La forza della cooperazione come risposta alla congiuntura attuale Relazione al Convegno “La cooperazione: un vantaggio per tutti” Vipiteno, 19 settembre 2013 Prof. Carlo Borzaga Università degli Studi di Trento Dipartimento di Economia mail: [email protected] Euricse (www.euricse.eu) 1. Premessa La cooperazione e più in generale l’economia sociale (insieme di cooperative, associazioni, volontariato, ecc.) stanno vivendo un momento particolare, caratterizzato da un netto recupero di credibilità: - poco più di 20 anni fa erano state date per “estinte” (soprattutto le Casse Rurali); - oggi possiamo leggere da giornali e giornalisti non particolarmente attenti all’impresa cooperativa che, alla luce dei dati del Censimento 2011, “gli unici segnali di vitalità (del sistema economico italiano) registrati dagli osservatori economici riguardano un sensibile incremento delle cooperative” e che è “nella storia sociale italiana che troviamo l’impresa dal volto umano, quella che mobilita il lavoro unendo il profitto alla cooperazione”. Stiamo in altri termini assistendo ad una “svolta” del pensiero (peraltro in ritardo rispetto ai tempi in cui si sono verificati i fatti) confermata anche da una serie di accadimenti tra cui: - il premio Nobel per l’economia a E. Ostrom per i suoi studi sulla “proprietà collettiva”; - la decisione ONU di proclamare il 2012 “Anno della cooperazione”, in quanto in grado di contribuire ad un “mondo migliore” e della FAO che ha recentemente dichiarato che “le cooperative alimentano il mondo”; - le diverse iniziative dell’Unione Europea (specialmente la comunicazione sul Social Business, ma anche i documenti sull’imprenditorialità e le nuove risoluzioni del parlamento europeo sulle potenzialità delle cooperative); - l’attenzione di diversi governi, anche di paesi con tradizioni culturali lontane dai temi dell’economia sociale (come il Regno Unito) alle potenzialità e al sostegno delle imprese cooperative e sociali. Cosa c’è all’origine di questa svolta? Credo che innanzitutto ci sia la presa d’atto (in ritardo, come già ho ricordato) che la cooperazione già prima della crisi aveva iniziato a manifestare in molti paesi una particolare dinamicità, soprattutto in nuovi ambiti, come i servizi sociali e di interesse generale e dando vita a nuove forme organizzative. In secondo luogo c’è la constatazione che l’economia sociale ha retto e sta reggendo meglio in questi anni di crisi, rendendo così più evidente alcune sue specificità che nelle fasi di crescita economica tendono a risultare più sfumate. Ma ciò che più conta, è che sono in atto diverse dinamiche economiche e sociali che sembrano indicare che per andare oltre la crisi in corso c’è bisogno di ripensare non solo le istituzioni europee e nazionali, le politiche economiche e, più in generale, il ruolo dello Stato, ma anche: - il modo di fare impresa; - gli obiettivi dell’attività imprenditoriale; - il mix di beni e servizi prodotti da economie troppo orientate alla produzione e al consumo di beni e dove invece la domanda di servizi alla persona e alla comunità è crescente e in larga parte non soddisfatta e soprattutto non è soddisfatta in modo organizzato (cioè al di fuori della famiglia). Sembra ogni giorno di più necessario produrre più servizi di interesse generale e meno beni, e avere imprese più inclusive e che operino perseguendo obiettivi diversi dal profitto. Cioè di imprese che dovrebbero avere proprio le caratteristiche tipiche delle organizzazioni dell’economia sociale e soprattutto delle cooperative. Credo sia utile approfondire brevemente queste tre ragioni che spiegano l’interesse per le cooperative con riferimento al caso italiano. 