Cos’è l’infinito?
« Sebbene la tua anima navighi per leghe e ancora leghe,
pure, oltre quelle leghe, c’è ancora il mare »
D. G. Rossetti
Una delle idee che più ha interessato, affascinato, ma anche spaventato l’uomo nel corso
della storia è il concetto di infinito. Per infinito si intende tutto ciò che non ha limite in
estensione, quantità, durata. La parola stessa lo ammette, così come avviene per molte
lingue: in-finito, a-peiron, un-endlich… dove il prefisso ha lo scopo di negare il significato
della radice della parola che indica limite. Sebbene fin dagli albori della storia umana
questa entità non è mai stata connessa direttamente a problemi pratici, molti sono stati gli
spunti da cui si è originato il concetto di infinito, come, per esempio, l’innato desiderio
umano di esplorare al di là del mondo conosciuto, che ha sempre avuto un termine.
L’immensità, l’indefinito, l’incommensurabile hanno spesso originato pareri diversi, anche
nettamente opposti. Mentre Pitagora di Samo, filosofo greco del VI sec. a.C. , vedeva
negativamente l’idea di infinito, perché non mostrava regolarità, completezza, armonia, la
religione cristiana associò l’infinito a Dio, quindi al divino e alla perfezione.
Questa entità è molto difficile da immaginare nel suo complesso: possiamo avere un
accenno ammirando un cielo stellato e limpido o solo un piccolo richiamo osservando la
distesa del mare fino all’orizzonte: il pittore olandese Van Gogh vedeva l’infinito nelle vaste
pianure della Francia. Si incominciò a parlare d’infinito, però, solo in seguito allo sviluppo
del pensiero matematico, il quale riuscì a staccarsi dai problemi pratici e raggiunse un
livello più astratto e più ampio. Usando i numeri naturali, possiamo renderci conto
dell’infinito, dal momento che è possibile aggiungere un’unità a qualsiasi numero, quante
volte desideriamo. Da ciò, deduciamo che i numeri naturali sono come una semiretta:
hanno un origine, cioè 0, ma non hanno una fine. Per di più, se digitiamo su una
calcolatrice abbastanza potente un numero qualsiasi e lo dividiamo ripetutamente per 2,
per 3 o per qualsiasi altro numero, noteremo che anche nel piccolo, esiste un infinito: i
cosiddetti infinitesimali. Finché parliamo di cifre astratte, però, l’infinito rimane
immaginario, frutto della genialità umana, ma c’è qualche possibilità che esista veramente
nel concreto? Forse nessuno arriverà mai a scoprirlo, ma si accontenterà di ipotizzarlo o di
disdirlo. Oggi rappresentiamo l’infinito con un simbolo, ideato dall’inglese John Wallis,
vissuto nel XVII sec.: .
1
M. C. Escher
Un altro mondo II
Parte prima
L’infinito nella storia.
Nel mondo antico, popoli come i Babilonesi o gli Egizi non presero in esame l’infinito,
non perché non avessero le facoltà intellettuali necessarie, ma per il semplice motivo che
nei loro problemi pratici, l’infinito né compariva, né destava interesse. Fu nell’antica
Grecia, ma anche molto più lontano, addirittura in Cina, che grandi matematici e filosofi
presero in esame l’infinito, sottoponendosi a problemi su quantità infinite e dovendo,
quindi, astrarre il proprio pensiero. Tuttavia, si dovette aspettare l’età moderna, perché il
concetto d’infinito fosse affrontato con più serietà e dignità. Ma è interessante notare
come non si è mai trattato quest’argomento sotto il solo profilo matematico, ma ogni
nuovo concetto d’infinito ha avuto i suoi risvolti metafisici e teologici ed ha rispecchiato
il modo in cui l’uomo di ogni epoca pensava a se stesso.
2
M. C. Escher, Mano con sfera riflettente
L’infinito in epoca antica.
Nella Grecia antica il concetto d’infinito fu elaborato dalla filosofia con numerose
valenze negative, poiché i Greci ritenevano di poter conoscere solo ciò che fosse
determinato e finito. Pertanto, l’infinito non era conoscibile. Con l’espressione «horror
infiniti», ovvero «paura per l’infinito», si definì proprio questo rifiuto da parte degli
antichi di considerare un infinito attuale, cioè concreto e visibile.
3
Aristotele, filosofo vissuto nel IV sec. a.C.
, affermava: « …il numero è infinito in
potenza, ma non in atto. […] questo nostro
discorso non intende sopprimere per nulla
le ricerche dei matematici per il fatto che
esso
esclude
che
l’infinito
per
accrescimento sia tale da poter essere
percorso in atto. In realtà, essi stessi, allo
stato presente, non sentono il bisogno di
infinito, ma di una quantità più grande
quanto essi vogliono, ma pur sempre finita
[…]
».
Da quanto disse Aristotele, l’unica idea
accettata nell’antichità era l’infinito
potenziale, inteso come divenire: un
numero o una qualsiasi altra quantità, è
potenzialmente in grado di tendere
all’infinito, aumentandola ogni volta di
poco, ma ogni volta risulta un’entità finita.
Questo
è
chiamato
processo
di
eccetterazione. È l’esempio dei numeri
naturali: aggiungendo ogni volta un’unità
ad un numero, si otterranno ogni volta
quantità finite, ma che sembrano
potenzialmente in grado di tendere
Aristotele
all’infinito.
