LA CATTEDRA d i S T O R I A i n n e t w o r k Lezione del prof

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LA CATTEDRA
di STORIA in network
Lezione del prof. ROBERTO MORO
docente di storia delle dottrine politiche
nell'Università degli studi di Milano
Petrarca e la fondazione
del presente
1. Verso le origini
3. L’esperienza della solitudine
5. La novità del presente
2. Antico e moderno
4. La scoperta del presente
6. Solitudine, libertà, dignità
Verso
le
origini
Francesco Petrarca è sicuramente il più noto tra i molti creatori di quella dimensione
umanizzata (umanistica) del tempo sulla quale si fonda il sentimento della modernità. A
lui si deve la celebrazione di quel «segreto conflitto delle proprie passioni» che inaugura
le tensioni della modernità, apre il cammino dell'individuo verso la sfera mondana e
inaugura la riflessione sul presente. Il tempo muta allora nella sua sostanza perché
mobile e attraversato da tempeste violente: specchio di chi lo osserva e produce. Il
tempo petrarchesco riflette ed esalta le ambiguità sulla finitudine e sul destino dell'uomo
moderno. Giunto sulla cima del Monte Ventoso dove il paesaggio dovrebbe rapire i sensi
nella contemplazione della natura, Petrarca rilegge un passo delle Confessioni di
Sant'Agostino: «Gli uomini giungono ad ammirare gli alti monti, i giganteschi flutti del
mare, l'ampio corso dei fiumi, il vasto cerchio dell'oceano e le vie delle stelle. Ma
dimenticano se stessi e restano senza ammirazione davanti a se stessi». E tuttavia nella
riflessione della modernità umanistica la rivalutazione dell'uomo non appare come un
omaggio alla magnificenza del creato: l'osservazione interiore mostra tutta la solitudine e
le difficoltà dell'humanitas. «Ciascuno interroghi se stesso e risponda a se stesso, per
rendersi conto fino a qual punto il suo animo è combattuto internamente da passioni
diverse ed avverse ed è spinto ora qua ora là da impulsi vari ed opposti. Esso non è mai
compiuto, non è mai uno, ma è interamente discorde e dilacerato». Tutto è tensione e
turbamento, «tutto avviene attraverso il contrasto e ciò che chiamiamo evento è in realtà
lotta». Contrasto e lotta che lacerano il tempo profano tra desiderio di mondanità e
concentrazione interiore, passione per l'immortalità tra gli uomini, la gloria, e per
l'immortalità dell'uomo, il sapere, gli studia humanitatis. Ma oltre alla fissazione del
canone umanistico e al programma di ricerca degli studia che fondano il sapere della
modernità, a Petrarca si deve altresì quella nozione di «tempi oscuri» che doveva
dominare a lungo l'interpretazione della civiltà medievale (esasperandosi nel secolo dei
Lumi e della trionfante modernità per affievolirsi solo nel sentimento romantico del XIX
secolo). Un guanto di sfida lanciato al Medioevo cristiano che costituisce il motore stesso
della modernità: il cammino del disincanto ovvero il tentativo di una laicizzazione del
potere divino sulla fondazione e guida del mondo.