2. La situazione della cooperazione prima della crisi Nel 2008 in Italia operavano circa 80.000 imprese cooperative con un fatturato di oltre 140 miliardi e un milione 200mila occupati (che diventano 1.700.000 se si considerano le posizioni lavorative). A queste vanno aggiunte le imprese non cooperative, ma direttamente o indirettamente collegate con le cooperative (come le aziende agricole il cui equilibrio economico è in larga parte attribuibile all’essere organizzate in cooperativa e le imprese di capitali di proprietà di cooperative e strumentali alla loro attività) e le imprese e organizzazioni dell’economia sociale diverse dalle cooperative (associazioni di volontariato e di promozione sociale che gestiscono l’offerta di servizi in modo imprenditoriale). Le sole cooperative avevano un impatto totale (diretto e indiretto) sul Pil e sull’occupazione in Italia superiore al 10% e avevano dimostrato una forte dinamicità negli anni 2000 (con la creazione di 5.000 cooperative all’anno negli ultimi anni), in particolare a seguito del dinamismo delle nuove cooperative, quelle sociali. Nel 2008 si contavano in Italia 14.000 cooperative sociali, con oltre 350.000 occupati e 5 milioni circa di utenti. Il peso della cooperazione già prima della crisi era ancora più elevato per la nostra regione. In provincia di Trento l’impatto complessivo della cooperazione era stimabile nel 14% sul Pil e del 15% sull’occupazione. Credo che la situazione della provincia di Bolzano non si discosti molto da questa. 3. L’evoluzione durante la crisi Sono ormai diverse le analisi che, a livello nazionale e internazionale, dimostrano che le cooperative stanno reagendo alla crisi in modo diverso dalle imprese di capitali, svolgendo un ruolo stabilizzatore del reddito e dell’occupazione. Più in particolare, sempre limitatamente all’Italia, le BCC hanno continuato a erogare credito, anche a clienti rifiutati dalle altre imprese. Hanno rallentato solo nel 2012, ma soprattutto a seguito sia di un calo della domanda di crediti che dell’aumento di sofferenze e incagli. In Trentino, ad esempio, le Casse Rurali hanno accolto anche nel 2012 l’85% delle domande presentate. Inoltre, da un confronto tra 8.171 cooperative (escluse quelle di credito) e 19.466 spa con almeno 500.000 euro di fatturato tra il 2006 e il 2010 risulta che: - il valore aggiunto (quindi il valore netto prodotto) è aumentato del 24% nelle cooperative contro il 7% delle spa; - il costo del lavoro è cresciuto nelle cooperative del 28% contro il 13% delle spa. Poiché nello stesso periodo i redditi da lavoro (salari lordi) sono cresciuti nelle cooperative poco più che nelle spa, si deduce che le cooperative durante la crisi sono riuscite ad utilizzare meglio la forza lavoro e a ricorrere meno agli ammortizzatori sociali, svolgendo una evidente funzione anticiclica. Una funzione che è costata non poco alle cooperative, che hanno progressivamente visto ridursi il margine operativo che è diventato in molti casi negativo, determinando quindi una erosione dei patrimoni che ha costretto molte di esse a ricapitalizzarsi. Si spiega così anche la maggior tenuta dei livelli di occupazione delle cooperative. Secondo il Rapporto Censis tra il 2007 e il 2011 l’occupazione nelle cooperative è aumentata dell’8% (quasi 100.000 occupati, da 1.200 a 1.300 mila), mentre l’occupazione complessiva in Italia è diminuita dell’1,2% e quello nelle imprese del 2.3%. Questo andamento dell’occupazione è dovuto soprattutto al settore della cooperazione sociale (+17,3% secondo il Censis, +24% secondo Unioncamere e +12% Inps) e delle cooperative operanti nel settore dei servizi (+9,4%). Se leggiamo questi dati nel loro insieme, possiamo individuare facilmente anche la ragione di questa diversa reazione delle cooperative alla crisi: essa va ricercata infatti nella loro specificità, cioè nel loro essere imprese il cui obiettivo è garantire un servizio o un lavoro ai propri soci che ne sono anche i proprietari e quindi ne definiscono le strategie produttive. Poiché i bisogni di servizi o di lavoro con la crisi non diminuiscono, ma semmai crescono, le cooperative tendono a mantenere il più possibile inalterati i livelli produttivi. Al contrario le imprese di capitali tendono a tutelare il valore del capitale e a questo obiettivo condizionano l’attività produttiva, riducendola quando non sufficientemente remunerativa, specie se possono contare su ammortizzatori sociali a costo ridotto. O vendendo l’impresa in presenza di una congiuntura favorevole. Nelle cooperative il patrimonio è strumentale e quindi flessibile, mentre nelle imprese di capitali è flessibile soprattutto (e prima di tutto) la produzione e quindi l’occupazione. 