La concezione d’infinito potenziale, però, entrò facilmente in crisi, dando origine a
problemi insormontabili e persino a paradossi.
Il celebre teorema attribuito a Pitagora: la
somma dei quadrati costruiti sui due cateti a
e b è equivalente al quadrato costruito
4
Tornando indietro nel tempo di due secoli,
incontriamo il primo Greco che forse ebbe a che
fare con l’infinito: Pitagora di Samo, filosofo e
matematico del VI sec. a.C. Egli fondò una scuola, detta appunto Pitagorica, presso la
colonia greca di Kroton, l’odierna Crotone. Ispirato dalle discipline orientali, specie
l’orfismo, Pitagora diede origine ad una sua filosofia e ad una vera e propria religione.
Nella sua visione del mondo, tutti gli oggetti erano costituiti da un numero finito di
monadi, minuscole particelle, simili agli atomi, che costituivano il sottomultiplo comune
a tutti i segmenti. Perciò, due grandezze potevano essere espresse con un numero intero
ed erano tra loro commensurabili, ammettevano cioè un comune denominatore,
esattamente come 36 e 777 hanno 3 come divisore comune. Pitagora formulò inoltre una
nuova disciplina attorno ai numeri interi, attribuendo loro valore divino. Secondo lui, il
divino risiedeva nella completezza, nel finito. Ma il pensiero pitagorico fu messo in crisi
dalla scoperta di grandezze incommensurabili, ovvero che non ammettono denominatori
comuni con altre grandezze e questo fu il primo approccio, non molto gradito, con una
forma
di
infinito
attuale.
Tutto partì dal celeberrimo teorema di Pitagora sul triangolo rettangolo: il quadrato
costruito sull’ipotenusa è equivalente alla somma dei quadrati costruiti sui due cateti. Se
applichiamo questo teorema su un triangolo rettangolo isoscele, che risulta essere metà
di un quadrato, notiamo che il rapporto tra ipotenusa ed un cateto, così come tra lato e
diagonale di un quadrato, è radice di 2. Questo numero è decimale, ma irrazionale,
significa cioè che per determinare le sue cifre dopo la virgola, che sono del tutto casuali,
bisognerà andare avanti nell’infinitamente piccolo:
sull’ipotenusa c.
1,414213562…
Questa scoperta non solo mise in crisi il Pitagorismo, tanto che fu proibito ai membri
della setta di rivelarla, ma toccò profondamente il pensiero greco, poiché radice di 2,
rappresentabile con un segmento geometrico, diventava un infinito concreto, non più
potenziale. Ma tanti altri furono i casi in cui il pensiero greco trovò difficoltà a ricercare
una qualche soluzione.
5
Attorno al 500 a.C. Zenone di Elea fu artefice di
uno dei paradossi più famosi sull’infinito potenziale,
in particolare, per dimostrare l’impossibilità del
moto, ovvero il celeberrimo paradosso di Achille e la tartaruga. Segue una delle tante
versioni
di
questo
paradosso:
Supponiamo che Achille sia due volte più veloce della tartaruga e che entrambi gareggino
su un percorso di un metro. Supponiamo inoltre che Achille dia mezzo metro di
vantaggio
alla
tartaruga.
Quando Achille avrà percorso mezzo metro, la tartaruga si troverà un quarto di metro più
avanti; quando Achille avrà percorso un quarto di metro, la tartaruga un ottavo a così via
all’infinito: Achille non raggiungerà mai paradossalmente la tartaruga. Il problema
sembra facilmente risolvibile, poiché Achille mantenendo una velocità costante sarebbe
comunque arrivato in un tempo determinato non solo alla fine del percorso, ma anche
alla tartaruga. Zenone, tuttavia, lasciò irrisolto il paradosso e, in effetti, seguendo il suo
ragionamento
sembrerebbe
che
non
ci
sia
alternativa.
Ma da questo paradosso sono stati dedotti diversi concetti importanti: innanzi tutto, che
la somma di infinite quantità infinitesime può risultare finita. Compare, infatti, per la
prima volta l’idea di limite, cioè quel numero a cui una serie numeri tende, cioè si
avvicina sempre di più, senza mai raggiungerlo. Il percorso di Achille è costituito da
infiniti tratti, ma fermiamoci ai primi cinque e sommiamoli mano a mano:
Zenone
1/2 + 1/4 = 3/4
3/4 + 1/8 = 7/ 8
7/8 + 1/16 = 17/16
17/16 + 1/32 = 31/32
…
6
È facile osservare come questa successione tenda ad 1 e
È l’eroe epico Achille il protagonista
sia praticamente uguale ad 1, cioè come si avvicini
del famoso paradosso di Zenone.
sempre di più ad 1 senza mai raggiungerlo ( 3/4; 7/8;
17/16; 31/32; …). Il concetto di limite fu dedotto completamente solo nell’Ottocento e
costituisce uno dei punti più curiosi dell’infinito. Compare inoltre il discorso degli
infinitesimali, cioè quell’infinito che anziché svilupparsi nel grande, si sviluppa nel
piccolo, così come succede per le cifre decimali della radice di 2 e di altri numeri: i tratti
del percorso di Achille, infatti, si rimpiccioliscono sempre di più, all’infinito. E qui si
ricollegherà il problema del continuo, ma solo molti secoli più tardi.
