Il FASCISMO IN ITALIA ~ DAL MOVIMENTISMO SQUADRISTA AL REGIME ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ I fasci di combattimento Il fascismo agrario Fascisti e liberali La marcia su Roma Il governo di coalizione Le riforme Il delitto Matteotti e l’Aventino ~ LA COSTRUZIONE DELLO STATO AUTORITARIO ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ Le leggi fascistissime La riorganizzazione del partito Propaganda e consenso L’uso dei media I Patti lateranensi Dal liberalismo allo statalismo Le corporazioni Lo Stato imprenditore Il colonialismo fascista: “un posto al sole” L’asse Roma–Berlino e le leggi razziali L’attività antifascista Totalitarismo perfetto o imperfetto? Dal movimentismo squadrista al regime I Fasci di combattimento Nel 1919 nacque il movimento dei Fasci di combattimento, fondato da Benito Mussolini. Nelle prime fasi questo gruppo politico fu caratterizzato da un misto ideologico, un ‘minestrone’ di idee e pensieri che, in linea di massima, si collocavano politicamente a sinistra, battendosi essenzialmente per riforme sociali radicali. Tale coacervo di idee fu ben stilizzato nel manifesto teorico dei Fasci: il programma di san Sepolcro. La proposta politica dei Fasci per ciò che concerneva il sociale, prospettava: il minimo salariale; la giornata lavorativa ridotta ad otto ore; una gestione aziendale che comprendesse anche il coinvolgimento di rappresentanti dei lavoratori; un’imposta progressiva sul capitale e l’estensione del voto alle donne. In altri termini il programma dei Fasci faceva suo rivendicazioni che erano del movimento sindacale e socialista. Mussolini si sbarazzò repentinamente di tale programma politico e diresse il movimento verso una propaganda più aggressiva e violenta, sia verso le organizzazioni socialiste che verso i dirigenti liberali. Questo nuovo indirizzo fu segnato in maniera palmare il 15 aprile del 1919, giorno in cui i Fasci incendiarono la redazione del giornale socialista l’Avanti di cui, paradossalmente, era stato direttore lo stesso Mussolini. Il fascismo agrario Alla fine del 1920 la città di Bologna diventò il fulcro del movimento sindacale, tanto che, alle elezioni amministrative comunali fu eletto un sindaco appartenente al partito socialista. Il 21 novembre 1920, in occasione dell’insediamento del Consiglio Comunale a Palazzo d’Accursio, il sindaco si affacciò sulla piazza per parlare al popolo e dalla folla partirono dei colpi di pistola. La gente, terrorizzata, cominciò a scappare e i socialisti, incaricati della sicurezza, spararono tra la folla provocando diversi morti. Fu questo il punto di svolta che segnò in maniera chiara e precisa la politica e il programma del fascismo, il passaggio cristallino e irreversibile dal programma di San Sepolcro alle squadre militari d'azione. Fino a quel momento il ruolo del fascismo non era stato rilevante nelle vicende politiche italiane ma questa fu l'opportunità, soprattutto per la borghesia terriera rurale, di organizzarsi contro i socialisti ingaggiando squadre fasciste, per porre fine alla rivendicazione contadine e contenere la loro azione. Lo squadrismo fascista arruolò militanti principalmente tra: gli ex-combattenti, che non trovavano più un posto nella società; i giovani, trascinati contro i ‘nemici della patria’, e le file della piccola borghesia antisocialista. In seguito all'eccidio di Bologna, le spedizioni punitive delle squadre d'azione aumentarono in maniera esponenziale: partivano dalle città e andavano in campagna creando caos con l'obiettivo di colpire le sedi delle leghe, le camere del lavoro, le case del popolo e i municipi. Molti comunisti furono costretti con la violenza a lasciare l'Italia. Oltre alla violenza fisica si mirava alla violenza psicologica col fine di ridicolizzare l'avversario. Lo squadrismo deve il suo successo principalmente alla neutralità e, a volte, al pieno appoggio delle classi dirigenti, ovvero la borghesia, sia all'indifferenza e alla vera e propria connivenza delle forze dell'ordine. Il fascismo delle squadre d’azione si presentava, politicamente, come il manganello della borghesia rurale contro la lotta di classe che divampava nelle campagne. Fascisti e liberali La classe politica liberale diede platealmente appoggio al fascismo: i candidati si unirono in un blocco formato da liberali, gruppi di centro e fascisti che, storicamente e socialmente, può considerarsi borghesia in tutti i suoi aspetti. La borghesia agraria utilizzò le squadre