il principio di sussidiarieta` e parita` scolastica

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IL PRINCIPIO DI SUSSIDIARIETA’ E PARITA’ SCOLASTICA
Fu proprio per la prima volta da Pio XI nel 1931 nell’ Enciclica ‘Quadragesimo Anno’ in
questa formulazione divenuta ormai classica: “Come è illecito togliere agli individui ciò che
essi possono compiere con le forze e l’industria propria per affidarlo alla comunità, così è
ingiusto rimettere a una maggiore e più alta società quello che dalle minori e inferiori
comunità si può fare”.
Il testo dell’art. 56 della riformanda Costituzione, subordina l’autonoma attività dei cittadini
e delle comunità intermedie alle funzioni prioritarie dello Stato e delle sue ramificazioni
territoriali.
Nelle PETIZIONI POPOLARI che stanno per partire, proposte e appoggiate da oltre
centocinquanta Associazioni di tutto il Paese, si chiede che nel suo passaggio al Senato
questo articolo promuova anche il livello ‘orizzontale’ del Principio di Sussidiarietà, per
valorizzare la genialità del singolo e delle formazioni sociali, lasciando l’intervento dello
Stato a quei casi in cui l’autonomia della società risultasse inefficace o contro il bene
comune.
E’ la prima conseguenza di quel carattere ‘sussidiario’ dello Stato senza il quale esso
scivola inarrestabilmente verso forme di egemonismo etico e culturale”, come ha
recentemente affermato un nostro giurista e statista. Che insieme alla Grecia il nostro
Paese non si sia ancora aggiornato rispetto alla legislazione Europea del 1984 “è una
infelice anomalia che non fa certo onore all’Italia”, come ha di recente osservato il Papa
Giovanni Paolo II.
( La COMMISSIONE ‘AFFARI SOCIALI’ del
C.P.P. della Parrocchia ‘S. Gaudenzio’ -BS-)
RIFLESSIONI SUL PRINCIPIO DI SUSSIDIARIETA'
Il modo di pensare alla società deve essere innanzitutto riferito alla persona "in azione" e al suo
agire nella comunità. In questo modo il concetto di riferimento diviene quello della "soggettività
della società".
1 – Una società sana è ordinata alla libera relazione fra i soggetti, che non devono mai essere
considerati oggetti. Proprio perché assicura e richiede la partecipazione e la corresponsabilità dei
cittadini, cioè implica e stimola la loro soggettività, la democrazia correttamente intesa è il modo
migliore di organizzare la società e lo Stato. Uno dei concetti chiave del sistema democratico è la
natura limitata del potere dello Stato, per cui è fondamentale chiarirne sia i limiti che le
competenze. L’idea di fondo della "Centesimus annus" ad esempio, è che lo stato è al servizio della
società, della quale deve favorire il "libero processo di auto-organizzazione" (16).
2 – Il presupposto di questa idea è che la società precede lo stato, sia cronologicamente che in
dignità. Nel mondo odierno, però, si incontra spesso una mentalità che mette sullo stesso piano stato
e società, per cui alla frase "dobbiamo farci carico di questi bisogni", molti attribuiscono il senso
che lo stato deve farsene carico. L’idea della soggettività della società, invece, implica che ad agire
debba essere la gente, le persone "in azione" che sono più vicine al bisogno individuato o segnalato.
Spesso accade che questi non siano capaci di affrontarlo nel modo giusto e che abbiano a loro volta
bisogno di aiuto. Nella maggior parte dei casi l’aiuto deve essere fornito da altre persone "in
azione" che liberamente si costituiscono in associazione a questo scopo. Lo stato ha il compito di
agevolare questo processo di auto-organizzazione della società, attraverso norme giuridiche e
politiche concrete che non solo non ostacolino l’azione ma l’aiutino.
Ciò che consente il dispiegarsi di questo processo è il rispetto del principio di sussidiarietà che il
Santo Padre riformula nel modo seguente: "una società di ordine superiore non deve interferire nella
vita interna di una società di ordine inferiore, privandola delle sue competenza, ma deve piuttosto
sostenerla in caso di necessità e aiutarla a coordinare la sua azione con quella delle altre componenti
sociali, in vista del bene comune" (48).
1
Il processo del libero associarsi da parte delle persone "in azione" per rispondere ai bisogni, produce
le società intermedie o gruppi medianti, fra i quali sono da annoverare anzitutto la famiglia, le
associazioni familiari, il volontariato e le altre reti di solidarietà, i sindacati, ed anche le associazioni
politiche e culturali.
Questi piccoli gruppi sono fondamentali perché non rispondono solo in termini concreti a dei
bisogni, ma forniscono alle persone il "sistema di significati" che dà loro una identità ed insegnano i
doveri di ciascuno verso gli altri. Essi, quindi, fanno ciò che lo stato non può fare, a meno di
trasformarsi in stato totalitaristico o autoritario.
Questa insistenza sui limiti e sulla strumentalità del potere e dell’intervento dello stato non
implicano l’adesione ad una concezione ultra liberista dello stesso, a quella concezione, cioè, che
vede lo stato solo come arbitro o guardiano dei diritti di proprietà.
3 – Lo stato bensì deve contribuire "direttamente e indirettamente" al raggiungimento dei traguardi
sociali. Indirettamente, cioè secondo il principio di sussidiarietà, "creando le condizioni favorevoli
al libero esercizio dell’attività economica, che porti ad un’offerta abbondante di opportunità di
lavoro e di fonti di ricchezza; direttamente e secondo il principio di solidarietà, ponendo a difesa del
più debole alcuni limiti all’autonomia delle parti se la soddisfazione dei bisogni, specie di quelli dei
più poveri ed incapaci, è e resta un interesse/dovere pubblico.
