Prime riflessioni sul d.l. "Bersani" n. 223/06 dopo le modifiche apportate dalla
legge di conversione n. 248/06 in tema di concorrenza nei servizi
professionali degli avvocati
di Alberto Piccinini, Avvocato in Bologna
I provvedimenti che dovrebbero regolamentare la concorrenza nei servizi professionali degli
avvocati, assunti con la discutibile – e motivatamente criticata – forma del decreto legge, hanno
avuto l’effetto – oltre che di provocare inedite, durissime, forme di agitazione da parte della
categoria – di stimolare una discussione su temi fino ad oggi considerati veri e propri tabù, perché
vietati dal codice deontologico (come ad esempio la pubblicità) o addirittura dalla legge (patto di
quota lite). Discussione che ha comunque contribuito ad apportare significative rettifiche al d.l.
"Bersani" n. 223/06 in sede di conversione, e che fornisce l’occasione per approfondire il confronto
– tra avvocati in generale e tra giuslavoristi in particolare – sull’evoluzione che il nostro modo di
lavorare ha avuto e potrebbe avere nel prossimo futuro.
Abrogazione delle disposizioni che prevedono l’obbligatorietà di tariffe (Art. 2 primo comma
lett. a, prima parte D.L. n. 223).
E’ stato questo uno dei punti della riforma maggiormente sotto accusa, rispetto al quale la legge di
conversione ha parzialmente accolto le critiche espresse rispetto al testo originario del decreto
legge.
In particolare ora la legge, anziché vietare la predisposizione di tariffe fisse o minime, ne consente
l’esistenza, stabilendo addirittura che esse debbono essere il parametro di riferimento per i giudici
nei provvedimenti di liquidazione delle spese giudiziali e di gratuito patrocinio. Ugualmente dette
tariffe possono essere utilizzate come criterio di riferimento per la determinazione dei compensi
per attività professionali “nelle procedure ad evidenza pubblica”. (v. i periodi aggiunti all’art. 2
comma 2 dal ddl n. 741 nel testo convertito in legge).
Ritengo tale statuizione molto importante, specie per gli avvocati che difendono prevalentemente i
lavoratori, ed i cui introiti derivano in massima parte dalle spese liquidate a carico della
controparte. L’abrogazione “in toto” delle tariffe avrebbe consentito ai giudici un totale arbitrio nella
liquidazione delle spese, rischiando anche di pregiudicare la tutela dei non abbienti nelle
controversie con il patrocinio a spese dello Stato: la circostanza era stata evidenziata, e devo dare
atto che le obiezioni sono state prontamente recepite.
Da un certo punto di vista l’avvocato ha ora - in giudizio - persino maggiori garanzie di prima, se si
considera che la Corte di Giustizia –pur dichiarando le tabelle delle tariffe applicabili agli avvocati
previste dalla normativa italiana non in contrasto con il diritto comunitario – ha ritenuto che “I limiti
minimi e massimi delle tariffe devono essere rispettati, ma il giudice può derogarvi, motivando la
sua decisione”1[1]
1[1]
Corte di Giustizia 19 febbraio 2002 nella causa C-35/99 relativa all’eventuale
contrasto delle Tariffe degli onorari degli avvocati italiani con le disposizioni del Trattato in
Le tariffe quindi sopravvivono, ma non sono obbligatorie nella contrattazione tra l’avvocato ed il
cliente.
Contro la possibilità che il compenso dei legali possa essere oggetto di contrattazione “al ribasso”,
molti colleghi hanno messo in evidenza la funzione, svolta dall’avvocatura, di salvaguardia del
diritto costituzionale di difesa, che non consente paragoni con altre forniture di servizi per i
consumatori. Ove la Giustizia venisse considerata alla stregua di qualsivoglia altra merce, ne
conseguirebbe un irreversibile degrado della professione e della stessa civiltà.
Sono inoltre stati evidenziati i pregiudizi che concretamente potrebbero derivare dalla possibilità di
derogare i minimi professionali. In un intervento “a caldo”, Franco Toffoletto aveva ipotizzato lo
scenario apocalittico di un imminente futuro in cui grandi studi internazionali potrebbero offrire ad
aziende e privati assistenza legale a 360 gradi (lavoro, incidenti stradali, assicurazioni,
condominio, testamento, ecc.) a 100 euro all’anno, lavorando per anni sottocosto “fino a quando
morirà l’ultimo avvocato. (…) A quel punto avranno il mercato e faranno loro i prezzi”.