fasciste per stroncare la forza dell’associazionismo rurale e le lotte per la terra dei salariati agricoli, mentre la borghesia industriale utilizzò il fascismo per frenare le ribellioni operaie. Il liberalismo italiano andò a braccetto con le squadre fasciste in funzione antisocialiste. Bisognava mettere in ginocchio il movimento socialista e i suoi propositi rivoluzionari. Per la borghesia, nel suo complesso, urgeva, prepotente, la reazione. Nel 1921 Giolitti indisse nuove elezioni e accettò liste comuni, cioè blocchi nazionali, che comprendevano liberali, gruppi di centro e fascisti. Le liste comuni sancivano una sorta di luna di miele tra liberalismo e fascismo, un’affinità elettiva contro il socialismo! I risultati elettorali, però, delusero le speranze di Giolitti, poiché il Partito socialista subì solo un lieve calo (da 156 a 122), compensato, in parte, dal Partito comunista (17 seggi), ed i popolari da 100 passarono a 107. I blocchi nazionali ottennero 275 seggi, tra i quali solo 35 andarono ai fascisti. Giolitti prese atto della sostanziale sconfitta e rinunciò al governo in favore del socialista Ivanoe Bonomi. I fascisti erano una esigua minoranza, da qui la decisione di Mussolini, nel novembre 1921, di irreggimentare la forza delle squadre militari in un vero e proprio Partito nazionale fascista (PNF), in modo da renderlo presentabile con la speranza di ottenere un incarico dal re. La nuova politica di Mussolini si addolcì vistosamente, abbandonando le posizioni repubblicane del programma di san Sepolcro per dichiararsi, opportunisticamente, favorevole alla monarchia, accettando la politica liberista e aprendosi alle tendenze della borghesia capitalista. Mussolini chiuse con il socialismo e abbandonò l'anticlericalismo, ponendosi in collaborazione con la Chiesa. La marcia su Roma Il 24 ottobre, Mussolini riunì a Napoli migliaia di camicie nere, preparandole a un’imminente marcia su Roma che avrebbe consentito ai fascisti di dare una spallata al torpore politico che si era creato e di assumere il potere con la forza. All'annuncio dell'evento, Luigi Facta, l'allora presidente del governo socialista, chiese al re Vittorio Emanuele III di firmare la proclamazione dello stato d'assedio, che avrebbe mosso l'esercito contro le camicie nere in marcia su Roma. Il re però rifiutò e, il 28 ottobre, le colonne fasciste entrarono a Roma. Il 30 ottobre Mussolini ebbe l'incarico dal re Vittorio Emanuele di formare il governo. Il re Vittorio Emanuele consegnava così, senza colpo ferire, le chiavi del Parlamento al fascismo! Il governo di coalizione Tra il 1922 e il 1924 Mussolini presiedette un governo che univa forze diverse: fascisti, liberali, popolari (don Sturzo contrario) e varie altre componenti. Benché contasse solo trentacinque deputati in parlamento, il PNF godeva del consenso della corte, dei più importanti esponenti dello Stato, della borghesia industriale e agraria. Una ‘cura fascista’ avrebbe salvato l’Italia dal caos e dall’avanzata socialista! Il prepotente e sfrontato ‘discorso del bivacco’ con cui Mussolini si presentò al Parlamento sanciva, anche nei toni, l’intento della borghesia al completo di porre ordine nel Paese. Mussolini ottenne 306 voti, contro 116 dei socialisti e comunisti. Forte dell'appoggio ottenuto dai vari gruppi, Mussolini sciolse le amministrazioni comunali presiedute da socialisti e popolari, penalizzò le cooperative rosse, limitò la libertà sindacale e adottò delle strategie economiche al fine di rivalutare la moneta italiana. I gruppi di alleati e l'opposizione insistettero per porre fine alla violenza usata dalle squadre fasciste; Mussolini, di tutta risposta, istituì la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, legalizzando così lo squadrismo e proclamandolo forza armata del regime. In seguito a tali riforme radicali, nel 1923, il governo Mussolini perse il sostegno dei popolari, i quali, nel Congresso di Torino, si dichiararono, con don Sturzo, apertamente anti-fascisti. Negli anni 1922 e 1924 dal punto di vista internazionale, Mussolini si mostrò come un semplice leader conservatore, riuscendo a nascondere abilmente le tendenze dittatoriali del suo movimento. D’altra parte, Stati democratici come la Francia e l'Inghilterra concessero fiducia a Mussolini, reputando il fascismo male minore rispetto ad una temutissima rivoluzione comunista operaia. Nel frattempo le violenze squadriste si protrassero, culminando con l'omicidio di don Giovanni Vinzoni e le