum”. Con queste parole Giovanni comincia
il suo Vangelo facendoci risalire al di là dell'inizio del nostro tempo, fino all'eternità divina. Giovanni
punta lo sguardo sul mistero della sua preesistenza divina. “In principio" significa l'inizio assoluto,
l’inizio senza inizio, l'eternità. L'espressione fa eco a quella della creazione: "In principio Dio creò il
cielo e la terra" (Gn 1,1). Ma nella creazione si trattava dell'inizio del tempo, mentre qui il Verbo si
riferisce all'eternità.
Al pari, per l’avvocatura si vuol far credere, da Bersani a Catricalà, che “in principio erano le
liberalizzazioni, pretese dall’Europa”. Il Vangelo secondo gli apostoli Bersani e Catricalà. Il Vangelo
dettato in realtà da Confindustria che da anni pretende il raggiungimento di almeno 3 obiettivi: a)
assicurarsi una buona fetta del mercato dell’avvocatura; b) abbattere i costi “legali” per sé; c)
allentare le forme di tutela dei consumatori verso i poteri forti (banche, assicurazioni, energia etc.).
Occorre intanto intendersi sul significato di “liberalizzazione”. Secondo l’autorevole Istituto
Bruno Leoni “liberalizzare significa rimuovere la tutela statale da un settore per accompagnarlo
verso un sistema retto dalle regole del mercato. Il che significa che non c’è bisogno di liberalizzare
laddove già esiste un ordine concorrenziale. Quanti vogliano operare nella prospettiva di un
allargamento degli spazi di mercato devono quindi preoccuparsi di favorire la transizione verso una
situazione in cui i diritti di proprietà siano garantiti, la libertà contrattuale sia rispettata, non
esistano barriere legali all’entrata dei nuovi competitori. Schematizzando, possono esistere due
situazioni di partenza in un processo di liberalizzazione, che possiamo osservare nei settori che
vengono esaminati nella ricerca. La prima è quella in cui il mercato è ostaggio di un monopolista,
generalmente pubblico. In questo caso ci si aspetta che, grazie alla liberalizzazione, nuovi soggetti
entrino sul mercato, ampliando l’offerta e riducendo la quota di mercato dell’incumbent. La
seconda è quella in cui le barriere all’ingresso e la regolamentazione in vigore danno vita a una
molteplicità di piccoli attori. In tal caso dalla liberalizzazione ci si può anche attendere un processo
di concentrazione del mercato, o almeno una crescita dimensionale significativa di alcuni attori. Ma
in entrambe le situazioni chi voglia liberalizzare deve prendere atto che l’economia soffre perché la
sua evoluzione naturale, quale che ne sia la direzione, è impedita.” (IBL, Indice delle
liberalizzazioni,
2007,
2
ss.,
http://brunoleonimedia.servingfreedom.net/Papers/IndiceLiberalizzazioni.pdf).
In esso si osserva che “Il grado di libertà economica di cui gode un paese rappresenta l’ordine di
grandezza della sua libertà tout court. Quanto più un’economia è libera, tanto migliori possono
essere le sue prospettive future di crescita e occupazione di buona qualità e duratura. (…) Negli
Avvocato in Milano, Delegato della Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza Forense, autore di libri per
Utet, Cedam, Giuffrè.
1
2
Si ringrazia il CNF che con il Manifesto dell’avvocatura ha agevolato tali riflessioni.
1
ultimi tempi di “liberalizzazioni” si è parlato molto, ma non sempre in maniera consapevole.” (IBL,
Indice delle liberalizzazioni, 2007, 1).
Se valutiamo tale definizione, ci accorgiamo che la professione forense 3 in Italia è già libera in
quanto non sconta alcun monopolio né alcun sbarramento, tranne l’esame di Stato giustificato dalla
delicatezza della professione (anche se poi l’IBL conclude asserendo, in generale, che “Il sistema
delle professioni intellettuali italiane è liberalizzato al 46 per cento” rispetto a quello inglese,
tuttavia comparando modelli culturalmente ben differenti e con criteri anche discutibili; infine
apoditticamente asserendo che “Il sistema ordinistico impedisce la concorrenza: si può affermare
che gli ordini esistono proprio per impedire che le leggi del mercato si diffondano nel mondo delle
professioni. In questo senso si possono leggere i divieti – piuttosto diffusi nei vari codici
deontologici di categoria – di “illecita concorrenza” o di “accaparramento della clientela”, nonché le
norme draconiane in materia di pubblicità.”, pagg. 129-131). La prova inconfutabile che la
professione forense in Italia sia già liberalizzata è data dall’abnorme numero di avvocati iscritti agli
albi.
La professione intellettuale partecipa (producendo ricchezza) ad una rilevante fetta del nostro Pil.
Professione intellettuale, quella forense, unica nel suo genere poiché dedita alla primaria tutela
dei diritti. Uno dei due pilastri della giustizia, dunque un pilastro della democrazia.
Un bel progetto quello di Confindustria, non c’è che dire. Una lobby potentissima, trasversalissima
(da sinistra a destra, passando per il centro), radicatissima nei gangli del potere. Una lobby che
però persegue un disegno molto pericoloso per la collettività, poiché transita attraverso due
obiettivi: 1) il primo è la destrutturazione dell’avvocatura e dei suoi principi fondamentali
(libertà, autonomia, indipendenza, preparazione tecnica e controllo deontologico); 2) il secondo è
l’indifferenza verso l’inefficienza della giustizia.
In particolare il verbo sperticato da Bersani prima e Catricalà poi è “Liberalizziamo l’avvocatura
perché ce lo chiede l’Europa”.4 Da ultimo, “liberalizziamo” perché è necessario per rilanciare
l’economia e ridurre il debito pubblico. Niente di più falso, così come si dimostrerà. L’Europa non
La professione di avvocato è disciplinata in Italia dal regio decreto legge 27 novembre 1933, n. 1578,
ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore legale (GURI n. 281, del 5 dicembre 1933, pag.
5521), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 gennaio 1934, n. 36 (GURI n. 24, del 30 gennaio
1934), come successivamente modificato. In base agli artt. 52-55 del regio decreto legge, il Consiglio
nazionale forense («CNF») è istituito presso il Ministero della Giustizia ed è costituito da avvocati eletti dai
loro colleghi, in numero di uno per ciascun distretto di Corte d’appello.
3
Spesso invocando a sproposito la direttiva Bolkestein, formalmente direttiva 2006/123/CE del Parlamento
europeo e del Consiglio dell'Unione Europea relativa ai servizi nel mercato interno, presentata dalla
Commissione Europea nel febbraio 2004. La direttiva è stata definitivamente approvata da Parlamento e
Consiglio, profondamente emendata rispetto alla proposta originaria, il 12 dicembre 2006, divenendo la
direttiva 2006/123/CE del 12 dicembre 2006. La direttiva è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
dell'Unione europea (L 376) il 27 dicembre 2006 ed è stata recepita dall'Italia mediante il decreto legislativo
26 marzo 2010, n. 59, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 94 del 23 aprile 20109.
4
2
ha chiesto nulla di tutto ciò che è stato fatto in questi anni dal potere esecutivo. Anzi, al contrario
l’Europa ha indicato ben altre strade. Quale sia poi il link tra avvocatura “liberalizzata”, economia e
debito pubblico, nessuno l’ha spiegato. Perché non è in grado di spiegarlo.
La furia occulta di Confindustria, che ha interamente guidato la mano degli esecutivi, è poi fondata
su una premessa altrettanto mistificatrice: l’esigenza di liberalizzare (eliminando restrizioni e
regole) un settore nel quale v’è già ampia libertà. Basta appunto esaminare i numeri. L’avvocatura
italiana è passata in 25 anni da poco meno di 50.000 avvocati a ben oltre 200.000,
quadruplicandosi, ed ha assistito allo stabilimento nel nostro paese di numerosi studi stranieri. Se
non è una professione ampiamente libera questa, ci si domanda quale lo sia.