Ciò non significa che l’intervento debba essere necessariamente statale, lo Stato può intervenire
direttamente per soddisfare questi bisogni, ma solo qualora le strutture intermedie della società non
fossero in grado di svolgere il loro compito o non lo stessero facendo. Viene, cioè, distinto il
concetto di pubblico da quello di statale. I due termini non sono sinonimi. E’ stata l’incapacità a
tener ferma questa distinzione che ha trasformato lo stato di benessere in stato assistenziale, ed ha
provocato gli effetti di deresponsabilizzazione della società e di moltiplicazione degli apparati
burocratici e dei loro insostenibili costi. L’interpretazione statalista del principio di solidarietà,
quindi, va corretta riscoprendo il concetto di sussidiarietà e la soggettività della società.
La pluralizzazione delle soggettività sociali
La crisi del Welfare State, la pressione sempre più forte esercitata dal mercato, la crescita del terzo
settore hanno decretato una profonda trasformazione dei rapporti sociali, nel passaggio dalla
modernità alla post-modernità: ciò esige che si rivedano le regole del gioco, superando la logica di
"appropriazione", "colonizzazione" e "strumentalizzazione" tipica dello stato e del mercato, per
arrivare ad una partnership tra i diversi attori, basata su rapporti di sussidiarietà: infatti, se la società
moderna si dispiegava tutta nella dicotomia pubblico/privato, stato/mercato, la società attuale,
superando la "modernità" (post-moderna), è comprensibile solo utilizzando "categorie relazionali" e
non dicotomiche in base alle quali il rapporto tra tutti gli attori non è gerarchico, ma paritetico e
regolato da una relazione di sussidiarietà.
E’ evidente che nel passaggio dalla modernità alla post-modernità, la struttura gerarchica, organica
e stratificata della società ha lasciato il posto alla complessità, che significa "assenza di un centro e
crescente contingenza di ogni ambito di vita" (Donati, 1997 "Pensiero sociale cristiano e società
post-moderna).
Ciò ha favorito un processo di generalizzazione dello stesso principio di sussidiarietà; se prima
poteva essere interpretato in senso protettivo, come tutela dei diritti dei deboli, oggi va ripensato in
senso promozionale (fornire alle comunità infra-statuali le risorse per conquistare l’autonomia) ed
applicato non solo in "verticale" (lo Stato sussidiario verso le soggettività di livello "inferiore"), ma
anche in "orizzontale" (tra gli attori dello stesso livello che devono essere attenti ai bisogni gli uni
degli altri).
Si tratta così di un vero e proprio principio pedagogico (Donati, 1997 idem), di un atteggiamento da
assumere nelle relazioni sociali a partire da quelle primarie, di un valore che deve permeare via via
tutte le relazioni sociali.
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Principio di sussidiarietà e famiglia
La logica sussidiaria stabilisce che prima bisogna identificare quali sono i soggetti che normalmente
e originariamente svolgono determinate funzioni, poi accorrere in aiuto se questi stessi soggetti si
trovano in situazioni di difficoltà.
In particolare per quanto riguarda le politiche sociali a sostegno della famiglia esse vanno
riorganizzate secondo un beninteso principio di sussidiarietà. Significa cioè che la funzione dello
Stato, delle Regioni, dei Comuni, ecc. non è quella di assumere in sé le richieste (i bisogni sociali)
delle famiglie come funzione pubblico/statuale, né residuarliai singoli soggetti privati, ma è quello
di essere garante della loro realizzazione per il tramite delle stesse formazioni sociali che
esprimono le esigenze di vita quotidiana.
Il principio di sussidiarietà così inteso pressuppone alcuni principi che vanno esplicitati:
A) presuppone una cultura capace di elaborare l’idea che le famiglie e le
associazioni familiari esprimono l’originarietà e l’originalità di una molteplicità di
funzioni e di diritti che naturalmente sono loro ascritti. Questi diritti possono essere
così elencati:
* diritto di esistere e progredire come famiglia, cioè diritto per ogni uomo e donna a
fondare un famiglia e ad avere i mezzi adeguati per sostenerla;
* diritto di esercitare la propria responsabilità nell’ambito della trasmissione della
vita e dell’educazione dei figli;
* diritto dell’intimità della vita coniugale e familiare;
* diritto di credere e professare la propria fede e di diffonderla;
* diritto di educare i figli secondo le proprie tradizioni e valori religiosi e culturali,
con gli strumenti, i mezzi e le istituzioni necessarie;
* diritto all’abitazione adatta a condurre convenientemente la vita familiare;
* diritto di espressione e di rappresentanza davanti alle pubbliche autorità
economiche, sociali e culturali, a quelle più elevate come a quelle di grado inferiore,
sia direttamente sia attraverso associazioni;
* diritto di creare associazioni con altre famiglie e istituzioni, per svolgere in modo
adatto e sollecito il proprio compito;
* diritto di proteggere i minorenni mediante adeguate istituzioni e legislazioni adatte;
* diritto degli anziani a una vita degna e ad una morte dignitosa.
B) Presuppone un nuovo modo di concepire l’integrazione e la normatività delle
politiche sociali. Occorre perciò intervenire per sviluppare l’integrazione come:
* Capacità degli interventi di politica sociale di produrre solidarietà familiare
anziché individualismo;
* Capacità di connettere in modo sensato i differenti bisogni e le differenti
dimensioni esistenziali della vita quotidiana delle famiglie;
* Capacità di trattare la famiglia e le associazioni familiari come soggetti attivi della
comunità politica e delle stesse politiche sociali.