violenze sul liberale anti-fascista Giovanni Amendola. Le riforme Nel 1923 fu varata la riforma della scuola sotto l’egida del Ministro della Pubblica Istruzione, il filosofo Giovanni Gentile. Con tale riforma si creò un sistema educativo protrattosi, sostanzialmente, fino ai nostri giorni. Nei suoi tratti essenziali la riforma prevedeva due tipi di percorsi: da una parte, la formazione della classe dirigente con un’istruzione liceale e, dall’altro, un avviamento al lavoro. La riforma del sistema elettorale fu invece messa a punto con la legge Acerbo, la quale introdusse un meccanismo elettorale fortemente maggioritario dove bastava il 25% dei voti per avere il 75% dei seggi. Il delitto Matteotti e l’Aventino Nelle elezioni del 1924 il partito fascista ebbe il controllo di un listone che riuniva ancora in un afflato gran parte dei liberali, tra cui Orlando e Salandra e alcuni cattolici conservatori. Si ripeté, in un certo senso, l'esperienza del 1921, ad eccezione del fatto che ora erano i fascisti ad essere più forti e non i moderati. Il risultato delle elezioni fu una clamorosa vittoria dei fascisti con il 65% dei voti e più di tre quarti dei seggi. L'opposizione si presentò divisa, per cui la sconfitta per opera dei fascisti fu inevitabile. Ancora una volta ci furono episodi di violenza durante le elezioni. Il deputato Giacomo Matteotti con un coraggioso discorso denunciò gli aspetti oscuri delle elezioni fasciste; il 10 giugno fu rapito a Roma da un gruppo di squadristi e ucciso in auto a pugnalate. Il delitto Matteotti fu eclatante e destò scalpore e indignazione. Quest'episodio rese consapevole l'opinione pubblica delle responsabilità del fascismo e provocò un crollo della popolarità di Mussolini; le opposizioni però non riuscirono ad approfittare della situazione per una rivalsa. Il Partito comunista vide respinta la sua proposta di sciopero generale. I partiti di opposizione scelsero, quindi, di non partecipare più alle attività parlamentari, ma di riunirsi al di fuori della Camera dichiarandosi disponibili a rientrare in Parlamento solo dopo l'abolizione della Milizia e il ritorno alla legalità. Era la secessione dell’Aventino! L’opposizione sperava in un intervento da parte del re affinché ritirasse la fiducia data a Mussolini, ma il sovrano non assunse alcuna iniziativa e non si espresse in alcun modo. Mussolini, il 3 gennaio 1925, con un discorso alla Camera estremamente sfrontato e irriverente, si assunse la responsabilità ‘politica, morale e storica’ del delitto Matteotti. Il fascismo era ormai tanto forte da poter dire senza infingimenti: “Se il fascismo è un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione”. Con tale discorso si avanzava verso la costruzione di un nuovo involucro politico più adatto alla situazione: la democrazia liberale si trasformava in dittatura fascista! Di lì a poco si procedette con sanzioni che resero praticamente impossibile ogni attività anti-fascista. In questo senso, l'assassinio di Giacomo Matteotti rappresentò la fine della democrazia e l'ascesa definitiva della dittatura fascista. La costruzione dello Stato autoritario Le leggi fascistissime Mussolini riorganizzò il potere statale in maniera dittatoriale e autoritaria tale da annientare i veli liberali dello Stato borghese. Nell'anno 1925, il partito fascista approvò delle leggi dette 'fascistissime' ispirate dal giurista, nonché ministro guardasigilli Alfredo Rocco. I cardini di tale quadro legislativo erano: il PNF era l’unico partito politico riconosciuto; la figura del Presidente del Consiglio fu sostituita da quella del Capo del Governo, che doveva rendere conto solo al re e non al parlamento; il potere legislativo fu riconosciuto al capo del governo. Altre modifiche riguardarono l'assetto amministrativo in ambito locale e comunale. La figura del podestà, nominato direttamente dal governo, sostituì quella del sindaco segnando, di fatto, la fine della democrazia locale. La libertà di stampa e di associazione ricevette drastiche limitazioni fino a giungere, nel 1926, alla completa chiusura di tutti i giornali anti-fascisti e allo scioglimento di tutti i partiti d’opposizione. Al fine di avere il controllo totale sul Paese, il Partito Nazionale Fascista istituì un corpo di polizia segreta, l'Opera di Vigilanza per la Repressione Antifascista. Fu istituito, inoltre, un Tribunale speciale per la difesa dello Stato. Esso ordinò decine di condanne a morte e comminò un totale di 28.000 anni di