Abbiamo il più alto rapporto europeo in proporzione tra cittadini ed avvocati. L’avvocatura italiana
si è negli anni “proletarizzata” intendendo con ciò l’accesso, senza distinzioni di “censo”, ad una
nobile e delicata professione aperta a tutti i soggetti meritevoli (laurea + pratica + esame di
Stato). Processo equo, poiché il 50% ha meno di 45 anni e quasi il 50% è oramai composto da
donne. Negli ultimi anni il reddito medio è stato fortemente eroso e la giovane avvocatura paga il
prezzo maggiore, dovendo scontare l’avviamento e la riduzione della fetta di mercato.
Una delicata professione che certo ha necessità di modernizzarsi (con tariffe chiare, apertura al
preventivo, con Ordini rigorosi e non corporativi, con l’apertura alla pubblicità, specializzazioni) ma
salvaguardando i principi fondamentali posti anche e soprattutto a tutela della collettività.
Modernizzarsi, adattandosi alle esigenze del mercato e della clientela, ma senza demolire i principi
fondamentali che sorreggono la delicatezza delle sue funzioni. La tutela dei diritti è cosa seria e
non può essere affidata a chiunque. Perché di mancata o carente tutela di diritti si può anche
morire o pagare per una vita intera.
Invero, gli esecutivi, ben spalleggiati dai mass media, hanno invece creato una enorme e grave
mistificazione: a) si interviene perché ce lo chiede l’Europa (falso); b) dobbiamo liberalizzare la
professione forense (falso); c) l’avvocatura è una casta (falso); d) interveniamo per ridurre il
debito pubblico e rilanciare l’economia (falso). Non ultimo: e) dobbiamo deflazionare il contenzioso
(falso) invece di rendere efficiente la giustizia.
Gli esecutivi Bersani, Berlusconi e Monti, cesellando il Vaso di Pandora, in questi anni hanno:
abrogato le tariffe minime, e poi le tariffe in generale; introdotto la mediazione obbligatoria poi
affiancata dall’inasprimento delle sanzioni per la mancata partecipazione al procedimento (d.l.
98/11 e d.l. 212/11); introdotto il socio di capitale negli studi; imposto una riforma radicale degli
Ordini (ignorando anche l’attività suppletiva degli Ordini forensi ai Tribunali, a causa
dell’inefficienza della pubblica Amministrazione) con l’art. 33 d.l. 201/2011, prescrivendo agli ordini
entro il 12 agosto 2012 di uniformare i propri ordinamenti a quanto prescritto nel d.l. 138/11;
ridotto a diciotto mesi la durata massima del tirocinio professionale (art. 33 d.l. 201/11),
prevedendo che il primo anno possa essere svolto presso gli uffici giudiziari (art. 37, comma 4 d.l.
n. 98/11), nonché prevedendo che il tirocinio professionale possa essere svolto durante l’ultimo
biennio degli studi universitari e non presso gli studi professionali; preteso in un batter di ciglia
dalle Casse di previdenza private e autonome una sostenibilità a 50 anni senza indicare i criteri;
eroso fortemente la riserva dell’attività di consulenza legale degli avvocati; reso impervio l’accesso
alla giustizia (con l’aumento esponenziale del costo dei giudizi, reso complicato l’esercizio del diritto
di difesa con conciliazione obbligatoria, prescrizioni, decadenze, istanze di prelievo); predisposto la
riorganizzazione territoriale delle circoscrizioni giudiziarie, con la soppressione di tutti i tribunali di
3
prossimità (giustizia domestica); cambiato costantemente il codice di procedura civile senza
realmente riformarlo; introdotto i tribunali delle imprese; ampliato le ipotesi di esonero dalla difesa
tecnica di fronte al giudice di pace (art. 82 c.p.c.) con la modifica all’art. 91 del c.p.c. in relazione
alla condanna alla spese, prevedendo che quest’ultima non possa superare il valore della lite.
Tale incredibile situazione sussultoria ha condotto tutta l’avvocatura a redigere recentemente il
“Manifesto dell’Avvocatura unita” il 14 gennaio 2012, su impulso del Consiglio Nazionale
Forense, con cui è stata denunciata l’aporia di norme varate a tambur battente senza ricorso alla
consultazione o concertazione con l’avvocatura, in assenza di pareri e dati scientifici. Si è pure
denunciata l’aporia dell’agire “in via autoritativa: le categorie professionali, tacciate di
corporativismo, si sono viste piombare addosso provvedimenti di ogni tipo per l’avvocatura (…)
provvedimenti concernenti la formazione, l’accesso, il tirocinio, la pubblicità, le tariffe, i
procedimenti disciplinari, le modalità di organizzazione interna”. L’avvocatura ha evidenziato un
profilo fondamentale, quale l’imposizione della “considerazione dei valori economici e una
pericolosa indifferenza per i valori giuridici”. L’economia anteposta ai diritti. Tema che interessa
tutti, non solo l’avvocatura.
A ciò si è aggiunta la denuncia del falso ”uso ideologico del diritto comunitario” da parte
dell’esecutivo. Non ultimo col Manifesto si è denunciato l’uso della tecnica della “delegificazione in
materia di professioni, sottraendo non solo al dibattito parlamentare, ma affidando alla normazione
di secondo grado, regolamentare, materie che coinvolgono diritti fondamentali e interessi primari.
Ciò quando alcune professioni, come quella forense, trovano riconoscimento nella Costituzione, e
tutte le professioni sono rette da principi espressi in leggi ordinarie”.
La situazione è grottesca se si pensa che in questi anni l’avvocatura ha di suo proposto un
cambiamento, anche sotto il profilo della concorrenza, presentando anni fa un progetto unitario di
riforma dell’ordinamento forense, teso a garantire l’introduzione delle specializzazioni, il
rafforzamento delle Scuole forensi, un più rigoroso controllo con l’aggiornamento del codice
deontologico. Ed inoltre ha formulato varie proposte tecniche per il miglioramento dell’efficienza
della giustizia.
Tale mistificazione è stata denunciata il 7 marzo scorso a Bruxelles dal presidente del Consiglio
nazionale forense, Guido Alpa, il quale ha evidenziato come “I principi comunitari in materia di
professione forense sono stati sistematicamente disattesi dal legislatore italiano. I Governi ed i
Parlamenti che si sono succeduti dal 2006 ad oggi hanno fatto prevalere le regole della concorrenza
su ogni altro valore, accreditando una concezione economicistica del diritto comunitario, e – peggio
- facendo credere che gli interventi normativi via via effettuati fossero richiesti o imposti dal diritto
comunitario” (convegno “Professional Orders, Reform and Liberalisation of Professions in the EU
Single
Market”,
http://www.consiglionazionaleforense.it/site/home/area-stampa/comunicatistampa/articolo7303.html).
2. Cosa chiede l’Europa. – Tale processo di destrutturazione dell’avvocatura ha un solo nome:
mistificazione. L’Europa non ha chiesto ciò che si sta facendo. Basta infatti leggere attentamente le
Risoluzioni di Strasburgo e le sentenze della Corte Ue, con cui è stata ribadita la necessità che
l’avvocatura si riconosca in uno statuto di valori essenziali a tutela dell’interesse pubblico
dei cittadini, per attuare la garanzia del diritto di difesa e l’accesso alla giustizia.
4
La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, oggi parte integrante del Trattato
costituzionale (cd. Trattato di Lisbona), protegge e tutela la libertà professionale insieme con il
diritto al lavoro, quali espressioni della personalità dell’uomo.
La libertà di impresa non è messa in discussione nel caso della professione forense italiana. Siamo i
più numerosi e aperti. Il diritto dell’Unione distingue comunque in modo inequivocabile la
professione intellettuale dall’impresa e non v’è alcuna equiparazione della professione all’impresa
operata dal diritto comunitario.