Vediamo, intanto, altri due casi matematici, connessi tra loro, in cui l’infinito ebbe la sua
parte: la rettificazione della circonferenza di un cerchio e la determinazione del valore di
, cioè del rapporto tra circonferenza e diametro. La misura della lunghezza della
circonferenza appassionò molti studiosi antichi e tra questi ci fu Archimede di
Siracusa, vissuto nel III sec. a.C. Archimede pensò di considerare innanzitutto un
cerchio e di circoscrivere ed inscrivere ad esso poligoni regolari dello stesso numero di
lati ( metodo di esaustione ). Dopodiché, ripeté più volte lo stesso procedimento,
aumentando ogni volta il numero dei lati dei poligoni. Così facendo, ad ogni passo aveva
dei poligoni che tendevano a coincidere sempre di più al cerchio. Facendo poi ogni volta
la media tra i perimetri del poligono iscritto e di quello circoscritto, si approssimava la
lunghezza della circonferenza: più si aumentava il numero di lati, più ci si avvicinava alla
misura reale della circonferenza. Dividendo poi la circonferenza approssimata con la
diagonale conosciuta ci si avvicinava sempre di più al valore di . A questo punto nasceva
un quesito: era possibile che alla fine di questo procedimento algoritmico si arrivasse ad
un poligono con sufficienti lati tali da poter essere considerati archi infinitesimali della
circonferenza stessa? Il filosofo Antifonte sosteneva di sì, considerava perciò la
circonferenza un poligono con un numero infinito di lati. Aristotele contraddisse le sue
affermazioni dal momento che Antifonte vedeva la circonferenza come un infinito
attuale, non potenziale. Invece, Aristotele affermò che l’insieme dei poligoni iscritti ( e
circoscritti ) nella circonferenza è un insieme illimitato nel senso che per ogni poligono,
con un numero anche elevato di lati, ne esisterà un altro con un numero di lati ancora più
alto, che non potrà comunque coincidere con a circonferenza, perché ne esisterà ancora
un altro maggiore. Si ripropone di nuovo, dunque, il concetto di infinito come processo
di eccetterazione e quindi come infinito potenziale. Per quanto riguarda , si ebbe a che
fare con un numero del genere di radice di 2, un numero irrazionale, i cui decimali
proseguono nell’infinitamente piccolo.
7
Archimede
Sempre nel III sec. a.C. si assistette alla nascita di nuovi paradossi sull’infinito partendo da
alcune affermazioni del matematico Euclide. Nella sua opera intitolata Elementi elencò le
cosiddette regole di deduzione logica, ovvero alcune nozioni ritenute intuitive ed evidenti.
Tre queste:
1.
le
cose
uguali
ad
una
stessa
cosa
sono
uguali
tra
loro
2. se a cose uguali si aggiungono cose uguali si ottengono risultati uguali
3. se a cose uguali si tolgono cose uguali si ottengono resti uguali
4.
cose
che
coincidono
l’una
all’altra
sono
uguali
l’una
all’altra
5. l’intero è maggiore della parte.
Quest’ultima nozione fu il punto di partenza di numerosi paradossi, detti
dell’equinumerosità.
Chiamiamo equinumerosi due insiemi che possono stabilire una corrispondenza tale che
ad ogni elemento del primo insieme si possa collegare un solo elemento del secondo e
viceversa,
viene
quindi
creata
una
corrispondenza
biunivoca.
Se l’insieme è finito non può essere messo in corrispondenza biunivoca con una sua parte
e quindi la quinta nozione di Euclide risulta vera, ma non è così se l’insieme è infinito.
Infatti, potremmo porci il seguente quesito: se consideriamo tutti i numeri naturali e da
essi estraiamo solo quelli pari, otteniamo da questi la metà dell’intero insieme? I pari
8
sono di numero minore o uguale rispetto all’insieme dei numeri naturali? Basta provare
se ci sia una corrispondenza biunivoca:
Numeri
naturali
1
2
3
4
5
6
7
8
9
...
Numeri
pari
2
4
6
8
10
12
14
16
18
...
Si potrebbe andare avanti quanto si vuole e si troverebbe sempre una corrispondenza tra
i due insiemi. Quindi, un insieme infinito è uguale ad una sua parte. Nel Seicento verrà
ripresa questa idea dallo scienziato Galilei.
Euclide di Elea ( a sinistra ) nella Scuola di Atene di Raffaello Sanzio, conservata nei Musei Vaticani.
L’infinito fu discusso da altri filosofi greci. Ecco le loro opinioni a riguardo:
9
Anassimandro ( VI sec. a.C. ) fu il primo ad introdurre, secondo la tradizione, il
termine archè, ossia “principio”, che identificò con l’apeiron, cioè con una sorta di
infinito/indefinito da cui scaturiscono tutte le cose. Il processo di derivazione
dall’apeiron consiste in una separazione dei contrari ( caldo/freddo; umido/secco; … )
che Anassimandro chiamò “ingiustizia”, poiché ogni nascita equivale ad una colpevole
separazione dalla sostanza originaria e richiede l’espiazione della morte, per
ricongiungersi con essa. L’apeiron è ritenuto elemento divino, in quanto forza immortale
ed indistruttibile, che abbraccia e regge l’universo.