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Antico
e
moderno
Petrarca qualificò col termine di «antica» l'epoca anteriore alla conversione di Costantino
e di «moderna» quella che la aveva seguita e segnava ancora il tempo in cui egli stesso
era immerso, il XIV secolo. E questo tempo moderno, Petrarca lo giudicava «barbaro» in
rapporto al primo, avvolto in nembi tenebrosi, mentre laggiù, nel pianeta perduto, il tempo
gli appariva più luminoso, il paesaggio più limpido, la città più civile. Laggiù si riscoprono
le dimensioni perdute della cultura e dell'uomo, laggiù riprendono vita gli uomini illustri,
eroi, condottieri e gli dei di un nuovo Olimpo. Lo studio di questa umanità immaginata e
definitivamente scomparsa, gli «studia humanitates», costituiscono allora l'antidoto al
presente e alla attualità dell'«homo ferus», selvaggio abitatore di un mondo decaduto. La
modernità nasce dunque «al negativo» nella cultura umanistica, e di questo pessimismo,
che è il suo marchio di origine, porta tuttora i segni. Origina come riflesso simultaneo di
uno specchio telescopico che trasmette le immagini e gli impulsi di una quarta
dimensione del tempo: l'immaginario del passato che è tuttavia dialogo col testo:
comunicazione simultanea del presente della cultura con il passato. «Tra le mie attività
mi dedicai singolarmente a conoscere il mondo antico» confessa Petrarca «giacché
questa età presente a me è sempre dispiaciuta, tanto che se l'affetto per i miei cari non
mi indirizzasse diversamente, sempre avrei preferito di essere nato in qualunque altra
età; e questa mi sono sforzato di dimenticarla, sempre inserendomi spiritualmente in
altre». Il segreto di Petrarca e degli umanisti, in fondo, sta tutto qui. Qui sta la loro
alchimia che dobbiamo cercar di svelare: le radici della modernità si confondono con la
capacità di manovrare il tempo, di farne una sostanza appropriata per efficaci
trasferimenti o avventure spirituali. «Frugherò gli eserciti romani», annuncia
nell'intraprendere il suo viaggio verso la temporalità parallela del pianeta perduto,
«perlustrerò il foro ed anche dalle armate legioni, anche dallo strepito forense,
raccoglierò anime pensose e dedite alla contemplazione». L'obiettivo dell'avventura nel
tempo antico altro non è che ritrovare uno specchio di sé e il viaggio dell'autore si
configura subito come un magico cammino delle passioni dal presente al presente. Così
il tempo manovrato dalle emozioni e dalla cultura si addensa, si anima e si separa. Per
effetto dell'imitazione degli antichi l'immaginario del passato diviene non solo il canone
del presente, ma «tempo lavorato» a partire dal presente, e la storia a sua volta diviene
«maestra di vita», perché magica tecnica di divinazione di tempi possibili della cultura e
della politica. Il tempo dell'humanitas non è già più «antico»; piuttosto si configura come il
tempo «vero» (un tempo presente) della rivelazione e della riabilitazione dell'uomo così
che gli umanisti, nel ricercare una sorta di simultaneità culturale tra passato e presente, o
meglio nel loro viaggio dal presente al presente, non furono «semplificatori» della storia,
bensì eccellenti manipolatori del tempo. «Tra presente e passato prossimo, gli umanisti
individuarono una frattura, sicché il primo non è più visto come prolungamento del
secondo, ma come rinnovamento del passato remoto».
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L’esperienza
della
solitudine
Un tempo messo in moto e tale da spiegare le sue evidenti discontinuità nel flusso
lineare: un tempo ciclico, che si ripete e si rigenera, dunque? Sì e no, e forse più no che
sì. Sicuramente dalla manipolazione umanistica del tempo prende il via quel processo
costante di «rinascite e rivoluzioni» che caratterizza la modernità. Tuttavia per taluni
aspetti, o per lo meno dal nostro punto di osservazione, l'espressione e il concetto di
rinascita appaiono fuorvianti. Gli umanisti non riproposero semplicemente il modello
antico, inventarono l'antichità. Essi misero in moto il tempo a partire dal presente e
crearono una nuova mitologia fondativa della cultura europea da un lato (la mitologia
della prima modernità), dall'altro furono sofisticati produttori del tempo nuovo della cultura
e della politica. Questa strada verso la simultaneità sembra dischiudere la pluralità dei
tempi moderni. Spazio e tempo, personale e collettivo, tempo della cultura e tempo della
politica prendono poi forma visibile proprio nella riflessione di Petrarca sulle condizioni
della vita solitaria. Il libro si costruisce a partire da una immaginaria cronologia della
giornata di un uomo di città dedito agli affari e alla vita pubblica rispetto all'uomo dedito a
sé, alla sua cultura, dunque isolato dal mondo e alla ricerca di un tempo «interiore»
(chiamiamolo per ora così poiché la nevrosi che oggi lo caratterizza è un invenzione del