carcere. È interessante sapere che ad Alfredo Rocco si devono anche i due Codici Penali, definiti anche Codici Rocco, risalenti al 1950, che sono ancora alla base del nostro Codice Penale e Civile. La riorganizzazione del partito Contemporaneamente alla ristrutturazione dello Stato, Mussolini si occupò del riassetto del Partito governativo. Fu sottratta la direzione del partito a Roberto Farinacci, squadrista di primo ordine, per dimostrare che la violenza nel nuovo sistema istituzionale non fosse più necessaria. Le cariche gerarchiche erano assegnate da Mussolini, egli era a capo del partito e a lui era affidato il Gran Consiglio del Fascismo. Quest'ultimo era l'organo costituzionalmente più importante del partito. Nel 1928 si assistette alla liquefazione dello Stato liberale a favore della costituzione di uno Stato totalitario, grazie ad una nuova legge elettorale che diede al Gran Consiglio il compito di preparare la lista unica, bloccata di candidati, la quale, per essere approvata, aveva solo bisogno della metà più uno dei voti. Insomma, le elezioni si trasformarono in ‘plebisciti-farsa’! Propaganda e consenso Il nuovo assetto del Partito fascista fu caratterizzato dall'utilizzo ingegnoso quanto indispensabile dei mezzi di propaganda al fine di ottenere il consenso. Bisognava avere il controllo educativo e formativo dell’individuo dalla culla alla tomba. Il tempo libero doveva essere organizzato dal Partito saturando tutti gli spazi privati. Pure non mancarono forme coattive di consenso: per avere lavoro o promozioni, all'interno della pubblica amministrazione, si rese obbligatorio il possesso della tessera del Partito. Furono, tuttavia, più finemente ideate delle organizzazioni capaci di coinvolgere l’individuo in un processo di massificazione attraverso ad es. l'Opera Nazionale Dopolavoro che si occupava dell'intrattenimento dei lavoratori nel loro tempo libero e il Comitato Olimpico Nazionale Italiano che promuoveva le attività sportive. Altre organizzazioni come i Fasci Giovanili, i Gruppi Universitari Fascisti e l'Opera Nazionale Balilla curavano l'educazione e la formazione dei giovani all'insegnamento fascista e alla venerazione del duce Mussolini. Uno degli obiettivi principali del partito fascista era quello di creare un ’uomo nuovo'. L'uomo nuovo, secondo i fascisti, doveva avere determinate caratteristiche: il maschio doveva essere virile e doveva differenziarsi dalla donna, più remissiva, per la sua tenacia. La struttura naturale della famiglia aveva nell’uomo il suo capo e nella donna la fattrice indispensabile per la Patria. L'uomo fascista doveva essere atletico, valoroso, pronto al sacrificio, energico e coraggioso. Altra importante caratteristica della concezione dell'uomo fascista era l'ispirazione all'antico Impero Romano, visto come il momento in cui spirito e razza italica furono netti con il loro dominio su tutto il resto del mondo. Dall'antico splendore della Roma imperiale si ereditarono il saluto romano e il fascio littorio, che divenne simbolo del partito fascista. Mussolini non poteva che essere il dux, il duce, termine col quale nell'antica Roma s'indicava il capo militare, valoroso e vincente in battaglia. Tuttavia, accanto a questa retorica che cercava le radici nel mondo antico, i fascisti cercarono anche di presentarsi come moderni. L’uso dei media Il controllo dell'informazione di massa si dimostrò estremamente importante durante il governo del duce. La stampa fu sottoposta ad una totale censura! La radio in quel momento costituiva uno dei più diffusi mezzi di comunicazione di massa, perciò, nel 1927, fu fondato un nuovo ente radiofonico, l'EIAR (antenato della RAI) che gestiva tutte le trasmissioni radiofoniche. La radio si rivelò uno strumento estremamente utile e potente per la diffusione delle informazioni che il regime intendeva trasmettere e, dunque, nella formazione della percezione della realtà storica. La propaganda utilizzò anche il cinema, nuovo coinvolgente mezzo di comunicazione di massa. Ogni sala fu obbligata a proiettare le produzioni dell'Istituto Luce, alle dirette dipendenze di Mussolini. Nel 1937 fu istituito il ministero della Cultura Popolare con lo scopo di controllare e manipolare gli orientamenti culturali della società italiana. Il progetto titanico di plasmare la società in maniera fascista dovette però scontrarsi con la capillare presenza della Chiesa cattolica. Le parrocchie costituivano ancora il principale luogo d’incontro. In alcune