Anassagora ( V sec. a.C. ) scrisse un’opera intitolata Sulla natura, in cui sostenne che
nulla si genera dal non-essere, ma che tutto viene dal tutto. Secondo lui, in origine tutto
era mescolato insieme e la nascita delle cose avviene per separazione da altre cose. Esiste
poi un infinito numero di principi detti semi aventi “forme, colori e gusti d’ogni genere”.
Questa concezione ammette che in ogni cosa sono comprese tutte le qualità ( “tutto è in
tutto” ) allo scopo di spiegare in maniera non contraddittoria il divenire, e in particolare
il nascere e il morire, come sviluppo delle stesse qualità legate agli esseri e non cose
creazione e annullamento di nuove qualità.
Democrito di Abdera ( V sec. a.C. ) suppose che l’universo fosse infinito ed
immutabile poiché non era opera di nessun artefice.
Gli Stoici, la cui scuola filosofica fu fondata ad Atene nel IV sec. a.C. , sostenevano che
l’universo continuasse a formarsi e a distruggersi più volte. In ogni nuovo cosmo, gli astri
sono disposti nella stessa posizione e sulle stesse orbite del periodo precedente, ci sono
gli stessi uomini di prima, le stesse città, gli stessi territori. Questo continuo
rinnovamento delle cose nella stessa forma avviene all’infinito.
Plotino ( III sec. d.C. ) fu il fondatore del neoplatonismo. Rifondò in modo sistematico
la metafisica dell’Uno. Ogni cosa deve avere un’unità, per poter esistere, se ne viene
privata, muore. Egli credeva nell’esistenza di un essere superiore divino, definito l’Uno
supremo, forza generatrice, che emana diversi livelli di realtà e l’uomo ne percepisce solo
l’ultimo. Plotino parla dell’Uno, nell’opera Enneadi, con queste parole: « La sua
infinitezza dipende dal fatto che Egli non è “più di uno” e che non c’è nulla che possa
qualcuna delle cose che sono in Lui; proprio perché è Uno, Egli non è misurabile né
numerabile. Egli non trova un limite, né in altri, né in se stesso, poiché se così fosse,
sarebbe dualità. Non ha dunque figura, in quanto non ha parti né forma. »
10
Partenone dell’Acropoli d’Atene, città che era il più importante centro della filosofia antica.
Ma l’infinito non fu studiato solamente in Grecia. Molto più lontano, nella Cina antica,
diversi filosofi e scienziati arrivarono all’incirca alle stesse conclusioni non solo
sull’infinito, ma anche in numerosi argomenti matematici e astronomici. Essi calcolarono
approssimativamente , l’area del cerchio e i volumi della sfera e della piramide, più o
meno seguendo gli stessi ragionamenti dei Greci. Non si sa se tutto ciò fu frutto dei Cinesi
o ci fu un’influenza ellenistica, tramite la Via della seta.
Alla fine del IV sec. a.C. Hui Shi, primo ministro del re Hui di Wei, retore e autore di un
codice giuridico oggi andato perduto, illustrò l’infinità divisibilità di un segmento di retta
per
dicotomia:
« Resterà sempre qualcosa di un bastone di un piede [ di lunghezza ] da cui si toglie
ogni giorno la metà, anche in capo a diecimila generazioni ». Il suo ragionamento è
simile a quello di Zenone nel suo paradosso di Achille e la tartaruga.
Per di più, Hui Shi affermava che era insieme possibile ed impossibile sommare gli
infinitesimi:
« Ciò che non ha dimensione non può essere sommato, ma finisce tuttavia per arrivare
ad un migliaio di li [unità di misura cinese ] ». Questa affermazione risulta priva di
senso, per quanto i sinologi abbiano cercato di trovarne un contesto: forse una
discussione fra atomisti e non atomisti sull’infinita divisibilità di un segmento, oppure un
dibattito tra geometri sulla dimensione del punto e sullo spesso del piano, o una ancora
una dimostrazione dei limite del linguaggio tramite fresi assurde.
Alla fine del III sec. a.C. , al tempo della dinastia Han, il matematico Liu Hui notò in un
suo testo che la radice quadrata di certi numeri non può essere calcolata in maniera
esatta e spiegò che l’operazione a volte prosegue all’infinito. Egli capì intuitivamente lo
sviluppo decimale illimitato. Si occupò anche dell’area del cerchio e del valore di ,
attraverso un metodo molto simile a quello usato da Archimede, iscrivendo un cerchio
fra due successioni illimitate di poligoni e di ruote dentate e aumentando ogni volta i lati
dei poligoni. Anch’egli arrivò a dire che a lungo andare « il poligono si sarebbe confuso
con il cerchio ».
11
Troviamo durante la dinastia degli Han posteriori ( I sec. d.C. ) che un astronomo di
nome Qi Meng postulò che l’universo fosse illimitato nel tempo e nello spazio. Tuttavia,
i Cinesi non si occuparono molto di cosmologia, ma soprattutto di astronomia per
determinare la data delle congiunzioni tra Sole, Luna e pianeti, che fu il punto di
partenza per la formazione del calendario.
Muraglia cinese, simbolo della Cina. La sua costruzione iniziò nel 221 a.C.
L’infinito in epoca moderna.
Finita l’epoca buia del Medioevo, si distinsero diverse personalità che contribuirono ad
arrivare alla concezione moderna d’infinito.