Il mio inguaribile ottimismo mi fa sperare trattarsi di fantascienza catastrofista, ma nello stesso
tempo non sottovaluto il pericolo, per i colleghi che lavorano con le aziende, di poter essere vittime
di pressanti richieste da parte dei clienti di “sconto” sul compenso forfetario annuo in precedenza
concordato, dietro minaccia di rivolgersi ad un concorrente più disponibile (e non c’è dubbio che, in
termini di forza contrattuale, per l’avvocato viene certamente meno, nella trattativa col proprio
assistito, l’argomento di “non poter scendere sotto i minimi”). Con il rischio che la maggiore
disponibilità sia accompagnata da una minore professionalità. Nessuna garanzia sembra infatti
essere data all’utente – che si vorrebbe invece, con il decreto legge, favorire nella “facoltà di scelta
nell’esercizio dei propri diritti e di comparazione delle prestazioni offerte sul mercato” (art. 2 primo
comma DL n. 223) – dal pericolo che la qualità del servizio sia inferiore, e meno tutelata dagli
obblighi deontologici.
Ma, mi verrebbe da dire, questo è lo scotto che forse la nostra professione deve pagare ad una
società in continua evoluzione – ove la legge del mercato sembra ormai essere l’unica “ideologia”
sopravvissuta – e stupisce che a lamentarsene siano spesso proprio coloro che, rispetto ai principi
generali, ne esaltano le virtù. Sì alle riforme, sì al mercato, ma non nel mio cortile.
Credo invero, assolutamente senza spirito di polemica, che la migliore garanzia contro l’eventualità
sopra prospettata sia data proprio dalla qualità e professionalità del servizio reso. Se avvocati di
qualità dovessero essere abbandonati da clienti abbagliati da offerte di prestazioni competitive solo
sotto il profilo economico (ma di basso livello professionale) posso contare che essi ben presto …
tornino all’ovile, non diversamente da come ho fatto io dopo aver comperato per strada lo zaino di
scuola per mio figlio a 10 euro, ritrovandomelo, dopo appena due mesi, completamente sfasciato. I
clienti/utenti di tutti i servizi (compreso il nostro) sono di regola “grandi e vaccinati”, e devono
essere in grado di valutare il rapporto prezzo-qualità.
Non dimentichiamo, comunque, che talvolta anche il nostro lavoro “vola basso”: si pensi agli
avvocati che monopolizzano il recupero crediti di Enti ed istituti di credito sfornando –
esclusivamente – migliaia di decreti ingiuntivi all’anno: in questo caso la riforma potrebbe offrire
nuove opportunità non solo agli utenti, ma anche a tanti altri colleghi, aprendo il mercato.
Tenendo anche conto del fatto che già oggi molti avvocati, in vaste aree del territorio nazionale,
per poter lavorare spesso sono già costretti a “sforare” i minimi.
Devo infine, per completezza, aggiungere che il problema della possibilità di scendere sotto i
minimi professionali è meno sentito dai legali che difendono i lavoratori, magari in regime di
materia di concorrenza. Da non confondere con quella, in pari data, di cui alla successiva
nota.
convenzione con le organizzazioni sindacali. E’ infatti ipotesi assai frequente che, in caso di
soccombenza, e soprattutto ove il lavoratore non riesca a conseguire un risultato concreto dalla
eventuale vittoria giudiziale (causa l’inesigibilità del credito per intervenuto fallimento o per
esecuzioni negative nei confronti di debitori non soggetti a fallimento), essi rinuncino in tutto od in
parte ai propri onorari, in considerazioni delle condizioni socio-economiche del proprio cliente ed in
forza dell’adesione ai valori di solidarietà che costituiscono la ragion d’essere delle associazioni
sindacali dei lavoratori.
Facoltà di pattuire compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti (Art. 2
primo comma lett. a, seconda parte D.L. n. 223).
