il periodo della resistenza

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IL PERIODO DELLA
RESISTENZA
CON PARTICOLARE RIFERIMENTO ALL’ITALIA
E ALCUNI ASPETTI DEL SECONDO DOPOGUERRA
di
PAOLO FRANCHI
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PRESENTAZIONE
Questo lavoro prende in esame un movimento storico della Seconda guerra
mondiale: la Resistenza. Ho scelto questo argomento perchè ha visto protagonista
la Val Taro e perchè ha segnato per la nostra Nazione l’inizio dell’istituzione
repubblicana e la nascita di una costituzione democratica.
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La Resistenza italiana
I "quarantacinque giorni" di Badoglio.
La caduta del regime fascista e l'armistizio (25 luglio e 8 settembre 1943) aprirono per l'Italia un
periodo difficile e drammatico, ma anche ricco di significato e di nuove prospettive civili e
politiche. Dopo vent’anni di regime dittatoriale, il Paese si trovava di fronte al compito di
determinare il proprio futuro. La destituzione di Mussolini a opera del re e delle gerarchie del
regime fascista rispondeva a una logica precisa: impedire che la Corona e l'intero Stato venissero
travolti nel crollo del fascismo. “Il fascismo - scrive lo storico Paul Ginsborg - invece di essere
rovesciato da una rivolta popolare, veniva distrutto da un colpo di stato dall'alto che
preservava il predominio e la libertà d'azione dei tradizionali gruppi dirigenti della società
italiana.” La monarchia e l'esercito avrebbero dovuto rappresentare la continuità delle
istituzioni: per questa ragione il governo era stato affidato al maresciallo Pietro Badoglio, che dal
1919 aveva ricoperto i massimi incarichi militari. Non a caso, nei 45 giorni che intercorsero tra
il 25 luglio e l'8 settembre 1943 Badoglio represse con estrema durezza ogni manifestazione
popolare di carattere politico, provocando 93 morti e diverse centinaia di feriti. Mantenere
l'ordine interno fu la principale preoccupazione del governo Badoglio, che, dopo avere
proclamato “La guerra continua. L'Italia manterrà fede alla parola data”, trattava segretamente
l’armistizio con gli Alleati. Nel frattempo, le divisioni tedesche di Rommel entravano in Italia,
occupandone il territorio, secondo un piano già abbozzato nel mese di maggio. La stessa fuga di
Vittorio Emanuele e di Badoglio a Brindisi ebbe il significato politico di preservare la continuità
dello stato, nella figura del re: con questa decisione, peraltro, Roma e tutta la parte centrosettentrionale del Paese vennero abbandonate nelle mani dell'ex alleato.
La Scelta
“Mezza Italia è tedesca, mezza è inglese e non c'è più un’Italia italiana”, si legge nel diario di
Lino dei primi partigiani, alla data del 9 settembre 1943. Nello sfascio generale del Paese, nello
sbandamento dell'esercito, nella completa latitanza delle istituzioni molti si trovarono di fronte
alla necessità di compiere una scelta fra la rassegnazione e la volontà di agire per un ideale di
riscatto personale e collettivo. Da questa scelta nacque la Resistenza italiana. L'esercito,
lasciato senza ordini dopo l'armistizio, si dissolse, e nella sua disgregazione si rifletteva quella
del Paese. Il Comando supremo lasciò ai comandanti libertà “di assumere nei confronti dei
tedeschi quell'atteggiamento che apparirà meglio adeguato alla situazione”, proibendo nel
contempo di prendere “iniziativa di atti ostili contro i germanici”. Intere divisioni capitolarono
senza colpo ferire: i tedeschi fecero 393000 prigionieri nei Balcani e 415000 in Italia. I 5-6000
soldati italiani che opposero resistenza ai tedeschi nei Balcani e nell'Egeo furono uccisi in
battaglia e molti altri dopo la resa (5170 uomini furono fucilati a Cefalonia). Circa 700000
militari furono internati in Germania e in Polonia a lavorare per il Reich. Molti soldati gettarono
armi e divise e cercarono di tornare a casa; altri ancora presero la via della montagna. “I soldati
che attraversavano l'Italia affamati e seminudi - scrive Giaime Pintor, un partigiano caduto
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nel 1943 - volevano soprattutto tornare a casa, non sentire più parlare di guerra e di
fatiche. Erano un popolo vinto: ma portavano dentro il germe di un'oscura ripresa: il
senso delle offese inflitte e subìte, il disgusto per l'ingiustizia in cui erano vissuti.” Oltre che
dai soldati, le prime bande partigiane furono formate da militanti antifascisti, da intellettuali,
operai compromessi con gli scioperi, da giovani che volevano sfuggire all'arruolamento
nell'esercito della repubblica di Salò. Le file a poco a poco si ingrossarono e dai 9000 partigiani
combattenti di fine 1943 si arrivò agli oltre 200000 della primavera 1945.
I diversi aspetti della Resistenza
La Resistenza italiana fu un fenomeno complesso, al cui interno, secondo lo storico Claudio
Pavone, convissero e si intrecciarono tre tipi di conflitto: una guerra patriottica, condotta per la
liberazione del Paese dall'occupazione tedesca; una guerra civile, che oppose partigiani e fascisti
della repubblica di Salò; una guerra di classe, che legava l'obiettivo della lotta contro il
nazifascismo alla rivoluzione sociale. Vi era nel movimento partigiano una grande eterogeneità
di provenienza sociale e di appartenenza politica. Borghesi, contadini, operai, intellettuali,
militari, studenti maturarono nella lotta diverse aspirazioni, esperienze, motivazioni. Taluni vi
videro la realizzazione di un ideale di libertà universale; altri la militanza in favore di un
principio cristiano di dignità e di fratellanza; altri l'ideale patriottico ( Documenti n°1), una
volontà di "risorgere a nazione", che si poneva in continuità con il Risorgimento; altri ancora il
primo passo verso la costruzione di un ordine sociale e politico più giusto. Molto spesso diverse
motivazioni si mescolavano nella stessa persona. Ma al di sotto di queste differenze - che pure
ebbero il loro peso - viveva un'aspirazione comune: un desiderio di riscatto, di autonomia, di
libertà di scelta dopo un lungo periodo in cui avevano dominato la forzata passività, l'apatia,
l'indifferenza verso una realtà in cui ogni cosa era già decisa e determinata dall'alto (Documenti
n°2). Non si trattò comunque di un'adesione facile o indolore: la partecipazione alla Resistenza scrive lo storico Guido Quazza – “si configurava come la condizione in se stessa drammatica
dell'uomo che in prima persona, senza il riparo e lo "scarico" di un'autorità superiore,
deve decidere di fronte al dubbio, inevitabilmente tormentoso, sull’opportunità o meno di
agire”.
Documenti n°1
La scrittrice Natalia Ginzburg scrisse:
“Le strade e le piazze delle città diventarono i luoghi che era necessario difendere. Le parole
"patria" e "Italia", che ci avevano tanto nauseato fra le pareti della scuola perché sempre
accompagnate dall'aggettivo "fascista". Eravamo là per difendere la patria e la patria e ognuno
era pronto a perdere se stesso e la propria vita”.
Documenti n°2
Lo scrittore Giacomo Ulivi scrisse:
“...il più terribile, credetemi, risultato di un'opera di diseducazione ventennale, di diseducazione
o di educazione negativa che martellando per vent’anni da ogni lato è riuscita a inchiodare in
molti di noi dei pregiudizi. Ci siamo lasciati strappare di mano tutto da una minoranza
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inadeguata, moralmente e intellettualmente. Questa ci ha depredato, buttato in un'avventura
senza fine. Il brutto è che le parole e gli atti di quella minoranza hanno intaccato la mentalità di
molti di noi”.
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Le diverse anime del Cln
Nell'estate del 1943 si erano venuti riorganizzando anche i partiti antifascisti: il partito liberale, il
Psiup (Partito socialista di unità proletaria), la Democrazia cristiana (fondata nel 1942 dall'uomo
politico trentino Alcide De Gasperi, 1881-1954), il Partito d'azione (erede del movimento
antifascista Giustizia e Libertà fondato a Parigi nel 1929 da Carlo Rosselli), e il Partito
comunista. All'indomani dell'8 settembre, questi partiti diedero vita a Roma al Comitato di
liberazione nazionale (Cln), presieduto dal socialista riformista Ivanoe Bonomi (18731951),
con il compito di organizzare la resistenza contro i nazifascisti e, in prospettiva, di assumere la
guida politica del paese. Di questi partiti, solo i comunisti e gli azionisti avevano mantenuto in
vita una struttura organizzativa clandestina durante il regime, cosa che garantiva loro un
maggiore radicamento sociale, soprattutto presso gli operai del nord (i comunisti) e presso i ceti
intellettuali e professionali (gli azionisti). Il Cln trovava la sua unità nel rifiuto del fascismo e
del nazismo, ma esprimeva al suo interno diversi orientamenti politici. Mentre i liberali,
espressione tradizionale della borghesia italiana, pensavano a un
sostanziale ritorno allo stato prefascista (una volta chiusa la
"parentesi" del fascismo, come ebbe a definirla Benedetto Croce), i
partiti della sinistra (comunisti, socialisti e azionisti) interpretavano la
lotta contro il nazifascismo come il primo momento di un grande
processo popolare che portasse a una profonda trasformazione della
società e dello stato. I comunisti e i socialisti si riferivano, seppure
con accenti diversi, alla tradizione teorica del marxismo e del movimento socialista, mentre gli
azionisti si proponevano di “fondare una nuova democrazia, basata su ampie autonomie
locali e, pur accettando il sistema capitalistico, intendevano correggerne gli squilibri e le
ingiustizie” (Ginsborg). Quanto alla Democrazia cristiana, essa raccoglieva uomini ed eredità
del Partito popolare, collocandosi nel solco del pensiero sociale cattolico, fatto di solidarismo e
di interclassismo ma contrario a profondi rivolgimenti sociali e politici. Il ruolo e il peso della
Dc, assai ridotti nei primi tempi della Resistenza, vennero progressivamente crescendo grazie
all'appoggio del Vaticano e al radicamento sociale assicuratole dall'Azione cattolica e da due
nuove organizzazioni fondate nel 1944, la Coldiretti (associazione cattolica dei coltivatori
proprietari) e le Acli, l'associazione cattolica dei lavoratori italiani. Le differenze politiche tra i
partiti antifascisti ebbero già il loro peso durante la lotta di Resistenza, ma si manifestarono
appieno, come vedremo, negli anni immediatamente successivi alla liberazione.
L'Italia divisa: il Regno del sud
Nell'ottobre 1943, quando la linea del fronte (linea Gustav) si fissò a Cassino (ove sarebbe
rimasta fino al maggio 1944) la penisola risultava divisa in due parti, militarmente e
politicamente. Nella parte meridionale, controllata dagli Alleati, era stato ricostituito il Regno
del sud, sotto il sovrano Vittorio Emanuele III. Nella parte centro-settentrionale, occupata dai
tedeschi, Mussolini, come sappiamo, aveva fondato un nuovo stato fascista, la Repubblica
sociale italiana. Questa divisione del Paese caratterizzò profondamente la situazione italiana nei
due anni successivi, lasciando una pesante ipoteca anche sugli sviluppi politici del dopoguerra.
In sostanza, nella parte meridionale, una vera e propria lotta alla liberazione non ebbe luogo.
Napoli insorse alla fine del settembre 1943, per reazione al programma di distruzioni attuato dai
tedeschi in ritirata e ai rastrellamenti di manodopera; numerosi furono gli episodi di guerriglia
contro i tedeschi in molte città e a Roma: è da ricordare il massacro delle Fosse ardeatine (24
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marzo 1944), cioè l'uccisione di 335 prigionieri italiani operata dai nazisti come rappresaglia per
un attentato partigiano che era costato la vita a 32 militari tedeschi. Tuttavia un movimento
organizzato non fu costituito: la stessa Roma fu liberata dagli Alleati. Questi ultimi, dopo essere
rimasti a lungo bloccati dai tedeschi ad Anzio e aver tentato inutilmente di sfondare la linea
Gustav (in questo contesto avvenne la distruzione dell'abbazia di Montecassino, erroneamente
ritenuta sede di truppe tedesche), solo nella primavera riuscirono ad avanzare verso nord e a
entrare nella Capitale (giugno 1944). La monarchia, la burocrazia dello stato e gli Alleati
garantirono nel Sud una sostanziale continuità istituzionale e politica. Churchill non aveva mai
nascosto la propria ammirazione per Mussolini, l'uomo che, a suo giudizio, aveva salvato il
popolo italiano dal bolscevismo.. E anche ora, si mostrava preoccupato soprattutto di garantire
un'evoluzione in senso moderato della situazione italiana, non riconoscendo alcuna autorità al
Cln e appoggiando invece il re e Badoglio. D'altro canto, la debolezza politica del Cln era molto
grave: privi di una base sociale di consenso e di una legittimazione
effettiva da parte degli Alleati, che di fatto determinavano la politica
del Regno del Sud, i partiti antifascisti stentavano ad accreditarsi
come forza dirigente. Vi era inoltre una netta spaccatura fra il Cln e il
sovrano sulla questione istituzionale: mentre i partiti del Cln
esigevano l'allontanamento del re, cui attribuivano gravi
responsabilità nella salita al potere del fascismo e nelle successive
tragiche vicende, Vittorio Emanuele III rifiutava di mettere in discussione il proprio ruolo
istituzionale. La situazione politica mutò nella primavera del 1944 con il rientro in Italia
dall'Urss del segretario del Partito comunista, Palmiro Togliatti (1893-1964). Giunto a Salerno,
dove aveva sede in quel momento il governo, egli convinse il suo partito e le altre forze politiche
del Cln (con l’eccezione del Partito d'azione) ad accantonare la "pregiudiziale repubblicana",
cioè a entrare nel governo Badoglio rinviando la decisione sul destino della monarchia a
liberazione avvenuta. Questa decisione di Togliatti, in cui pesò certamente l'orientamento di
politica internazionale seguito in quella fase dall'Urss (che aveva riconosciuto il governo
Badoglio), privilegiava l'obbiettivo della liberazione del Paese rispetto a qualunque altro: a tal
fine occorreva dare al Cln l'autorità politica per guidare in modo unitario la lotta di liberazione.