C) Presuppone nuove forme di promozione sociale intese a:
* Rafforzare le solidarietà associative autonome;
* Sviluppare meccanismi di raccordo tra operatori formali e informali in modo da
diversificare l’erogazione dei servizi;
* Sviluppare interventi di rete cioè interventi che responsabilizzino tutti i soggetti (le
famiglie, i parenti, le reti amicali, gli enti pubblici, le associazioni, il volontariato,
ecc.) capaci di intervenire nella soluzione dei problemi.
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D) Presuppone nuovi strumenti e soggetti di politica sociale non più intesa come
politica pubblico/statale. In tal senso occorre stabilire almeno i seguenti principi:
* sono attori di politica sociale tutti quegli attori pubblici, privati o di privato sociale
(comprese le famiglie) che agiscono per il miglioramento del benessere complessivo
di un gruppo sociale, di una comunità o della società;
* la famiglia va intesa come soggetto fondamentale dei servizi primari di vita
quotidiana ossia come luogo dove si sintetizzano e risolvono autonomamente bisogni
specifici e come ambito di riferimento primario per i servizi pubblici e privati;
* occorre riorganizzare i servizi sociali mettendo in relazione, secondo i propri diritti
e le proprie funzioni originarie, tutti i soggetti di politica sociale.
In buona sostanza il principio di sussidiarietà applicato alle politiche sociali significa l’esatto
contrario del principio assistenzialistico. Per assistenzialismo noi indichiamo quelle logiche di
intervento e quelle configurazioni di beni o servizi che tendono a sostituire nelle loro funzioni i
soggetti e i titolari di politica sociale. L’assistenzialismo è dunque, a rigore di logica, un insieme di
interventi de-abilitanti tendente a depotenziare l’attivazione delle risorse autonome delle famiglie e
delle associazioni e a non riconoscerne le loro capacità originarie.
FORUM delle ASSOCIAZIONI FAMILIARI
Note:
di Giovanni Piccardo
La sussidiarietà vista dalla “sinistra” si riferisce a quella verticale, cioè a cascata, che parte dallo
Stato e laddove non arriva lo Stato subentrano le Regioni, laddove non arrivano le Regioni
subentrano le Province, laddove non arrivano le Province subentrano i Comuni; per ultimo c’è il
privato.
La sussidiarietà vista dalla “destra” è invece orizzontale, cioè lo Stato, gli Enti Locali, le
organizzazioni sociali ed i singoli privati sono tutti sullo stesso piano; pertanto, sussidiarietà
significa dare al singolo cittadino le stesse opportunità e lo stesso privilegio di azione e di libertà
che ha lo Stato, che rappresenta l’insieme dei cittadini.
In generale, i regimi autoritari sono statalisti e accentrano il potere pubblico per poterlo governare
secondo le proprie ideologie e le proprie scelte; il popolo viene asservito all’interesse dello Stato
che è in ogni caso prioritario. Il potere assolutista ha la necessità di controllare la cultura ed il
pensiero dei cittadini attraverso un’ingerenza continua nella diffusione del sapere e nei suoi
contenuti, quindi nella scuola e nella formazione della persona.
I regimi veramente democratici, invece, danno la piena libertà al singolo cittadino di operare, pur
nel rispetto delle leggi, ponendolo sullo stesso piano dello Stato.
In pratica, dobbiamo passare dalla gestione statale a quella della società civile.
E questo comporta anche l’abolizione del titolo legale di studio rilasciato dallo Stato.
Attualmente, lo Stato ha il monopolio dell’istruzione ed ha il monopolio dell’accertamento dei
risultati attraverso il titolo legale di studio: in tal modo giudica se stesso.
Questo monopolio ha generato un mercato, non solo nell’ambito della scuola privata, per il rilascio
dei diplomi. Inoltre ha generato discriminazioni inammissibili nel riconoscimento del servizio
didattico prestato dai docenti e dal personale non docente nell’ambito delle scuole non statali
riconosciute o paritarie.
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Questo sistema ormai fa acqua da tutte le parti e va corretto con l’abolizione del titolo legale di
studio.
Solo così le famiglie, gli studenti e le scuole, sia statali che non statali, smetteranno di propendere al
“pezzo di carta” e daranno più importanza alla reale preparazione culturale e formativa da spendere
nella vita e nel mondo del lavoro.
Il nuovo Ministro ha dichiarato fra l’altro:
«Nel mercato globale si entra mettendo in gioco l’intero apparato pubblico, privato, sociale. Si pensa ad
una new society, indispensabile per cogliere interamente la sfida della competitività. Perciò ci vuole un
nuovo sistema educativo, oltre ad un nuovo Welfare, un nuovo diritto di famiglia, un nuovo diritto
societario».
Il principio di sussidiarietà
"L'esperienza attesta che dove manca l'iniziativa personale dei singoli vi è tirannide politica;
ma vi è pure ristagno dei settori economici...".
La sussidiarietà valorizza, nella produzione di beni e servizi, "la genialità creatrice dei singoli".
(Enciclica Mater et magistra)
Alle origini della sussidiarietà: in "prima
linea" la persona
Il termine sussidiarietà deriva dal latino
subsidium e nella terminologia militare romana
stava ad indicare le truppe di riserva che
rimanevano dietro al fronte, pronte a intervenire
in aiuto alle coorti che combattevano nella prima
acies. In relazione alla sua applicazione sociale, i
primi cenni di una riflessione su un principio
analogo sono già presenti nel pensiero
aristotelico e vengono poi ripresi e rielaborati da
San Tommaso come elemento di una netta
concezione del bene comune, come risultato di
una pluralità di apporti in un contesto
comunitario, solidaristico e non conflittuale,
all'interno del quale alla personalità umana è
offerta la possibilità di svilupparsi. In prima luce nella costruzione del bene comune era quindi
posto il soggetto umano, considerato però bisognoso di un subsidium: le formazioni sociali, i
gruppi e in subordine il pubblico potere, che risulta così al contempo utile e limitato. Sempre
sulla scorta detta tradizione comunitaristica medioevale, il principio di sussidiarietà verrà
ripreso nella concezione althusiana del contratto sociale come strumento per trasferire ai
governanti non un potere illimitato, ma solo la quantità di potere strettamente necessaria al
soddisfacimento dei bisogni dei consociati. Questa tradizione di pensiero non ha, tuttavia,
costituito la corrente principale della filosofia politica europea. Essa è rimasta una corrente
sotterranea, soccombente rispetto alla vittoria incondizionata della corrente principale,
accentratrice e assolutista, fondata sulla esaltazione della sovranità statuale.