zone dell'Italia, dunque, sarebbe stato difficile governare senza l'appoggio della Chiesta e Mussolini trovò il modo di risolvere questo problema cercando un compromesso con la chiesa. I Patti lateranensi Mussolini comprese che un accordo con la Chiesa era vitale in un Paese ampiamente cattolico al fine di ottenerne il consenso. Il fascismo, d’altra parte, era la sola compiuta ed efficiente risposta all’ateismo del comunismo che minacciava le stesse radici dell’Occidente. Si era decisi a chiudere definitivamente la lunga e complessa ‘questione romana’ iniziata con l’unità d’Italia al 1871 quando Pio IX si dichiarava prigioniero dello Stato italiano e con la non expedit invitava i cattolici a boicottare lo Stato italiano non partecipando alle elezioni politiche. Le trattative tra lo Stato e la Chiesa cominciarono nel 1926 e si conclusero l'11 febbraio 1929 con la firma dei Patti lateranensi. Il documento era costituito da tre parti: la Chiesa riconosceva lo Stato italiano ed esercitava la sua sovranità nello Stato della Città del Vaticano; l'Italia versava un’indennità al Vaticano per la perdita dello Stato Pontificio ed, infine, si stabiliva un'intesa tra Stato e Chiesa su tre punti: a) si stabiliva che la religione era religione di Stato e la si insegnava nelle scuole pubbliche; b) il matrimonio religioso aveva effetti civili; c) vennero riconosciute le organizzazioni dell’Azione cattolica. Il pio Pio XI non poteva che essere satollo di un simile accordo e presto parlò del Duce come dell’”uomo della Provvidenza” lontano dai conati della scuola liberale. Veniva meno, con i Patti, la separazione liberale e democratica tra Stato e Chiesa che l’illuminismo aveva postulato teoreticamente e la borghesia della grande Rivoluzione francese aveva realizzato con la scristianizzazione, la laicizzazione, la secolarizzazione. In ambito cattolico fu don Sturzo a mostrarsi non favorevole all’accordo in quanto riteneva che i fascisti traessero troppi vantaggi dal più stretto rapporto con i cattolici mentre egli metteva l’accento sulla differenza tra morale fascista e quella cattolica. Nel 1931 vi furono momenti di tensione che rientrarono quando l’Azione cattolica fu riconosciuta, anche se in ambito strettamente diocesano. Il conflitto sorse a proposito dei compiti che l’Azione cattolica doveva espletare nell’ambito dell’educazione. Il fascismo non aveva certo intenzione di affidare ai cattolici la formazione della gioventù. Il fascismo aveva appeso il crocefisso nelle aule ma non aveva intenzione di dare all’Azione cattolica anche quel figlio pronto ad entrare nei gruppi organizzati dai fascisti. Dal liberalismo allo statalismo La politica economica adottata da Mussolini durante gli anni tra il 1922 e il 1925 fu decisamente e fortemente liberista. Nella prima fase l'economia fu di stampo liberista, con agevolazioni da parte del governo alle imprese e ai privati. La spesa pubblica fu ridotta. Erano, però, ancora considerevoli l'alto tasso d’inflazione e l’instabilità della moneta; per questo motivo, nel 1926, Mussolini cambiò strategia nominando un nuovo ministro dell'economia, Giuseppe Volpi, e adottò delle misure protezionistiche per stabilizzare la lira, accompagnate da interventi dello stato nell'economia. Tra i più importanti provvedimenti presi da Mussolini per risanare l'economia nazionale ci fu l'incremento del dazio sui cereali, a cui affiancò una forte propaganda: la 'battaglia del grano'. Lo Stato interveniva sempre più nell’economia di mercato attraverso grandi investimenti nella costruzione di infrastrutture o nelle opere di bonifica di interi territori. Nel 1928 fu attuato il progetto di bonifica integrale nei territori maggiormente paludosi al fine di migliorare e aumentare le superfici coltivabili e le tecniche di coltivazione. Questo avrebbe significato una maggiore autonomia per l'Italia nella produzione del grano. Il progetto di bonifica non fu portato a termine, ma un grande risultato si ebbe nelle zone dell'Agro Pontino, dove fu fondata l'attuale Latina. Iniziava quella politica che avrebbe preso il nome di ‘autarchia’, cioè di autosufficienza, che è la cifra del fascismo negli anni Trenta. L’Italia doveva essere autonoma e autosufficiente evitando di dipendere e indebitarsi con altri Paesi. Produrre e acquistare prodotti italiani divenne il motto di quel periodo. La politica autarchica ebbe alcuni meriti, come nella produzione del grano, ma a discapito di altri settori, come quelli