Il Parlamento europeo si è espresso tre volte, nel 2001, nel 2004 e nel 2006, per chiarire che la
professione legale deve operare in regime di assoluta indipendenza, di assenza di conflitto di
interessi e di tutela del segreto professionale, quali valori fondamentali di pubblico interesse che
vanno al di là della disciplina della concorrenzialità. Il Parlamento ha riconosciuto la funzione
cruciale delle professioni legali in una società democratica al fine di garantire il rispetto dei diritti
fondamentali, lo stato di diritto, e la sicurezza nell’applicazione della legge, sottolineando l’esigenza
di proteggere la qualificazione delle professioni legali, nonché l’indipendenza, la competenza,
l’integrità e la responsabilità dei professionisti.
La Corte di Giustizia con tre note sentenze (“Wouters”, “Arduino” e “Cipolla”), riferite anche alle
tariffe predisposte dal Consiglio Nazionale Forense e sottoposte al Ministro della Giustizia, ha
convalidato sia i principi di specialità delle professioni intellettuali rispetto alle imprese di servizi,
sia i principi di specialità delle professioni legali rispetto alle altre professioni intellettuali.
Se nonché i poteri esecutivi Bersani, Berlusconi, Monti hanno disatteso tutto ciò, lasciando invece
intendere che l’Europa ce lo chiedesse, varando norme che hanno compromesso la serietà ed il
rigore del tirocinio, introdotto l’aggregazione societaria anche con soci di mero capitale, mettono in
grave pericolo il futuro della professione forense. Quanto alla possibilità di costituire società di
capitali per l'esercizio di attività professionali regolamentate nel sistema ordinistico (art. 10 della
c.d. "legge di stabilità", art. l. 183/2011), occorre notare come tale forma societaria finisca con il
sacrificare i principi fondanti della professione forense quali l’indipendenza, l’autonomia, il segreto
professionale, poiché l’avvocato verrebbe ad assumere la veste di dipendente del socio di capitale
di mero investimento, quale potrebbe essere una banca, una società di assicurazione, una società
di servizi. Il socio di capitale potrebbe richiedere di accedere per tali verifiche ai singoli fascicoli,
con buona pace del segreto professionale e del rapporto fiduciario con l’assistito. Sicchè “E’,
pertanto, evidente come dietro il tipo societario proposto vi sia l’obiettivo di ridurre l’avvocato ed
esecutore dei voleri dei detentori di grandi capitali.” (Manifesto avvocatura).
Ebbe tutto inizio con il c.d. ''pacchetto Bersani'' sulle liberalizzazioni approvato con il decreto-legge
n. 223 del 4 luglio 2006 e definitivamente convertito dalla Legge 4 agosto 2006 n. 248, con cui
venne abolita la tariffa minima per i professionisti, con possibilità del cliente di negoziare la
parcella, potendo pubblicizzare l’attività. L’art. 2 in particolare sancì l’abrogazione del divieto di
deroga alle tariffe professionali fisse o minime, nonché quello di pattuire compensi parametrati al
raggiungimento degli obiettivi perseguiti.5
Dopo varie proteste venne introdotto il comma 2-bis, che modifica l’art. 2233, ultimo comma, c.c. secondo
cui le tariffe professionali forensi (a differenza di tutte le altre tariffe professionali) possono essere derogate
solo a mezzo di pattuizioni scritte tra avvocati e clienti; la forma è prevista ad substantiam.
5
5
L’Antitrust ha poi auspicato per anni un intervento del legislatore volto a modificare il decreto
Bersani, prevedendo l’abolizione delle tariffe minime o fisse, l’abrogazione del potere di verifica
della trasparenza e veridicità della pubblicità esercitabile dagli ordini, l’istituzione di lauree
abilitanti, lo svolgimento del tirocinio durante il corso di studio, la presenza di soggetti ‘terzi’ negli
organi di governo degli ordini. Con le c.d. liberalizzazioni Monti del 20 gennaio 2012 si ha così
l’abbattimento delle tariffe e si vuole lasciare alla trattativa tra le parti la negoziazione del costo
della prestazione intellettuale del libero professionista.
Lasciamo ora parlare le fonti ufficiali, per chiarire cosa ci chiede l’Europa.
A partire dai principi base delineati dalle Nazioni Unite il 7 settembre 1990, il Parlamento europeo
con la risoluzione del 5 aprile 2001 si occupa delle tabelle, degli onorari e delle tariffe
obbligatorie per talune professioni e giustifica la scelta politica, economica e sociale di riconoscere
agli avvocati un giusto compenso per le prestazioni svolte a favore dei loro assistiti, considerato il
particolare ruolo delle libere professioni nell’età moderna.
Con la successiva risoluzione del 16 dicembre 2003, il Parlamento europeo torna
sull’argomento esaminandolo nell’ottica della disciplina della concorrenza, statuendo che le
professioni libere debbono essere protette per il ruolo sociale che esse ricoprono e i principi della
concorrenza debbono essere contemperati con le esigenze sociali connesse all’esercizio di queste
professioni.
Infine con la risoluzione del 23 marzo 2006, intervenuta a seguito della direttiva n. 249 del
1977 sul libero esercizio della prestazione da parte degli avvocati, della direttiva n. 5 del 1998 sul
libero stabilimento nell’esercizio permanente della professione degli avvocati in ciascuno degli Stati
Membri, della direttiva n. 8 del 2003 sul gratuito patrocinio, e della direttiva n. 36 del 2005 sulle
qualifiche professionali, il Parlamento europeo traccia i confini tra la disciplina dei servizi, ispirata
alle regole di concorrenza, e la disciplina delle professioni legali. Il Parlamento sottolinea che la
professione legale deve operare in regime di indipendenza, di assenza di conflitto di interessi e di
tutela del segreto professionale, quali valori fondamentali di pubblico interesse che vanno al di là
della disciplina della concorrenzialità:
Risoluzione del Parlamento europeo sulle professioni legali e l'interesse generale nel funzionamento
dei sistemi giuridici
(…)
A.
considerando che la Corte di giustizia delle Comunità europee ha riconosciuto :
-
l'indipendenza, l'assenza di conflitti di interesse e il segreto/confidenzialità professionale quali
valori fondamentali nella professione legale che rappresentano considerazioni di pubblico
interesse,
6
-
la necessità di regolamenti a protezione di questi valori fondamentali per l'esercizio corretto
della professione legale, nonostante gli inerenti effetti restrittivi sulla concorrenza che ne
potrebbero risultare,
-
che lo scopo del principio della libera prestazione di servizi applicato alle professioni
giuridiche è quello di promuovere l'apertura dei mercati nazionali mediante la possibilità
offerta ai prestatari di servizi e ai loro clienti di beneficiare pienamente del mercato interno
della Comunità,
B. considerando che qualsiasi riforma delle professioni legali ha conseguenze importanti che vanno
al di là delle norme della concorrenza incidendo nel campo della libertà, della sicurezza e della
giustizia e in modo più ampio, sulla protezione dello stato di diritto nell'Unione europea,
C. considerando che i principi di base delle Nazioni Unite sul ruolo degli avvocati del 7 settembre
1990 stabiliscono che:
-
gli avvocati hanno diritto a costituire e ad essere membri di associazioni professionali in
rappresentanza dei loro interessi, a promuovere l'educazione continua e la formazione
professionale e a proteggere la loro integrità professionale. L'organismo esecutivo delle
organizzazioni professionali è eletto dai suoi membri e esercita le sue funzioni senza
interferenze esterne;
-
le associazioni professionali di avvocati hanno un ruolo vitale nel promuovere il rispetto
dell'etica e delle norme professionali, nel proteggere i suoi membri da procedimenti,
interferenze e limitazioni ingiuste, fornendo servizi legali a tutti coloro che lo necessitano e
cooperando con istituzioni governative e di altro tipo ai fini della giustizia e dell'interesse
pubblico;
-
processi disciplinari contro gli avvocati sono celebrati di fronte a commissioni disciplinari
imparziali create dalla professione legale, di fronte ad autorità statutaria indipendente o un
tribunale e sono soggetti a revisione giurisdizionale indipendente;
D. considerando che la protezione adeguata dei diritti umani e delle libertà fondamentali cui ha
diritto ogni persona, nel campo economico, sociale, culturale, civile e politico, richiede che ogni
persona abbia effettivo accesso ai servizi legali forniti da una professione legale indipendente,
E. considerando che gli obblighi dei professionisti legali di mantenere l'indipendenza, evitare
conflitti di interesse e rispettare la riservatezza del cliente sono messi particolarmente in pericolo
qualora siano autorizzati ad esercitare la professione in organizzazioni che consentono a persone
che non sono professionisti legali di esercitare o condividere il controllo dell'andamento
dell'organizzazione mediante investimenti di capitale o altro, oppure nel caso di partenariati
multidisciplinari con professionisti che non sono vincolati da obblighi professionali equivalenti,
F. considerando che la concorrenza dei prezzi non regolamentata tra i professionisti legali, che
conduce a una riduzione della qualità del servizio prestato, va a detrimento dei consumatori,
G.