“Ricordarsi sempre - scrisse Togliatti ai quadri del partito nel giugno 1994 - che l'insurrezione
che noi vogliamo non ha lo scopo di imporre trasformazioni sociali e politiche in senso
socialista o comunista, ma ha come scopo la liberazione nazionale e la distruzione del
fascismo. Tutti gli altri problemi saranno risolti dal popolo, domani, una volta liberata
l'Italia tutta, attraverso una libera consultazione popolare e l'elezione di un'Assemblea
costituente”. Con la cosiddetta "svolta di Salerno" la questione istituzionale venne così
momentaneamente accantonata: Vittorio Emanuele III accettò di trasferire provvisoriamente i
suoi poteri al figlio Umberto, che nel giugno 1944 assunse la carica di luogotenente generale del
Regno. La soluzione del problema di quale forma di stato dare all'Italia, se monarchica o
repubblicana, venne demandata a un futuro giudizio popolare.
L'occupazione tedesca
La condizione di "alleato-occupato", secondo la definizione dello storico Lutz Klinkhammer,
rese particolare la situazione dell'Italia in rapporto alla Germania. Dal punto di vista tedesco,
l'Italia aveva importanza strategica, come punto di resistenza nei confronti degli anglo-americani
e come immenso serbatoio di manodopera per l’economia di guerra. Scartati diversi progetti di
trasferimento delle industrie italiane più importanti in Germania, per difficoltà soprattutto legate
ai trasporti, prevalse l’ipotesi di far funzionare l'apparato produttivo italiano in funzione degli
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interessi tedeschi e di drenare forza-lavoro. Per ottenere tale risultato mezzi puramente coercitivi
- quali la militarizzazione delle fabbriche o le deportazioni di massa - non erano adeguati, vuoi
per insufficienza di militari da destinare allo scopo, vuoi per lo status di governo alleato che la
repubblica di Salò formalmente possedeva. In altri termini, non si poteva fare in Italia come in
Polonia e in Russia. Per tali ragioni, l'ambasciatore plenipotenziario del Reich in Italia, Rudolph
Rahn, impostò una linea politica finalizzata a ottenere la collaborazione delle istituzioni italiane e
a influire sull’opinione pubblica attraverso la stampa e la propaganda.
Il governo collaborazionista di Salò
Di fatto anche se il plenipotenziario Hitler si preoccupò di non destituire di ogni autorità il
governo della Repubblica sociale, quest'ultimo risultò del tutto dipendente dall'occupante.
Regolati i conti con i "traditori" del 25 luglio (il processo ai membri del Gran Consiglio che
avevano votato contro Mussolini condusse a morte, tra gli altri, anche Galeazzo Ciano, genero
del duce), Mussolini tentò di accreditare la Rsi come una pagina nuova della storia italiana: uno
stato repubblicano e "sociale", fondato sulla socializzazione delle imprese (la partecipazione
degli operai alla gestione e alla proprietà azionaria delle imprese). Ma il programma della
socializzazione non decollò mai, incontrando l'opposizione degli operai, degli imprenditori e
degli stessi tedeschi. L'autonomia del nuovo stato fascista fai scarsissima: un'istanza di controllo
tedesca vigilava su ogni struttura amministrativa e militare italiana. Tuttavia - scrive
Klinkhammer - l'impotenza del governo di Mussolini “non deve indurre erroneamente a
sottovalutare né la sua capacità repressiva nei confronti della popolazione italiana, né la
possibilità di ottenere atteggiamenti disposti alla collaborazione, opportunità entrambe che
i tedeschi ottennero grazie all'esistenza del gruppo dirigente facente capo a Mussolini, che
fu trasformato in un organo esecutivo”. La "strategia della collaborazione" seguita da Rahn
registrò un certo successo presso la burocrazia e il ceto
imprenditoriale, molti esponenti del quale collaborarono con
l'occupante anche con l'obiettivo di salvare le loro aziende; ebbe esiti
molto modesti a livello popolare, per le tragedie che il nazifascismo
aveva portato e per quelle che ancora portava: rastrellamenti,
violenze, massacri, tanto che l'ambizioso programma di reclutamento
di manodopera volontaria per la Germania fallì totalmente e la massa
di lavoratori per il Reich fu costituita in gran parte di internati militari e di deportati in seguito a
rastrellamenti antipartigiani. E le chiamate di leva nell'esercito di Salò, benché la renitenza fosse
punita con la pena di morte, ebbero come effetto principale quello di ingrossare le file delle
formazioni partigiane. Quanto alla repressione, i fascisti della Guardia nazionale, delle Brigate
nere e delle SS italiane affiancarono attivamente i tedeschi nella lotta contro i partigiani, ivi
compresi molti dei veri e propri massacri di popolazione civile che l'accompagnarono.
La Resistenza nell’Italia settentrionale
Nell'Italia occupata la Resistenza ebbe i caratteri di guerra di liberazione, condotta da un
comando militare unificato, il Corpo volontari della libertà (Cvl), riconosciuto dagli Alleati e
dal governo di Roma. Vari fattori concorsero a determinare questa diversità rispetto alla parte
meridionale del Paese: la necessità di lottare contro l'occupante straniero e i suoi alleati fascisti
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per affrettare la liberazione (contrariamente alle previsioni iniziali, l'avanzata degli Alleati si
rivelava infatti estremamente lenta e difficoltosa, anche perché il fronte italiano, dopo lo sbarco
in Normandia, aveva assunto un ruolo secondario); la presenza di una classe operaia che aveva
ritrovato forza e compattezza, sostenuta dalla rete organizzativa del Partito comunista (nel marzo
1944 ebbe luogo un grande sciopero generale, l'unico effettuato in Europa sotto la dominazione
nazista). Va detto infine che nel Clnai (il Cln dell'alta Italia, che aveva la direzione politica della
lotta di liberazione) risultarono minoritarie le posizioni dell'attendismo, che sostenevano la
necessità di "attendere" la liberazione del Paese da parte degli Alleati, onde risparmiare
distruzioni e vittime. La maggior parte degli antifascisti ritenne necessario intensificare la lotta
armata, per ragioni militari ma soprattutto politiche: combattere per la liberazione del proprio
paese significava ricercare un riscatto civile e morale e porre le premesse per una società nuova.
All'inizio le bande, ancora molto disorganizzate, agivano prevalentemente in montagna con
imboscate ai nazifascisti (Documenti n° 3); nelle città i Gap (Gruppi di azione patriottica)
eseguivano lo stesso genere di azioni di guerriglia. Solo nella primavera del 1944 si passò a
forme di inquadramento più rigoroso, con unità che raggruppavano diverse centinaia di uomini e
si impegnavano in azioni più vaste e articolate. Le formazioni più numerose e combattive erano
quelle comuniste (brigate Garibaldi) e quelle azioniste (brigate Giustizia e Libertà). Minore peso
avevano le formazioni socialiste (brigate Matteotti), democristiane, indipendenti e monarchicobadogliane.
Dalla metà del 1944, con il rafforzarsi del movimento partigiano,
l'azione repressiva condotta dai nazifascisti conobbe una drammatica
escalatíon (Documenti n° 4 ); soprattutto l'Appennino tosco-emiliano
alle spalle della "linea gotica" - la nuova linea del fronte dopo la
caduta di Roma e della Toscana - fu teatro di una "controguerriglia"
che si estese alla popolazione civile con rappresaglie feroci, perché per dirla con le parole di un capo di stato maggiore tedesco «rappresaglie adeguate influiscono senz'altro sul morale delle bande, le quali a loro volta temono
le reazioni della popolazione civile». Essere sospettati di aiuto ai "banditi" significava rischiare
la deportazione in Germania o la morte: il massacro più efferato fai quello di Marzabotto, in
Emilia, dove fra il 29 settembre e il 5 ottobre 1944, le SS di Reder sterminarono 1836 persone.
Va inoltre ricordato che i tedeschi imposero anche nell'Italia centro-settentrionale
l’intensificazione della persecuzione contro gli ebrei: del resto, il programma della Rsi definiva
gli ebrei come “l'appartenenti a una nazionalità nemica". Circa 7000 ebrei italiani furono
deportati nei campi di sterminio.
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Documenti n° 3
Le azioni compiute dai valorosi combattenti della Divisione “Centocroci”
4.3.1944
- Le armi possedute dal primo gruppo messo insieme a Groppo agli ordini dei
Fratelli Beretta, consentirono di armare una squadra di otto uomini, tutti veterani di guerra, sui
più disparati fronti, e nel cuore della notte si portano sotto la caserma di Centocroci, difesa da 22
militi armati e riforniti di ogni ben di Dio. Preceduti dalla voce popolare che i “ribelli” sono
ormai numerosi e decisi, quando sgrana la prima raffica di mitra e i colpi dei fucili, compresi
quelli da caccia, e le poche bombe a mano, e le munizioni ormai scarseggiano, all'intimazione di
resa, l'intero presidio si consegna agli sparuti attaccanti, cui non sembra vero di fare un bottino
tanto cospicuo. La sera dello stesso giorno, verso le 22, all'Albergo Alpino si incontrano il
gruppo vittorioso con gli uomini di Richetto (una trentina) che si erano dislocati dalle parti di
Varese, Caranza e Ranghe, alle condizioni che il comandante Gino Cacchioli e vice Richetto.
18.3.1944
- Nella vicina frazione di Caranza, sul versante Ligure, due militi, noti per le
persecuzioni effettuate nei confronti dei giovani di leva renitenti, e delle minacce alle famiglie,
sono catturati e fucilati, dopo sommario processo.
23.3.1944
- I 70 uomini dei due distaccamenti di Setterone (comandati da Aldo c da Elio)
ricevono le ultime raccomandazioni da Richetto e poi divisi su due colonne investono il paesino
di Alpe: 15 uomini con Richetto hanno per obiettivo l'attacco alla caserma, mentre gli altri
avrebbero presidiato il paese e le vie di accesso a protezione da ogni possibile sorpresa. Richetto
entra decisamente e subito si arrende il comandante del presidio affidato a Leone al piano terra.
Senza perder tempo salgono la scala e con una raffica sulla porta fanno decidere gli occupanti ad
arrendersi. Però al piano terra il rumore della raffica genera l'equivoco di soccorsi in arrivo ai
militi e il sergente prigioniero si getta addosso a Leone che lo fredda.
24.3.1944
- La X Flottiglia MAS rinforzata da reparti fascisti, complessivamente 1.500
uomini, effettua un rastrellamento nella zona del passo di Centocroci. Il gruppo partigiano, che
conta ormai 82 unità, apre il fuoco per oltre 4 ore dalle postazioni dislocate strategicamente sui
poggi dominanti l'arteria su cui è facile il tiro a bersaglio: decine di morti e feriti (le cifre non
sono accertate) e nessuna perdita fra i patrioti, quando, finite le munizioni si ritirano
ordinatamente.
9.4.1944
- Secondo rastrellamento in forza (2.000?) di nazi-fascisti limitato alla zona del m.
Gottero, Valle del Gotra, Centocroci. Arrivata la notizia al comando, il gruppo si sposta
ordinatamente verso il m. Penna. Purtroppo 2 partigiani catturati a Montegroppo vengono
fucilati sul Centocroci e 2 presi a Chiusola subiscono la stessa sorte.
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Documenti n° 4
Le azioni compiute dai valorosi combattenti della Divisione “Centocroci”
11.6.1944
- Occupata la stazione ferroviaria di Ostia P.se, è minato il ponte parabolico in
ferro sub Taro.
11-12-13-14-15.6.1944 - Vengono portate a termine azioni intese a preparare l'occupazione
militare completa dell'alta Val Taro con la collaborazione degli altri reparti dislocati nella zona, e
infine viene annientato il presidio nazi-fascista della stazione ferroviaria di Borgotaro.
23.6.1944
- La sera precedente i distaccamenti di Aldo e di Didòn hanno raggiunto
Centocroci e saliti sull'autocarro s'avviano verso Varese, accompagnati da un osservatore di
riguardo: Rosetta Solari, della 1° Julia, venuta appositamente per rendersi conto della consistenza
del “valore” leggendario della Centocroci. Lasciato l'automezzo Richetto con un gruppo
raggiunge il centro del paese (gli è costantemente al flanco Rosetta) e investe la caserma, mentre
Aldo si tiene sulla parte opposta: intanto il maresciallo comandante la guarnigione, avvertito di
ciò che sta per accadere perchè fedele collaboratore, lascia il reparto; sarà fucilato più tardi a
Bardi essendo caduto nelle mani dei tedeschi.
Due mitragliatrici sparano sulle finestre superiori, ma è impossibile avvicinarsi di più perchè il
presidio dispone di numerose bombe, che lancia senza tregua. Aldo, ordinato un fuoco di
copertura, dopo aver superato una rete di recinzione raggiunge la scaletta esterna che dà sul
primo piano e, sfondata la porta, fa irruzione: esterrefatti i difensori si arrendono. Nello stesso
momento gli uomini di Richetto riescono a lanciare una “ballerina” che fa tremare tutto l'edificio
e la guarnigione si arrende. Avviati su ordine del comandante Beretta al passo di Centocroci,
sono in parte riconosciuti appartenenti a presidi eliminati e con l'ordine di ritornare a casa, perciò
sono passati per le armi. Caricato il bottino e avuto sentore dell'arrivo dei rinforzi dalla vicina
Sestri, viene fatto saltare il ponte e alcuni reparti si schierano in posizione idonea per far fronte
alle eventualità; in effetti i rinforzi sono respinti e per diverso tempo non si faranno più vivi nella
zona.
30.6.1944
- Una colonna tedesca della “Feldgendarmerie” forte di oltre 150 uomini,
trasportati su 12 automezzi, parte da Berceto con I'intenzione evidente di tastare il polso della
difesa partigiana che alla periferia di Borgotaro I'attacca.