dell’allevamento. L’autarchia trovava limiti concreti anche perché un Paese come l’Italia era privo di materie prime che doveva necessariamente comprare dall’estero. A ben guardare lo stesso concetto di autarchia nasceva già vecchio, obsoleto rispetto alla realtà capitalistica degli anni Trenta che presupponeva già un alto grado di interrelazione e specializzazione del mercato internazionale. Le corporazioni Il fascismo trovò nel corporativismo l’involucro formale della sua dittatura economico-borghese. Il corporativismo è l’architrave teorico e pratico della visione organicistica del fascismo in ambito economico e corrisponde perfettamente agli interessi borghesi, che schiacciano completamente la resistenza operaia prefigurando un bene comune. Il Fascismo, innanzitutto, abolì ogni libertà di contrattazione operaia che non fosse con sindacati fascisti. Fascismo e Confindustria, nel 1926, sancirono con una legge che non c’era spazio per sindacati socialisti, comunisti o cattolici. Il bene della nazione richiedeva un nuovo modo di ordinare i conflitti economici. Il corporativismo forma la griglia teorica a questa operazione. Innanzitutto si condannava lo sciopero come mezzo di lotta e la stessa teoria della lotta di classe dovette cedere il posto ad una concezione organicistica secondo cui la nazione è una e le classi non sono che membra di uno stesso corpo, dunque, non possono che avere interessi comuni. Dunque, nella fattispecie, i padroni e gli operai dovevano collaborare nell’interesse della patria e tutto sarebbe andato per il meglio nel migliore dei mondi possibili. L’armonia veniva calata dall’’alto’. La Carta del lavoro approvata nel 1927 fu la rappresentazione plastica di questa armonia imposta per legge! Per legge si stabilì che padroni e operai si sarebbero dovuti unire in corporazioni per settori produttivi. La lotta di classe e gli interessi confliggenti venivano, così, d’incanto evaporati. L’operazione era una manovra forzata che si risolse, di fatto, sempre a vantaggio dei padroni. Lo Stato imprenditore In termini generici, dalla Prima Guerra Mondiale e durante tutto il corso del XX secolo, muta radicalmente la concezione ed il ruolo dello Stato, soprattutto in ambito economico: il modello liberista puro (se mai sia esistito storicamente) salta del tutto. Così lo Stato poté godere della concentrazione, in un sol luogo, di forze economiche amplissime, cioè ingenti capitali e di avere una capacità decisionale capace di imporsi anche senza un profitto immediato. È possibile individuare durante il fascismo due diverse fasi per ciò che concerne il ruolo dello Stato in economia. La prima fase si protrae fino al 1926 ed è caratterizzata da uno Stato liberista. Dal ’26 in poi s’inaugura una fase sempre più protezionistica, anche per far fronte agli effetti internazionali della spaventosa crisi economica americana del 1929. In quegli anni lo Stato intervenne in modo massiccio nelle sorti economiche italiane diventando uno strumento propulsore dello sviluppo economico. Nel 1931 fu fondato l’IMI (Istituto Immobiliare Italiano), istituto di credito pubblico a sostegno delle industrie in difficoltà. Nel 1933 fu fondato l’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale) con cui lo Stato diventava azionista di alcune grandi fabbriche (Ilva, Terni, Ansaldo). Il colonialismo fascista: “un posto al sole” Nel 1911 il socialista Mussolini, nel 1939 il Mussolini fascista si sente colonialista e decide di dare un Impero all’Italia e conquistare l’Etiopia ampliando i possedimenti coloniali già acquisiti (la Libia). Il colonialismo fascista in Libia e in Etiopia è stato assai lontano da quanto veniva descritto dalla stampa di regime e da quello stereotipo degli “Italiani brava gente. La stampa europea dell'epoca considerò la colonizzazione italiana in Libia addirittura più sanguinosa di quella delle altre potenze europee. Fin dalla conquista la Libia era formalmente una colonia, ma l'autorità italiana era limitata ai principali centri urbani della costa; il resto del Paese era in mano a gruppi ribelli. Il fascismo volle portare a termine la colonizzazione libica e stroncare definitivamente la ribellione capeggiata dal maestro settantenne Omar alMukhtar. Mussolini si avvalse di Graziani noto per la sua inflessibilità. Tra il 1930 e il 1931 l'intera popolazione della Cirenaica fu deportata in 13 campi di concentramento allestiti nel deserto. Ancora, l'esercito italiano utilizzò stragi e torture per debellare i