considerando che il mercato dei servizi legali è caratterizzato dall'asimmetria dell'informazione
7
tra avvocati e consumatori, tra cui le piccole e medie imprese, in quanto questi ultimi non
dispongono dei criteri necessari per valutare la qualità dei servizi prestati,
H. considerando che l'importanza di una condotta etica, del mantenimento della confidenzialità con
i clienti e di un alto livello di conoscenza specialistica necessita l'organizzazione di sistemi di
autoregolamentazione, quali quelli oggi governati da organismi e ordini della professione legale,
(…)
1. riconosce pienamente la funzione cruciale esercitata dalle professioni legali in una società
democratica, al fine di garantire il rispetto dei diritti fondamentali, lo stato di diritto e la sicurezza
nell'applicazione della legge, sia quando gli avvocati rappresentano e difendono i clienti in tribunale
che quando danno parere legale ai loro clienti;
2. ribadisce le dichiarazioni fatte nelle proprie risoluzioni del 18 gennaio 1994 e del 5 aprile 2001 e
la sua posizione del 16 dicembre 2003;
3. evidenzia le alte qualificazioni richieste per accedere alla professione legale, il bisogno di
proteggere tali qualificazioni che caratterizza le professioni legali, nell'interesse dei cittadini europei
e il bisogno di creare una relazione specifica basata sulla fiducia tra i membri delle professioni legali
e i loro clienti;
4. ribadisce l'importanza delle norme necessarie ad assicurare l'indipendenza, la competenza,
l'integrità e la responsabilità dei membri delle professioni legali, con lo scopo di garantire la qualità
dei loro servizi, a beneficio dei loro clienti e della società in generale, e per salvaguardare l'interesse
pubblico;
5. accoglie con favore il fatto che la Commissione riconosca che le riforme sono eseguite in
maniera più efficace a livello nazionale e che le autorità degli Stati membri, specialmente gli
organismi legislativi, sono nella posizione migliore per definire le norme che si applicano alle
professioni legali;
6. fa notare che la Corte di giustizia ha concesso ai legislatori nazionali e alle associazioni ed
organismi professionali un margine di discrezionalità nella decisione delle misure appropriate e
necessarie a protezione dell'esercizio congruo delle professioni legali negli Stati membri;
7. nota che qualunque tipo di attività di un organismo professionale deve essere considerata
separatamente, in maniera che le norme sulla concorrenza si applichino all'associazione soltanto
quando agisce esclusivamente nell'interesse dei suoi membri e non quando agisce nell'interesse
generale;
8. ricorda alla Commissione che le finalità della regolamentazione dei servizi legali sono la
protezione dell'interesse pubblico, la garanzia del diritto di difesa e l'accesso alla giustizia, e la
sicurezza nell'applicazione della legge e che per queste ragioni non può essere conforme ai desideri
del cliente;
9. incoraggia gli organismi professionali, le organizzazioni e le associazioni delle professioni legali
a istituire un codice di condotta a livello europeo, con norme relative all'organizzazione, alle
qualificazioni, alle etiche professionali, al controllo, alla trasparenza e alla comunicazione, per
8
garantire che il consumatore finale dei servizi legali disponga delle garanzie necessarie in relazione
all'integrità e all'esperienza e per garantire la sana amministrazione della giustizia;
10. invita la Commissione a tenere conto del ruolo specifico delle professioni legali in una società
governata dallo Stato di diritto e ad effettuare un'analisi esaustiva del modo in cui operano i mercati
di servizi legali nel momento in cui la Commissione propone il principio "minore regolamentazione,
regolamentazione migliore";
11. invita la Commissione ad applicare le norme sulla concorrenza - ove opportuno, nel rispetto
della giurisprudenza della Corte di giustizia;
12. considera che gli interessi pubblici che prevalgono sui principi della concorrenza dell'Unione
europea si trovano nel sistema legale dello Stato membro in cui le norme sono adottate o
producono i loro effetti, mentre non esiste un criterio d'interesse pubblico della UE, comunque lo si
voglia definire;
13. invita la Commissione a non applicare le norme sulla concorrenza dell'Unione europea in
materie che, nel quadro costituzionale dell'UE, sono lasciate alla competenza degli Stati membri,
quali l'accesso alla giustizia, che include questioni quali le tabelle degli onorari che i tribunali
applicano per pagare gli onorari agli avvocati;
14. sottolinea che i preesistenti ostacoli alla libertà di stabilimento e alla libertà di fornire servizi
per le professioni legali sono stati in teoria efficacemente rimossi dalle direttive 1977/249/CEE,
98/5/CE e 2005/36/CE; rileva comunque che la verifica sarà realizzata fra due anni e attende con
interesse questa approfondita valutazione;
15. ritiene che le tabelle degli onorari o altre tariffe obbligatorie per avvocati e professionisti legali,
anche per prestazioni stragiudiziali, non violino gli articoli 10 e 81 del trattato, purché la loro
adozione sia giustificata dal perseguimento di un legittimo interesse pubblico e gli Stati membri
controllino attivamente l'intervento di operatori privati nel processo decisionale;
16. considera che l'articolo 49 del trattato e le direttive 2005/36/CE e 77/249/CEE regolano il
principio del paese di destinazione da applicarsi alle tabelle degli onorari e alle tabelle obbligatorie
per gli avvocati e altri operatori delle professioni legali;
17. considera che l'articolo 45 del trattato deve essere applicato pienamente alla professione di
notaio di diritto civile in quanto tale;
18. invita la Commissione a considerare con attenzione i principi e le preoccupazioni espresse in
questa risoluzione nell'analisi delle norme che regolano l'esercizio delle professioni legali negli Stati
membri;
19. incoraggia le organizzazioni professionali a continuare a sviluppare le proprie attività nel
settore del patrocinio giuridico, al fine di garantire che ognuno abbia il diritto ad ottenere
consulenza e assistenza legali;
20.
incarica il suo Presidente di trasmettere la presente risoluzione alla Commissione.
9
Il Parlamento ritiene che le tabelle degli onorari o altre tariffe obbligatorie per avvocati e
professionisti legali, anche per prestazioni stragiudiziali, non violino gli articoli 10 e 81 del
trattato CE, purché l’adozione sia giustificata dal perseguimento di un legittimo interesse pubblico.
Questi principi sono stati invece disattesi dal legislatore italiano, poiché i Governi ed i Parlamenti
succedutisi dal 2006 ad oggi hanno fatto prevalere le regole della concorrenza su ogni altro valore,
facendo credere che gli interventi normativi fossero richiesti o imposti dal diritto comunitario.
La Commissione europea avrebbe dovuto adeguarsi a questi fondamentali principi. Nella
comunicazione n. 405 del 2005, la Commissione europea tiene conto delle peculiarità di talune
professioni che non possono essere equiparate tout court a qualsiasi attività d’impresa erogatrice di
servizi, anche se nella categoria concettuale e normativa dei servizi si inseriscono le prestazioni
intellettuali professionalmente eseguite.