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Sussidiarietà e dottrina sociale
È solo nella dottrina sociale della Chiesa che la tematica della sussidiarietà trova la sua
esplicita formulazione e la sua fortuna. Il principio di sussidiarietà è stato per la prima volta
proposto dall'enciclica Quadragesimo anno del 15 maggio 1931, con una formulazione ancor
oggi considerata come classica e che merita quindi di essere testualmente citata. Dopo aver
constatato come "per la mutazione delle circostanze, molte cose non si possono più compiere
se non da grandi associazioni", l'enciclica afferma con forza che, anche in questa nuova
situazione, deve "restare saldo il principio importantissimo nella filosofia sociale" secondo il
quale "siccome è illecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le forze e
l'industria propria per affidarlo alla comunità, così è ingiusto rimettere a una maggiore e più
alta società quello che dalle minori e inferiori comunità si può fare". Ne deriverebbe, infatti,
"un grave danno e uno sconvolgimento del retto ordine della società" poiché "oggetto naturale
di qualsiasi intervento della società stessa è quello di aiutare in maniera suppletiva (subsidium
afferre) le assemblee del corpo sociale, non già distruggerle e assorbirle". Di conseguenza, a
giudizio del Pontefice, "è necessario che l'autorità suprema dello Stato rimetta ad associazioni
minori e inferiori il disbrigo degli affari e delle cure di minor momento" per poter "eseguire con
più libertà, con più forza ed efficacia le parti che a lei sola spettano (…) di direzione, cioè di
vigilanza, di incitamento, di repressione a seconda dei casi e delle necessità". Gli uomini di
governo sono quindi esortati a persuadersi che "quanto più perfettamente sarà mantenuto
l'ordine gerarchico tra le diverse associazioni, conforme al principio della funzione suppletiva
(servato hoc 'subsidiari' officii principio) della attività sociale, tanto più forte riuscirà l'autorità e
la potenza sociale e perciò anche più felice e più prospera la condizione dello Stato stesso". È
stato così formulato un principio generale sull'ordinamento della vita sociale: "ciò che gli
uomini possono fare da sé con le proprie forze non può essere loro tolto e rimesso alla società"
e ciò che vale per il singolo rispetto alla società, vale parimenti per le società minori e di ordine
inferiore nei confronti delle maggiori e più alte. Principio di ordine interno, quindi, nell'ambito
di qualsiasi società nei confronti dei suoi componenti, ma anche principio di ordine esterno, nei
confronti delle varie società tra di loro. Come la società non deve sostituirsi ai singoli in ciò che
questi possono fare da sé, così le società maggiori non devono assumere compiti che possono
essere svolti dalle società minori.
Sussidiarietà e ordine economico. Questo insegnamento di Papa Pio XI è stato in seguito
confermato dai suoi successori e, in particolare, deve essere ricordata l'enciclica Mater et
Magistra, dove si precisa che "il mondo economico è creazione dell'iniziativa personale dei
singoli cittadini, operanti individualmente o variamente associati per il perseguimento di
interessi comuni. Però in esso, per le ragioni già addotte dai nostri predecessori devono altresì
essere presenti i poteri pubblici allo scopo di promuovere, nei debiti modi, lo sviluppo
produttivo in funzione del progresso sociale a beneficio di tutti i cittadini. La loro azione, che ha
carattere di orientamento, di stimolo, di coordinamento, di supplenza e di integrazione deve
ispirarsi al principio di sussidiarietà". Le successive riproposizioni del principio avvengono senza
significativi apporti alla sua formulazione teorica.
Sussidiarietà e dignità umana. Con Giovanni Paolo II il principio di sussidiarietà è diventato
un motivo ricorrente sia nel suo magistero scritto ed orale, sia nei documenti della Santa Sede,
con enunciazioni che, pur mantenendosi nel solco delle precedenti pronunce, non sono prive di
novità. In particolare, il principio viene posto in piena luce dall'istruzione della Congregazione
per la dottrina della fede Libertatis conscientia, dove esso viene definito, insieme al principio di
solidarietà, come "intimamente legato" alla stessa "dignità dell'uomo" e criterio fondamentale
"per valutare le situazioni, le strutture e i sistemi sociali". Ne segue che "né lo Stato, né alcuna
società devono mai sostituirsi all'iniziativa e alla responsabilità delle persone e delle comunità
intermedie in quei settori in cui esse possono agire, né distruggere lo spazio necessario alla
loro libertà".
Sussidiarietà e Libertà. Il principio di sussidiarietà viene anche recepito nel Catechismo della
Chiesa Cattolica che ne tratta nel capitolo dedicato alla comunità umana dove, dopo aver
avvertito che "un intervento troppo spinto dello Stato può minare la libertà e l'iniziativa
personali", si enuncia il principio di sussidiarietà nella stessa formulazione adottata dalla
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Centesimus annus, sottolineando che esso, opponendosi "a tutte le forme di collettivismo",
"precisa i limiti dell'intervento dello Stato, mira ad armonizzare i rapporti tra gli individui e le
società, tende a instaurare un autentico ordine internazionale". Vi si afferma, in sintesi, che,
secondo tale principio, "né lo Stato né alcuna società più grande devono sostituirsi all'iniziativa
e alla responsabilità delle persone e dei corpi intermedi".