Su questo punto la legge di conversione non ha recepito le molte critiche mosse da tanti colleghi e
non ha quindi apportato modifiche al testo originario: viene ammesso, quindi, il cd. “patto di quota
lite”, salvo che, a fronte della sostituzione del terzo comma dell’art. 2233 del codice civile, i patti
che stabiliscono i compensi professionali “non redatti in forma scritta” sono sanzionati con la
nullità.
Sull’argomento devo confessare di non avere le idee del tutto chiare, non convincendomi fino in
fondo le argomentazioni contrarie, ma nello stesso tempo ravvisando i pericoli che la nostra
professione potrebbe correre trasformandosi in una “obbligazione di risultato”.
Tra i tanti interventi uditi in occasione di assemblee di avvocati, mi è capitato di sentire che il lavoro
di avvocato prevederebbe una specie di “terzietà” rispetto all’esito della causa, e che la migliore
garanzia di serietà nella conduzione della causa sarebbe data dalla circostanza che la parcella è
sempre dovuta, “a prescindere”. Al contrario, ove fosse consentito al legale concordare il proprio
compenso in misura percentuale rispetto al risultato conseguito, egli si trasformerebbe in “un
socio” del cliente disposto, a quel punto, a conseguire il risultato con qualsiasi mezzo.
Credo che i problemi siano due, scindibili. Il primo è se per l’avvocato debba essere indifferente
vincere o perdere la causa. Confesso che a me le cause piace vincerle, e quando ritengo che
l’esito sia particolarmente incerto, ben volentieri cerco di favorire una transazione, per far ottenere
al mio cliente quello che ritengo il miglior risultato nel più breve tempo possibile. Non penso che la
coincidenza degli interessi del cliente e miei (prima concludo una pratica, prima posso dedicarmi
ad altre pratiche, o all’ozio) sia un elemento negativo.
Al contrario – è forse un luogo comune, ma come tutti i luoghi comuni contiene un nucleo di verità
– l’avvocato che matura comunque gli onorari per il lavoro che viene svolgendo, ha minore stimolo
a concludere il giudizio. Non a caso qualcuno ha coniato il detto: “causa che pende, causa che
rende”.
Diverso e separato è il problema relativo all’eventualità che il risultato possa essere perseguito in
modo spregiudicato: il problema quindi alla fine è di metodo, e cioè di come si lavora, nel rispetto
del codice deontologico e delle regole di buon senso. Personalmente non troverei scandaloso
poter pattuire con il mio cliente compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti
(come avviene già, di fatto, quando il risultato è …zero), purché, ovviamente, io svolga il mio
lavoro correttamente, nell’interesse del mio assistito e senza pattuire percentuali da strozzinaggio.
Non possiamo poi ignorare che già ora la prassi di rapportare il compenso al risultato raggiunto è
comune, ad esempio, in tutte le pratiche di infortunistica stradale, e che molti colleghi
previdenzialisti stabiliscono patti, spesso scellerati, con i loro clienti.
Credo quindi che la soluzione migliore sia quella di ulteriormente regolamentare la materia,
fissando, ad esempio, una percentuale massima oltre la quale il patto di quota lite è nullo,
analogamente a quanto si è fatto nell’individuare il reato di usura: a tal fine andrebbe a mio avviso
sfruttata la previsione di cui al comma 3 del DL. n. 223/06 adeguando le disposizioni deontologiche
e pattizie e i codici di autodisciplina ed adottando misure che siano a garanzia della qualità delle
prestazioni professionali e nel contempo a tutela dell’utente.