Temendo il peggio il comandante decide di ritornare immediatamente alla base, cautelandosi con
una ventina di ostaggi civili. Velocemente i comandi partigiani organizzano una spedizione con
tutti gli automezzi disponibili; gli uomini della Centocroci sono fra i primi, e bloccano i tedeschi
sul torrente Manubiola, dove il ponte fatto precedentemente saltare sulla provinciale costringe il
dirottamento su Ghiare e a risalire sulla strada; una perdita di tempo preziosa per i partigiani che
prendono posizione con le armi automatiche e li inchiodano sulla strada. Dopo due ore di
combattimento i nazisti si arrendono lasciando catturare 80 prigionieri, 12 morti, numerosi feriti
e ingente bottino, fra cui 2 mitragliatrici da 20 mm e una stazione radio. Nelle file della
Resistenza si contano due morti, alcuni ostaggi uccisi e diversi feriti.
30.6.1944
- Partiti nel cuore della notte da Centocroci, all'alba i distaccamenti di Aldo e di
Didòn sono attorno all'abitato di Borsa nelle cui- case sono disseminati i tedeschi del presidio;
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Aldo decide di portarsi verso monte con I'intesa che Didòn si apposti nella parte bassa lungo il
fiume Vara. Appena sono fatte fuori le sentinelle che passeggiavano sulla strada, comincia la
battaglia che terminerà dieci ore dopo, quando nessun tedesco è più in grado di sparare.
Fatti sloggiare casa per casa, l'ultima resistenza si polarizza in una vecchia fabbrica al limite del
paese: qui una postazione di mitragliatrice impedisce ai partigiani di avvicinarsi. Aldo scende
lungo un canaletto e si porta sotto il terrazzo da cui partono le raffiche micidiali senza che
I'autore si scopra: eliminate questa, dal presidio non si ha più nessuna reazione. 40 morti e 15
feriti scaricati da un autocarro davanti alla farmacia del paese perchè si provveda a medicarli,
dopo le prime cure del medico partigiano, per la verità studente in medicina Sartori; 5 feriti fra i
partigiani completano il pesante bilancio di vite umane di questo scontro, conclusosi senza
prigionieri, ma con un consistente bottino di armi e munizioni. A Borsa (Liguria) il
distaccamento comandato da Aldo attacca il presidio tedesco forte di 56 uomini e lo annienta.
Si lamentano 12 feriti. Bottino pesante.
8-9-10-11.7.1944 - Già dal giorno 8, Fortunin della Brigata Bill ha subito un attacco da parte di
forze tedesche provenienti da Chiavari e ha chiesto rinforzi. Parte Richetto con 40 uomini su un
autocarro tedesco e raggiunge il Passo del Bocco. Dopo qualche ora di combattimento sul passo,
ferito il Piacentino, si ripiega su S. Maria e si invita inutilmente la popolazione a porsi in salvo:
si decide quindi di retrocedere a Pelosa, dove nel frattempo è arrivato Siligato. Richetto non
perde tempo e va personalmente a chiamare gli altri, che si schierano e si preparano ad
accogliere degnamente il nemico.
Dopo una violenta battaglia ingaggiata da posizione di vantaggio, i tedeschi caduti nella sacca
hanno perso una ventina di uomini, numerosi feriti e in 70 depongono le armi: pochi riescono a
sottrarsi dal campo di battaglia nascondendosi fra i cespugli del greto e a far ritorno. Il giorno
successive si riprendono i combattimenti col nemico. Aldo, comandante di compagnia, ha al suo
fianco Richetto, sempre presente nei momenti importanti, e scarica raffiche micidiali sul nastro
della strada. La canna della mitragliatrice, una '37, rovente e un bossolo l'ha inceppata.
Riesce con fatica a inserire la canna di ricambio e innesta il caricatore nuovo passatogli
dall'armiere <<Parma>>; sta puntando l'arma sul bersaglio quando arriva una precisa infilata di
colpi della 20 mm: un proiettile centra e spezza il caricature e fa esplodere le cartucce in un nero
polverone che tinge e sfigura il volto dei presenti; sarebbe bastato uno spostamento di pochi
centimetri per farli fuori tutti. Anche il nuovo <<assaggio>> della Resistenza partigiana è stato
convincente circa la volontà di lotta dei combattenti che difendono la riconquistata libertà. Ma
ormai le truppe destinate al più grande rastrellamento si sono schierate e il giorno 15 iniziano
l'operazione a vasto raggio attaccando la Vallata da tutte le parti contemporaneamente.
Evidentemente hanno atteso di completare l'aggiramento per agganciare i patrioti e farli scendere
in campo aperto con la scusa di difendere un territorio preciso e così valersi della superiorità di
numero e di armamento.
La notte è trascorsa come al solito nelle cascine e nelle casupole del monte Ventaro1a a qualche,
Km dalla gola di Pelosa; i 70 uomini si sono rifocillati coi rifornimenti arrivati puntualmente
corme sempre a tutti i reparti della Centocroci e alle prime luci dell'alba la compagnia prende
posizione a semicerchio sulle alture: all'estremità a valle il distaccamento Didòn e all'altra Aldo
col distaccamento comando. Intanto a Richetto sono arrivate le notizie dei cedimenti dei
capisaldi delle altre zone attorno alla vallata, ma non le propaga agli uomini per non influenzare
il loro morale. Verso le 10 la solita colonna in marcia sulla strada si affaccia alla curva
dell'osteria, accolta dallo scroscio delle automatiche individuali. Fa eco immediatamente la
reazione della colonna di copertura che è salita silenziosamente a monte e Aldo riesce appena in
tempo a far ripiegare le postazioni rimaste allo scoperto: ormai i tedeschi hanno imparato la
lezione dei giorni precedenti e hanno mandato pattuglie di protezione ai due lati. Lentamente le
squadre arretrano con ordine, combattendo; le munizioni cominciano a scarseggiare (è la piaga
12
congenita delle forze della Resistenza!) e bisogna limitare il volume di fuoco; è evidente che
ormai i tedeschi passeranno; la staffetta che riporta le notizie da Lucchetti, dipendente
dell'azienda elettrica C.I.E.L.I., collegata telefonicamente su un vasto raggio, recava i messaggi
relativi alla situazione precipitata e disastrosa di Sesta Godano, Borgotaro, Lozzola, Albareto,
Bedonia: è finito il sogno della libera Repubblica del Taro, stotto l'imperversare di uno dei più
vasti rastrellamenti operati dai tedeschi con la divisioni Goering, la Monterosa e le brigate nere.
Richetto, pensando al significato dei prigionieri del campo di concentramento di Compiano,
come materia di scambio, per evitare più funeste conseguenze, raggiunge Guglielmo Beretta,
Fontana Gino, Parmigiani e Mezzetta e con una vettura scendono precipitosamente a valle, ma
sono bloccati a Campi da dove assistono allo spettacolo della colonna dei prigionieri liberati: si
perde anche una residua possibilità contrattuale coi nazisti ora più forti che mai.
17.7.1944
- I tedeschi sono ritornati puntualmente e questa volta hanno parlamentato con chi
di dovere, al corrente che i prigionieri erano stati notte tempo trasferiti a Zeri e si sono fissati i
termini della consegna e dello scambio avvenuto regolarmente, seppure con qualche
trepidazione, a Montegroppo con I'intervento del parroco .Don Romeo e della sig.na Gotelli, che
portava il bracciale della Croce Rossa Internazionale. Contemporaneamente ad Albareto si
gettavano le basi per un accordo coi tedeschi: i partigiani lasceranno libera la viabilità e come
contropartita loro si impegnano a non molestare la popolazione civile e a far rispettare la tregua
anche alle truppe italiane loro alleate.
L'accordo viene siglato a Fornovo, nella sede del Comando germanico di Ramiola, dove, con una
vettura messa a disposizione dai tedeschi, si sono recati: Guglielmo Beretta, Bertè e Fontana.
6.8.1944
- Di primo mattino arriva a Montegroppo una macchina del servizio pubblico (A.
Pesci di Borgotaro) recante Don Checchi di Bedonia, con un messaggio del colonnello tedesco
per Richetto e la minaccia di passare la valle a ferro e a fuoco per non aver mantenuto i patti
firmati il mese prima. Al bivio di Gotra avviene l'incontro col comandante tedesco cui Richetto
chiariva le circostanze che hanno portato alla battaglia del m. Scassella, con le responsabilità
precise di chi ha rotto la tregua; viene fissato un appuntamento per il giorno successive
nell'osteria Lanzarotti di Gotra. Richetto si presenta accompagnato da un paio di distaccamenti
in pieno assetto di guerra e i tedeschi osservano ammirati e sbigottiti alla vista dei reparti
perfettamente equipaggiati (sono ormai lontani i tempi in cui i combattenti della Resistenza
portavano una foggia banditesca estemporanea e variopinta), sollevano il bicchiere invitando al
brindisi hitleriano, mentre Richetto con foga inneggia all'ltalia e a Badoglio.
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Il duro inverno 1944
La Resistenza italiana conobbe momenti di alta partecipazione popolare, ma anche altri di
isolamento politico nei confronti del governo di Roma e degli Alleati. L'atteggiamento di questi
ultimi mirava a sostenere la lotta partigiana nelle retrovie tedesche, evitando nel contempo che essa
assumesse eccessiva importanza politica: “la strategia alleata nei confronti della Resistenza - ha
scritto lo storico Ginsborg - era quella di minimizzarne il ruolo politico per quanto possibile, e
di non consentirne in alcun modo iniziative incontrollabili”. Gli Alleati, e in particolare gli
inglesi, temevano che, a liberazione avvenuta, si avviassero processi rivoluzionari o si instaurassero
forme di potere capaci di mettere in discussione i tradizionali equilibri
sociali e politici italiani: come annotò Harold MacMillan nel suo diario,
il 17 novembre 1944, “come al solito il problema di questi Comitati di
liberazione nazionale e di questi movimenti partigiani sta nel
prevenire che si tramutino in forza meramente rivoluzionaria e
politica, invece che restare una forza militare”. Per questa ragione gli
Alleati si rifiutarono di riconoscere il Clnai quale governo legittimo e
autonomo dei territori liberati e subordinarono la concessione di aiuti ai partigiani alla garanzia,
data dal Clnai con i “protocolli di Roma" del dicembre 1944, che al momento della liberazione il
potere sarebbe stato trasmesso all'amministrazione alleata e le armi sarebbero state riconsegnate.
Il proclama Alexander
In questo contesto si colloca anche il famoso proclama Alexander, che nel novembre 1944 inferse
un duro colpo alla lotta partigiana. Nei mesi precedenti quest'ultima era cresciuta di intensità.
Firenze si era liberata con una insurrezione (agosto 1944) e in alcune località erano state create
libere repubbliche: nelle Langhe, a Montefiorino, nell'Ossola, nella valli di Lanzo, nel Monferrato,
in Carnia. La liberazione sembrava imminente: i partigiani erano pronti a collaborare con gli
Alleati nello sforzo finale. A questo punto, però, l'avanzata si arrestò e il generale Alexander,
comandante in capo delle forze alleate, lanciò ai partigiani un proclama che sostanzialmente li
invitava a rimanere sulla difensiva, escludendo ulteriori offensive sino alla primavera. Nel
movimento partigiano, che interpretò il messaggio come un invito alla smobilitazione, si aprì una
profonda crisi morale e politica: ripresero fiato le posizioni attendiste, mentre le forze tedesche del
generale Kesserling iniziarono una violenta controffensiva antipartigiana. L'invito di Alexander fu
respinto e la guerra di liberazione continuò, ma in difficili condizioni di isolamento politico e di
difficoltà materiali, aggravate dal durissimo inverno 1944-45 (Documenti n° 5).
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Documenti n° 5
Le azioni compiute dai valorosi combattenti della Divisione “Centocroci”
23.9.1944
- Dal Passo della Cappelletta una colonna di alpini si avvia verso Montegroppo
recando in testa una vistosa bandiera bianca e con intenti presumibilmente pacifici, senza
sparare. La II Compagnia, al comando di Aldo, è appostata verso Pian di Scala, mentre un
distaccamento della III ha preso posizione sul m. Bertolla con un mortaio; verso la colonna
fascista si muove Aldo con una squadra. Tutto sembrava procedere verso una resa importante,
quando, vicino a Montegroppo la pattuglia di testa lancia un razzo di segnalazione e dalla
Cappelletta l'artiglieria apre il fuoco sulla postazione del m. Bertolla, ingenuamente scoperta e al
terzo colpo in rapida successione, la centra in pieno: gravemente ferito rimane Castagnoli che
morirà più tardi, Varese ferito a una gamba e Osvaldo prende una scheggia nella spalla. Lo
spettacolo raccapricciante si para agli occhi di Richetto accorso subito con una squadra e non
resta che trasportare ad Albareto i feriti. Svanita la sorpresa da effettuarsi con la scusa della
bandiera bianca, la reazione dei patrioti si fa violenta: la colonna, fatta segno a un nutrito fuoco
da tutti i lati, ritorna sui suoi passi. Le perdite sono state purtroppo pesanti in rapporto all'entità
dei mezzi impiegati in altre occasioni.
ottobre-novembre. 1944 - Il comando Unico Parmense e la I Divisione Liguria hanno
provveduto a delimitare il territorio su cui effettuare azioni di guerriglia, ad eecezione delle
strade nazionali della Cisa e dell'Aurelia, verso le quali settimanalmente si effettuavano azioni di
disturbo per rendere precario il traffico delle truppe tedesche dirette al fronte. E' un periodo di
riorganizzazione e di preparazione per assecondare a breve scadenza l'azione massiccia che gli
alleati stanno per sferrare.
Anzi è stato annunciato l'arrivo di un contingente di paracadutisti che si sarebbero lanciati in una
Località già contrassegnata da vistosi obrelloni colorati, di lanci precedenti, e disposti secondo
una sequenza cromatica convenzionale.
Ma poi è arrivato un contrordine da parte del generate Alexander; per di più si ha notizia di
ammassamenti di forze in tutte le direzioni, che fanno presagire abbastanza vicino un
rastrellamento.
29.12.1944 - Verso sera arriva al comando una telefonata che segnala lo spostamento da
Chiavari della Divisione Monterosa che pare dapprima diretta al passo del Bocco e poi in effetti
a Varese.