Sussidiarietà e crisi dello Stato sociale. La rinnovata e decisa insistenza della Santa Sede
sull'importanza del principio di sussidiarietà nella vita sociale non è rimasta senza eco negli
insegnamenti della Cei (Conferenza episcopale italiana) che, di fatto, se ne è ampiamente
occupata nei suoi più recenti documenti con numerosi e specifici riferimenti alla situazione del
Paese. Conviene ricordare a questo riguardo la nota pastorale della Commissione ecclesiale
Giustizia e Pace, Stato sociale ed educazione alla socialità dell'11 maggio 1995, dove non si
esita a denunciare che "la crisi dello Stato sociale trova una delle sue cause culturali e
strutturali proprio nell'abbandono o nell'oblio del principio di sussidiarietà", mentre "il rinnovato
slancio da dare a uno Stato sociale può e deve trovare il necessario impulso nella libera e piena
applicazione di tale principio".
LA SUSSIDIARIETÀ COME PRINCIPIO COSTITUZIONALE
Ogni individuo dovrebbe dire la frase di Luigi XIV: "Lo Stato sono io"
(R. Jhering)
I due volti della sussidiarietà. Sul piano più strettamente giuridico, il principio di
sussidiarietà contiene una duplice valenza: esso indica sia un paradigma ordinatore dei
rapporti tra Stato, formazioni sociali, individui (sussidiarietà orizzontale), sia un criterio di
distribuzione delle competenze tra Stato e autonomie locali (sussidiarietà verticale). In
quest'ultima accezione si lega a una prospettiva federalistica in un'ottica per cui la rottura di
un potere centralizzato è vista come essenziale all'affermazione di una democrazia che
individua nella "prossimità" dei governanti ai governati un bene primario. Anche in questo
significato esso è indice di una tendenza antistatalista e anticentralista. Affermare, infatti, che i
livelli di governo superiori necessitano di una giustificazione, nel senso che il loro intervento è
ammesso solo quando determina un incremento della qualità dei risultati, significa scalfire uno
dei cardini dello statalismo, cioè che la decisione del legislatore non necessita di giustificazioni,
essendo questo interprete, a priori, della "volontà generale". Sussidiarietà verticale, invece,
significa valutazione dello stato dei fatti, perseguimento di efficienza, valorizzazione di
iniziative decentrate, federalismo fiscale, moltiplicazione dei centri decisionali. Tutto ciò
potrebbe - non c'è dubbio - moltiplicare gli arbitri, ma può costituire - se rettamente inteso e
se adeguatamente verificato nei suoi momenti attuativi - un'occasione importante di
ripensamento delle formule classiche di gestione della cosa pubblica.
Detto questo, tuttavia, è sulla prima valenza, che peraltro ne costituisce il significato
originario, che vale la pena di insistere, in quanto essa appare da un lato quella meno
conosciuta e dall'altro quella nei cui confronti si riscontrano le maggiori resistenze ideologiche.
Nel suo significato di sussidiarietà orizzontale questo principio, affermando che lo Stato
interviene solo quando l'autonomia della società risulti inefficace, si contrappone all'idea di una
"cittadinanza di mera partecipazione" e promuove invece "una cittadinanza di azione" in cui è
valorizzata la "genialità creativa dei singoli" e delle formazioni sociali. In questa sua valenza
antistatalistica e antiassistenzialista non è tuttavia esauribile nell'ipotesi neoliberale dello Stato
minimo. Ciò in quanto mentre riconosce alla persona il diritto di iniziativa, nel contempo ne
afferma la responsabilità sociale. In questo modo il principio di sussidiarietà dimostra di
valorizzare la persona come protagonista della vita sociale, capace di rispondere, nella libera
associazione con altri, a esigenze e bisogni della società. Contestando il presupposto dello
statalismo e non esaurendosi nella formula liberalista, non rappresenta nemmeno una formula
di compromesso tra le due teorie, ma esprime una concezione originale. Detto principio,
inoltre, respingendo il presupposto metafisico della "mano invisibile" che in modo ineffabile
guiderebbe, secondo la filosofia liberale, la sublimazione dell'interesse egoistico nel bene
comune, implica realisticamente la necessità - come esprime la derivazione etimologica
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subsidium - dell'intervento promozionale od ordinatore e coordinatore dello Stato a favore
dell'incremento e dell'incentivazione di una cultura della responsabilità.