Dobbiamo comunque sin d’ora riflettere sul fatto che si trasforma radicalmente il nostro modo
di lavorare, specie per quegli avvocati che difendono i lavoratori e che quindi si trovano, quasi
sempre, nella veste di coloro che propongono l’azione giudiziaria. Unitamente al modulo relativo
alla Privacy, e comunque in coincidenza con la raccolta del mandato giudiziale, dovremo prendere
l’abitudine di far sottoscrivere al cliente un vero e proprio contratto che regolamenti, nel modo più
preciso possibile gli onorari ed i costi delle prestazioni, che potrebbero differenziarsi – ma senza
che nessuno sia costretto a farlo – in relazione “al raggiungimento degli obiettivi” e quindi all’esito
della causa (prevedendo, quindi, nel caso, le diverse ipotesi di soccombenza, di vittoria con
condanna alle spese a carico di controparte e di vittoria con compensazione di spese, nei diversi
gradi del giudizio). Il tutto, ovviamente, in conformità con quanto regolamentato dal Consiglio
dell’Ordine e/o dalla convenzione eventualmente vigente con l’organizzazione sindacale di
riferimento (che potrebbe, per l’occasione, essere ri-ragionata). Molte di queste convenzioni, ad
esempio, prevedono – come già si è fatto cenno – che, ove il lavoratore per qualche ragione non
riesca a recuperare il proprio credito riconosciuto in sentenza, anche l’avvocato rinunci a richiedere
al cliente il proprio compenso, seppur liquidato dal giudice: non è questa già una forma di
compenso parametrato al raggiungimento degli obiettivi perseguiti?
Si è evidenziato il pericolo che potrebbero venire trascurate le cause di minor valore economico
per dare spazio solo alle cause “più ricche” ovvero a quelle dall’esito meno incerto, e che in tal
modo verrebbe compressa la possibilità di far valere in giudizio diritti indisponibili. Io penso che già
ora avvenga, in parte, una selezione di questo tipo, nel senso che, salvo i diritti certi (recupero
crediti arretrati, TFR, ecc.) per i quali non v’è ragione per non procedere (dovendosi tra l’altro
confidare sulla soccombenza certa di controparte anche rispetto alle spese legali) e le cause di
principio (spesso di valore indeterminato, che possono trovare uno “sponsor” nella stessa
organizzazione sindacale che intende promuoverle) per i diritti controversi è deontologicamente
doverosa una preventiva valutazione sulle probabilità di vittoria che tenga conto dei diversi fattori
(orientamenti giurisprudenziali locali e di legittimità, elementi di prova di cui si dispone) e che
induca a non intraprendere una causa che presenta elevati margini di rischio, salva la ferma
volontà del cliente di farlo, assumendosene – a quel punto – il rischio. Verrà, forse, disincentivato
un ricorso troppo disinvolto alla Giustizia, ma non credo che questo vada a danno del cliente, sul
quale
alla fine ricadrebbero le conseguenze di una lite proposta, in ipotesi, troppo
avventatamente.
Società multidisciplinari (Art. 2 primo comma lett. c, D.L. n. 223).
La disposizione è stata accolta da alcuni come una grande opportunità che equipara il nostro
Paese al altri paesi europei come Inghilterra, Francia e Germania (v. ad esempio l’articolo su Il
Sole 24 ore del 24 luglio 2006 di Paola Parigi dal titolo “Le società multidisciplinari aprono la porta
al futuro”), mentre da altri è stata fortemente criticata. Sul punto ritengo che la Risoluzione del
Parlamento Europeo 23 marzo 2006, richiamata nell’articolo di Franzo Grande Stevens pubblicato
sul quotidiano La Repubblica del 18 luglio 2006, ponga un problema serio sulla necessità di evitare
il pericolo di conflitti d’interesse e di rispetto della riservatezza del cliente nelle organizzazioni che
comprendono professionisti non vincolati da obblighi professionali equivalenti a quelli previsti per
la professione forense: in particolare dal dovere “di rispettare un rigoroso segreto professionale”,
richiamato dalla sentenza della Corte di Giustizia 19 febbraio 20022[2]. Non a caso con tale
pronuncia la Corte ha ritenuto esistere “una certa incompatibilità” tra l’attività di consulenza
esercitata dall’avvocato e quella di controllo esercitata dal revisore dei conti.
Confesso di non essere in grado di capire se la soluzione adottata dalla legge di conversione,
laddove impone che “l’oggetto sociale relativo all’attività libero-professionale deve essere
esclusivo” sia in grado di risolvere i dubbi posti.
Pubblicità. L’ultimo punto del decreto legge 223/06 - ritenuto da molti gravemente lesivo della
dignità della nostra professione - è quello della facoltà, prevista dall’art. 2 primo comma lett. b),
nel testo sostitutivo approvato dalla legge di conversione, di “svolgere pubblicità informativa
circa i titoli e le specializzazioni professionali, le caratteristiche del servizio offerto nonché il prezzo
e i costi complessivi delle prestazioni secondo criteri di trasparenza e veridicità del
messaggio il cui rispetto è verificato dall’Ordine”. (in grassetto le modifiche ed integrazioni:
n.d.r.)