Dato l'allarme, il grosso si sposta e prende posizione sul crinale, fra Centocroci e la Cappelletta,
mentre reparti agili di manovra si schierano sulle immediate vicinanze del fondo-valle, invitando
a fare altrettanto la Coduri per bloccare gli alpini già arrivati a Scurtabò e chiuderli in una morsa
da cui sarebbe stato difficile avere scampo. Pare che una spia abbia fatto convincere gli alpini a
dirottare su Sanega, dove è stato sorpreso e annientato il distaccamento Saetta e Virgola. Sul
fare del giorno Richetto cambia schieramento, sempre sulle alture e chiede rinforzi a
Montegroppo, ma gli alpini, costretti sotto il fuoco dei mortai, prendono la direzione del Passo
del Bocco, inseguiti e tallonati fino a Cassego; poi ripiegano verso Bedonia e proseguono fino a
Borgotaro, costantemente punzecchiati da sporadici attacchi, spesso violenti, a Tornolo e a
Campi. Anzi la colonna prosegue nei suoi spostamenti, ma l'iniziativa è costantemente nelle
mani dei partigiani della Centocroci, che non riescono per la terza volta a concordare un
intervento di altre formazioni per chiudere loro ogni possibilità di salvezza.
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14.1.1945
- Richetto riceve un messaggio da Gordon Lett che gli comunica che una missione
alleata arrivata appositamente attraverso il fronte per una delicata operazione di salvataggio, ha
bisogno dell'appoggio di un reparto partigiano particolarmente efficiente e lo indica in quello di
Nino Siligato, il quale, affetto da itterizia chiede e ottiene un cavallo e si mette in marcia dalla
base a Cascinette di Varese, passa a Zeri e raggiunge, con 80 uomini, la Lunigiana dove lo
attendono e la missione va felicemente in porto. Con pochi sta riposando a Còdolo, quando, in
seguito a una segnalazione di spionaggio, vengono attaccati. Con lui muoiono 14 russi e il loro
sacrificio consente agli altri di porsi in salvo. Verrà decorato con medaglia d'oro alla memoria.
17.1.1045
- Aldo, alle prime avvisaglie di rastrellamento in Val Taro si era spostato con i
suoi uomini nel versante Ligure, ma visto che il pericolo era maggiore, riattraversano il Gottero
passando da Còstola e Pian di Lago: la neve altissima (diversi metri) costringe a muoversi con
difficoltà; i muli sono abbandonati con i rifornimenti, fatta eccezione per le munizioni. Ogni
tanto qualcuno sprofonda e rimane sepolto, occorre pazienza ma soprattutto fortuna per non
rimanere congelati negli arti, ne sono coinvolti in modo più o meno grave, 300 uomini. Sulla
cima del Gottero le piante sono letteralmente coperte dalla neve. Aldo, con l'esperienza e la
consapevole responsabilità di comandante, rimane in fondo alla colonna per aiutare chi si trova
in'difficoltà: restare indietro poteva significare la fine.
Lui stesso a un Km circa dalle prime case abitate si ferma, manda avanti tutti gli uomini e viene
ricuperato durante la notte con una slitta, ad opera di un anziano contadino che lo porta a casa
propria, lo rifocilla con latte caldo e così si riprende, appena in tempo per l'arrivo, annunciato da
una staffetta, dei mongoli. Si rimette in marcia e per tutta la giornata guida i suoi 140 uomini
attraverso la neve seguendo gli spostamenti dei rastrellatori a distanza ravvicinata e finalmente li
mette in salvo a Pontestrambo, al di fuori della direttrice dei tedeschi.
23-24.1.1945 - Aldo, fattosi giorno scruta col binocolo la strada di Montegroppo su cui sfila la
colonna coi prigionieri, che riconosce uno per uno, diretti a Borgotaro nell'edificio del
dopolavoro. Comincia allora la corsa febbrile alla ricerca dei prigionieri, anche presso altre
formazioni, per effettuare lo scambio, e si riesce a stento a metterne insieme 5. Richetto figura al
2' posto nell'elenco dei prigionieri da scambiare, sotto la mediazione del parroco di Borgotaro
mons. Boiardi, ma il comando tedesco ha già deciso evidentemente di trasferirlo a Piacenza,
dove è ricercato e condannato a morte per aver aperto i cancelli del campo dei prigionieri alleati,
subito dopo 1'8 settembre del '43. Sono invece liberati i 3 commissari politici. (Benedetto,
Renzo, Severino) e due partigiani. I tedeschi non accettano di scambiare due prigionieri fascisti:
i partigiani glieli regalano.
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Insurrezione e liberazione
Questa difficile fase fu tuttavia superata: la lotta venne trasferita in pianura,
rinsaldando i legami con la popolazione delle campagne e intensificando la
guerriglia nelle città. Nonostante la crescente durezza della repressione
nazifascista - deportazioni in massa, fucilazioni - il movimento riprese forza
nella primavera avviandosi verso l'insurrezione. Il 24 aprile 1945 i Clnai,
attraverso un comitato formato dal socialista Sandro Pertini, dal comunista
Emilio Sereni e dall'azionista Leo Valiani, lanciò l'appello all'insurrezione.
Mentre le forze alleate, sfondata la linea gotica, avanzavano nella pianura
padana, la mobilitazione degli operai e il convergere delle brigate sui grandi
centri accelerarono la disfatta dei tedeschi (Documenti n° 6). Tra il 24 e il
26 aprile 1945 si liberarono Genova, Torino e Milano e poi via via tutte le città del Nord. Il
25aprile 1945 è la data ufficiale della liberazione dell'Italia. Si calcola che circa 50000 partigiani
siano caduti nel corso della guerra di liberazione, mentre circa 10000 furono le vittime civili.
Mussolini, caitturato a Dongo, sul lago di Como, mentre probabilmente tentava di sfuggire in
Svizzera, venne fucilato insieme ad altri gerarchi per ordine del Comitato di liberazione. Al loro
arrivo, gli Alleati trovarono le città governate dal Clnai, che avevano assunto tutti i poteri civili e
militari. Si aprì subito il problema del ruolo che le forze politiche protagoniste della Resistenza
avrebbero dovuto esercitare, sul piano locale come su quello nazionale, cioè il problema di quale
sarebbe stato il futuro delle speranze di riscatto e di giustizia che la lotta popolare aveva portato
con sé.
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Documenti n° 6
Le azioni compiute dai valorosi combattenti della Divisione “Centocroci”
23.4.1945
- Dal Comando Unico Parmense arriva l'ordine di assumere il seguente
schieramento, per la battaglia definitiva:
- Raggruppamento Vecchia Centocroci, sulla sinistra Taro di fronte a Fornovo con sede del
comando a Viazzàno, insieme al comando di divisione.
- I Julia, a Soragna per collaborare con altre formazioni a chiudere la strada della ritirata tedesca
verso il Po.
- II Julia e Gruppo Valtaro, nella zona di Berceto con l'intendimento di controllare la strada
nazionale della Cisa.
- La Brigata di polizia, frazionata in distaccamenti, segue i vari reparti.
24.4.1945
- Arriva l'ordine a Tarsogno al comando di Raggruppamento di spostarsi verso
Fornovo, a piedi, con trenta muli. A Bardi i 700 uomini dormono nel castello e il giomo dopo
arrivata la notizia che la guerra è finita, tutti scaricano le armi in aria in segno di gioia e i
comandanti hanno il loro daffare per calmare gli uomini e convincere che a Fornovo, i tedeschi
non si sono ancora arresi. Postisi in marcia a Varsi trovano autocarri coi quali raggiungono
facilmente Pellegrino e in serata arrivano a schierarsi sulla riva del Taro da Rubiano (Barbagatto)
al ponte sul Taro di Fornovo (Siligato).
Verso la mezzanotte arrivano le bordate di sbarramento, a caso, ad opera dei “tigre” parcheggiati
davanti al Municipio di Fornovo.
26.4.1945
- Aldo constata che le postazioni SAP presso le quali aveva schierato i suoi
uomini, nel corso della notte, senza preavviso, sono scomparse. Sul ponte lesionato, transitano
soltanto autocarri leggeri, controllati da una postazione tedesca sistemata dentro una abitazione
(Ia <<casa rossa>>) in posizione dominante su un'altura. Le staffette riportano notizie sulla
consistenza delle truppe ammassate fra Piantonia e Fornovo: risulteranno poi 16 mila unità e
quindi materialmente impossibile pensare ad un attacco intimidatorio; ci si limita a scaramucce
di pattuglie con analoghe tedesche, dopo aver eliminate il presidio della “casa rossa” da cui era
possibile controllare il traffico sul ponte. Frequentemente piccoli gruppi di tedeschi, in
previsione del peggio, si arrendono, mentre sparite unità fasciste si presentano ai partigiani
munite di uno strano lasciapassare fornito, non si sa perchè, da un tipografo fornovese.
27.4.1945
- Nel tardo pomeriggio una delegazione tedesca si affaccia al ponte con una
bandiera alla cui vista i patrioti fanno altrettanto e si incontrano: nel breve colloquio i tedeschi
affermano la volontà di non prendere iniziative belliche se non per difendersi e di arrendersi
soltanto agli alleati. Preso atto di tale atteggiamento Richetto si reca in jeep a Salsomaggiore,
presso il comando brasiliano alleato ed espone la situazione. Ne ritorna col capitano Pittaluga,
italo americano, e nel mulino di Viazzano avviene un ulteriore incontro in presenza di un
colonnello, ma viene ribadito lo stesso proposito: i tedeschi si arrendevano solo agli alleati.
Contemporaneamente risulta che altri incontri si svolgeranno in località del fornovese, con gli
alleati. La delegazione transitando sul ponte, alla sede del generale comandante le truppe
tedesche, nel Municipio, verifica ancora una volta la posizione precedente e mentre quelli della
Centocroci ritornano a piedi, il cap. Pittaluga prosegue con altri le trattative.
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28.4.1945 - Continuano frattanto gli scontri delle pattuglie.
Alle 11 due distaccamenti, quelli di Piero (Siciliano) e di Dario (Castagnoli) prendono
all'insaputa del comando l'iniziativa di attraversare il Taro all'altezza dell'attuale bivio d'inizio
della Fondovalle, e non trovando resistenza si addossano alla scarpata della linea ferroviaria, un
vero <<vallum>> di protezione, oltre il quale si avvertono rumori confusi.
Nell'incoscienza dei vent'anni i due comandanti decidono di tentare l'azione di forza allettati dal
lauto bottino di prigionieri, ma arrivati in piedi fra i binari lo scenario che li attende è di una
dimensione impossibile: migliaia di uomini in armi sono ammassati in un groviglio indescrivibile
di automezzi e cavalli. Fortunatamente i tedeschi non sparano e si genera una mischia fatta coi
fucili usati come clave e appena possono i partigiani, senza subire perdite, si rigettano nel greto
del Taro e guadagnano la base. Soltanto Piero, il siciliano, resta coinvolto e isolato nella rissa,
ma con sangue freddo afferra un maresciallo alle spalle e con la pistola puntata alla nuca lo
costringe a salire su una delle tante autovetture disseminate lungo la strada e a pilotarlo
attraverso il centro e poi il ponte, arrivando fra i commilitoni sbigottiti col prigioniero.
29.4.1945
- L'impegno più grande è quello di costudire gli oltre 600 prigionieri catturati
negli ultimi giorni. A pochi minuti dalla fine delle ostilità, protratte oltre la fine ufficiale del
conflitto, nello scontro fra pattuglie lasciano la vita <<Eugenio>> (Gotelli) di Varese e
<<Isidoro>> (Ravella) di Montegroppo.
Nel pomeriggio arrivano due colonne di brasiliani: una da Collecchio e una da Salsomaggiore
che attraversa il ponte sul Taro e al suo seguito gli uomini della Siligato, mentre la Barbagatto è
rimasta a presidio del ponte. I tedeschi lasciano le armi dappertutto, si arrendono e sono
incolonnati verso il campo di concentramento di Ozzano. A questo punto gli uomini della
Vecchia Centocroci si impegnano in un'opera di risanamento rastrellando gli ordigni pericolosi,
per consentire il rientro ordinato della popolazione. Aldo ha insediato il comando nel municipio
e quello della Divisione Valtaro prende posto poco lontano, provvedendo a sistemare materiale e
prigionieri alle loro destinazioni legali. Fra gli altri prigionieri italiani figurano il colonnello
Vicelli, comandante delle Brigate nere, il dott. Allegri e figlio, il ten. Costi, il comandante Gallo,
tristamente famoso nello spezzino e successivamente fucilato, come criminale di guerra.
30.4.1945
- Completata l'opera di rastrellamento all'interno del perimetro cittadino un reparto
della polizia partigiana viene inviato a presidiare i pozzi di petrolio e la raffineria, fonte di
rifornimento per gli automezzi militari e civili requisiti. L'amministrazione civica viene affidata
a quello che diventerà il primo sindaco della liberazione: Tanzi.
9.5.1945
- Tutti i combattenti della Resistenza conferiscono a Parma per la consegna
ufficiale di quelle armi che sono servite per la conquista delle libertà democratiche suffocate dal
fascismo e per la parata finale nelle strade del capoluogo della provincia. Poi i giovani
montanari fanno ritomo alle loro case e tutti tirano un sospiro di sollievo per una pagina di storia
che loro hanno scritto e il pensiero rivolto agli amici per i quali purtroppo non è mai arrivato il
giorno del tripudio per la vittoria.
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La situazione alla fine della guerra.
Le tre fasi di intervento
Il sistema economico italiano è stato profondamente trasformato dalla « percussione » della guerra.
Mentre la trasformazione in economia di guerra si realizza in una fase di « ascesa » (venendo con
ciò a determinare una situazione di massima pressione sui fattori materiali ed umani della
produzione) diverso è il caso del passaggio dall'economia di guerra a quella di pace.
L'Italia, alla fine della guerra, presentava:
a) una perdita ingente nel patrimonio nazionale.
Valutazioni eseguite da studiosi portano a stabilire che il patrimonio nazionale, stimato nel 1938
in 700 miliardi di lire, era uscito dalla guerra ridotto per distruzioni, danneggiamenti,
asportazioni, logorio, consumo di scorte e riduzione di efficienza produttiva di quasi un terzo,
per un ammontare, in valore corrente, di circa 10.000 miliardi di lire.