La Costituzione del 1948 e il favor per la sussidiarietà. Nonostante nella Costituzione del
1948 il principio di sussidiarietà non risulti espressamente menzionato, a differenza di altri
principi come quello di solidarietà o di eguaglianza, è tuttavia possibile ritenere, per un duplice
ordine di motivi, che esso sia stato implicitamente tenuto presente dai Costituenti. Il primo
dato che conferma questa ipotesi è rappresentato dalla coincidenza della concezione della
persona che emerge dal quadro costituzionale con il presupposto antropologico sul quale il
principio di sussidiarietà si fonda. Nella Costituzione, infatti, la persona è vista nella
concretezza del suo legame sociale e nella sua possibilità di apporto libero e creativo
all'edificazione del bene comune: il valore della dignità umana è costantemente affermato e
l'imputazione dei diritti è fatta all'individuo considerato nella concretezza del suo esistere, a un
soggetto, cioè, che così come non è considerato (com'era invece nella finzione dello "stato di
natura") al di fuori della relazione sociale, tantomeno è sublimato nella dinamica organizzativa
della persona statale. Il secondo dato è inerente alla caratterizzazione in senso pluralistico, sia
associativo che istituzionale, che consente di affermare come nella Carta del 1948 sia già
implicitamente sancita la rottura del monopolio statale dell'interesse comunitario, in vista del
riconoscimento ai soggetti del pluralismo del compito di perseguire gli obiettivi propri
dell'intera collettività statale. Quello per cui al privato spetterebbe unicamente surrogare un
pubblico carente (la cosiddetta supplenza del privato), alla luce di quanto appena osservato,
dovrebbe essere stimato pertanto come un luogo comune superato dalla possibilità di
concepire l'attività pubblica come integrativa di quella privata, considerata idealmente
prioritaria. All'interno di un'attività di programmazione, rivolta a creare un sistema di servizi
mediante strutture pubbliche e private (rispondenti a requisiti tecnici e organizzativi prescritti
dal legislatore e accertati mediante gli opportuni controlli) dovrebbe quindi risultare quasi
indifferente che le strutture di servizio attuative del programma possano essere gestite dalle
une o dalle altre, dovendo essere posto l'accento non tanto su chi gestisce le stesse, quanto
sullo scopo obiettivo e sul risultato da raggiungere.
La resistenza ideologica al principio di sussidiarietà. Benché da una lettura sistematica
della Costituzione emerga un certo favor per la sussidiarietà, aprendo una qualsiasi
enciclopedia giuridica tale voce nemmeno vi figura. Il dato è singolare ed evidenzia l'estraneità
di tale principio alla nostra tradizione giuridica, ancora in larga parte sotto lo scacco di altre
scelte di campo. Il principio di sussidiarietà, infatti, è risultato un'idea disarmonica rispetto a
una tradizione rivolta a considerare l'interesse statale non come la semplice sommatoria degli
interessi individuali o delle varie comunità particolari, ma come un interesse affatto autonomo
trascendente quelli particolari. Il retaggio delle elaborazioni hegeliane, in questo senso,
costituisce un presupposto ancora altamente influente. Proprio in forza del peso di questa
eredità, inoltre, la rilevanza che la Costituzione assegna nell'art. 2 alle formazioni sociali non
ha avuto modo di svilupparsi secondo l'originalità dell'aspirazione dei Costituenti. La cultura
giuridica italiana è infatti in gran parte rimasta ferma su una concezione che tende ad
appiattire la persona sul singolo e a considerare il riferimento alle formazioni sociali come un
mera garanzia supplementare, come qualcosa di aggiuntivo rispetto al riconoscimento dei
diritti inviolabili dell'individuo in quanto tale. È rimasto così svuotato di implicazione normativa
il riconoscimento costituzionale per cui all'interno delle formazioni sociali si svolge la
personalità individuale e, quindi, il coessenziale legame che giuridicamente viene formulato
nell'art. 2 tra la dignità dell'individuo e la partecipazione a esse.
Le nuove forme del controllo statale sulla vita sociale. Se quindi una pretesa totalizzante
ha costituito il postulato incancellato della tradizione giuridica, largamente depotenziando
quelle aperture che invece la Costituzione repubblicana favoriva, occorre anche avvertire come
oggi questa stessa pretesa si trovi stretta da fenomeni nuovi, sovranazionali e nazionali, come
la complessità crescente della società, la globalizzazione delle economie, la multietnicità, la
forza e la concentrazione degli interessi economici. Fenomeni, questi, che hanno minato quella
presunta unicità: oggi la "crisi dello Stato" non è solo evidente nel processo di smobilitazione
conseguente al "fallimento dello Stato", ma si manifesta anche nel fallimento del miraggio del
"controllo totale", cioè del controllo diretto di ciò che è giuridico. Le pretese totalizzanti non
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sono però venute meno e il nuovo volto del Leviatano rischia di divenire più pervasivo di quello
antico: significativamente, da qualche tempo, il mondo degli addetti ai lavori si interroga sul
fenomeno della proliferazione incontrollata di nuove autorità - normalmente definite come
indipendenti -, ma in realtà concepite come articolazione del potere pubblico, quasi una sorta
di braccio secolare di questo, destinate a sovrintendere settori particolari della vita sociale o
dell'ordinamento giuridico. Queste autorità sono dotate di poteri amplissimi, in quanto, in
deroga al tradizionale paradigma garantista della divisione tra potere normativo, esecutivo e
giudiziario, emanano atti che sono, ad un tempo, regole, ordini e sentenze. Molti giuristi hanno
denunciato il problema di quale tutela dei diritti dei cittadini sia concretizzabile dinanzi agli atti
di tali organismi di incerta natura e normalmente privi di una legittimazione democratica per lo
meno adeguata al potere di cui dispongono.