12
Nel Seicento, il fiorentino Galileo
Galilei (1564-1642) considerato il
fondatore della scienza moderna, fu
uno dei primi scienziati a mettere in
discussione il concetto d’infinito
elaborato dalla filosofia greca. Egli
affermò la possibilità di dividere un
continuo
limitato
(come
un
segmento) in infiniti elementi primi,
senza estensione ed indivisibili.
Poiché un segmento può essere diviso
in tante parti ancora divisibili, si deve
necessariamente ammettere che esso
sia composto da infinite parti. Ma se
queste parti sono infinite devono
essere prive di estensione, poiché
infinite
parti
estese
hanno
un’estensione infinita, mentre il
segmento ha un’estensione limitata. Il
Galileo Galilei
segmento
diventa
quindi
una
manifestazione dell’infinito in atto. Anche la circonferenza è un esempio di infinito
attuale: la possiamo, infatti, intendere come un poligono regolare di infiniti lati.
Ammettendo l’esistenza dell’infinito attuale, Galilei andò, però, incontro a diversi
paradossi
che
non
riuscì
a
risolvere.
Eccone
alcuni:
Il paradosso dei quadrati. I numeri quadrati sono solo una parte dei numeri naturali.
È, però, possibile stabilire una corrispondenza biunivoca tra l’insieme dei numeri
naturali e quello dei quadrati.
Numeri
naturali
1
2
3
4
5
6
7
8
9
...
Numeri
quadrati
1
4
9
16
25
36
49
64
81
...
Sono, perciò, due insiemi equinumerosi.
Il paradosso della ruota. Due ruote concentriche, tali che la più grande rotoli sopra
una retta, toccano con i loro punti due segmenti di uguale lunghezza AB.
13
Facendo fare un giro completo alla circonferenza più grande fino a D, la più piccola
arriverà a B. Ma CD = AB. Come può ora il cerchio minore compiere un solo giro « senza
salti » su una linea più lunga della sua circonferenza? Anche in questo caso c’è bisogno di
stabilire una corrispondenza biunivoca tra la circonferenza grande e quella piccola ( e
quindi tra un segmento ed una sua parte). Basterà proiettare dal centro in comune i
punti della circonferenza minore su quella maggiore. Il paradosso, dunque, sta nella
possibilità di stabilire una corrispondenza biunivoca tra un segmento continuo e una sua
parte.
Galileo, non riuscendo a risolvere i suoi paradossi, arrivò a negare, come matematico, la
possibilità d’indagare l’infinito, poiché, secondo lui, una mente limitata come quella
dell’uomo
non
era
capace
di
studiare
quantità
infinite.
Tuttavia, non si arrestarono qui gli approcci con quantità infinite. Proprio dal Seicento si
sviluppò il cosiddetto calcolo infinitesimale, che riguardava, cioè, l’infinitamente piccolo.
La svolta operata dagli innovatori doveva basarsi proprio sull’abbandono delle riserve
tradizionali
nei
confronti
del
ricorso
all’infinito.
Il primo a compiere un passo decisivo in questa direzione fu Johannes Kepler ( 15711630 ) che concluse la sua famosa Nova stereometria doliorum ( Nuova misura del
volume delle botti ) del 1615, in cui sviluppò le sue considerazioni di tipo infinitesimale
per giustificare un criterio empirico usato dai bottai austriaci, con un Supplementum ad
Archimedem ( Supplemento ad Archimede ), dove i volumi di alcuni complicati solidi
vengono calcolati mediante la suddivisione di essi in un numero ( tendente all’infinito )
di
corpiccioli
piccolissimi
(
al
limite
infinitesimi
).
Un secondo importante passo è compiuto da Bonaventura Cavalieri (1598-1647 ) che
introdusse il famoso metodo degli indivisibili, basato sulla concezione delle linee come
insiemi infiniti di punti e, analogamente, delle regioni piane come insieme di linee e dei
solidi come insieme di superfici. Egli era convinto che questo metodo, se bene applicato,
non potesse condurre ad errori, ma i fedeli di Archimede sollevano contro di esso
numerose obiezioni. Il più autorevole di tali fedeli fu il gesuita Paolo Guldino, il quale
obiettò che il continuo è senza dubbio divisibile all’infinito, ma non consta di infinite
parti in atto, bensì soltanto in potenza, le quali non possono essere mai esaurite. Emerge
qui la distinzione ( risalente ad Aristotele ) fra infinito in atto ed infinito in potenza, che
avrebbe costituito uno dei temi centrali dei dibattiti intorno al nuovo calcolo.
14
Sulla
linea
di
Cavalieri,
invece,
troviamo
Evangelista
Torricelli ( 16051647 ), fisico e
matematico, il primo
a
misurare
la
pressione
atmosferica. Uno dei
risultati ottenuti da
Torricelli
con
l'applicazione
del
metodo
degli
indivisibili che più
riscosse
l'ammirazione
dei
contemporanei fu il
calcolo del volume
del solido iperbolico,
ottenuto
dalla
rotazione
di
un
iperbole
attorno
all’asse
y.
Tale
problema « degli
aspiranti Geometri,
sembrerebbe
non
solo difficile, ma
addirittura
impossibile
»
Il teorema di Torricelli.
scriveva in un suo
trattato, intitolato Sulla misura della parabola e del solido iperbolico. Continuava così: «
Infatti nelle trattazioni scolastiche di geometria si trovano misure di figure limitate da
ogni parte e [...] nessuno che io sappia ha estensione infinita. E se si propone di
considerare un solido oppure una figura piana infinitamente estesa ciascuno pensa
subito che una figura di questo genere debba essere di grandezza infinita. Eppure esiste
un solido di grandezza infinita ma dotato di una sottigliezza tale che per quanto
prolungato all'infinito non supera la mole di un piccolo cilindro. Esso è il solido
generato
dall'iperbola
[...]»
che
Torricelli
chiama
“solido
iperbolico.