Fra i diversi settori, danni maggiori avevano subito:
1) le abitazioni: interamente distrutti 1.740.000 vani, gravemente danneggiati 4.667.000;
valutando a 3.200.000 circa i vani distrutti e, comunque inabitabili, ne conseguiva una
diminuzione di abitazioni, tale da provocare gravissime ripercussioni sociali ed economiche.
2) Il naviglio mercantile: da 3.500.000 tonnellate di stazza lorda era sceso, alla fine della
guerra, a 385.716 tonnellate di stazza lorda, con una perdita del 90%.
3) Le ferrovie: la rete statale aveva sofferto danni per circa un quarto dei binari, il 90 % delle
linee elettrificate, il 56 % delle locomotive, il 67 % dei locomotori, l'85 % degli elettrotreni ed
automotrici.
4) Il settore industriale: stime approssimative facevano salire nel 1946 a 450, miliardi il
complesso di beni distrutti; i settori più colpiti erano stati il
siderurgico, l'elettrico, il cantieristico, il chimico, oltre ai vari
stabilimenti meccanici e metallurgici e, in minori proporzioni, le
altre attività industriali. In via approssimativa, limitando le
valutazioni ai soli impianti ed attrezzature, compresi gli edifici ed
escluse le scorte, si può ritenere che i danni agli impianti produttivi
industriali si siano aggirati intorno al 20% del valore prebellico.
Secondo altre valutazioni, effettuate a cura dei singoli Ministeri,
compatibilmente con le difficoltà che tali accertamenti
comportavano, risultava che l'agricoltura aveva subito un danno
totale di 312 miliardi e le opere pubbliche erano state distrutte per
ben 843 miliardi, valori a prezzi 1945.
b)Una forte diminuzione nelle possibilità produttive. Le possibilità produttive del Paese si
presentavano, alla fine della guerra, inferiori di gran lunga a quelle del periodo prebellico. E ciò
non soltanto in conseguenza delle distruzioni avvenute, ma anche di altri fattori. Nell'industria,
influivano negativamente:
- il deperimento degli impianti, la cui manutenzione nel periodo bellico era stata molto scarsa,
mentre l'usura era stata assai grave;
- l'obsolescenza dei macchinari, che non erano stati rinnovati da oltre un decennio;
- l'esaurimento quasi completo delle scorte di lavorazioni, di cui ci si era serviti in periodo di
grande carenza.
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Tutto ciò, collegato anche alla deficienza delle materie prime (specie carbone), aveva portato ad
una produzione industriale, i cui livelli variavano da un terzo della produzione del 1938
nell'industria mineraria, ad un sesto per le industrie metallurgiche e
meccaniche, ad un decimo per le industrie tessili, chimiche e di
materiali, da costruzione. Nell'agricoltura, i danni indiretti (omessa
conciliazione ed insufficiente rinnovo dei mezzi di produzione), di
eguale se non di maggiore importanza dei danni diretti, non avevano
mancato di influire sulla produzione. Non soltanto l'estensione della
superficie coltivata era inferiore a quella prebellica, ma anche la resa
unitaria aveva sofferto considerevolmente. Di conseguenza, la
produzione agricola nel 1945 si era ridotta a circa il 60% della produzioni prebellica, e quella
cerealicola, così necessaria al sostenimento del paese, si era quasi dimezzata.
c)Una maggiore pressione demografica ed un pericoloso squilibrio nella occupazione operaia. Alla
fine della guerra la popolazione italiana veniva calcolata a 45,7 milioni di abitanti con una
densità per chilometro quadrato molto elevata. L'Italia veniva ad essere uno dei paesi più
densamente popolati, superato soltanto, in Europa, da alcuni Paesi con ben altre possibilità e con
ben altre risorse quali il Belgio, l'Olanda e la Gran Bretagna.
La pressione demografica sul mercato del lavoro, già alta in conseguenza del normale sviluppo
della popolazione, risultava ulteriormente aggravata per effetto:
a) della smobilitazione delle forze armate e del rientro dei prigionieri di guerra;
b) della mancata emigrazione per tutto il periodo bellico;
c) dell'arrivo in Italia di numerosi profughi provenienti dalle vecchie colonie italiane e dai
territori metropolitani perduti.
La situazione portava per se stessa ad un'alta disoccupazione, mentre la ridotta attività produttiva
dava luogo alla cosiddetta « occupazione apparente » di numerosi lavoratori, impiegati soltanto
formalmente, mentre, di fatto, gravavano sulla produzione senza contribuirvi.
Non si hanno statistiche esatte sulla disoccupazione alla fine della guerra: le prime rilevazioni
degli uffici di collocamento risalgono al 1946 e fanno ascendere a due milioni gli iscritti nelle
liste di collocamento.
d)Una notevole diminuzione nelle entrate statali. Queste erano andate paurosamente decrescendo
per effetto della diminuita produzione, per la loro lentezza ad adeguarsi al mutato valore della
moneta e per lo stato di disorganizzazione della amministrazione finanziaria. Nel 1944-45 esse,
infatti, ammontavano a soli 64,6 miliardi e nell'esercizio successivo a 160,2 miliardi contro i 27
miliardi del 1938-39. Quando si pensi che i prezzi erano frattanto aumentati fra 20, e 130 volte,
si rileva come le entrate si fossero in realtà contratte, rispetto all'anteguerra, a circa un decimo
nel 1944-45 ed a circa un quinto nell'esercizio successivo.
I fattori su accennati non avevano mancato di influire sull'apparato produttivo del Paese, che
soffriva, per di più di alcuni gravi problemi di riconversione. In quasi tutti i settori, si faceva
sentire la necessità non soltanto di una trasformazione delle varie attività, dalle esigenze di
guerra in quelle civili, ma anche di nuove qualificazioni di metodi e di tecniche più moderni e
progrediti.
Tutto questo, insieme alle difficoltà di approvvigionamento, alla scarsità di mezzi finanziari, alla
variabilità dei prezzi, aveva avuto l'effetto di fare aumentare fortemente i costi di produzione,
creando la base della spirale inflazionistica prezzi - salari che, per quasi tre anni, doveva tanto
fortemente influire sulla vita economica e sociale del Paese.
Mancano dati statistici certi sull'ammontare del reddito nazionale e sul valore delle risorse
disponibili nell'immediato dopoguerra. Stime attendibili indicano, per il periodo 1941-45 un
reddito nazionale lordo, in lire 1938, di 119 miliardi, e di 148 miliardi per il periodo 1946-50.
21
Tuttavia, dai pochi elementi ricordati, si può desumere quale fosse la situazione italiana alla fine
del 1945 e quanto arduo si presentasse il compito di un risollevamento economico e sociale del
Paese, su cui gravavano, peraltro, vecchie difficoltà di natura strutturale che ne perturbavano
sensibilmente l'equilibrio ed intralciavano l'avvio a un sano processo produttivo.
La Prima fase della Politica postbellica: il pronto, soccorso.
La prima fase della politica economica, che cronologicamente si può collocare, come si è detto, tra
il dicembre 1945 ed il maggi: 1947, ha prevalentemente operato nel senso di combattere gli
elementi negativi congiunturali, ossia gli enormi danni inferti dalla guerra alla agricoltura, alle
industrie, ai trasporti, alle opere pubbliche, all'edilizia illustrati in precedenza. Per l'agricoltura è
stato necessario compiere una vera e propria opera di risanamento delle ferite provocate alla terra
dagli eventi bellici; per l'industria, sostituire il macchinario, distrutto e quello ormai superato per
fenomeni di obsolescenza e dai notevoli progressi tecnici e scientifici realizzati sotto la spinta della
guerra. Per il settore dei trasporti, riparare gli enormi danni riportati dalla
rete stradale e da quella ferroviaria e ricostruire i parchi mobili. Il tipo
iniziale di aiuto è consistito nell'invio di generi di consumo dall'estero.
Quantunque i dati statistici relativi ai primi anni post-bellici presentino
una scarsa attendibilità si può tuttavia rilevare che, nel 1946, le nostre
importazioni sono ammontate ad, oltre 9 milioni di tonnellate, mentre è
aumentato, di fronte all'anteguerra, del 100 % il volume delle importazioni alimentari. L'indirizzo è
continuato nel 1947; in tale anno le importazioni sono salite ad oltre 16,5 milioni di tonnellate e di
esse 2 milioni di tonnellate erano di generi alimentari. In complesso, nei due anni '46-47, circa un
terzo delle nostre importazioni è costituito da prodotti alimentari. Come secondo tipo di aiuto, è
stata, in pari tempo, iniziata la opera di ripristino delle costruzioni materiali nei settori
maggiormente colpiti. L'industria elettrica, nel biennio 1946-47, ha compiuto un grande passo verso
la sua normalizzazione: quasi interamente condotta a termine l'opera di riparazione dei danni bellici,
la potenza installata delle centrali idroelettriche e termoelettriche era, già nel 1947, di 6.489.000 kw.
contro i 6.449.000 del 1942. Viene, poi, quasi del tutto completato il ripristino degli impianti
danneggiati nelle industrie estrattive, nelle industrie automobilistiche e nelle industrie chimiche e
siderurgiche. Nel settore dei trasporti, risultano riparati, alla fine del 1947, il 78 % delle strade
ferrate ed il 45 % dei ponti, il 64 % dei fabbricati di esercizio andati distrutti.
La seconda fase: ricostruzione e stabilità monetaria
Il secondo tempo è caratterizzato dalla stabilità monetaria e finanziaria ed inizia
contemporaneamente alla ripresa produttiva (1947-50). In uno stato di grave pericolo erano venute a
trovarsi, subito dopo la guerra, la moneta e le finanze del Paese; gli anni post-bellici erano
caratterizzati infatti da forti squilibri fra beni e disponibilità di mezzi finanziari, con una spinta
all'aumento della circolazione monetaria e dei prezzi; la spirale prezzi-salari minacciava di portare il
Paese all'inflazione cartacea, impediva la ripresa e la formazione del risparmio privato ed
allontanava, nel contempo, la possibilità di una sana ricostruzione. In base agli istituti legislativi
preesistenti in materia - legge del '26 sulla tutela del risparmio; legge del '36 sulla difesa del
risparmio e la disciplina della funzione creditizia - in una riunione presieduta da Luigi Einaudi,
allora Ministro del Bilancio, fu deciso di dare pratica attuazione a quanto disposto dalla legge del
1926, nel senso che, ove i depositi superassero il ventuplo del patrimonio, l'eccedenza avrebbe
dovuto essere impiegata in titoli di Stato. Si stabilì, pertanto, ai fini di tale disciplina, che la
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percentuale da investirsi o depositarsi non dovesse eccedere, complessivamente, il 25 % dei
depositi, restando utilizzabile per le aziende di credito il residuo 75% delle disponibilità raccolte.
L'adozione di tale misura ebbe una importanza decisiva, dato che, con essa, veniva introdotto il
sistema della riserva bancaria obbligatoria, tipica forma di controllo quantitativo
del credito. L'operatività del provvedimento rivelò così alta efficacia da imporre
alle Banche una sollecita revisione dei «fidi» concessi e da, ripercuotersi
beneficamente sul livello dei prezzi, dato che gli «accaparramenti» non potevano
essere ulteriormente finanziati attraverso eccezionali concessioni di credito. Se
l'opportunità di una politica di difesa della moneta risultava indiscutibile,
ugualmente necessaria si presentava l'azione più specificamente «finanziaria»
tendente a conseguire il pareggio del bilancio. Non poteva evidentemente parlarsi
di raggiungimento di stabilità, se non realizzando, contemporaneamente, una posizione di equilibrio
nelle finanze dello Stato. La riduzione delle spese e l'aumento delle entrate erano gli obiettivi da
raggiungere nel campo della finanza pubblica. In conseguenza della nuova politica, il disavanzo
effettivo si riduceva progressivamente come si deduce dal seguente prospetto:
Esercizio
Disavanzoeffettivo
in milioni di lire
(*)
1945-46
1.130
1946-47
818
1947-48
896
1948-49
526
1949-50
1950-51
363
262
(*) La riduzione in L. I950-51 è stata fatta sulla base degli indici dei prezzi, all'ingrosso dello stesso
anno.
LO SVILUPPO ECONOMICO ITALIANO
Anno
Indice dei prezzi
all'ingrosso
Indice del costo
della vita
1938
1,00
1,00
23
1947
1948
1949
1950
51,59
54,43
51,69
48,97
45,75
48,44
49,15
48,49
Il raggiungimento di questi risultati non sarebbe stato possibile se non si fosse avuta, superato il
periodo del controllo alleato sul nostro commercio con l'estero, la normalizzazione degli scambi
e la ripresa delle esportazioni. Queste ultime che, nel periodo dal 1931 al 1935, avevano coperto
il 78 % delle nostre importazioni, ne assicuravano, nel 1950, la copertura per l'81,3%. L'adesione
del nostro Paese ad ogni iniziativa internazionale diretta a rendere liberi i traffici (Unione
Doganale Italo-francese, Piano Schuman, liberazione degli scambi, Unione Europea dei
Pagamenti, abbassamento delle tariffe doganali) sono la riprova di una linea di politica
commerciale tanto più coraggiosa quanto più cercava di raggiungere il massimo dell'equilibrio
nella bilancia commerciale, senza introdurre restrizioni alle importazioni, nella convinzione che
in un Paese come il nostro, dedicato prevalentemente ad attività trasformatrici, erano in
definitiva le importazioni che finivano per determinare le esportazioni. Queste infatti, da 339
miliardi nel 1947 erano passate a 570 miliardi nel 1948 e a 641 miliardi nel 1949 per raggiungere
i 725 miliardi nel 1950.