Il processo di costituzione di queste autorità è molto intenso: da quelle più vecchie come la
Consob fino alle più recenti, come la potentissima Autorità garante della concorrenza e del
mercato o la neocostituita Autorità per le Telecomunicazioni o, infine, l'Autorità garante per la
tutela delle persone e del trattamento dei dati personali - meglio nota come Garante della
privacy. Se queste sono le più note, ve ne sono poi moltissime altre, meno conosciute, ma non
meno importanti come la Commissione di garanzia per l'attuazione della legge 12/6/1990
(cosiddetta Autorità per lo sciopero nei servizi pubblici essenziali), la Commissione di vigilanza
sui fondi pensione, l'Autorità per l'informatica nella pubblica amministrazione (AIPA), l'Autorità
per la vigilanza sui lavori pubblici, l'Autorità per la regolazione dei servizi di pubblica utilità nel
settore del gas e dei servizi elettrici, ecc. Alle autorità si affiancano poi le agenzie: si pensi, ad
esempio, all'Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni, l'Agenzia
per i servizi sanitari regionali, l'Agenzia nazionale per la protezione dell'ambiente. Sebbene la
fioritura di queste autorità non possa essere considerato un male in sé, dal momento che
alcune tendono a porsi come garanti di valori e interessi fondamentali, è altresì evidente come
nel complesso il fenomeno sia un inquietante e significativo sintomo di un crescente tentativo
di controllo della vita sociale, realizzato attraverso la costituzione di appositi poteri pubblici. Il
deficit di democraticità che in ogni caso si deve accusare in questo nuovo volto del potere
pubblico ripropone la domanda se la via maestra non possa essere un'altra: quella di ripensare
globalmente ciò che lo Stato deve realmente fare e quello che, invece, deve riconoscere e
incentivare secondo appunto un principio di sussidiarietà.
La sussidiarietà come "principio costituzionale" dell'Unione Europea. Lasciato nell'oblio
per moltissimi anni, il principio di sussidiarietà entra prepotentemente sulla scena del diritto
europeo con il Trattato di Maastricht in cui, all'art. 3b, viene sancito tra i principi cardine
dell'Unione Europea che "la Comunità interviene secondo il principio di sussidiarietà, soltanto
se e nella misura in cui gli obiettivi dell'azione prevista non possono essere sufficientemente
realizzati dagli Stati membri e possono dunque, a motivo delle dimensioni e degli effetti
dell'azione in questione, essere realizzati a livello comunitario".
Nessun altro documento costituzionale europeo conosce una definizione così esplicita del
principio, benché esso non sia del tutto nuovo per il diritto: la Costituzione tedesca, infatti, lo
mette a presiedere il riparto delle competenze legislative tra Federazione e Stati membri, e
l'Atto Unico lo afferma al momento di dotare la Comunità di poteri di intervento nel settore
della tutela ambientale. La portata di queste norme è comunque pur sempre parziale,
riguardando solo i rapporti tra livello di governo e certe specifiche materie; lo stesso Trattato
di Maastricht lo riferisce unicamente a certe competenze, quelle cosiddette "ripartite", essendo
palese che per quelle esclusive vige invece il monopolio di intervento in capo agli organi
comunitari. Di conseguenza, se da un lato è da considerarsi in modo positivo il fatto che il
principio in esame sia stato recepito anche dai documenti che presiedono all'organizzazione
politica continentale, dall'altro lato non vien meno la necessità di considerare con criticità tale
recepimento, criticità che si sostanzia nella tensione ad affermare che, rettamente inteso, il
principio di sussidiarietà, come già si è ricordato, mantiene una portata ben più vasta e
radicale. La codificazione a livello europeo, in ogni caso, ha dato origine a un ampio dibattito
sul significato e sulla rilevanza del medesimo. Molti sono gli studiosi e gli uomini politici che ne
hanno una visione ristretta, quasi si trattasse di un "non principio", cui attribuire di volta in
volta il significato che è più consono agli scopi politici contingenti. Vi sono, però, posizioni più
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interessanti che hanno della sussidiarietà una visione onnicomprensiva e radicale,
comprendente sia i rapporti tra i diversi livelli di governo sia le relazioni tra realtà pubblica e
iniziativa dei privati e delle loro aggregazioni. Tali concezioni mettono in relazione la
sussidiarietà verticale con altre norme del Trattato di Maastricht, e in particolare quelle che ne
affermano - almeno implicitamente la dimensione orizzontale (ad esempio l'affermazione che
richiama la necessità di costruire una "Europa dei cittadini"). Pregevole è pure il tentativo in
atto in Europa di elaborare dei criteri specifici e sufficientemente precisi che consentano la
verifica in sede giudiziale del rispetto del principio. La giustiziabilità, infatti, è stata finora
praticamente inesistente per il dogma della presunta "bontà" degli interventi legislativi sopra
richiamato. Ora invece il Trattato di Amsterdam ha tra i suoi allegati proprio un documento che
elabora dei "criteri" in base ai quali fare valutazioni degli interventi legislativi e sottoporre
quindi i medesimi a controlli anche giurisdizionali. Se questo si realizzerà, come è auspicabile,
allora verrà meno uno degli ostacoli che si frappongono a realizzare in concreto la
sussidiarietà, che è dato appunto dall'inesistenza di istanze di controllo preposte alla verifica
della sua attuazione.
Il principio di sussidiarietà nel dibattito sulla riforma costituzionale. Una
precisazione importante. Il dibattito in seno alla Commissione parlamentare per le riforme
costituzionali si è orientato per l'espressa previsione nel progetto di Costituzione del principio
di sussidiarietà. A differenza di quanto sostenuto da molti giuristi, per i quali questa intenzione
concretizzerebbe un'indebita scorribanda nella prima parte del testo della Costituzione rispetto alla quale la riforma non può intervenire -, quanto detto in precedenza consente
invece di sostenere come questa previsione si ponga in ideale continuità con quanto in essa è
già implicitamente stabilito.
