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Il fascismo: un caso di modernizzazione autoritaria
Il fascismo non ha rappresentato solo una reazione autoritaria alle istanze di partecipazione delle
masse popolari, ma anche una delle forme possibili di gestione della modernizzazione della società
italiana. In che modo ha svolto questa funzione?
Fascismo e modernizzazione
La nuova storiografia del fascismo ha messo al centro della sua proposta interpretativa il tema della
modernità. La domanda a cui bisogna cercare di dare una risposta non consiste soltanto nel definire
in che senso si può affermare che il fascismo ha modernizzato l’Italia, ma nell’individuare anche il
tipo di modernizzazione generato dalla politica fascista sul versante economico e sociale. La
modernizzazione infatti sintetizza i processi di cambiamento che consentono a una determinata
società di raggiungere quell’insieme di condizioni materiali, sociali e culturali che comunemente
vengono definiti con i termini moderno/modernità.
Il rapporto tra fascismo e modernizzazione presenta molteplici sfaccettature. Alcuni partono dal
presupposto che autoritarismo e totalitarismo si siano configurati come fenomeni politici
interamente iscritti nelle dinamiche delle società di massa industrializzate. In quest’ottica la politica
economica del fascismo, che ruota sulle tre coordinate del corporativismo, dell’autarchia e
dell’espansionismo imperialista, esprimeva un modello economico e sociale che si proponeva
esplicitamente come una “via” alla modernizzazione, alternativa al capitalismo e al comunismo.
Altri presupposti discendono dalla sociologia della modernizzazione, secondo la quale i fascismi
hanno costituito un’esperienza politica propria di paesi che hanno conosciuto un processo di
modernizzazione dotato di caratteri specifici.
Il fascismo quindi non è stato soltanto l’artefice di un determinato processo di modernizzazione,
ma è stato anche il frutto di un modello di modernizzazione di lunga durata che ha caratterizza la
storia degli stati nazione nei quali quel sistema politico si è imposto.
Che cos’è la modernizzazione
Per cogliere appieno quest’ultima questione è necessario confrontarsi con le molteplici
implicazioni del concetto di modernizzazione. Con questo termine infatti si intendono sintetizzare i
caratteri e la direzione del mutamento sociale all'interno di una determinato paese nella fase di
passaggio tra una società tradizionale e una pienamente moderna. Gli elementi salienti del processo
chiamano in causa non soltanto fenomeni di ordine economico, che pure comprende - e per questo
non è sinonimo di sviluppo o di crescita - ma si dispiega a misurare e valutare l'intreccio tra la
crescita economica, il miglioramento delle condizioni generali di esistenza della popolazione e le
capacità del sistema politico e delle istituzioni statali di recepire i mutamenti strutturali sul piano
del funzionamento della macchina amministrativa e su quello dei meccanismi e dei canali della
partecipazione politica. Da ciò deriva il fatto che gli indicatori solitamente utilizzati per analizzare i
processi di modernizzazione afferiscano non solo all'economia (prodotto interno lordo, reddito pro
capite, produttività, distribuzione delle forze di lavoro nei settori produttivi), ma anche ad ambiti
sociali (scolarizzazione, livelli della mortalità e dinamiche demografiche, speranza di vita alla
nascita, grado di urbanizzazione, tipologie alimentari) e politici (livelli di centralizzazione
dell'amministrazione, grado e forme della partecipazione politica, dimensioni e natura dei fenomeni
associativi).
Dalla combinazione di questa somma di variabili quantitative e qualitative discende la possibilità di
superare ogni ottica economicista nella valutazione degli stadi dello sviluppo di una società, e di
valutare lo iato tra sviluppo economico e crescita civile, tra accumulazione di ricchezza e benessere
collettivo, che spesso ha accompagnato il processo di industrializzazione dei paesi dell'Europa
continentale per tutto il corso degli ultimi centocinquant'anni.
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Da questo punto di vista, l'Italia costituisce un caso emblematico per l'ampiezza di quello iato, di
quella frattura tra sviluppo economico e progresso della società civile, che ha caratterizzato il
modello di industrializzazione affermatosi nel nostro paese. Se infatti distribuiamo gli indicatori
sopra definiti lungo l'arco di un secolo, tra metà Ottocento e metà Novecento, emerge una società
caratterizzata da una modernizzazione precaria, asfittica e squilibrata geograficamente. Mentre i
processi economici, almeno dall'età giolittiana, tenevano il passo con quelli presenti nel ristretto
novero delle società industrializzate, i livelli della crescita civile e della partecipazione politica
ancoravano il paese ai ritmi di sviluppo delle più arretrate periferie mediterranee. In Italia infatti i
processi di inclusione sociale e di nazionalizzazione delle classi subalterne erano ostacolati
dall’arcaicità dei rapporti sociali, dalla resistenza delle vecchie classi dirigenti, soprattutto agrarie,
a favorire i processi di democratizzazione, attratte invece da ricorrenti tentazioni autoritarie, prima
impersonate da Crispi e poi sfociate nella crisi politica di fine Ottocento.