patrioti libici. E non mancò pure l’uso di armi chimiche come il fosgene e l'iprite, vietate dalla Società delle Nazioni nel 1925, che continuarono a essere utilizzate dall'Italia in Libia fino al 1931. Nel 1934 Mussolini decise di conquistare l’Etiopia. Il Duce intendeva dare all’Italia un Impero ampliando i possedimenti coloniali già acquisiti. Inoltre, vi era anche l’illusione che la nuova conquista potesse diventare una meta per l’emigrazione italiana. Pensando di poter fare a meno di un’opportuna dichiarazione di guerra, l’esercito italiano invase l’Etiopia il 3 ottobre 1935. Addis Abeba, la capitale, fu conquistata il 5 maggio 1936 costringendo il sovrano etiope Hailé Selassié alla fuga. Si trattò di una vicenda a metà tra la tragedia e la commedia che ben si legge anche nella terminologia: dal giolittiano “scatolone di sabbia” come disse Salvemini ad “un posto al sole” per l’Italia. Ciò che sembrava un’impresa facile si rivelò una vera e propria spina nel fianco. Ne scaturì, infatti, una guerriglia della quale i fascisti non riuscirono mai a liberarsi, si trattò di un’evidente sottovalutazione del nemico. Si andò baldanzosi e, tronfi della propria superiorità razziale, ci si meravigliò che gli Etiopi potessero avere sussulti patriottici. Mussolini intraprese la conquista senza preoccuparsi minimamente della Francia e dell’Inghilterra, certo che non sarebbero mai intervenute. Viceversa, la Società delle Nazioni condannò l’Italia in quanto aggressore e, nel novembre 1935, vennero decretate delle sanzioni economiche che furono in ogni caso transitorie e non fruttarono nessun riscontro positivo. La propaganda fascista ebbe modo di rispondere alle sanzioni con una ricompattazione del consenso interno. L’Italia vittima delle sanzioni rispondeva unita: molte famiglie donarono la fede d’oro alla Patria per rimpinguare le casseforti della macchina militare. Fu probabilmente questo il periodo in cui Mussolini e la sua politica godettero del maggior consenso tra gli Italiani. Il 28 febbraio il generale Graziani arrivò addirittura a proporre di radere al suolo la parte vecchia della città di Addis Abeba e accampare tutta la popolazione in un campo di concentramento, ma Mussolini si oppose temendo più decisive reazioni internazionali. Le esecuzioni sommarie proseguirono anche a marzo e Graziani ordinò la fucilazione perfino di tutti i cantastorie, gli indovini e gli stregoni di Addis Abeba e dintorni, in quanto responsabili di annunciare nei vari mercati la fine prossima del dominio italiano. L'iniziativa fu approvata da Mussolini Il 9 maggio 1936 Mussolini comunicò al popolo la fondazione ufficiale dell’Impero dell’Africa Orientale Italiana ponendovi a capo il re Vittorio Emanuele III che acquisì la corona d’imperatore d’Etiopia. Come accaduto per la Libia, lo sterminio fu conseguito, tra l’altro, con tramite l’uso dell’iprite, un gas altamente nocivo. Dalle carte di Graziani risultano, dal 27 marzo al 25 luglio 1937, un totale di 1.877 esecuzioni. L’asse Roma-Berlino e le leggi razziali La Germania appoggiò sin dal principio il progetto coloniale italiano fornendo armi e materie prime. Nel 1936 venne firmato un patto di amicizia sancito dall’Asse Roma-Berlino. Due anni dopo, nel 1938, un gruppo di intellettuali fascisti sottoscrisse il Manifesto della Razza. Si stabilì che gli Ebrei non appartenevano alla razza italiana e si invitava gli italiani a dichiararsi apertamente e chiaramente razzisti. Nello stesso anno si approvavano le vergognose leggi razziali antisemite, ad imitazione della legislazione tedesca del 1935. Si vietarono i matrimoni misti, si impedì loro di frequentare la scuola, di prestare servizio militare e di praticare certe professioni. Era il primo atto di ciò che Sarfatti chiama la “persecuzione dei diritti”, a cui avrebbe seguito la persecuzione delle vite dall’8 settembre 1943 al 25 aprile del 1945, alla deportazione nei campi di concentramento. Le leggi razziali furono per molti una sorpresa: non c’era in Italia una vera tradizione antisemita, né il fascismo, a differenza del nazismo, si presentò all’inizio come razzista o antisemita. Colse di sorpresa anche molti fascisti ebrei. Fu il momento, assai tardo, in cui molti liberali dovettero fare i conti con la faccia reale del fascismo. Proprio a partire da questa generale estraneità del popolo italiano ad una tradizione razzista, il fascismo, importando la mala pianta, si rese maggiormente colpevole. Tuttavia sarebbe sbagliato pensare