La terza fase: politica di sviluppo basata sugli investimenti
Una obiettiva critica nei confronti della polemica a suo tempo suscitata da questa seconda fase di
politica economica porta, quindi, a concludere che non avrebbe potuto essere impostata la terza fase
(politica di sviluppo basata sugli investimenti) se non fossero state
pienamente assicurate le due fondamentali condizioni della difesa del
potere di acquisto e della riduzione del disavanzo del bilancio statale. É
noto, infatti, che in periodo decisamente inflazionistico gli operatori sono
prevalentemente indotti a costituire ingenti scorte di beni reali, anzichè
ad accantonare quote parti di reddito monetario. Il sensibile incremento
segnato dall'ammontare dei depositi fiduciari presso le Banche e
l'espandersi della produzione costituiscono la riprova della funzionalità
dell'indirizzo di politica economica seguito nel periodo testé esaminato. Inoltre, non vanno
sottaciute le numerose esigenze di carattere sociale che militavano a favore del piano antiinfiazionistico messo in atto, dal Governo prima fra tutte quella del conseguente, progressivo
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impoverimento cui sarebbero andate soggette, a causa del fenomeno le classi sociali a più basso
reddito. Nel 1950 possiamo considerare ultimato lo sforzo cui il nostro Paese si sottopose per
completare la ricostruzione dell'apparato produttivo e del sistema economico in generale. Le cifre
dell'aumento del reddito in questo periodo stanno a testimoniare la portata di questa ripresa.
SVILUPPO DEL REDDITO IN ITALIA (11) IN MILIA D
(Moneta espressa in potere d'acquisto costante 195)
Anno
1938
1945
1946
1947
1948
1949
1950
Milioni di lire correnti
137.877
71.509
113.262
128.021
136.623
146.883
156.294
Miliardi di lire 1950
6.787
3.520
5.576
6.302
6.726
7.231
7.694
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I PRIMI PASSI DELL’ITALIA
REPUBBLICANA
Il primo govemo dell'Italia libera presieduto da Ferruccio Parri e rimasto in carica solo pochi mesi,
segui nel dicembre 1945 un nuovo gabinetto di coalizione guidato da Alcide De Gasperi. Il leader
della Democrazia cristiana si propose innanzitutto di "normalizzare" la vita del paese, liquidando gli
organi provvisori di governo costituiti localmente dal CLN e sostituendone i funzionari con prefetti
di nomina governativa. In questo modo, nonostante la presenza del
comunista Togliatti alla Giustizia e del socialista Nerini agli Esteri, la
nuova compagine governativa chiuse definitivamente la prospettiva di un
trasferimento sul piano politico delle suggestioni di radicale
rinnovamento, delle quali il "vento del Nord" resistenziale si era fatto
portatore. Il processo di ricostruzione si avviava del resto nel quadro
degli accordi intervenuti tra i vincitori a Yalta e a Potsdam, che assegnavano l'Italia alla sfera di
influenza occidentale, dominata da modelli politico-economici di matrice liberal capitalista.
Il referendum istituzionale. Per il 2 giugno 1946 vennero indetti contemporaneamente un
referendum popolare per la scelta tra monarchia e repubblica, e consultazioni elettorali per la
formazione di una Assemblea costituente che stilasse la nuova legge fondamentale della nazione, in
sostituzione dello Statuto albertino del 1848. Alle urne si presentarono quasi 25 milioni di italiani
(l'89% degli aventi diritto al voto), che espressero una risicatissima maggioranza favorevole alla
repubblica. Al termine delle lunghe e controverse operazioni di spoglio delle schede, il 12 giugno
De Gasperi assunse le funzioni di capo di Stato provvisorio, mentre il giorno successivo Umberto
11, denunciando irregolarità di voto e per questo ribadendo con un proclama la sua non accettazione
dei risultati, lasciò l'Italia per recarsi in esilio in Portogallo senza abdicare. La repubblica venne
ufficialmente proclamata il 18 giugno; il 25 ebbero inizio i lavori della Costituente, che il 28 giugno
elesse Enrico De Nicola capo provvisorio dello Stato.
La stagione della Costituente. Le elezioni per l'Assemblea costituente avevano individuato
protagonisti fondamentali del nuovo quadro politico italiano la Democrazia cristiana (35,2% del
voti), il Partito socialista (21%) e quello comunista (19%). Abbastanza buono fu il risultato
raggiunto dal Partito liberale (6,8%) e dalla lista dell"'Uomo qualunque" (un movimento
conservatore capeggiato dal giornalista Guglielmo Giannini che si fece interprete delle istanze
piccolo-borghesi di Roma e del Mezzogiorno), mentre il responso delle urne sancì invece la
scomparsa del Partito d'azione. La nuova carta costituzionale fu il frutto del contributo e della
collaborazione delle tre principali scuole di pensiero rappresentate nell'Assemblea (liberale,
cattolica e socialcomunista); non limitandosi a ripristinare le libertà politiche soppresse dal
fascismo, essa piuttosto riconobbe, promosse e garantì i diritti fondamentali della persona così come
delle diverse realtà sociali, rigettando il lascito totalitario del precedente regime. Dichiaratamente
progressista nelle sue formulazione di principio, la Costituzione ottenne l'approvazione di oltre il
90% del membri della costituente, e venne ufficialmente promulgata il 31 dicembre 1947.
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Interventi di razionamento e mercato nero
Illuse da una parte dalla possibilità di dover fronteggiare una guerra breve, consapevoli dall'altra
degli effetti depressivi sul morale della popolazione di cui sarebbero state sicuramente portatrici,
alimentando resistenze e impopolarità crescenti, le autorità fasciste tardarono ad adottare misure di
controllo nella distribuzione di generi alimentari e di prima necessità, che pure presero a
scarseggiare già poco dopo l'abbandono della non-belligeranza. A parte la quasi immediata
introduzione del divieto dell'uso del caffè (interamente d'importazione, e le cui scorte esistenti
furono riservate all'esercito), per il primo studio sistematico sulle
difficoltà degli approvvigionamenti e la messa a punto di un sistema
strutturato di razionamento bisognò attendere il marzo 1941. Da lì
all'estate successiva iniziarono a essere limitate le disponibilità di
zucchero, sapone, grassi alimentari, farina, riso; infine, un decreto legge
stabilì l'entrata in vigore a partire dal I ottobre del razionamento del pane
(in media 250 grammi a testa giornalieri, presto scesi a 200, e dal marzo
1942 a 150, con immediata catena di proteste), seguito di lì a poco da
carne, legumi, olio, formaggi, sale e uova.
Bollini e punti. Ogni categoria di cittadini (divisi per sesso, età e mansione svolta) ricevette una
tessera da riempire con bollini riferiti al genere di beni e alle date d'acquisto: ogni bollino dava
diritto a comperare, entro una certa data e a un prezzo imposto, una quantità prestabilita di un
determinato genere alimentare. Anche ai ristoranti furono imposti menù fissi (da 6 a 32 lire, a
seconda della categoria) con antipasto senza salumi o minestra per primo, carne o uova o salumi per
secondo e frutta o formaggio per finire. Il razionamento si estese anche, col sistema dei "punti", ai
prodotti di abbigliamento tessili, in pelle e in cuoio, e alle calzature. Ogni adulto disponeva di 120
punti all'anno (90 i ragazzi, 72 i bambini), da "spartirsi" tra fazzoletti (3 punti), calze (10) sino ai
cappotti (80 uno tipo-lana). L’inserimento nel pacchetto dei "beni controllati" anche delle sigarette
le rese oggetto di un vorticoso giro di scambi del tutto particolare.
Mercato nero. Quest'ultimo prosperò immediatamente, data l'impossibilità di trovare nel negozi
merce sufficiente a coprire le quote-consumo fissate dalla legge. Solo all'inizio, infatti, i prodotti
delle campagne vennero consegnati agli ammassi governativi organizzati a livello provinciale.
Presto i contadini si resero però conto di quanto fosse molto più conveniente recarsi personalmente
in città per uno scambio diretto in denaro o altra merce, anche a costo di sfidare i controlli della
polizia e una legislazione repressiva formalmente sempre più dura (sino a comminare la pena di
morte per gli accaparratosi), quanto praticamente inefficace. Nonostante le proteste e i mugugni
espressi pubblicamente, erano infatti spesso gli stessi acquirenti a guardarsi bene dal denunciare
quanti procuravano cibo e beni altrimenti introvabili. Ancor più che per i disastri militari in Grecia,
Nord-Africa o Russia, il consenso al regime si sgretolò progressivamente sotto il peso delle
sconfitte da esso maturate sul fronte interno nella lotta al disagi quotidiani della gente e all'esercito
di "borsaneristi" e profittatori, sordi ad ogni retorico richiamo al patriottismo.
ARRANGIARSI: surrogati e autarchia
Già ai tempi dell'impresa d'Etiopia, per far fronte alle sanzioni votate dalla Società delle Nazioni
contro l'Italia, governo e popolo italiano si erano cimentati nell'arte dell'arrangiarsi. Le misure
autarchiche avevano prodotto allora la sostituzione di seta e cotone con il rayon; le giornate
dell’"oro alla patria" e le mobilitazioni popolari per la raccolta di oggetti in ferro da fondere e
destinare alla produzione bellica; il divieto di vendere la carne il martedì, la chiusura di teatri e
cinema alle 23 per risparmiare elettricità, la riduzione della superficie della carta da bollo. Negli
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ultimi mesi di guerra, l'operazione si ripeté più in grande, propagandosi capillarmente nelle strade e
nelle case e interessando ogni aspetto del vivere quotidiano dal vestirsi al cibarsi, al muoversi...
"Ciofeche" e carri comuni. La forzata creatività della gente dovette cimentarsi soprattutto con il
problema del cibo. Nelle città, dopo la messa a coltura di ogni minimo appezzamento di terra
giardino, aiuola o altro - si moltiplicarono le cassette casalinghe per poter
coltivare l'orto sul balcone di casa. Con l'intensificarsi dei
bombardamenti e il peggiorare dei collegamenti con la campagna,
caddero le disposizioni di legge che vietavano di tenere animali in casa:
lo spettacolo di galline, conigli e capre nei condomini perse prestissimo
ogni tratto di stranezza. Infinita fu la varietà di surrogati di uova, latte,
zucchero, farina, per non parlare dell'olio, introvabile e costosissimo;
battaglia persa in partenza quando a scarseggiare era invece il sale. Al centro delle stanze
ricomparvero i bracieri, mentre le stufe presero a bruciare ogni genere di combustibile (comprese
segatura e carta straccia), con risultati per lo più pessimi, accompagnati spesso dalla pericolosa
produzione di gas nocivi. Sul fronte dei piccoli piaceri, indispensabili però a reggere il peso della
giornata, cicoria, orzo, melassa di fichi, granaglie tostate costituirono la variegata collezione di
ingredienti base delle "ciofeche", caffè senza caffè. Prodotti come "Conciatabac" e "Aromtabac"
dovevano invece servire a riutilizzare i mozziconi di sigaretta o a permettere di fumare di tutto
grazie all'applicazione di un vago odore di tabacco. Infine, i trasporti, con il trionfo delle biciclette e
del "motore a energia umana", unico a disposizione della grandissima maggioranza degli italiani.
TRA INFORMAZIONI E SVAGO
Nel 1938, ogni italiano spendeva in media annualmente 2,2 lire in libri (prezzo medio 10 lire;
spopolavano i romanzi erotici di Pitigrilli e i libri gialli della Mondadori); 2,75 lire per andare a
teatro (20 milioni di biglietti, per lo più per spettacoli di varietà); 6 lire in giornali (3 milioni di
quotidiani al giorno); 9,1 lire per il lotto; 15 lire per il cinema (360 milioni di biglietti venduti e una
produzione che passa dai 45 film del 1938 agli 83 del 1940) e 60 lire per il fumo.
NUOVI PARTITI IN CITTA’
Nel marzo 1946, dopo oltre un ventennio, gli italiani tornarono alle urne. Gli elettori di Parma e
provincia vennero chiamati, tra il 10 marzo e il 7 aprile, a scegliere coloro i quali avrebbero retto le
sorti del capoluogo e dei centri minori: con il sistema proporzionale in città e con il maggioritario in
tutti gli altri comuni. Iniziata con la firma di documenti unitari, sottoscritti dai partiti del CLN, che
garantivano l'impegno a un confronto leale, la campagna elettorale venne subito caratterizzata da
aspre polemiche tra i diversi partiti che presero a contendersi anche lo spazio per la propaganda
offerto loro dalla "Gazzetta". Grande "novità" dell'appuntamento elettorale fu il
PCI: le poche centinaia di attivisti degli anni della clandestinità erano diventati
migliaia di tesserati (circa 30000 a fine 1946) e nonostante le difficoltà
organizzativi e la non facile penetrazione nell'ambiente sociale della campagna e
della montagna, il PCI si presentava come un partito in vertiginosa ascesa.
Conquistato il consenso durante il periodo resistenziale con il sacrificio di
moltissimi militanti, il PCI scelse i propri candidati alle amministrative tra i
protagonisti della Resistenza e tra i "quadri" del partito (gli avvocati Savani e
Costa, Giuseppe Isola, Pietro Campanini, Virginio Barbieri, Umberto Ilariuzzi,
Lino Bergamaschi). Figure di altissimo prestigio, come l'ingegner Ferrari (il comandante "Arta"),
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scesero invece in lizza nelle elezioni di giugno per la Costituente. Legati ai comunisti da un sofferto
"patto di unità di azione", i socialisti (raccolti sotto la sigla PSIUP) affrontarono le amministrative
con una precaria organizzazione, nonostante l'importante tradizione che il partito vantava nel
Parmense. Dopo forti momenti di crisi, nel corso del 1944 si era andata affermando la linea
nenniana e una diversa gestione del partito (pilotata da un dirigente "importato", il veneto Giovanni
Mazzaro), che aveva permesso ai socialisti di acquistare posizioni di prestigio in molte istituzioni
politico-economiche, puntando con decisione a estendere la propria influenza nel movimento
cooperativo. In generale il socialismo dimostrò una capacità di penetrazione nel tessuto sociale in
alcuni casi anche superiore a quella comunista. In città, comunque, nonostante il lavoro della nuova
dirigenza, l'immagine del PSI fu rappresentata dalla figura "storica" di Ferdinando Bernini,
professore e uomo di cultura di tradizione riformista, direttore della "Gazzetta di Parma" e
provveditore agli studi dopo la Liberazione (diverrà sottosegretario alla Pubblica Istruzione nel
terzo governo De Gasperi). Alle elezioni amministrative comunisti e socialisti ottennero una
straordinaria affermazione. A Parma il PCI divenne il partito di maggioranza relativa con 25699
voti (36,65% del totale) e 19 seggi. Al secondo posto il PSI, con 20 405 voti (29,09%) e 15 seggi.