La Corte di Giustizia con varie decisioni (“Wouters”, “Arduino” e “Cipolla”) convalida sia i principi di
specialità delle professioni intellettuali rispetto alle imprese di servizi, sia i principi di specialità
delle professioni legali rispetto alle altre professioni intellettuali.
§ Quanto alle Tariffe.
A parte la posizione della Suprema Corte di Cassazione che ha riconosciuto l’utilità del sistema
tariffario per la salvaguardia della qualità del servizio professionale (Cass., 21 ottobre 2011, n.
21934), è utile comprendere la posizione della Corte di Giustizia.
Il primo capitolo si ha con la sentenza Arduino del 2002 (causa C-35/99).
Il giudice remittente aveva adito la Corte del Lussemburgo per far rilevare la asserita violazione
dell'art. 85 trattato CE da parte della normativa italiana in materia di tariffe forensi, deducendo che
queste, adottate da un ente qualificabile come associazione di imprese (il Consiglio nazionale
forense) integrerebbero intese restrittive della libertà di concorrenza. In buona sostanza l'oggetto
del contendere era proprio la compatibilità con il quadro normativo comunitario del sistema
tariffario vigente in Italia per l'esercizio della professione forense. Ovvero la compatibilità con il
quadro comunitario di un elemento normativo di notevole importanza per la definizione del modello
ordinistico italiano. La sentenza era attesa in Italia, dove da anni, a partire da una indagine
conoscitiva avviata nel 1994 dall'Autorità garante per la concorrenza ed il mercato, si dibatteva
intorno al sistema degli ordini professionali.
La conclusione cui è arrivata la Corte è la piena compatibilità dei sistemi tariffari con il diritto
comunitario della concorrenza, affermando che "gli artt. 5 e 85 del Trattato CE (divenuti artt.
10 CE e 81 CE) non ostano all'adozione da parte di uno Stato membro di una misura legislativa o
regolamentare che approvi, sulla base di un progetto stabilito da un ordine professionale forense,
una tariffa che fissa dei minimi e dei massimi per gli onorari dei membri dell'ordine, qualora tale
misura statale sia adottata" [Corte UE, sentenza Arduino del 2002 (causa C-35/99)].
Un secondo episodio fondamentale in questa vicenda è rappresentato da una decisione più recente,
la sentenza Cipolla e Macrino (cause C-94/04 e C-202/04). La Corte ha mantenuto ferma la
propria giurisprudenza, confermando che il sistema tariffario proposto dal Consiglio Nazionale
Forense e poi disposto con decreto da parte del Ministro Guardasigilli non è in contrasto con il
diritto comunitario, sub specie di diritto della concorrenza, né per le tariffe minime previste per
le attività riservate, cioè per l’attività giudiziale, né per le tariffe previste per le attività libere, quali
10
l’attività stragiudiziale. La Corte osserva anzi che un sistema tariffario comprensivo di minimi
inderogabili è ammissibile, purché siano rilevabili uno o più dei seguenti motivi di pubblico
interesse: (i) tutela dei consumatori; (ii) buona amministrazione della giustizia.
Invero:
62. Per giustificare la restrizione della libera prestazione dei servizi derivante dal divieto in questione, il
governo italiano sostiene che un'eccessiva competizione tra avvocati rischierebbe di condurre ad una
concorrenza sui prezzi che comporterebbe un peggioramento della qualità dei servizi forniti, e ciò a danno
dei consumatori, in particolare in quanto soggetti di diritto aventi necessità di un'assistenza di qualità
dinanzi alla giustizia.
63. Secondo la Commissione, non è dimostrato alcun nesso di causalità tra la determinazione di onorari
minimi e un livello elevato di qualità dei servizi professionali forniti dagli avvocati. In realtà, una relazione
diretta di causa-effetto con la tutela dei clienti degli avvocati ed il buon funzionamento
dell'amministrazione della giustizia varrebbe per provvedimenti statali alternativi come, in particolare, le
norme di accesso alla professione forense, le regole disciplinari in grado di far rispettare la deontologia
professionale e la disciplina in materia di responsabilità civile, grazie al mantenimento, assicurato da tali
provvedimenti, di un livello elevato di qualità dei servizi forniti da tali professionisti.
64. A tal riguardo si deve osservare che la tutela, da un lato, dei consumatori, in particolare dei destinatari
dei servizi giudiziali forniti da professionisti operanti nel settore della giustizia e, dall'altro, della buona
amministrazione della giustizia sono obiettivi che rientrano tra quelli che possono essere ritenuti motivi
imperativi di interesse pubblico in grado di giustificare una restrizione della libera prestazione dei servizi
(v., in tal senso, sentenze 12 dicembre 1996, causa C-3/95, Reisebüro Broede, Racc. pag. I-6511, punto
31 e giurisprudenza ivi citata, nonché 21 settembre 1999, causa C-124/97, Läärä e a., Racc. pag. I-6067,
punto 33), alla duplice condizione che il provvedimento nazionale di cui si discute nella causa principale sia
idoneo a garantire la realizzazione dell'obiettivo perseguito e non vada oltre quanto necessario per
raggiungere l'obiettivo medesimo.
65. Spetta al giudice del rinvio determinare se, nella causa principale, la restrizione della libera prestazione
dei servizi creata dalla normativa nazionale rispetti tali condizioni. A tal fine, detto giudice dovrà tenere
conto degli elementi indicati nei punti seguenti.
66. Egli dovrà pertanto verificare, in particolare, se vi sia una relazione tra il livello degli onorari e la
qualità delle prestazioni fornite dagli avvocati e se, in particolare, la determinazione di tali onorari minimi
costituisca un provvedimento adeguato per il raggiungimento degli obiettivi perseguiti, vale a dire la tutela
dei consumatori e la buona amministrazione della giustizia.
67. Se è vero che una tariffa che fissi onorari minimi non può impedire ai membri della professione di
fornire servizi di qualità mediocre, non si può escludere a priori che tale tariffa consenta di evitare che gli
avvocati siano indotti, in un contesto come quello del mercato italiano, il quale, come risulta dal
provvedimento di rinvio, è caratterizzato dalla presenza di un numero estremamente elevato di avvocati
iscritti ed in attività, a svolgere una concorrenza che possa tradursi nell'offerta di prestazioni al ribasso,
con il rischio di un peggioramento della qualità dei servizi forniti.
68. Dovrà anche essere tenuto conto delle peculiarità sia del mercato in questione, le quali sono state
ricordate al punto precedente, che dei servizi in esame e, in particolare, del fatto che, in materia di
prestazioni di avvocati, vi è in genere un'asimmetria informativa tra i «clienti-consumatori» e gli avvocati.
Infatti, gli avvocati dispongono di un elevato livello di competenze tecniche che i consumatori non
necessariamente possiedono, cosicché questi ultimi incontrano difficoltà per valutare la qualità dei servizi
loro forniti [v., in particolare, la Relazione sulla concorrenza nei servizi professionali, contenuta nella
comunicazione della Commissione 9 febbraio 2004, COM(2004) 83 def., pag. 10].
69. Il giudice del rinvio dovrà tuttavia verificare se alcune norme professionali relative agli avvocati, in
particolare norme di organizzazione, di qualificazione, di deontologia, di controllo e di responsabilità siano
di per sé sufficienti per raggiungere gli obiettivi della tutela dei consumatori e della buona amministrazione
della giustizia.
70. Alla luce di quanto precede, la quarta e la quinta questione sollevate nella causa C-94/04 si devono
risolvere dichiarando che una normativa che vieti in maniera assoluta di derogare convenzionalmente agli
11
onorari minimi determinati da una tariffa forense, come quella di cui trattasi nella causa principale, per
prestazioni che sono al tempo stesso di natura giudiziale e riservate agli avvocati costituisce una
restrizione della libera prestazione dei servizi prevista dall'art. 49 CE. Spetta al giudice del rinvio verificare
se tale normativa, alla luce delle sue concrete modalità di applicazione, risponda realmente agli obiettivi
della tutela dei consumatori e della buona amministrazione della giustizia, che possono giustificarla, e se le
restrizioni che essa impone non appaiano sproporzionate rispetto a tali obiettivi.