alle leggi razziali come a funghi venuti fuori all’improvviso. Le prime forti avvisaglie di un atteggiamento razzista si erano fatte sentire a proposito della guerra d’Etiopia. Lo stesso Mussolini aveva affermato platealmente che era giunta l’ora che razze più evolute dovevano dominare razze inferiori, sia per fruire di questa superiorità sia per operare un generale incivilimento dei barbari. L’attività antifascista Dal 1926 opporsi al fascismo divenne perseguibile penalmente, per cui molti antifascisti per sottrarsi alle persecuzioni preferirono l’emigrazione. Tra le fila dell’antifascismo vi furono diverse personalità di spicco, tra le quali Antonio Gramsci (fondatore del comunismo italiano e segretario del Partito comunista) e Benedetto Croce (uno dei maggiori filosofi italiani del Novecento). Benedetto Croce fu dapprima fascista, poi si staccò rigettandone le concezioni e scrivendo il Manifesto degli Intellettuali Antifascisti. Altro argomento degno di attenzione in questo periodo fu la nascita dell’organizzazione Giustizia e Libertà di cui fecero parte Carlo Rosselli e Piero Gobbetti. Fu uno degli elementi che tenne uniti i migliori intellettuali antifascisti e sarà l’origine del Partito d’Azione, che ritroveremo durante la reazione del popolo italiano al nazi-fascismo. Il Partito comunista costituì l’unica organizzazione politica in grado di organizzare e gestire una densa rete di opposizione clandestina al movimento fascista. Il Partito comunista pagò un alto costo durante il regime fascista: circa i tre quarti dei condannati dal Tribunale Speciale Fascista proveniva dalle fila comuniste. A. Bordiga e A. Gramsci, entrambi dirigenti massimi del partito, furono messi in carcere. Complessivamente l’attività antifascista durante il regime fu minima e, di fatto, ininfluente. Tuttavia, furono proprio tali organizzazioni (Giustizia e Libertà, il Partito comunista, etc.) a mantenere le fila di un’attività antifascista che si svilupperà, in maniera geometrica, nel corso della Seconda guerra mondiale e che, come un fiume carsico, riapparirà nella Resistenza. Totalitarismo perfetto o imperfetto? La maggioranza degli studiosi è propensa a distinguere il mondo liberale dal fenomeno del fascismo. Il fascismo sarebbe dunque un elemento esogeno, esterno, che segna una rottura vera e propria con la tradizione liberale italiana. Dall’altro canto molte sono le affinità di interessi e gli accadimenti che mostrano una contiguità tra il liberalismo e il fascismo: il fascismo può essere considerato la camicia che la borghesia liberale indossa quando il suo sistema politico inizia a franare sotto il maglio della rivoluzione operaia. Il fascismo non sarebbe altro che la dittatura della borghesia in particolari momenti storici caotici. Il fascismo fu un fenomeno complesso e la sua perimetrazione deve tener conto della sua stessa evoluzione teorica, da san Sepolcro alle leggi fascistissime, ecc. Gli studiosi si sono attardati alquanto sulla determinazione del carattere del fascismo e della comparazione con il nazismo e lo stalinismo. Il tratto comune è la costruzione del regime totalitario. Gli studiosi però divergono sul fatto di classificare il fascismo come totalitarismo perfetto o imperfetto. Per molti il fascismo non è stato diverso da quello nazista e stalinista. Secondo altri, tra cui H. Arendt – a cui si deve un notevolissimo lavoro Le origini del totalitarismo - il fascismo è un totalitarismo imperfetto perché: 1. In Germania e in Russia il partito si sostituì, sic et simpliciter, alla struttura dello Stato, la struttura dello Stato si mantenne per molti versi autonoma rispetto a quella del partito; 2. La presenza del fascismo nella società fu arginata in parte dalla Chiesa. Nonostante i Patti lateranensi vi fu, sostanzialmente, tra le due istituzioni, una certa diffidenza. L’Italia dei mille comuni, aveva mille campanili e mille parrocchie che non entrarono mai organicamente in una concezione fascista e che, anzi, forniranno elementi che vedremo in azione alla fine della Seconda guerra mondiale; 3. Il ruolo del re, nonostante le indubbie compromissioni e responsabilità nella deriva autoritaria, mantenne una qualche indipendenza formale e rimase, comunque, il punto di riferimento dell’esercito e della borghesia conservatrice in generale. BIBLIOGRAFIA Libri Film La vecchia guardia, A. Blasetti, 1935 La marcia su Roma, D. Risi, 1962 Novecento, (I parte), B. Bertolucci, 1976 Il leone del deserto, M. Akkad, 1981