Ora, a parte l’orribile espressione, rimasta invariata, del “prezzo delle prestazioni” – che equipara
la nostra attività a quella, appunto, di chi vende zaini – siamo certi che sia così disdicevole
prevedere forme di “pubblicità” delle nostre caratteristiche professionali?
L’associazione Avvocati Giuslavoristi Italiani, che ha quasi 500 iscritti sia di parte “sindacale” che di
parte “datoriale”, è nata proprio con il fine di valorizzare la specializzazione dei giuslavoristi,
esigendo, ai fini dell’iscrizione, la sussistenza di determinate caratteristiche che garantiscano tale
specifica professionalità, o - in alternativa - il positivo conseguimento di corsi qualificati (Scuola
biennale di Alta Specializzazione). Essa prevede, per le stesse finalità, la frequenza degli
associati a corsi di Formazione Permanente che garantiscano un continuo aggiornamento
professionale. Credo che questa sia la direzione giusta verso cui muoversi, per garantire in futuro
una maggiore tutela dell’utenza rispetto ad avvocati”tuttofare” che non hanno scrupoli ad
avventurarsi in una materia in continua evoluzione quel è quella del diritto del lavoro.
Ciò presuppone, però, che vengano disciplinate forme corrette per informare la clientela dei titoli e
soprattutto della specializzazione professionale, regolamentando le forme di pubblicità, per evitare
che ci si pavoneggi prospettando qualità inesistenti (ma, se non erro, la pubblicità ingannevole,
oltre che essere in contrasto con il prescritto requisito della “veridicità”, è già sanzionata, in linea
generale, per legge), con insegne al neon e distribuzione di biglietti da visita nelle sale d’attesa
del Pronto Soccorso. Ma anche in questo le cadute di stile sono nocive, prima di tutto, per chi le
mette in atto.
Ancora una volta, quindi, dovrebbe essere il buon senso (ed il buon gusto) a dettare legge: a tale
proposito gli Ordini professionali dovranno, in conformità con quanto stabilito dal disegno di legge
n. 741 nel testo convertito fissare – e poi verificare – con il massimo rigore i criteri con i quali si
possa dare all’esterno le informative su titoli e specializzazioni.
Continuo a nutrire dubbi, invece, su quella parte della norma che consente agli avvocati di vantarsi
delle caratteristiche del servizio offerto (che presumo verrebbero da tutti propagandate come
ottime…) e di pubblicizzare il prezzo e costi complessivi delle prestazioni.
2[2] Ci si riferisce, in questo caso, alla sentenza nella causa C-309/99 relativa alla
normativa olandese che vieta la collaborazione integrata tra avvocati e revisori dei conti.
Fasce deboli. Anticipazione delle spese in caso di patrocinio a spese dello Stato. Spese per
il ricorso amministrativo e cittadini extracomunitari. Pagamento in contanti.
Sotto il profilo dell’accesso alla Giustizia per le cd. “fasce deboli” va in primo segnalata la rettifica
da parte del disegno di legge n. 741, nel testo approvato convertito in legge, al comma 1 dell’art.
21 del DL n. 233/06, nel senso di consentire ancora l’anticipazione da parte degli uffici postali, oltre
che per gli atti di notifiche nei procedimenti penali, anche “per gli atti di notifiche e di
espropriazione forzata nei procedimenti civili quando i relativi oneri sono a carico dell’erario”. Viene
così scongiurata la preoccupazione che le spese di notifica delle cause di lavoro non siano più
anticipate.
In realtà la disposizione è insufficiente, perché non prevede anche il ricorso
all’anticipazione da parte degli uffici postali degli onorari liquidati dal giudice in caso di patrocinio a
spese dello Stato, pagamento che è pertanto oggi a rischio di venir ritardato da lungaggini
burocratiche.