Le alterne vicende della sussidiarietà. Ripercorrendo brevemente l'iter della discussione, si
deve rilevare come l'iniziale valenza con cui il principio è stato recepito faceva riferimento alla
sola accezione relativa alla distribuzione del potere pubblico tra centro e periferia (sussidiarietà
verticale) senza menzione del significato originario e più peculiare del principio (sussidiarietà
orizzontale). La più ampia accezione del principio è entrata successivamente nel dibattito
costituente dapprima come istanza avanzata dai rappresentati del Forum del terzo settore nel
corso di un'audizione in Commissione, e, quindi, a seguito della presentazione di tre
emendamenti dal contenuto sostanzialmente analogo, provenienti, in modo trasversale, sia da
esponenti della maggioranza parlamentare che dell'opposizione. Il dibattito in relazione alle
diverse accezioni, estensive o restrittive, del principio è continuato in modo piuttosto vivace
vedendo contrapposte da un lato Rifondazione comunista, Verdi, Ulivo e Sinistra democratica
e, dall'altro, Partito Popolare e Forza Italia. La posizione restrittiva discendeva dalla
preoccupazione di una possibile sottrazione dell'esercizio delle funzioni pubbliche allo Stato,
soprattutto in materia di scuola e di sanità, in quanto - si è osservato - dal punto di vista
economico l'iniziativa privata potrebbe essere da questi gestita meglio. In altre parole il timore
derivava dal fatto che stabilendo in Costituzione una preminenza automatica tra pubblico e
privato, a parità di condizioni il primo avrebbe dovuto comunque cedere al secondo.
La proposta di mediazione proveniente dagli assertori della sussidiarietà orizzontale nei
confronti dei sostenitori dell'opzione restrittiva è stata quindi nel senso di limitarne l'ambito di
applicazione all'ipotesi in cui le funzioni interessate non possano più essere adeguatamente
svolte dall'autonomia dei privati, intendendo così sottolineare che, in un'eventuale
comparazione tra pubblico e privato, il primo non dovesse essere penalizzato e che, laddove
esistesse per il pubblico la possibilità di svolgere adeguatamente e in modo conforme ai criteri
di adeguatezza, di efficacia e di efficienza una determinata funzione, ciò dovesse essere
consentito.
Il testo così modificato è stato quindi approvato dalla Commissione con il voto contrario di
Rifondazione comunista, l'astensione della Lega e del Pds, e con l'accordo raggiunto tra Polo e
Partito popolare. L'art. 56, quindi, prevedeva che: "le funzioni che non possono essere più
adeguatamente svolte dall'autonomia dei privati sono ripartite tra le comunità locali,
organizzate in Comuni, Province, Regioni e Stato, in base al principio di sussidiarietà e di
differenziazione, nel rispetto delle autonomie funzionali riconosciute dalla legge. La titolarietà
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delle funzioni spetta agli enti più vicini agli interessi dei cittadini secondo il criterio di
omogeneità e adeguatezza delle funzioni organizzative rispetto alle funzioni medesime". Nel
corso del dibattito, tuttavia, il testo è stato ulteriormente modificato e il principio di
sussidiarietà è stato praticamente rovesciato. Nel testo approvato il 24 settembre 1997 l'art.
56 risultava così modificato: "Nel rispetto delle attività che possono essere adeguatamente
svolte dall'autonoma iniziativa dei privati, anche attraverso le formazioni sociali, le funzioni
pubbliche sono attribuite a Comuni, Province, Regioni, Stato, sulla base di sussidiarietà e
differenziazione. La titolarietà delle funzioni compete rispettivamente a Comuni, Province,
Regioni e Stato, secondo i criteri di omogeneità e adeguatezza".
È stato così introdotto un principio di sussidiarietà rovesciata, potenzialmente in contrasto con
la valorizzazione della persona umana considerata come soggetto idoneo a svolgere attività di
rilievo pubblico e, quindi, tale da limitare fin dall'origine i poteri degli enti politici, locali,
regionali o nazionali.
Questo preoccupante travaglio del principio di sussidiarietà - negato, poi concesso, e infine
rovesciato - denota la mancanza di una chiara cognizione del suo significato e della sua
rilevanza. Nell'ultima formulazione l'intervento degli enti non profit è destinato a essere
configurato come meramente integrativo di quello statale, così come nella formulazione
precedente esso risultava formulato nel senso di accogliere indifferentemente la prospettiva
"comunitaristica" propria delle origini storiche del principio e quella "individualistica", tipica
invece di una concezione neoliberista del sistema economico.
Spetterà, quindi, alle assemblee chiamate ad approvare il progetto esaminato rimuovere ogni
incertezza al riguardo riconsiderando il ruolo del potere pubblico in campo sociale
conformemente alla fine del monopolio statale dell'interesse comunitario e giungere a una
formulazione del principio che lo riporti nel suo campo d'azione più tradizionale rivolto alla
valorizzazione del privato che svolge attività di interesse pubblico (cosiddetto privato sociale).
In questa direzione sembra muoversi il recente emendamento proposto dall'Onorevole Guarino
che si dimostra efficace nel conciliare la ripresa di un ruolo sussidiario del potere pubblico nei
riguardi della capacità individuale e collettiva in campo sociale con le istanze di una
sussidiarietà verticale avanzate dagli enti territoriali. Secondo la proposta il primo comma
dell'art. 56 risulterebbe così formulato: "Lo Stato, le Regioni, le Province e i Comuni esercitano
le funzioni ad essi attribuite, in conformità alle finalità di interesse generale previste dalla
Costituzione e in maniera proporzionata all'obbligo di volta in volta perseguito, quando il
conseguimento di tali finalità non può essere adeguatamente assicurato dall'autonomia dei
privati, anche attraverso le formazioni sociali. La titolarietà delle funzioni compete
rispettivamente a Comuni, Province, Regioni e Stato in base a principi di sussidiarietà e
differenziazione e secondo criteri di omogeneità e ragionevolezza. La legge garantisce le
autonomie funzionali".
L'unica perplessità, anche in vista delle possibili distorsioni interpretative, riguarda
l'espressione "titolarietà delle funzioni pubbliche" contenuta nella seconda parte dell'articolo,
sarebbe stato preferibile, infatti, parlare di "ripartizione delle competenze".
Tratto dalla rivista TEMPI
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