XX secolo). All'apparenza l'opposizione essenziale è (recuperata dal mondo e dalla
letteratura classica) tra città e campagna, società e natura, pubblico e privato,
oppressione e libertà. A considerare il fatto che la città nell'età di Petrarca non supera
generalmente i venti, venticinquemila abitanti nel migliore dei casi (Avignone, Firenze,
Bologna ecc.) si rimarrebbe stupiti se non si conoscessero le condizioni di promiscuità
della vita urbana del XIII secolo. La vita cittadina ha ben pochi spazi privati prima della
seconda metà dell'Ottocento: clientela, domesticità, parentela creano intrecci di
solidarietà, se non oppressive, certo invasive. Oppressa del sentimento della paura e dai
riti di rassicurazione, la vita urbana e rurale del XIII secolo raggiunge densità di
solidarietà del tutto inimmaginabili per chi oggi è costretto a vivere i vuoti affettivi della
realtà metropolitana. Occorre inoltre ricordare che Petrarca scrive il De vita solitaria nel
cuore stesso del più consistente ciclo di paure dell'Occidente: la peste nera del 13441348. Allo stato attuale della ricerca non disponiamo ancora di una psicologia sociale
retrospettiva e neppure la storia delle mentalità e delle emozioni collettive può darci conto
sino in fondo delle tensioni psicologiche che il «nuovo» della società urbana nell'età dei
comuni deve aver suscitato nella coscienze del XIII secolo. La lotta delle fazioni e
l'incrocio tra interessi di gruppi sociali e solidarietà famigliari, il ritmo accelerato dello
sviluppo e le crisi istituzionali endemiche delle città, il privilegio del danaro e il mutarsi dei
valori aristocratici, non solo fanno il canone del sentire politico rinascimentale italiano
(libertà, pace, repubblica contro disordine, ingiustizia, tirannide), ma inducono
sicuramente una inquietudine nelle coscienze e snervano la sostanza stessa di un lento
fluire del tempo. La città della rinascita europea è, nella buona sostanza, una fortezza
assediata dal tempo sciagurato della natura e le sue mura si ergono contro l'imprevisto e
l'incontrollabile di una storia già tutta scritta fino alla sua apocalisse finale. Schiacciato tra
il passato del Libro e il futuro prossimo che annuncia l'inesorabile consumazione, il
quotidiano diviene scialo e si realizza in una socialità densa e vincolante, in una ritualità
dei comportamenti e delle convenzioni che divorano il presente. Il luogo della solitudine e
la ricerca di un tempo non compatibile con la socialità totalizzante della vita civile
costituisce dunque l'uscita di sicurezza da un ciclo sofferente di paure.
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La
scoperta
del
presente
Ma la lezione del De vita solitaria va oltre la ricerca di un luogo della quieta vivibilità, ben
oltre la proposta di una estatica contemplazione della natura; semmai è la ricerca e la
proposta di una società tutta nuova. L'intento dell'autore è quello di ricreare le condizioni
stesse di esistenza dell'uomo «vero» rispetto all'«uomo animale», e il primo altro non è
che il risultato della messa in valore del tempo interiore, il tempo dello studio e della
simultaneità con il mondo lontano e con gli ampi orizzonti del pianeta perduto. Insomma
una riconciliazione col tempo e il potere assoluto di governarlo. La frattura con il tempo
medievale che corre e si consuma in attesa dell'evento finale, con il tempo creato che
volge a quel suo naturale termine che è l'eternità del divino, si realizza nella
contemplazione del presente «osservando il tempo che fugge e desiderando essere lì
dove si vive senza che il tempo scorra e senza paura della morte». L'attenzione al
presente si manifesta allora come speranza di fuga dal passato e dal futuro: «che cosa
potrebbe essere più stolto che trascurare il presente il quale solo ci appartiene? Non
cesserà mai di essere in ansia chi sarà proteso verso il domani: nessun giorno infatti,
eccetto l'ultimo, sarà privo di un domani e nessuno, eccetto il primo, non è stato il domani
di qualche altro giorno». Solo nel presente, così difeso dagli altri e così accessibile all'io,
sembra esservi l'essenza misteriosa del tempo e la celebrazione più alta della vita:
«Osservando il tempo che fugge e desiderando essere lì dove si vive senza che il tempo
scorra» si ottiene infatti «in premio il luminoso crepuscolo non di un giorno soltanto, ma di
una vita intera e la gloria di una vita che non tramonta mai». Che cosa disvela il presente
e la sua sostanza immobile se non l'infinita estensione del tempo stesso e la realtà di un
inesauribile dominio? Il presente non si esaurisce e non conosce età, dunque è al riparo
dalla consumazione e dalla vecchiezza. Le età della vita si confondono allora nel
confronto diretto col tempo, qui e ora, e la vita solitaria offre all'uomo la ragione stessa
della sua umanità: il presente, insomma, è quel tempo che contiene una stilla di eternità.