Successo netto anche in provincia: in decine di comuni la coalizione social-comunista si aggiudicò
la quasi totalità delle amministrazioni (lasciando alla DC la maggioranza solo a Calestano,
Palanzano, Tornolo, Valmozzola e Varsi). Sull'altro versante, la Democrazia cristiana, partito
giovane ma forte dell'autorità del Partito popolare rappresentato in città dagli onorevoli Micheli e
Corini, raccolse i consensi dell’opinione pubblica moderata e anticomunista. Terzo partito a Parma
città con 18942 voti (27%) e 14 seggi, in provincia si aggiudicò cinque comuni e sfiorò il successo
in altri cinque. A determinare il consenso raccolto e la sua "legittimazione democratica"
contribuirono diversi fatto il prestigio della classe politica espressa dal Parti popolare, avversa al
fascismo e molto attenta realtà socioculturali antiche e svantaggiate, come quelle della montagna; la
coerente attività dì formazione e di "resistenza morale" mai venuta meno negli anni della dittatura
(grazie all'autorità della chiesa e al particolare apporto dell'Azione cattolica e del Movimento
laureati cattolici); l'impegno del clero a fianco della popolazione, accentuatosi dopo l'occupazione
tedesca. Il coinvolgimento democristiano e il contributo dei cattolici alla Resistenza parmense (in
termini di sacrificio personale e di lavoro organizzativo) fu infatti fondamentale, così come l'attività
di personaggi importanti quali l'onorevole Micheli, Febbroni, Michele Valenti, Giuseppe Mori e di
giovani come Renzo Ildebrando Bocchi (morto in Germania alla fine del 1944), Data la consistenza
di PCI, PSIUP e DC, quasi simbolico divenne il peso politico degli altri tre partiti del CLN (PLI,
PRI, Partito d'Azione), esponenti di quell'ambiente intellettuale raccolto intorno al periodico
"L’Uomo libero". Il contributo liberale alla Resistenza (si ricorda il martirio degli studenti Giacomo
Ulivi e Ottavio Ricci) non fu infatti sufficiente a "ringiovanire" una formazione politica che gli
elettori associavano alla vecchia cultura dei notabili giolittiani. Ciò nonostante i liberali, guidati da
Arturo Scotti, elessero al Comune di Parma Tito De Stefano, brillante figura di insegnante e
giornalista, che dopo il 25 aprile condivise (in polemica "coabitazione") con Ferdinando Bernini la
direzione della "Gazzetta di Parma". Entrato a far parte del Consiglio comunale con 411 preferenze,
De Stefano fu di gran lunga il più votato tra i candidati dei partiti minori. In città i repubblicani
furono rappresentati soprattutto da una figura storica di antifascista, il ragionier Alfredo Bottai (zio
del più famoso Giuseppe). Seguito a brevissima distanza, in termini di preferenze, da Umberto
Paganí, Bottai entrò a far parte dell'amministrazione del capoluogo. Il Partito d'Azíone, invece, pur
avendo candidato nomi noti dell'azionismo parmense come gli avvocati Molinari e Miazzi, non
riuscì a far eleggere nessuno del suoi rappresentanti. Il suo esponente più autorevole fu l'avvocato
Aristide Foà, fuggito in Svizzera l'8 settembre per sottrarsi alla persecuzione antiebraica. Foà non si
candidò alle amministrative. Lo spirito battagliero dell'azionismo cittadino continuò comunque a
esprimersi attraverso il periodico "Pagine libere", diretto da Pierluigi Spaggiari (vi collaborarono,
fra gli altri, i giovani Luca Goldoni, Giorgio Torelli, Baldassarre Molossi). Nonostante fosse un
partito "in liquidazione", il Partíto d'Azione diede un importante contributo di uomini e di pensiero
alla sinistra laica e social-comunista.
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MURO CONTRO MURO
Lo scacco più grosso alla campagna elettorale del Fronte popolare giunse comunque in febbraio
dalla crisi di Praga, dove un colpo di stato portò a compimento la
trasformazione dell'ultimo regime pluralista e democratico dell'Est
europeo in una "democrazia popolare" a guida comunista. L’assassinio in
circostanze misteriose del ministro degli Esteri cecoslovacco, il
democratico Masaryk, ebbe un fortissimo impatto popolare, prontamente
sfruttato dalla propaganda centrista.
2 GIUGNO 1946: I PARMIGIANI ALLA COSTITUENTE
Dopo le elezioni primaverili per il rinnovo delle amministrazioni locali, il 2 giugno 1946 il popolo
italiano venne nuovamente chiamato alle urne per eleggere i deputati alla Assemblea Costituente e
per pronunciarsi sull'assetto istituzionale da adottare. Nel XIV Collegio, che comprendeva le
province di Parma, Modena, Reggio Emilia e Piacenza, vennero presentate
sette liste di candidati alla Costituente: Partito comunista italiano, Partito
socialista italiano di unità proletaria, Democrazia cristiana, Fronte dell'uomo
qualunque, Unione democratica nazionale, Partito repubblicano italiano e
Concentrazione democratica repubblicana. La lista del Partito d'Azione fu
dichiarata inammissibile per irregolarità formali e annullata dall'Ufficio
centrale della circoscrizione. La campagna elettorale parmense fu intensa e
vivace: sul palco del Teatro Regio, dal balcone di piazza Garibaldi e nelle
numerose piazze della città e della provincia parlarono i dirigenti locali e nazionali di tutti i partiti
in competizione. La popolazione seguiva con attenzione il dibattito sui periodici e affollava
numerosa i comizi, tanto che spesso era necessario installare altoparlanti fuori dai teatri o nelle
strade adiacenti i luoghi delle manifestazioni. Il 17 maggio un fatto inquietante scosse l'opinione
pubblica: un'ora dopo il comizio di Giuseppe Saragat al Teatro Regio, esplose un ordigno in un
palco. Non vi furono feriti perché il teatro era ormai vuoto ma "l'attentato neofascista" (come titolò
la "Gazzetta di Parma") indusse il CLN, la Prefettura, la Questura, i comandi locali delle Forze
Armate e dei Carabinieri, le segreterie dei partiti e le più importanti associazioni politiche a lanciare
un appello alla cittadinanza affinché forme e metodi della competizione elettorale fossero "moderati
e leali nel rispetto reciproco delle opinioni e delle persone, ricordando che tutte le fedi politiche
debbono liberamente convivere e manifestarsi, portando la Patria a quel benessere di pace che deve
essere nuovamente raggiunto” Al Teatro Regio, il I giugno, una grande manifestazione dei partiti
del fronte repubblicano (PCI, PSI, DC, PRI e CDR) concluse la campagna per il referendum
istituzionale. Durante il comizio l'avvocato Gustavo Ghidini (PSI) ricordò le colpe della monarchia
durante il ventennio fascista. La provincia di Parma votò in maggioranza per la repubblica (160.690
voti, pari al 71,76%, contro 63.225 voti a favore della monarchia, il 28,23%). Qualche sorpresa
diede invece il voto per l'Assemblea Costituente. Il PSIUP, con 73.426 voti (32,03%), risultò essere
il primo partito della provincia, superando la DC di sole 433 preferenze (72.993 voti, 31,84%); al
terzo posto si collocava il PCI (67.651 voti, 29,5 I%); seguivano, con quote nettamente inferiori, le
altre formazioni politiche (PRI: 4887 voti, 2,13%; UDN: 4088, 1,78%; UQ: 4464, 1,94%; CDR:
1677, 0,73%). I comunisti rimasero delusi dal responso delle urne: il ruolo svolto nella lotta
antifascista e nella resistenza partigiana non si era adeguatamente tradotto in consenso elettorale.
Tuttavia il PCI aveva raggiunto considerevoli traguardi: era il primo partito a Parma, con un
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radicamento sociale in tutta la provincia e una struttura organizzativa collaudata, sebbene spesso
percorsa da contrasti e incertezze. Del resto, tutto il panorama politico parmense aveva subito un
profondo cambiamento: solo alcuni uomini, come l'onorevole Giuseppe Micheli, segnavano una
continuità con la vecchia classe politica prefascista. Erano invece scomparse le tradizioni del
sindacalismo rivoluzionario di Corridoni e De Ambris, e del liberalismo moderato agrario di inizio
secolo. Parma fu rappresentata all'Assemblea Costituente da sette eletti: Teresa Noce (candidata
"esterna" al territorio), Giacomo Ferrari e Dante Gorreri per il PCI, Gustavo Ghidini e Ferdinando
Bemini per il PSIUP, Giuseppe Micheli e Michele Valenti per la DC, personalità conosciute e
rispettate dalla popolazione, in grado di rivestire un ruolo di primo piano sulla nuova scena
istituzionale. Nei lavori della Costituente l'avvocato Ghidini, nominato membro della Commissione
dei 75 e presidente della Terza sottocommissione per i rapporti economici, fu uno del "padri" della
carta costituzionale; mentre l'onorevole Micheli si fece apprezzare come vice presidente
dell'Assemblea. Nella direzione del primi govemi repubblicani ricoprirono cariche esecutive Ferrari
(ministro al Trasporti nel II e III Govemo De Gasperi), Micheli (ministro della Marina nel II
Governo De Gasperi) e Bernini (sottosegretario alla Pubblica Istruzione nel III Governo De
Gasperi).
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L’ONU
Subito dopo la fine della seconda guerra, mondiale dalle potenze uscite vittoriose dal conflitto,
mediante l’approvazione della Carta di San Francisco (26 giugno 1945), fu fondata l’ONU:
Organizzazione delle nazioni unite. Il numero degli aderenti all’ONU, che era originariamente di
50, è progressivamente aumentato attraverso l’adesione
dei nuovi stati indipendenti che si sono formati,
soprattutto in Asia ed in Africa, in seguito alla
decolonizzazione. Attualmente aderiscono all’Onu 184
stati, cioè praticamente tutti gli stati del mondo. L’Onu è
quindi un’organizzazione di carattere universale. Essa ha
sede a New York nel famoso “palazzo di vetro”. I suoi
organi principali sono l’assemblea generale, il consiglio
di sicurezza, il segretario generale e la corte di giustizia
internazionale.
L’assemblea generale, che si convoca una volta all’anno, riunisce tutti gli stati membri. Ogni stato
ha diritto ad un voto, in omaggio al principio della parità giuridica tra gli stati. L’assemblea
generale ha il potere di adottare, a maggioranza, risoluzioni di qualsiasi argomento di carattere
internazionale.
Ma il potere effettivo, cioè il potere di decidere concreti interventi, è riservato al consiglio di
sicurezza che è un organo formato da 15 stati membri, di cui 10 sono eletti ogni 2 anni
dall’assemblea generale e 5 sono membri permanenti; questi ultimi sono gli USA, la Russia (che ha
preso il posto dell’Urss), la Francia, la Gran Bretagna e la Cina. Ciascuno dei 5 membri permanenti
ha diritto di veto su ogni decisione del consiglio di sicurezza, può cioè impedire qualsiasi
intervento. Questa regola riconosce pertanto formalmente la superiorità delle grandi potenze:
qualsiasi iniziativa dell’Onu che sia in contrasto con gli interessi di una di esse, può essere fermata
attraverso l’esercizio del diritto di veto (come del resto è spesso avvenuto).
Il segretario generale è eletto dall’assemblea generale su proposta del consiglio di sicurezza e dura
in carica 5 anni. Dirige l’apparato burocratico delle nazioni unite e cura l’esecuzione delle decisioni
nel consiglio di sicurezza.
La corte di giustizia internazionale, composta da 15 giudici nominati per 9 anni dall’assemblea
generale, giudica sulle controversie che insorgono tra gli stati sulla base delle norme di diritto
internazionale. Ha sede all’Aia (Paesi Bassi).
La finalità fondamentale dell’Onu è quella di mantenere la pace e la sicurezza tra le nazioni. Per
raggiungere questo, l’art. 1 dello statuto affida all’Onu il compito:
 di perseguire, con mezzi pacifici, la composizione o la soluzione delle controverse tra gli stati
che potrebbero portare alla violazione della pace
 di prendere efficaci misure per prevenire e rimuovere le minacce alla pace e per reprimere gli
atti di aggressione.
Quando scoppia un conflitto tra due o più stati, lo statuto dell’Onu prescrive innanzi tutto che le
parti debbano ricorrere a procedure pacifiche di composizione del conflitto (negoziato, mediazione,
arbitrato).Se tuttavia il conflitto giunge a minacciare o violare la pace, il consiglio di sicurezza ha il
potere di prendere due tipi di misure coercitive:
 misure che non comportano l’uso della forza militare (per esempio sanzioni economiche,
interruzioni delle comunicazioni aeree, blocco navale ecc.);
 misure che comportano l’uso della forza militare.
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Per mettere in pratica le misure del secondo tipo, l’Onu dispone però di un proprio esercito in pianta
stabile, ma si serve di contingenti armati messi a disposizione dagli stati membri che, in tali
circostanze agiscono sotto le direttive del consiglio di sicurezza (i “caschi blu”). L’Onu non si
limita ad intervenire nei conflitti aperti, ma svolge una funzione generale di promozione della
cooperazione internazionale in vari settori. Svolge funzioni di assistenza tecnica a favore dello
sviluppo agricolo ed economico dei paesi del terzo mondo; promuove studi e iniziative per la difesa
dell’ambiente; promuove la codificazione del diritto internazionale. Un aspetto particolarmente
importante dell’azione dell’Onu riguarda la difesa dei diritti umani.
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SCRITTORI DELLA RESISTENZA
La Seconda guerra mondiale segna una frattura abbastanza profonda nella storia della lirica italiana,
ma non una frattura fisica in quanto la maggior parte dei poeti protagonisti (Fenoglio Fortini,
Quasimodo, Levi, ecc...) continua a scrivere e a mantenere un ruolo di preminenza nel nuovo
panorama.