Sulle spese
71. Nei confronti delle parti nella causa principale il presente procedimento costituisce un incidente
sollevato dinanzi ai giudici nazionali, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri
soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione.
P.Q.M.
la Corte (Grande Sezione) dichiara:
1) Gli artt. 10 CE, 81 CE e 82 CE non ostano all'adozione, da parte di uno Stato membro, di un
provvedimento normativo che approvi, sulla base di un progetto elaborato da un ordine professionale
forense quale il Consiglio nazionale forense, una tariffa che fissi un limite minimo per gli onorari degli
avvocati e a cui, in linea di principio, non sia possibile derogare né per le prestazioni riservate agli avvocati
né per quelle, come le prestazioni di servizi stragiudiziali, che possono essere svolte anche da qualsiasi
altro operatore economico non vincolato da tale tariffa.
2) Una normativa che vieti in maniera assoluta di derogare convenzionalmente agli onorari minimi
determinati da una tariffa forense, come quella di cui trattasi nella causa principale, per prestazioni che
sono al tempo stesso di natura giudiziale e riservate agli avvocati costituisce una restrizione della libera
prestazione dei servizi prevista dall'art. 49 CE. Spetta al giudice del rinvio verificare se tale normativa, alla
luce delle sue concrete modalità di applicazione, risponda realmente agli obiettivi della tutela dei
consumatori e della buona amministrazione della giustizia, che possono giustificarla, e se le restrizioni che
essa impone non appaiano sproporzionate rispetto a tali obiettivi.
La giurisprudenza comunitaria si è poi consolidata (ordinanze 17 febbraio 2005 in causa C/-250/03
e 5 maggio 2008 in causa C-386/07).
La Commissione ha quindi avuto torto nel sostenere la violazione della normativa comunitaria
(tanto in punto di libera concorrenza quanto in punto di libera prestazione dei servizi) per il solo
esistere delle tariffe forensi e che il “decreto Bersani” non era giustificato.
Dopo la sentenza Cipolla è stata varata la direttiva sui servizi (direttiva Bolkenstein) con
l’obiettivo di “eliminare le restrizioni alla circolazione transfrontaliera dei servizi, incrementando al
tempo stesso la trasparenza e l’informazione dei consumatori- in modo da consentire agli stessi la
più ampia facoltà di scelta e migliori servizi a prezzi inferiori”, il principio generale a cui si ispira è
stato individuato dalla Corte di Giustizia delle Comunità Europee nella famosa sentenza Cassis de
Dijon, del 1979, relativa alla libera circolazione dei beni. Lo schema di decreto che recepisce la
direttiva Bolkestein è stato approvato dal governo il 17 dicembre 2009 ed è entrato in vigore il 19
marzo 2010. I contenuti del Decreto legislativo si applicheranno con il principio di “cedevolezza”
fino a quando le Regioni italiane non avranno adottato la Direttiva 2006/123/CE con una normativa
propria. A tutela dei consumatori, anche per quanto riguarda la professione legale, la direttiva
impone misure sulle comunicazioni che i prestatori di servizi dovranno fornire: la normativa statale
dovrà prevedere, infatti, che siano rese disponibili “in modo chiaro” e “prima che il servizio sia
prestato” il prezzo del servizio o le modalità di calcolo dello stesso o un preventivo sufficientemente
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dettagliato, informazioni sulle regole professionali, sui codici di condotta cui il professionista è
assoggettato, sull’esistenza di organismi di conciliazione per la risoluzione delle controversie (art.
22).
Per quanto concerne il diritto interno, la Cassazione, Sez. unite, 11 settembre 2007, n. 19014
ha confermato la legittimità della disciplina delle tariffe come prevista dalla legge professionale,
sottolineando che la disciplina consente al giudice una valutazione sufficientemente discrezionale
per la determinazione in giudizio delle spese di lite, e quindi anche dei compensi professionali dei
difensori, ed ha riaffermato i principi di adeguatezza e proporzionalità a cui la disciplina si ispira (e
per i notai al contempo Cassazione, 15 aprile 2008 n. 9878).
Non ultimo la Cassazione è assai chiara nel confermare che: a) il quadro comunitario non osta ad
un sistema di tariffe minime, anzi lo giustifica pienamente per ragioni di interesse pubblico quali la
corretta amministrazione della giustizia e la tutela del consumatore; b) smentisce la lettura che il
governo diede della sentenza Cipolla-Macrino, confermando quella fornita dal CNF; c) un sistema di
tariffe minime tutela l'interesse a evitare una concorrenza al ribasso a discapito della qualità della
prestazione. Così recita la sentenza:
“La vigenza nel nostro ordinamento di una normativa che vieti di derogare convenzionalmente agli onorari
minimi determinati da una tariffa forense, trova, del resto, riscontro nelle pronunce della Corte di giustizia,
che, in tema di tariffe professionali degli avvocati, ha affermato, con la sentenza 19 febbraio 2002, causa
C-35/99, che "gli artt. 5 e 85 del trattato CEE (divenuti art. 10 Ce e 81 Ce) non ostano all'adozione, da
parte di uno Stato membro, di una misura legislativa o regolamentare che approvi, sulla base di un
progetto stabilito da un ordine professionale, una tariffa che fissa dei minimi e dei massimi per gli onorari
dei membri dell'ordine, qualora tale misura statale sia dettata nell'ambito di un procedimento come quello
previsto dal R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, come modificato.
La conformità al principio comunitario della libera concorrenza di quelle norme del diritto interno in virtù
delle quali è imposta la inderogabilità dei minimi di tariffa forense, costituisce orientamento confermato
dalla più recente sentenza della Corte di giustizia del 5 dicembre 2006, cause riunite C-94/04 e C-202/04,
ove, tra l'altro, si sottolinea che una limitazione al principio di libera prestazione dei servizi professionali
può essere consentita allorchè "ragioni imperative di interesse pubblico" la giustifichino; ragioni che con
riferimento alla inderogabilità dei minimi della tariffa degli avvocati vengono individuate nell'esigenza di
garantire la qualità della prestazione professionale a tutela degli utenti consumatori e la buona
amministrazione della giustizia. Sussistendo questi obiettivi, l'obbligatorietà dei minimi può essere
giustificata, dunque, allorchè sussista il rischio che, per le caratteristiche del mercato, la concorrenza al
ribasso sull'offerta economica tra gli operatori possa prgiudicare la qualità della prestazione. A proposito
dei servizi legali, la Corte individua come fattore di rischio il "numero estremamente elevato" di
professionisti iscritti ed in attività e riconosce al giudice nazionale il compito di determinare se la restrizione
della libera prestazione creata dal divieto di derogare convenzionalmente ai minimi tariffari per i servizi
legali, previsto dalla legislazione italiana, risponde a ragioni imperative di interesse pubblico ed è
strettamente idoneo a garantire da un lato che vi sia corrispondenza tra il livello degli onorari e la qualità
delle prestazioni fornite dagli avvocati, dall'altro che la determinazione di tali onorari minimi costituisca un
provvedimento adeguato alla tutela dei consumatori e della buona amministrazione della giustizia.