Più che un tempo privato e personale o soggettivo, il De vita solitaria annuncia un
processo di privatizzazione che dà luogo all'io interiore e quindi trascina con sé un
«tempo interiore» fatto della stessa sostanza dell'esistenza. Si tratta di quella
reinvenzione dell'otium che è tempo della solitudine e della sapienza (quindi della follia e,
diremmo oggi, della nevrosi), tempo dello studio e della «riflessione» capace di offrire lo
specchio nel quale si osserva la natura ignota dell'essere. Già qui, a partire dalle pagine
del Petrarca, la metafora dello specchio che ha accompagnato così a lungo la cultura
medievale, cambia la sua natura e la sua destinazione, perché non riflette più il mondo e
non spiega più l'ordine dell'universo che invade l'osservatore e quasi lo smembra, la
limpida superficie «mostra alla virtù le sue fattezze, al vizio la sua immagine e all'età e al
tempo la sua forma e la sua oppressione». Appare infine il tempo del silenzio e
dell'istantaneo nel quale si coltiva «la nostalgia di un presente immacolato e fluttuante».
E questo è il vero luogo delle origini e della creazione. Qui la cultura dell'Occidente,
facendo perno sulla temporalità del presente, dilata spazio e tempo e offre all'Europa la
rivelazione della modernità.
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La
novità
del
presente
Petrarca, a dire il vero, sembra perdersi nel compiacimento della sua stessa erudizione
che rischia di offuscare il lettore; e tuttavia proprio il dilatarsi del suo pensiero, la
sovrabbondanza della materia, l'enfasi della citazione, l'inseguirsi delle parole che creano
un labirinto di concetti e di percorsi interpretativi, apre la strada alle verità che l'autore
scopre e vuole comunicare. A scorrere le pagine di questo piccolo capolavoro par di
cogliere l'immenso brusio degli autori di ogni tempo, di filosofi e poeti, teologi e moralisti,
santi ed eroi che tutti insieme affluiscono nel testo (e non solo nella memoria), coesistono
e convivono in una contemporaneità che li fa simili e dà loro l'illimitata autorità di una
aristocrazia non soggetta alle alterne fortune. E, a seguire attentamente la penna di
Petrarca, pare altresì di cogliere la fatica di dar fine al tempo della scrittura, di porre un
freno all'invasione di questi interlocutori, delle loro opere e di uno sterminato universo di
segni e pensieri, così come se il fluire di questo solitario dialogo non dovesse finire mai.
Si avverte insomma un senso di rivincita e quasi di gioco, una volontà di padroneggiare il
tempo e la speranza di una vittoria finale oltre ogni suo confine. Può apparire chiaro
allora che il presente ricercato dall'uomo solitario è l'accesso a un tempo nuovo e si
materializza in una socialità che è quella della cultura, in una nuova società che è quella
del dotto. Si può avvertire un insieme di relazioni altrettanto dense, vincolanti e
possessive come quelle che animano la vita civile. Perché appunto l'obiettivo palese
della riflessione del De vita solitaria non è quello di promuovere la solitudine ascetica
dell'eremita affetto da misantropia («non sono così inumano da odiare gli uomini»), ma è
la celebrazione di un tempo nuovo rispetto a quello già divorato dalla ritualità artificiosa
del mondo. «I luoghi appartati e deserti e il silenzio non mi piacciono tanto quanto la
libertà di disporre serenamente del proprio tempo» e la vita solitaria «si fonda sulla
libertà» proprio perché è ricerca di un contatto nuovo e vincente col tempo e di un patto
tra l'uomo e la sua cultura («gli studi liberali, la scoperta di cose nuove, il ricordo delle
antiche») per la fondazione di un potere tutto umano. Il «massimo potere» consiste,
secondo Petrarca, nel predisporre l'animo al governo del tempo, cosicché, «memore del
passato e del futuro», il vero uomo possa specchiarsi nel presente e nella sua umanità.