4. L’evoluzione in prospettiva Fin qui abbiamo potuto contare sui dati. Ora dobbiamo chiederci quale potrà essere il ruolo dell’economia sociale nei prossimi anni? Per cercare di dare una risposta a questa domanda occorre capire l’origine e la natura di questa crisi. E’ sempre più evidente, con il passare degli anni, che quella che stiamo vivendo non è una crisi congiunturale superabile solo con le classiche politiche macroeconomiche - come il rilancio della spesa pubblica o l’aumento della produttività per facilitare le esportazioni o, ancora, il rilancio dei consumi (che stanno diminuendo). In altri termini è sempre più chiaro che non si può rilanciare l’economia come è stato fatto dagli anni ’70 in poi, e cioè attraverso l’espansione della base monetaria e il debito pubblico o privato. Questa crisi appare piuttosto come la crisi di un modello tutto incentrato sulla ricerca del profitto privato e la redistribuzione pubblica. Se ne parla poco, ma è sempre più evidente. Questo modello ha causato un’evidente sottovalutazione delle rilevanza di tutte le attività a bassa profittabilità, anche se utilizzi per la collettività, determinando tra le altre cose uno scollamento crescente tra offerta (di beni soprattutto) e domanda (di servizi sociali, alla famiglia, ecc.). Per uscire dalla crisi è allora necessario innanzitutto riuscire a mettere a frutto le risorse fino ad ora sottovalutate e recuperare reddito spendibile riducendo i molti sprechi che il modello di sviluppo di questi anni ha prodotto – soprattutto in ambito energetico, ma non solo. Occorre al contempo aumentare l’offerta di servizi alla persona e alla famiglia, sia privata, spostando i consumi verso questi servizi, che pubblica, rivedendo la composizione della spesa a favore del finanziamento della produzione di servizi alla persona e alla comunità. Ma per fare questo è necessario un cambiamento radicale del modo di intendere: 1. il ruolo della cooperazione, autonoma e complementare a quello del mercato e dello Stato; 2. le motivazioni all’attività economica: non più solo quelle egoistico-monetarie, ma anche quelle interessate al benessere degli altri; 3. il ruolo dell’impresa: come istituzione chiamata a coordinare i vari attori anche verso obiettivi diversi dal profitto; 4. i servizi alla persona e alla comunità: non più come un modo per redistribuire reddito tra gruppi e generazioni, ma anche come attività produttiva di reddito e occupazione;. E’ dalla combinazione di questi diversi approcci all’attività economica e imprenditoriale che emerge il ruolo che le organizzazioni dell’economia sociale e i meccanismi su cui esse si fondano sono chiamate a svolgere in futuro: cooperazione oltre che concorrenza e scambio per il guadagno; la ricerca del benessere dei portatori di interesse invece che del massimo profitto per i proprietari; la reciprocità intesa come creazione di benefici per l’intera comunità di cui anche i produttori fanno parte e quindi beneficiano invece della semplicistica contrapposizione tra egoismo e altruismo; la fiducia e la coesione sociale come fattori produttivi e non solo come semplici “facilitatori” dell’attività economica. Se la cooperazione nel suo insieme riuscirà a far valere questi principi (peraltro inclusi nel suo DNA) essa riuscirà: - a rafforzarsi nei settori in cui è già presente e in alcuni casi (agricoltura, credito, servizi sociali soprattutto) ha un ruolo di leadership; - nei nuovi settori, quelli che cresceranno nel futuro: servizi alla comunità, alla famiglia, alla persona, attività di promozione dei territori e di recupero degli sprechi, gestione di servizi di rete (acqua, energia), ma anche per organizzare la collaborazione tra imprese. Tuttavia lo sviluppo dell’economia sociale e il contributo che essa riuscirà a dare all’evoluzione del modello economico sociale oggi in crisi, dipenderanno dalla capacità delle organizzazioni che lo compongono di esaltare la propria specificità e dalla capacità delle politiche pubbliche di valorizzare queste organizzazioni (invece che di usarle a fini strumentali, come la produzione di servizi sociali a basso costo). Di ciò ci si sta rendendo conto solo lentamente e quindi resta ancora da fare molta strada.