Ed
ecco
il
suo
teorema,
in
cui
fa
uso
degli
indivisibili:
« Il solido acuto iperbolico infinitamente lungo, tagliato con un piano perpendicolare
all'asse, insieme con il cilindro della sua base, è uguale ad un cilindro retto la cui base
sia il lato verso, ovvero l'asse dell'iperbole, e la cui altezza sia uguale al semidiametro
della base del solido acuto. »
Diversi generi di problemi conducevano all’introduzione in matematica dell’infinito ( in
grandezza o in piccolezza ), come lo sviluppo della meccanica. Galileo diede un
contributo decisivo a questo sviluppo, iniziando lo studio sistematico della cinematica.
Sono proprio i concetti più caratteristici della cinematica come quelli di velocità e di
accelerazione che esigono di prendere in considerazione rapporti fra grandezze
infinitamente piccole. In termini moderni: la velocità è il rapporto tra lo spazio percorso
15
da un mobile e l’intervallo di tempo impiegato a percorrerlo quando questo tempo tende
a zero. L’accelerazione è l’analogo rapporto tra la variazione di velocità ed il
corrispondente intervallo di tempo richiesto per tale variazione, quando questo tempo
tende
a
zero.
Altro tipo di problemi fu di natura geometrica, ma non più legato alla determinazione
delle aree e dei volumi bensì a quella delle tangenti. Gli antichi matematici greci avevano
preso in considerazione solo pochi tipi di curve, ideando di volta in volta qualche metodo
particolare per la determinazione delle tangenti alle principali fra esse ( circonferenze,
ellissi
)
.
Nel Seicento la creazione della geometria analitica ad opera di Cartesio e Fermat
condusse ad un radicale ampliamento del concetto di curva e di conseguenza aprì la via
al fondamentale problema della ricerca delle tangenti ad una curva generica.
Mentre le ricerche dirette a determinare tangenti, punti di massimo o di minimo, velocità
istantanee ed accelerazioni istantanee fanno parte del calcolo differenziale, quelle volte a
determinare lunghezze, aree e volumi fanno parte del calcolo integrale. Cosa sono
esattamente
questi
due
tipi
di
calcoli?
Il calcolo differenziale si occupa dello studio delle variazioni delle funzioni a una o più
variabili. Siano x e y due variabili legate dalla relazione y = f(x), dove f è una funzione
che indica in che modo il valore di y (variabile dipendente) dipenda da x (variabile
indipendente). Ad esempio, x potrebbe rappresentare la variabile temporale e y lo spazio
percorso
da
un
corpo
in
moto
nel
tempo
x.
Il calcolo integrale, invece, riguarda l'integrazione, cioè l'operazione inversa rispetto alla
differenziazione. Data una funzione f, lo scopo dell'integrazione è trovare una funzione F
la cui derivata sia f, cioè F¢ = f; la funzione F si dice integrale, o primitiva di f. Questo
calcolo serve appunto a determinare aree e volumi di figura o solido geometrici costituiti
da
qualsiasi
tipo
di
curva.
I due calcoli trassero origine da problemi notevolmente diversi, pur caratterizzati tutti
dall’applicazione di procedimenti infiniti. Si trattava ora di individuare il rapporto tra tali
generi di calcolo, il che richiedeva come prima tappa il passaggio dal concetto di “
integrale definito “ di una funzione a quello di “ integrale indefinito “ e di comprendere
poi che questo integrale è una nuova funzione, la cui derivata risulta uguale alla funzione
integranda.
Il merito di avere chiarito questo rapporto spetta a Newton e Leibniz, i quali vennero
considerati gli “ inventori “ dell’analisi infinitesimale, cioè del calcolo differenziale e del
calcolo
integrale.
Isaac Newton ( 1642-1727) elaborò il suo nuovo calcolo, chiamato calcolo delle
flussioni, quando era poco più che ventenne, ma non pubblicò che parecchi anni più tardi
gli scritti dedicati all’esposizione delle proprie idee sull’argomento. Newton enunciò le
principali regole di derivazione e quelle di integrazione, a determinare con esattezza il
legame che intercede fra i due calcoli, ad impostare e risolvere alcune equazioni
differenziali, a farne numerose applicazioni alla geometria ed alla meccanica, ma i
termini con cui si esprimeva mancavano di chiarezza e semplicità.
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Gottfried
Wilhelm
Leibniz ( 1646-1716 )
cominciò ad interessarsi di
analisi infinitesimale nel
1672 e poco dopo ebbe
occasione di entrare in
contatto con l’ambiente dei
matematici inglesi (incluso
lo stesso Newton), contatto
che lo stimolò a proseguire
ed approfondire questo
genere di indagini. Egli
riscoprì da sé il calcolo
infinitesimale,
ma,
a
differenza di Newton, seppe
esprimersi in un linguaggio
più chiaro e maneggevole.