Pur non essendo una garanzia della qualità dei servizi, non si può di certo escludere - ed anzi deve
affermarsi - che nel contesto italiano, caratterizzato da una elevata presenza di avvocati, le tariffe che
fissano onorari minimi consentano di evitare una concorrenza che si traduce nell'offerta di prestazioni "al
ribasso", tali da poter determinare un peggioramento della qualità del servizio. E' appena il caso di
osservare che il D.L. n. 223 del 2006, art. 2, comma 1, convertito in L. n. 248 del 2006, ha abrogato le
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disposizioni legislative e regolamentari che prevedevano la fissazione di tariffe obbligatorie fisse o minime
per le attività professionali e intellettuali "dalla data di entrata in vigore" della legge stessa; ne consegue
che quelle disposizioni conservano piena efficacia in relazione a fatti - come quelli in oggetto - verificatisi
prima. (Cass. n. 9878/2008). Con il secondo motivo le ricorrenti, denunciando vizio di motivazione e
violazione dell'art. 1362 c.c. e ss., e art. 1418 c.c., lamentano che - anche a voler sostenere la esistenza di
minimi inderogabili tariffari - il Giudice di appello abbia ritenuta la invalidità della rinuncia ai minimi
tariffari, operata dalla parte controricorrente, a fronte di una continuità di incarichi da parte delle società.
(Cass., Sez. lav., 27 settembre 2010, n. 20269).
Successivamente la Corte di Giustizia [sentenza del 29 marzo 2011 (causa C-565/08)],
statuisce che le tariffe massime obbligatorie previste per gli avvocati sono compatibili con il
Trattato Ue, respingendo il ricorso della Commissione europea contro l’Italia. Nella specie la
Commissione sosteneva che il sistema italiano era contrario agli articoli 43 e 49 del Trattato,
divenuti con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona sul funzionamento dell’Ue rispettivamente
articoli 49 e 56 riguardanti il diritto di stabilimento e la libera prestazione dei servizi perché, tra gli
altri motivi, la previsione di tariffe massime obbligatorie, non correlate a fattori quali la qualità
della prestazione, il lavoro necessario per l’attività e i costi sostenuti poteva dissuadere i legali di
altri Stati membri dall’ingresso nel mercato italiano. La tesi della Commissione non ha convinto la
Corte:
La Commissione sostiene che le disposizioni controverse producono l’effetto di disincentivare gli avvocati
stabiliti in altri Stati membri a stabilirsi in Italia o a prestarvi temporaneamente i propri servizi e, di
conseguenza, configurano restrizioni alla libertà di stabilimento ai sensi dell’art. 43 CE nonché alla libera
prestazione dei servizi ai sensi dell’art. 49 CE.
Infatti, essa considera che un tariffario massimo obbligatorio, che si applichi indipendentemente dalla
qualità della prestazione, dal lavoro necessario per effettuarla e dai costi sostenuti per attuarla, possa
rendere il mercato italiano delle prestazioni legali non attraente per i professionisti stabiliti in altri Stati
membri.
A giudizio della Commissione, tali restrizioni derivano, in primo luogo, dall’obbligo imposto agli avvocati di
calcolare i propri onorari in base ad un tariffario estremamente complesso che genera un costo aggiuntivo,
in particolare per gli avvocati stabiliti fuori dell’Italia. Nel caso in cui questi avvocati avessero utilizzato fino
ad allora un diverso sistema di calcolo dei loro onorari, essi sarebbero obbligati ad abbandonarlo per
adeguarsi al sistema italiano.
In secondo luogo, l’esistenza di tariffe massime applicabili agli onorari degli avvocati impedirebbe che i
servizi degli avvocati stabiliti in Stati membri diversi dalla Repubblica italiana siano correttamente
remunerati dissuadendo taluni avvocati, i quali chiedono onorari più elevati di quelli stabiliti dalle
disposizioni controverse, dal prestare temporaneamente i propri servizi in Italia, ovvero dallo stabilirsi in
tale Stato membro. Infatti, secondo la Commissione, il margine di guadagno massimo è fissato
indipendentemente dalla qualità del servizio prestato, dall’esperienza dell’avvocato, dalla sua
specializzazione, dal tempo da lui dedicato alla causa, dalla situazione economica del cliente, e, ancor più,
dall’eventualità che l’avvocato sia tenuto a spostarsi per lunghi tragitti.
La Commissione considera, in terzo luogo, che il sistema di tariffazione italiano pregiudichi la libertà
contrattuale dell’avvocato impedendogli di fare offerte ad hoc in determinate situazioni e/o a clienti
particolari. Le disposizioni controverse potrebbero dunque comportare una perdita di
competitività per gli avvocati stabiliti in altri Stati membri perché esse privano gli stessi di efficaci tecniche
di penetrazione nel mercato legale italiano. Di conseguenza, la Commissione ritiene che le 6 disposizioni
controverse costituiscano un ostacolo all’accesso al mercato italiano dei servizi legali per gli avvocati
stabiliti in altri Stati membri.
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In via principale, la Repubblica italiana contesta non l’esistenza, nell’ordinamento giuridico italiano, di dette
tariffe massime, bensì il carattere vincolante delle medesime, sostenendo che esistono numerose deroghe
per superare tali limiti, o per volontà degli avvocati e dei loro clienti, o
tramite l’intervento del giudice.
Secondo tale Stato membro, il criterio principale che consente di fissare gli onorari degli avvocati risiede, a
norma dell’art. 2233 del codice civile italiano, nel contratto concluso tra l’avvocato e il suo cliente, mentre
il ricorso alle tariffe applicabili agli onorari degli avvocati costituisce soltanto un criterio sussidiario,
utilizzabile in mancanza di compenso liberamente fissato dalle parti contrattuali nell’esercizio della loro
autonomia contrattuale.
(…)
Giudizio della Corte
Infatti, essa non è riuscita a dimostrare che la normativa in discussione è concepita in modo da
pregiudicare l’accesso, in condizioni di concorrenza normali ed efficaci, al mercato italiano dei servizi di cui
trattasi. Va rilevato, al riguardo, che la normativa italiana sugli onorari è caratterizzata da una flessibilità
che sembra permettere un corretto compenso per qualsiasi tipo di prestazione fornita dagli avvocati. Così,
è possibile aumentare gli onorari fino al doppio delle tariffe massime altrimenti applicabili, per cause di
particolare importanza, complessità o difficoltà, o fino al quadruplo di dette tariffe per quelle che rivestono
una straordinaria importanza, o anche oltre in caso di sproporzione manifesta, alla luce delle circostanze
nel caso di specie, tra le prestazioni dell’avvocato e le tariffe massime previste. In diverse situazioni,
inoltre, è consentito agli avvocati concludere un accordo speciale con il loro cliente al fine di fissare
l’importo degli onorari.
Pertanto, non avendo dimostrato che le disposizioni controverse ostacolano l’accesso degli avvocati
provenienti dagli altri Stati membri al mercato italiano di cui trattasi, l’argomentazione della Commissione,
diretta alla constatazione dell’esistenza di una restrizione ai sensi degli artt. 43 CE e 49 CE, non può essere
accolta.
Ne consegue che il ricorso dev’essere respinto.
Successivamente la Corte di Giustizia, sentenza del 14 ottobre 2010, si è pronunciata, in
grado di appello, sul ricorso presentato dalle imprese Akzo Nobel e Akros contro una decisione
della Commissione europea in materia di concorrenza. La Corte, nel dichiarare l’infondatezza gli
argomenti delle imprese ricorrenti, ha esaminato i requisiti posti dalla propria giurisprudenza con
riferimento allo status dell’avvocato, affermando che l’appartenenza ad un ordine professionale e la
soggezione alle regole di deontologia e disciplina sono condizione necessaria, ma non sufficiente,
perché un professionista possa essere ritenuto pienamente indipendente.