In questa simultaneità di riflessi tra il testo e la cultura, tra una alterità di segni del
passato e il presente individuale, la modernità celebra il mito delle sue origini e
materializza l'illusione e l'angoscia di governare il tempo. L'ingresso nella modernità è
dunque segnato da una lotta titanica dell'uomo occidentale con la temporalità, lotta che
pare concludersi oltre i confini della modernità stessa nell'ambizione dichiarata di
realizzare una «cultura del presente». Forse la data di inizio di questa epopea può
essere collocata a metà del XIV secolo proprio quando Petrarca, incapace di accettare il
patto stipulato dal sentire medievale con la temporalità, «compiange lo spazio e il tempo qui e ora - insieme al proprio destino di straniero al «qui» e all'«ora». Il tempo, ignoto
nelle sue stesse leggi, è per lui nemico, «principio di consumazione» e segno della
«costituzionale labilità dell'essere»; è un predatore che gli sottrae forze, idee, sapere di
giorno in giorno. E così la ricerca di solitudine va letta come esigenza di una separatezza
dal tempo lineare della rivelazione cristiana o come la necessità di una temporalità
parallela, di un rifugio oltre l'orrore della storia imposta all'uomo e le molestie di una
civiltà prigioniera di tempi disumani. Contro il rumore del mondo, non più il silenzio, ma la
voce degli uomini e la speranza di un idillio in cui il tempo è una sorta di eterno presente
e lo spazio, limitato «da un abete, un faggio, un pino tra l'erba verde e 'l bel monte
vicino», è più simile a un giardino di delizie che al vasto mondo insidioso. Insomma la
salvazione e il paradiso sono qui e ora. Questa eternità-Eden dell'io posto, dall'umanista,
di fronte alla contemplazione di sé, diviene una nuova dimensione del sacro; diviene il
tempio divino dell'humanitas, ponte gettato verso il luogo delle origini e il mito della
creazione.
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Solitudine,
libertà,
dignità
La solitudine dunque come nuova sostanza del tempo in grado di materializzare il
presente; «la solitudine» si può infine concludere «non era per Petrarca monastico ritiro
in barbaro isolamento, ma iniziazione a una società più vera, a una charitas affettiva».
Appropriandosi del presente come tempo di costruzione della cultura, l'humanitas
costruisce quell'individuo che non è più «fuori dal mondo» perché in relazione diretta con
Dio, ma «nel mondo» e in grado dunque di trasformarlo a sua immagine e somiglianza.
Non è più ospite della città terrena, il vir virtutis diviene il fondamento dell'antropologia
politica della modernità che vuole l'uomo creatore della socialità e della polis.
Probabilmente l'umanesimo civile comincia proprio qui, tra le pagine del De vita solitaria,
perché nella cultura umanistica e nell'insegnamento di Petrarca la solitudine, che non è
fuga dal mondo, è reinvezione del mondo, costruzione di una socialità nuova fondata sul
presente, su chi «vive l'oggi per vivere domani il domani». Così incoronato il presente
offre agli umanisti l'accesso a una nuova dimensione della temporalità. La novità del
presente consiste in una sorta di sovranità sulla temporalità pura (non più deperibile e
mortale), dischiude il giardino dell'Eden se solo si conoscano i segni magici che ne
consentono l'accesso. In virtù di questo patto con un tempo umano, sempre a portata
dell'esperienza, la socialità può continuamente rinascere. Territorio della liberazione e
non più terra promessa, il presente è uno specchio della possibilità e un luogo concreto
in cui la possibilità diventa realtà. Dimessi i cenci o i panni costrittivi di una cultura
manipolata della memoria diffusa e dell'opinione comune che è, nel lessico dell'autore,
«plebe», «volgo» e volgarità, tempo debole, affrettato e sciupato, l'umanista, come farà
Machiavelli, può vestire la toga curiale e ridare ordine al mondo. «Per questa ragione»
invoca Petrarca «la nostra immaginazione si costruisca un luogo appartato tra la folla, in
viaggio, persino durante i banchetti». Vincens ingenio fortunam: «sconfiggo così la sorte
con l'immaginazione; di questo genere di rimedio mi sono sinora servito spesso e, poiché
il futuro è sempre incerto, non so se dovrà servirmene ancora». Oggi, osservato
attraverso il filtro della solitudine petrarchesca («santa, semplice, incorrotta e davvero la
più pura di tutte le cose umane»), il presente degli umanisti ci appare più che mai come il
tempo della cultura, degli studi e dell'ozio, del silenzioso rapporto con la scrittura e col
testo, quindi della ricerca interiore di identità. Esso diviene il luogo di affermazione della
individualità e di liberazione dell'immaginazione creatrice. Un tempo della cultura, certo,
ma anche della politica e del potere. Il presente, luogo umano per eccellenza, consente
infatti di materializzare il gioco di specchi della coscienza di fronte a se stessa che dà
origine alla volontà di sapere per dominare il mondo, ricrearlo, farlo rinascere. Tempo
della cultura e tempo della politica si confondono allora, e per questo fin dal suo lontano
big bang sapere e potere contraggono una alleanza che accompagna il corso della
modernità. Già nel suo atto di nascita il «tempo moderno» porta in sé la speranza e il
disincanto di un potere assoluto, esclusivo, onnivoro, sempre presente eppure
irrimediabilmente perduto.
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