Egli,
infatti,
definì
“derivate”
le
famose
“flussioni” di Newton e “integrali” le “fluenti”, sempre di Newton. Questa su chiarezza e
semplicità non riguardò solamente le denominazioni usate, ma soprattutto l’introduzione
degli indivisibili, che evitavano i lunghi giri di parole e formule di Newton. Con la lettera
d, da leggersi “de”, indicò questi indivisibili dello spazio, o differenziali, enti privi di
estensione. Cerchiamo ora di spiegare a grandi linee come Leibniz utilizzò questi
indivisibili con un esempio. Consideriamo una curva sul piano cartesiano: usando il
calcolo differenziale, la curva viene ottenuta mediante una derivata y = f(x), secondo cui
ad ogni valore sulla retta x, corrisponde un determinato valore della variabile y.
Segnando sul piano tutte le y in funzione delle x, si ottiene appunto questa linea.
Vogliamo ora calcolare la lunghezza di un arco della curva, attraverso il calcolo integrale.
Possiamo considerare quest’arco come la somma di tutti i punti infinitesimali che lo
compongono. Consideriamo ora un punto, o l’indivisibile, sulla retta x e prendiamo il
punto
corrispondente
sull’arco
di
curva.
Immaginiamo di ingrandire quest’ultimo e di ottenere la figura a lato: l’indivisibile della
retta x è compreso tra xo e xo+h, mentre l’indivisibile corrispondente sulla curva è
compreso tra A e B, che chiamiamo ds. Ciò che ci interessa è AB, il quale si trova ad
essere l’ipotenusa di un triangolo rettangolo, i cui cateti sono h, ovvero dx (l’indivisibile
parallelo alla retta x) e k, ovvero dy (l’indivisibile parallelo alla retta y).
Quindi, si applica prima di tutto il teorema
di Pitagora:
ds² = dx² + dy²
Poi si divide tutto per dx²:
ds²/dx² = 1 + dy²/dx²
che è riscrivibile :
(ds/dx) ² = 1 + (dy/dx)²
si estrae ora la radice quadrata di entrambe i
termini:
ds/dx = (1 + (dy/dx)²)^(1/2)
e si porta dx dall’altra parte:
ds = (1 + (dy/dx)²)^(1/2) ·dx
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La lunghezza dell’arco da calcolare si ottiene
con la derivata
Fu proprio Leibniz a determinare il tipo di algebra applicabile ai differenziali, scoprendo
che essa risulta per molti aspetti analoga alla solita algebra valida per le grandezze finite.
E fu lui, inoltre, ad introdurre la notazione . L’indiscutibile successo conseguito dalla
formulazione leibniziana dell’analisi infinitesimale non fu esente da inconvenienti, in
quanto favorì una certa confusione fra l’algebra degli infinitesimi e l’algebra delle
grandezze finite, a tutto danno di una trattazione rigorosa dell’importante argomento.
Solo nell’Ottocento i problemi ad esso connessi vennero notevolmente chiariti con la
dimostrazione che tutta l’analisi infinitesimale classica si fonda sul concetto di limite.
Senz’altro, però, grazie alle importanti scoperte di Newton e Leibniz, il mondo moderno e
contemporaneo si trovò dotato di un nuovo strumento validissimo per lo sviluppo non
solo della matematica, ma di numerosissimi campi scientifici, trovando
un’importantissima praticità ed attualità del calcolo infinitesimale.
Nella prima metà del secolo XIX, Agostino Luigi Cauchy, dopo avere definitivamente
sistemato la teoria dei limiti, definì, in accordo col Mengol, l’infinitesimo come una
grandezza variabile avente per limite lo zero. Così il calcolo differenziale veniva
finalmente a trovare la sua base sicura ed era messo al riparo dagli attacchi che da varie
parti gli erano stati mossi. Precisati i principi, restava da compiersi una revisione
accurata di tutti i procedimenti e di tutte le proposizioni dell’analisi infinitesimale. A
questa opera critica si dedicarono , nella seconda metà del secolo XIX, insigni
matematici tra i quali ricordiamo: Weierstrass, Dedekind, Riemann, Cantor, Heine,
Darboux,
Dini,
Peano.
Il concetto fondamentale su cui poggia tutta l’analisi infinitesimale moderna è quello di
limite e da essi deriva immediatamente quello di infinitesimo. Chiamasi, infatti,
infinitesimo ( secondo le vedute di Mengoli e Cauchy ) ogni variabile numerica tendente
allo zero, cioè ogni variabile che, in valore assoluto, può assumere valori minori di un
numero
positivo
scelto
piccolo
a
piacere.
Collegato al calcolo infinitesimale, procedette a pari passo quello delle serie infinite. La
prima serie infinita comparsa nella storia della matematica è quella celebre del
paradosso di Zenone:
1/2 + 1/4 + 1/8 + … = 1
Questa serie, inoltre, dimostrò di avere 1 come limite, ovvero come somma conclusiva
degli infiniti infinitesimi. Numerose altre serie infinite furono scoperte in epoca
moderna, molte di esse ammisero un limite, come quella di Zenone, altre invece, si
dimostrarono divergenti, come la seguente:
1 + 1/2 + 1/3 + 1/4 + …
che
non
presenta
limite
o
convergenza.