Ugualmente insufficienti appaiono le rettifiche alle innovazioni disposte dall’art. 21 comma 4, che
integrando l’art. 13 del DPR 30.5.2002 n. 115 prevedeva per il ricorso al TAR con istanza di
sospensiva un contributo complessivo di euro 750 e per il ricorso al Consiglio di Stato in caso di
reiezione dell’istanza cautelare un ulteriore contributo di euro 250, quadruplicando, di fatto, il costo
complessivo per i due gradi del giudizio. L’estensione – da parte del disegno di legge n. 741 nel
testo convertito in legge – del minor contributo di euro 250 anche alle controversie relative a diritto
di cittadinanza, di residenza di soggiorno, e di ingresso nel territorio dello Stato, è importante ma
resta lo stesso eccessivamente gravoso, se si considera che trattasi di materie afferenti a diritti
fondamentali, quale quello di cittadinanza e quello di rimanere sul territorio nazionale, che
dovrebbero andare esenti.
Resta infine ancora troppo penalizzante per le “fasce deboli” ed in particolare per i cittadini
extracomunitari, l’introduzione, ad opera dell’art. 35 comma 12, del divieto di pagamento del
compenso dei professionisti in contanti, allo stato – a seguito delle innovazioni introdotte dal
disegno di legge n. 741 nel testo convertito - per importi unitari superiori ai 1000 euro fino al
30.6.2007, superiori ai 500 euro dal 1.7.2007 al 30.1.2008, e superiori a 100 euro a decorrere dal
1.7.2008: tale disposizione – facilmente eludibile dai professionisti che eventualmente
intendessero comunque percepire compensi “in nero” – continua a penalizzare inutilmente quanti
non hanno un conto corrente bancario e si trovano conseguentemente nell’impossibilità di
effettuare pagamenti con assegni non trasferibili o mediante sistemi di pagamento elettronico.
Abrogazione dello sgravio fiscale per incentivo all’esodo degli ultracinquantacinquenni.
(Art. 26 comma 23 del DL 223/2006).
La disposizione in commento, pur essendo “fuori tema” rispetto alla concorrenza nei servizi
professionali degli avvocati, riguarda materie di uso comune che sono state modificate dal DL n.
223/2006 e non rettificate in sede di conversione. La norma si limita a stabilire la soppressione del
comma 4-bis dell’art. 19 del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con DPR 22.9.1986, n.
917, che consentiva l’applicazione dell’aliquota pari alla metà di quella applicata per la tassazione
degli importi relativi al TFR, nei casi di incentivo all’esodo dei lavoratori con un’età superiore ai 55
anni.3[3]
3[3] Recentemente la Corte di Giustizia con sentenza C-207/04 del 21 luglio 2005 era intervenuta ritenendo la
disposizione lesiva del principio di parità di trattamento con riferimento ai lavoratori maschi con più di cinquanta anni e
meno di cinquantacinque anni di età.
La relazione tecnica di accompagnamento del DL ipotizza che l’abrogazione della norma
agevolativa generi una variazione di gettito di competenza di circa 71 milioni di euro nel 2006 e di
circa 171 milioni di euro a partire dal 2007, e ciò in base ai dati desunti dal modello 770/2004
attestante che nell’anno 2004 hanno usufruito di tale agevolazione circa 56.000 lavoratori.
In realtà i dati sono evidentemente falsati: nel 2004 sono stati portati a compimento gli ultimi
processi di ristrutturazione di grandi Enti od imprese (es. Ferrovie, ENEL, Telecom) che hanno
visto, effettivamente, usufruire in via del tutto straordinaria di tali agevolazioni decine di migliaia di
lavoratori con incentivi economici parimenti straordinari. Eliminare oggi, per le persone in
possesso degli stessi requisiti anagrafici, la possibilità di usufruire del 50% di sgravio fiscale,
significa da un lato chiudere le stalle quando la stragrande maggioranza dei buoi sono già
scappati, e dall’altra penalizzare una fascia particolarmente debole di lavoratori. Resteranno infatti
nella rete pochi, piccoli pesciolini il cui posto di lavoro è stato soppresso, magari incappati in crisi
aziendali di imprese di modeste dimensioni, che, avranno, molto più dei loro colleghi più giovani,
enorme difficoltà a reperire una nuova occupazione.
E ciò senza contribuire in modo significativo al risanamento dell’economia del Paese.