La piena indipendenza si realizza solamente quando l’avvocato opera al di fuori da un rapporto subordinato
con l’impresa, a prescindere dalle condizioni contrattuali che caratterizzano tale rapporto. Il rapporto di
impiego di un avvocato pone il professionista in una situazione che, "per sua stessa natura, non consente
all’avvocato interno di discostarsi dalle strategie commerciali perseguite dal suo datore di lavoro e che
dunque influisce sulla capacità di agire con indipendenza professionale." La Corte rileva infine che la
disciplina olandese, che ammette all’esercizio della professione di avvocato i giuristi d’impresa, "non è in
grado di garantire un’indipendenza comparabile a quella di un avvocato esterno" a favore degli stessi
giuristi (cfr. punti da 42 a 47). Di interesse l’analisi svolta dall’Avvocato generale che ha proposto la tesi
secondo cui "il concetto di indipendenza dell’avvocato viene determinato non solo in positivo, mediante un
riferimento alla disciplina professionale, bensì anche in negativo, vale a dire con la mancanza di un
rapporto di impiego. Un avvocato interno, nonostante la sua iscrizione all’ordine forense e i vincoli
professionali che ne conseguono, non gode dello stesso grado di indipendenza dal suo datore di lavoro di
cui gode, nei confronti dei suoi clienti, un avvocato che lavora in uno studio legale esterno. Pertanto, per
un avvocato interno è più difficile che per un avvocato esterno risolvere eventuali conflitti fra i suoi doveri
professionali e gli obiettivi del suo cliente" (Sentenza, punto 45 e conclusioni, punti 60 e 61).
15
§ Quanto alla pubblicità.
La direttiva CE n. 123 del 12/12/2006 relativa ai servizi nel mercato interno (c.d. Direttiva
Bolkestein), sopprime ogni divieto in materia di pubblicità, ed in tal senso l’art. 24 si riferisce
esplicitamente alle professioni regolamentate. Vi è però un importante temperamento all’art. 24
comma 2, che impone la conformità del messaggio alle regole professionali, tenendo conto della
specificità della professione, nonché della indipendenza, della integrità, della dignità e del segreto
professionale. Fra l’altro la direttiva quando fa riferimento ai professionisti, non usa il termine
pubblicità ma l’espressione "comunicazioni commerciali emananti dalle professioni regolamentate".
Quindi la direttiva Bolkestein pone limiti assolutamente peculiari alla pubblicità nelle professioni,
che distingue chiaramente dalla pubblicità strettamente commerciale. Sul punto si legga anche il
considerando n. 96, secondo cui "le informazioni che il prestatore ha l’obbligo di rendere disponibili
nella documentazione con cui illustra in modo dettagliato i suoi servizi non dovrebbero consistere in
comunicazioni commerciali di carattere generale come la pubblicità, ma piuttosto in una descrizione
dettagliata dei servizi proposti", dunque netta distinzione tra concetto di pubblicità commerciale e
pubblicità, o meglio comunicazione, informativa, che fra l’altro, come visto, va regolamentata dai
codici deontologici.
Giova poi rammentare anche il D.lgs. 9 aprile 2003 n. 70 (attuazione della direttiva
2000/31/CE), avente ad oggetto taluni aspetti giuridici dei servizi della società della informazione
nel mercato interno, con particolare riferimento al commercio elettronico (internet). Tale decreto
prevede all’art. 10, che la comunicazione commerciale nelle professioni regolamentate "deve
essere conforme alle regole di deontologia professionale e in particolare all’indipendenza, alla
dignità, all’onore della professione, al segreto professionale e alla lealtà verso clienti e colleghi".
Da non trascurare la sentenza della Corte di Giustizia Europea, sez. seconda, 13 marzo
2008 (causa n. 446/05), con cui si evidenzia come una normativa nazionale che vieti a
chiunque, nell’ambito di una libera professione, di effettuare qualsivoglia pubblicità, non contrasta
con l’art. 81 del Trattato che tutela la libera concorrenza all’interno del mercato unico.
Sicchè tanto le fonti europee che le fonti interne, distinguono chiaramente la pubblicità
commerciale dall’attività informativa dell’Avvocato.
Con l’ultima modifica del Codice Deontologico (approvata dal C.N.F. il 14 dicembre 2006), si è
affermato che l’iscritto può rendere nota l’attività dello studio legale con i mezzi più idonei purché
si rispetti il precetto secondo cui «il contenuto e la forma dell’informazione devono essere coerenti
con la finalità della tutela dell’affidamento della collettività e rispondere a criteri di trasparenza e
veridicità» (art. 17 C.D.F.). E quanto al contenuto «l’informazione deve essere conforme a verità e
correttezza e non può avere ad oggetto notizie riservate o coperte dal segreto professionale»,
mentre rispetto alla forma ed alla modalità «l’informazione deve rispettare la dignità e il decoro
della professione». Infine il terzo comma dell’art. 17-bis C.D.F. (Modalità dell’informazione), recita
che «L’avvocato può utilizzare esclusivamente i siti web con domini propri e direttamente
riconducibili a sé, allo studio legale associato o alla società di avvocati alla quale partecipa, previa
comunicazione al Consiglio dell’Ordine di appartenenza della forma e del contenuto in cui è
espresso».
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I principi di dignità, decoro e lealtà nello svolgimento (e nella comunicazione) delle attività
professionali sono, nell’ottica della deontologia forense, superiori all’interesse all’acquisizione di
nuova clientela.
§ Quanto alla riserva dell’attività di consulenza legale.
Occorre evidenziare come l’ordinamento comunitario non osti ad una scelta del legislatore
nazionale di sottoporre a riserva l’attività di consulenza legale, se svolta professionalmente.
Non è scritto nella Direttiva Bolkestein (direttiva 2006/123/CE recepita in Italia con il d. lgsl. n.
59/10). Infatti nel considerando n. 88, sono compatibili con essa sistemi normativi nazionali che
addirittura sottopongano a riserva l’attività di consulenza legale: "88. La disposizione sulla libera
prestazione di servizi non dovrebbe applicarsi nei casi in cui, in conformità del diritto comunitario,
un’attività sia riservata in uno Stato membro ad una professione specifica, ad esempio qualora sia
previsto l’esercizio esclusivo della consulenza giuridica da parte degli avvocati".
All’uopo, come ricordato nel Manifesto dell’avvocatura “La consulenza legale, infatti, come ogni
prestazione professionale dell’avvocato, è oggetto di uno specifico contratto che ha regole sue
proprie: il contratto di prestazione professionale, che può essere forse considerato un tipo speciale
di contratto d’opera. In questo contratto assume un rilievo determinante il profilo soggettivo di una
delle due parti contrattuali: deve trattarsi di soggetto che ha non solo una particolare qualificazione
tecnico-culturale, ma che si muove nella vicenda in questione in condizioni di indipendenza e
autonomia intellettuale. Tutte condizioni che debbono presidiare non solo alla attività giudiziale, ma
anche alle attività di assistenza e consulenza, se correttamente intese.”.
La stessa Corte di Cassazione (sentenza n. 9237/07) osserva che "le attività di assistenza e
consulenza in materia legale e tributaria rientrano tra le prestazioni professionali protette che
possono essere svolte soltanto da professionisti iscritti ai relativi albi". La stessa Corte di giustizia
dell’Unione si sofferma attentamente sulla materia delle attività riservate (Corte di Giustizia UE, 19
maggio 2009, nella causa C-531/06). Nella specie occorre ricordare come l’esercizio della
professione forense incida su di un diritto fondamentale quale il diritto di difesa. Occorre quindi
riconoscere e ricordare come il diritto comunitario e la Corte di giustizia non ostino ad una
legislazione nazionale che riservi l’esercizio di attività professionali incidenti su di ritti fondamentali
ad una categoria di soggetti particolarmente qualificata e soggetta a severi regimi di responsabilità.
*
In conclusione, l’analisi attenta di ciò che è accaduto in Europa dimostra inequivocabilmente come
il potere esecutivo e comunque il legislatore, asservito a esclusivi interessi economici tali oramai da
compromettere le naturali funzioni di una democrazia (in Italia come altrove, in occidente), stia
strumentalizzando e artefando alcuni passaggi comunitari, al solo fine di indebolire l’avvocatura e
continuare ad eludere la necessaria riforma strutturale della Giustizia.
Giustizia (e avvocatura propedeutica alla tutela dei diritti) sui quali si regge la democrazia. Ed
anche l’economia di un Paese intero.
L’avvocatura non può assistere silente ad un tale grave processo. Per se stessa e soprattutto per
difendere “l’interesse pubblico”.
Milano, 13 marzo 2012
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