Interrogarsi sulla profondità della cesura che nella storia italiana ha separato la modernizzazione
dall’industrializzazione, assume grande rilievo all’interno della riflessione sulle origini e sulla
natura del fascismo, perché una autorevole corrente di scienziati sociali ha individuato proprio in
questo spazio la formazione dei fattori genetici del fascismo.
L'Italia infatti è stata, insieme con l’URSS, il laboratorio politico di una delle due alternative al
tradizionale modello anglosassone che combinava industrializzazione e democrazia: il fascismo,
come lo stalinismo, ha rappresentato il modello opposto nel quale l'industrializzazione si è
combinata a un sistema politico totalitario.
Il modello di Barrintong Moore
Il sociologo Barrington Moore, nel suo famoso libro Le origini sociali della dittatura e della
democrazia (Einaudi, Torino 1969) affrontava questa questione a partire dalla individuazione della
condizioni storiche che hanno consentito l’affermazione di una modernizzazione democratica.
Secondo il sociologo inglese queste sono cinque: la prima concerne la presenza di un equilibrio
politico tra una monarchia non troppo forte e un'aristocrazia fondiaria non eccessivamente
indipendente nelle epoche pre e protoindustriali; la seconda riguarda il pieno dispiegamento di una
rivoluzione agraria in senso mercantile e capitalistico; la terza il progressivo indebolimento delle
tradizionali élite terriere; la quarta consiste nel fatto che di fronte al crescente protagonismo dei ceti
contadini che inevitabilmente accompagna la rivoluzione agricola non si verifichino coalizioni
politiche strategiche "aristocratico-borghesi" contro i lavoratori della terra; la quinta riguarda la
realizzazione o meno di una rottura rivoluzionaria con il passato.
Ripercorrendo la storia dell'Italia contemporanea, nessuna di queste condizioni può essere
pienamente rintracciata: siamo infatti in presenza di un processo di industrializzazione chiamato a
fare i conti con una proprietà fondiaria forte e indipendente, in grado di controllare i meccanismi
del sistema politico e di presiedere alla selezione delle classi dirigenti, con un ceto borghese debole
e incapace di proporsi come interlocutore autonomo nei confronti del movimento bracciantile e
contadino e orientato a un accordo compromissorio con le tradizionali élite agrarie.
Il caso italiano: lento sviluppo, scarsa modernizzazione
Da questa constatazione non consegue, però, che nessun processo di modernizzazione si sia
realizzato nella società italiana fin dalla seconda metà dell'Ottocento: se dal compromesso tra
vecchie e nuove classi dominanti derivarono ostacoli notevoli a una modernizzazione democratica,
capace di coniugare sviluppo economico e benessere collettivo, questo non significa che in un
quadro autoritario e illiberale l'industrializzazione non abbia trascinato con sé processi
contraddittori di modernizzazione.
E’ all’interno di questo percorso interpretativo che il fascismo è chiamato in causa. Esso infatti
costituisce un esempio emblematico, anzi un laboratorio storico, di una modernizzazione autoritaria
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che ha proceduto all’interno di un quadro di vincoli definito da quel compromesso tra classi
dirigenti vecchie e nuove su cui si era fondata la formazione della nazione stessa. Il fascismo,
dunque, inteso non soltanto come evento politico-istituzionale, ma soprattutto come definizione
sintetica di un periodo particolare e specifico della storia della società italiana, non può essere a
pieno compreso se non come modo storicamente determinato assunto in Italia dalla transizione ad
una fase più avanzata della modernizzazione, dopo che lo sviluppo industriale, almeno in alcune
zone del paese, stava entrando nella sua fase monopolista e fordista.
La “modernizzazione corporativa”
Se però il fascismo sembra costituire l'esito di processi di modernizzazione guidati dall’alto, in un
paese, come l'Italia, caratterizzato da uno stretto, e spesso inestricabile intreccio tra modernità e
tradizione, tra società industriale e società rurale, questo non significa affermare che esso
rappresenti un esito scontato e necessario, quanto piuttosto, un esito storicamente possibile,
laddove intervenga un nuovo fattore del tutto imprevisto: quei processi di mobilitazione sociale
delle classi inferiori e delle classi medie messi in movimento dal contrasto tra basso grado di
integrazione sociale raggiunto dal sistema nel suo complesso e dinamiche sociali nuove innescate
dallo sviluppo economico.