Salvatore Quasimodo (1907 – 1968) si può definire uno dei più significativi esponenti
dell’ermetismo, infatti sul piano stilistico si assiste ad un radicale divorzio nei confronti della lingua
parlata: l’uso delle analogie e delle ellissi e la parola che, immobile nella sua luminosità e carica di
valori simbolici, si chiude a ogni forma di volontà comunicativa,
assumendo un valore assoluto ed enfatizzato, che tende
all’astrazione. La terra siciliana, nel ricordo, diventa un luogo mitico,
la casa, la madre e l’infanzia sono temi ricorrenti. Con la sezione
delle raccolte del dopo guerra comincia a verificarsi un graduale
mutamento: il verso si allunga e diventa più lineare, i temi si
ampliano e si arricchiscono di elementi di una realtà più concreta, il
rapporto fra segno e significato si fa più immediato, aprendosi verso
le forme di un messaggio più facilmente accessibile e comunicativo.
Dal piano metafisico, esistenziale, il discorso si trasferisce su quello
più propriamente storico, attingendo anche dalla cronaca le fonti
della sua ispirazione; la poesia può così diventare anche uno
strumento di testimonianza politica e di polemica sociale, assumendo
cadenze di tipo più discorsivo e narrativo. Si ha una conversione
all’impegno ad una poesia che abbia come soggetti l’uomo e la
storia. Non è certo estranea a questo mutamento d’indirizzo né la
drammatica esperienza della guerra “...i morti abbandonati nelle
piazze sull’erba dura di ghiaccio, al lamento d’agnello dei
fanciulli, all’urlo nero della madre che andava incontro al figlio crocifisso sul palo del
telegrafo...” (“Alle fronde dei salici”), né la suggestione esercitata dal nuovo impegno degli
intellettuali usciti dalla Resistenza e tesi a misurarsi con la tragica realtà italiana del dopoguerra e
della ricostruzione. Prendono allora corpo i temi della tristezza, del dolore e della solidarietà, della
schiavitù “E come potevamo noi cantare con il piede straniero sopra il cuore...” (“Alle fronde
dei salici”) con accenti di realismo linguistico e di impegno comunicativo cui non manca, tuttavia,
la misura espressiva. A favorire questa conversione sono i tragici avvenimenti della guerra e
dell’immediato dopoguerra, che sollecitano una forma di partecipazione e di impegno, investendo
anche il poeta di precise responsabilità civili. All’interno di queste variazioni si possono però
riconoscere dei temi costanti, profondamente legati alla biografia dell’autore: la memoria nostalgica
dell’isola natia, il senso profondo dello sradicamento e la consapevolezza dell’universalità del
dolore.
Franco Fortini è nasce a Firenze nel 1917 e negli anni del fascismo esprime il suo dissenso
collaborando a “La riforma letteraria”, una rivista di opposizione diretta da Carocci e Noventa.
Partigiano in Valdossola, alla fine della guerra si stabilisce a Milano svolgendo un’intensa attività di
giornalista, traduttore e insegnante di storia della critica letteraria nell’Universistà di Siena. Muore
il 28 novembre 1994.
Fortini appunta la sua critica sugli aspetti deteriori e disumanizzanti delle ideologie contemporanee,
attribuendo all’arte una funzione di rottura e di protesta, ma ponendo l’accento sulla carica di
consapevolezza e di utopia che la letteratura può possedere. La sua poesia riflette il complesso
percorso di esperienze intellettuali cercando un superamento dell’Ermetismo e aprendosi alle
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tematiche civili e impegnate che il Neorealismo veniva allora proponendo. Rifiuta le illusioni e i
facili ottimismi insistendo piuttosto sulle contraddizioni della realtà che investono la stessa
ideologia letteraria. Sul piano formale i versi conservano una misura di ordine e di rigore, per così
dire di classica impronta, che rifiuta ogni autonoma ricerca di soluzioni
sperimentali. Si tratta di una poesia che antepone all’individualismo
lirico un’attitudine meditativa e riflessiva, che conserva sempre un alto
valore di testimonianza. Il tema centrale della produzione fortiniana è
sicuramente la storia contemporanea. Fortini registra con amarezza la
parabola della nostra storia recente: le illusioni nate con la Resistenza,
l’orrore dei cadaveri abbandonati che rappresenta il venir meno di ogni
umanità “Sulla spalletta del ponte Le teste degli impiccati...” (“Canto
degli ultimi partigiani”), ma vale anche come testimonianza dell’amore
per la libertà “...Ma noi s’è letta negli occhi dei morti E sulla terra
faremo libertà...” (“Canto degli ultimi partigiani”), la cui certezza
ravviva di speranza il sacrificio; la crisi della sinistra, il rinsaldarsi
sempre più deciso del neocapitalismo e la conseguente mercificazione
di ogni valore etico e culturale. Fortini continua ad esprimere il suo
dissenso, ma nei modi che gli sono sempre stati propri, cioè quelli del
costante richiamo ad una severa coscienza morale anche verso chi, come lui, è all’opposizione, per
un reale rinnovamento della cultura marxista.
Beppe Fenoglio (1922 – 1963) si può collocare nell’ambito del Neorealismo in quanto la sue
materie predilette sono la vita contadina delle Langhe e la guerra partigiana. Come narratore della
Resistenza imbocca una strada insolita in quegli anni: evita la celebrazione, la componente
ideologica e sceglie una rappresentazione vera, che di quell’evento renda, senza moralismi o
seriosità, la poliedricità di aspetti. Da ciò nella narrazione un tono, un piglio demistificatorio,
“picaresco”, sotteso tutto dal gusto dell’avventura. Non è questa però l’unica angolazione dalla
quale Fenoglio scrittore guarda la storia recente. In parecchi altri racconti “la guerra, la lotta per la
sopravvivenza, la dignità ed infine la morte si elevano a paradigma non soltanto della storia di una
generazione, ma di un popolo altamente drammatico di intendere la vita e la fatalità delle sue
scelte”. E allora la Resistenza diventa il contesto in cui questo austero e tragico senso del vivere
trova la sua collocazione; il che comporta una rappresentazione di vicende resistenziali nelle quali
non c’è posto per la componente ideologica e politica, ma piuttosto per una più larga tematica
esistenziale: la morte, la scelta e il caso, la violenza, l’amore sentito come struggente disperazione.
Al di là della materia scelta (La Resistenza), lo specifico di Fenoglio è questo sentimento
drammatico del destino, dei suoi appuntamenti e delle sue tragiche “imboscate”. Ma al centro della
sua visione vi è un’indagine sulla violenza vista “come senso unico e costante di tutti i rapporti
umani”. L’indagine è condotta sul mondo contadino, sulla durezza disumana della sua vita,
sull’abbruttimento dei sentimenti, sulle sofferenze e le miserie che conducono all’esplosione
violenta, alla follia, al suicidio, oppure alla guerra, rappresentata come un tempo d’eccezione, che
consente di registrare i dati estremi della crudeltà e del dolore. Infatti la guerra, proponendo lo
scontro con la violenza, la sofferenza e la morte, si offre come avventura umana ed esistenziale,
come prova della dignità dell’individuo, come ricerca della propria verità interiore. Su queste
manifestazioni di violenza Fenoglio indaga con ossessiva insistenza, quasi con la volontà di
tracciare un panorama esaustivo delle capacità di male dell’uomo. Il contegno dello scrittore evita la
deprecazione moralistica, la partecipazione emotiva scoperta, la manifestazione esplicita dello
sdegno o dell’orrore: la sua visione è ferma, lucida, assolutamente oggettiva ed impassibile. La
matrice di tutta la narrativa fenogliana è “Il partigiano Johnny”, vasta cronaca della guerra
partigiana, dove la Resistenza si eleva ad una dimensione epica. Il linguaggio è complesso, ricco di
mescolanze ardite e di forzature espressive, mirando a rappresentare immediatamente la realtà. Non
vi è nulla di eroico e di retorico nella situazione descritta da Fenoglio: il narratore mette in evidenza
la fatica e il carico di dolore della violenza scaturita dalla guerra; non a caso prevale l’aggettivo
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“cieco” riferito alla marcia dei partigiani: “dopo una cieca marcia sfilacciata”; La cieca
difficoltà della marcia” (“Il partigiano Johnny”).
Primo Levi (1919 – 1988) entrò nelle formazioni partigiane di Giustizia e Libertà, ma fu catturato
dai Tedeschi e deportato nel Lager di Auschwitz, in quanto ebreo. Le tematiche fondamentali
furono quelle della persecuzione degli ebrei e delle vicende dei partigiani. Infatti il libro d’esordio
dello scrittore, che si fonda sulle esperienze nei campi di
sterminio nazisti, è: “Se questo è un uomo”. É un’opera che
si stacca con eccezionale rilievo dallo sfondo del clima
neorealistico, assurgendo alla statura di un vero e proprio
classico. Il libro è una testimonianza sulla barbarie estrema
dell’universo concentrazionario, sulla sua crudeltà non solo
fisica, ma anche morale, che mirava prima di tutto a
distruggere la sostanza umana stessa del deportato. Infatti
descrive “l’inferno” della condizione degli ebrei deportati dai
nazisti nei lager durante la Seconda guerra mondiale: il
narratore rievoca le varie fasi del “martirio” subìto. Privati
dell’acqua “sono quattro giorni che non beviamo” (“Se
questo è un uomo”) e costretti a spogliarsi, vengono rasati e
“disinfestati” con docce bollenti. L’ebreo deportato è un
“uomo vuoto”, ridotto a triste sofferenza e privato della
dignità. É questo, del resto, lo scopo del “campo di
annientamento” tedesco: annichilire la dignità dell’uomo,
uccidendolo prima moralmente (privandolo di tutto: vestiti,
scarpe, capelli e persino del nome) e poi fisicamente (qui vi è un assoluto disprezzo per l’umanità,
“demolizione” dell’uomo). Ciò che conferisce forza alla rappresentazione di Levi è l’assenza di
emotività e di retorica, la sobrietà e la lucidità della scrittura, che riesce a fissare un quadro di orrore
indicibile in linee ferme, essenziali. La rievocazione quindi è sorretta da un estremo rigore
conoscitivo nei confronti della barbarie nazista, che fa scaturire un profondo senso di sdegno e di
pietà (sdegno per la brutalità della violenza arrecata ad uomini inermi, pietà per la sorte subita senza
colpa da milioni di uomini, scomparsi nei lager nazisti) e che riesce in certo qual modo a fornire un
riscatto intellettuale di ciò che sarebbe mostruoso e intollerabile. La chiarezza “scientifica” dello
sguardo, che porta ordine nel caos atroce della realtà. Infatti nella sua opera l’incontro tra le “due
culture” di appartenenza letteraria e tecnico – scientifica, raggiunge esiti originali. Il punto di
contatto è per Levi da ravvisare nella chiarezza e nell’ordine: l’abito scientifico insegna allo
scrittore a dare ordine al caos informe della realtà.
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La guerre, l’occupation allemande, la
Résistance
Lorsque hitler envahit la Pologne en 1939, la France et L’Angleterre déclarèrent la guerre à
l’Allemagne. Mal préparée pour ce conflit, l’armée francaise fut battue après six mois par les
Allemands qui, en juin 1940, pénétrèrent dans
Paris. Le maréchal Pétain demanda l’armistice
(suspemsion des hostilités), à la suite duquel la
France fut coupée en deux zones – l’une occupée
et l’autre libre – séparées par une ligne de
demarcation. Le gouvernement francais s’installa
à Vichy. De juin 1940 jusqu’à la Liberation les
Francais se diviserent en deux camps opposés:
 Ceux qui se rallièrent au régime de Vichy
 Ceux qui répondirent à l’appel à la Résistance
lancé de Londres par le général de Gaulle le
18 juin.
Le régime de vichy s’inspira tant des idèes de la
droite conservatrice francaise que du fascisme italien. La collaboration du régime avec les
Allemands devint de plus en plus étroite: jusqu’à l’envoi de volontaires au front à coté des SS et à la
partecipation directe des Francais à la persécution contre le Juifs. Les Francais de l’autre camp, au
contraire, s’engagèrent dans la poursuite de la lutte contre l’occupant nazi.
Charles De Gaulle constitua à Londres, avec l’accord de l’Angleterre, la France libre, mouvement
à la fois militaire et politique qui entedait se battre aux cotés des Alliés pour libérer la France. A’
l’interieur se formèrent plusieurs groupes de résistants, liés aux mouvements idéologiques et aux
partis democratiques. Le 2 juin 1944, la veille du débarquement allié en Normandie, le général de
Gaulle constitua à Alger le GPRF (Gouvernement provisoire de la Republique francaise), première
forme de pouvoir légitime à la Libération de Paris, le 25 aout 1944.
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BIBLIOGRAFIA
Titolo: “Centocroci per la Resistenza”
Autore: Camillo Del Maestro
Casa editrice: Associazione Partigiani “Centocroci”
Anno: 1982
Titolo: “Leggere Oltre”
Autori: M.T. Bongiorno - L. Bordo - S. Criscuolo - A. Morfino
Casa editrice: Loffredo
Anno: 1996
Titolo: “Diritto pubblico”
Autori: L. Bobbio – E. Gliozzi – L. Lenti
Casa editrice: Elemond Scuola & Azienda
Anno: 1998
Titolo: “Dal testo alla storia dalla storia al testo”
Autori: G. Baldi – S. Giusso – M. Razetti – G. Zaccaria
Casa editrice: Paravia
Anno: 1995
Titolo: “Il sistema letterario”
Autori: S. Guglielmino – H. Grosser
Casa editrice: Principato
Anno: 1993
Titolo: “Progetto Terra”
Autori: L. Benincaso Lojacono – F. Gamberucci – L. Davide – M. Torri
Casa editrice: Markes
Anno: 1999
Titolo: “Grande enciclopedia De Agostini”
Casa editrice: DeAgostini
Anno:1994
Titolo: “La Resistenza”
Autori: S. Buonamico – P. Ghione – G. Monina – M. Morbidelli – S. Pavone – F. Pizzardi – E. Taviani – F. Tomassi
Casa editrice: Gius. Laterza & Figli
Anno: 1996
Titolo: “Novecento”
Autore: Gianni Grana
Casa editrice: Marzorati
Anno: 1993
Titolo: “Litterature Francaise”
Autori: Bonini - Jamet
Casa editrice: Valmartina
Anno: 1998
Sito Internet: www.cronologia.it
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