Il matematico svizzero Leonhard Euler ( 1707-1783 ) scrisse in particolare un trattato
intitolato Introductio in analysin infinitorum in cui prese in esame proprio le serie
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infinite convergenti e pose le basi della moderna analisi matematica. Egli scoprì diverse
serie infinite connesse con , eccone alcune:
1/1²
+
1/2²
+
1/3²
1/14 + 1/24 + 1/34 + 1/44 + … = ^4/90
+
1/4²
+
…
=
²/6
Si presentò, però, un interessante paradosso: vale la proprietà commutativa
dell’addizione con queste serie? Ovvero, si ottiene lo stesso risultato se invertiamo
l’ordine degli addendi? Con una serie finita, vale:
2+4+6=6+4+2
Ma con le serie infinite, è stato dimostrato che non è valida questa proprietà.
Scambiando gli addendi in una serie infinita si altera, infatti, il limite a cui tende quella
serie!
Con il XIX secolo, sembrava conclusa
la questione sul concetto d’infinito. Ma
non finì qui. Finora, infatti, l’infinito
attuale non era stato considerato con
tutto rispetto, ma semplicemente come
un numero grandissimo o piccolissimo.
A rivoluzionare la visione d’infinito, fu,
quindi, Gorge Cantor. Egli prese in
considerazione l’infinito nella sua
totalità, ma la vera rivoluzione fu
l’introduzione di ordini di infinito, idea
assolutamente assurda per l’epoca,
poiché fino ad allora si riteneva di non
potersi spingere oltre l’infinito.
Innanzitutto, Cantor confermò il fatto
che un insieme infinito poteva essere
messo in corrispondenza biunivoca con
un suo qualunque sottoinsieme,
concetto già sfiorato, ma lasciato
irrisolto, da altre personalità del
passato come Galilei. Poi definì un
insieme infinito numerabile, se poteva
essere messo in corrispondenza
biunivoca con l’insieme dei numeri
George Cantor
naturali. Prese dapprima in esame
insiemi infiniti cosiddetti discreti,
ovvero con intervalli tra un elemento e l’altro, e li riconobbe numerabili. Sono insiemi
numerabili discreti i numeri pari, i numeri dispari, i quadrati, i numeri primi. Ma nel
1974, dimostrò che anche insiemi infiniti densi, tra i cui elementi, cioè, ne esistono altri,
sono numerabili. È il caso dell’insieme dei numeri razionali, cioè quei numeri esprimibili
con una frazione, ovvero con un rapporto tra numeri interi. Cantor riuscì a trovare un
metodo per ordinare in maniera sistematica tutti i numeri razionali.
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Considerò una tabella in cui dispose tutte le frazioni, ponendo sulla prima riga le frazioni
con denominatore 1, sulla seconda quelle con denominatore 2 e così via.
1/1
2/1
3/1
4/1
5/1
…
1/2
2/2
3/2
4/2
5/2
…
1/3
2/3
3/3
4/3
5/3
…
…
…
…
…
…
…
Cantor pensò ora di ordinarli seguendo il percorso delle frecce all’infinito:
Arrivò così a dedurre che anche un insieme denso come quello dei numeri razionali fosse
numerabile e definì gli insiemi numerabili, insiemi di potenza 0 ( è la prima lettera
dell’alfabeto ebraico e si legge “alef” ).
Ma non tutti gli insiemi infiniti sono numerabili nel modo in cui intendeva Cantor, cioè
ordinando in modo definito gli elementi e ponendoli in rapporto 1:1 con l’insieme dei
numeri naturali.
Tra questi insiemi non numerabili, c’è l’insieme dei numeri reali, formato dai numeri
razionali ed irrazionali. Nel 1972, Richard Dedekind scrisse un trattato sui numeri
irrazionali, Stätigkeit und die irrationale Zahlen, in cui affermò che i numeri razionali, per
quanto siano densi, non costituiscono un continuo, ma ammettono dei “buchi”, che non
sono altro che gli irrazionali, cioè quei numeri non esprimibili con una frazione, come
radice di 2. Cantor si rese conto che esistevano sempre nuovi numeri tra due elementi
dell’insieme reale, infinitamente piccoli. Questo insieme è paragonabile ad una retta
geometrica, in cui tra due punti ne esiste sempre un terzo e che ha, come disse Cantor
stesso, lo stesso numero di punti di un qualsiasi segmento. Definì, quindi, i numeri reali un
vero e proprio continuo numerico, la cui potenza fu espressa con C o con 2^ 0 , maggiore
di 0. Per di più, mentre non ammise infiniti con potenza inferiore a 0, Cantor trovò
infiniti maggiori di C. Arrivò, infatti, a pensare che l’insieme di tutti i sottoinsiemi di un
insieme fosse maggiore dell’insieme di partenza, cosa veritiera per un insieme finito.
Estendendo questa idea agli insiemi infiniti, ed usando un po’ di astrazione della mente,
diede vita a potenze maggiori di C, riconoscendo che il procedimento di considerare
l’insieme di tutti i sotto insiemi potesse essere ripetuto all’infinito. Creò, così, una
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gerarchia di insiemi infiniti, in cui ogni insieme è più numeroso ed ha potenza maggiore
del precedente. Infine, chiamò le potenze ottenute 0, 2^ 0, 2^(2 0), … numeri cardinali
transfiniti ed elaborò una vera e propria aritmetica con questi nuovi numeri, in cui
esistono regole assai strane ed innovative.
Con Cantor sembrò veramente concluso il tentativo di chiarire in assoluto in concetto di
infinito.
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