Tra il 1910 e il 1920, un decennio cruciale della storia italiana, durante il quale si assistette alla
prima, dirompente trasformazione in senso industriale della società italiana, si verificò una
straordinaria mobilitazione delle masse operaie e contadine che travolse le gracili strutture di un
sistema politico privo degli strumenti istituzionali per incanalare e “nazionalizzare” il nuovo
protagonismo sociale dei ceti subalterni.
Il carattere nuovo della dittatura di Mussolini risiedeva nel suo tentativo, più velleitario che
coerente, di realizzare, seppur sotto un segno politico autoritario, quella nazionalizzazione delle
masse che lo stato liberale non era stato in grado di realizzare.
Lo strumento attraverso cui raggiungere questo obiettivo era rappresentato da una sorta di
"modernizzazione corporativa". In essa si combinavano una rappresentanza degli interessi delle
classi lavoratrici e un embrione di stato sociale con il mantenimento del compromesso tra élite
agrarie ed élite industriali che costituiva la base materiale del dominio politico delle classi dirigenti,
in diretta continuità con il regime precedente.
La modernizzazione corporativa stata indubbiamente una modernizzazione al rallentatore, ma pur
sempre tale; costituisce infatti lo scenario nel quale si svolge nel corso del ventennio lo scontro tra
settori economici moderni e settori tradizionali e si verificano fenomeni di mobilità/mobilitazione
della popolazione quali mai aveva in precedenza conosciuto la società italiana. L'esito fu una
crescita notevole dell'urbanizzazione, della deruralizzazione della popolazione e una
trasformazione visibile di quasi tutti gli indicatori sociali relativi alla qualità della vita.
All’interno di questa chiave di lettura, il fascismo rappresentò un tentativo di sottrarre ai processi di
modernizzazione la leva insostituibile del conflitto sociale e della mobilitazione delle classi
inferiori che avrebbero reso sempre meno tollerabile quel compromesso tra vecchie e nuove classi
dirigenti e costretto e rimodellare la dialettica insopprimibile tra continuità e innovazione propria di
ogni società industriale moderna, quale l’Italia si stava avviando a diventare irreversibilmente.
Gli effetti di lunga durata della modernizzazione corporativa
Bisogna sottolineare che i segni della "modernizzazione autoritaria" rallentata, che ha
accompagnato l'evoluzione della società italiana contemporanea, sono ancora visibili nella
fisionomia dell'Italia di oggi. Dietro il raggiunto benessere si nascondono infatti i segni tangibili di
una trasformazione più quantitativa che qualitativa: l'integrazione sociale delle classi subalterne è
stata garantita più da un accesso tumultuoso ai consumi dei prodotti di massa, che dall'estensione
dei diritti di cittadinanza promossa dallo stato: tutti, o quasi, possono accedere all'acquisto di un
televisore o di un'auto, ma non a tutti i cittadini sono garantiti servizi sanitari, istruzione e diritti
civili omogenei.
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Fino al 1970, quando venne varato lo statuto dei lavoratori, i diritti sindacali delle classi lavoratrici
non erano tutelati appieno; la scuola è rimasta a tutt'oggi fortemente selettiva, senza garantire pari
opportunità di formazione alle giovani generazioni provenienti dagli strati sociali più deboli: su
cento studenti che si iscrivono alle scuole elementari, circa un terzo riesce a conseguire un diploma
superiore, mentre la laurea resta un miraggio per oltre l'80% di quelli che si sono iscritti ai primi
gradi dell'istruzione pubblica.
Alle persistenti differenze sociali continuano ad intrecciarsi diseguaglianze profonde tra i sessi,
retaggio di arretratezze strutturali e culturali della società italiana, al cui radicamento il sessismo e
il maschilismo propri della cultura fascista hanno contribuito grandemente: le donne, dopo che
hanno raggiunto con l’estensione del suffragio dal 1946 i diritti di cittadinanza elementari, non
sono riuscite a godere pari opportunità con il sesso maschile nel mercato del lavoro e
nell'istruzione, né il sistema giuridico garantisce la piena parità dei sessi davanti alla legge: fino al
1996 la violenza sul corpo della donna non ha costituito un reato contro la persona, come nel caso
dell'uomo, bensì un reato contro la morale pubblica. Alla legalizzazione dell'aborto e
all'acquisizione della maternità come libera scelta della donna, non ha fatto seguito un intervento
dello stato che impiantasse su quella scelta una serie di strumenti che ne favorissero l'effettivo
esercizio.
L’eredità del fascismo sui caratteri della modernizzazione italiana solo leggibili inoltre nel peso di
una burocrazia elefantiaca e inefficiente, nella cui cultura professionale statalismo, centralismo, e
clientelismo si combinano con spiccati tratti di servilismo nei confronti del potere politico e con
una forte propensione alla gestione dei propri interessi in chiave corporativa.
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