RIPARTO GIURISDIZIONE roma tre - Dipartimento di Giurisprudenza

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Avviso
Il file relativo al riparto di giurisdizione (lezione del 18 dicembre 2008, Cons. R. Giovagnoli) contiene le sentenze più rilevanti in
argomento selezionate dal Cons. Giovagnoli. Delle sentenze Cons. Stato, Ad. Plen. nn. 9/2008 e 12/2007 sono inserite solamente le
massime, in quanto le sentenze per esteso sono già incluse nel materiale sul risarcimento del danno (per la lezione del 19 dicembre).
IL RIPARTO DELLA GIURISDIZIONE E LA GIURISDIZIONE ESCLUSIVA DEL G.A.
a cura di Roberto Giovagnoli
Consigliere di Stato
1) LIMITI COSTITUZIONALI ALLA DEVOLUZIONE DI MATERIE ALLA GIURISDIZIONE ESCLUSIVA DEL G.A.
CORTE COSTITUZIONALE - sentenza 6 luglio 2004 n. 204 - Pres. ZAGREBELSKY, Red. VACCARELLA - (giudizi promossi con ordinanze
del 31 luglio 2002, dell’11 ottobre 2002 - n. 2 ordinanze e del 31 gennaio 2003 del Tribunale di Roma, rispettivamente iscritte al n. 488 del registro
ordinanze 2002 e ai nn. 226, 227 e 680 del registro ordinanze 2003 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, n. 44, prima serie speciale,
dell’anno 2002 e nn. 18 e 37, prima serie speciale, dell’anno 2003).
1. Giustizia amministrativa – Giurisdizione esclusiva del G.A. – Limiti ex art. 103, primo comma, Cost. – Necessità di prevederla solo per
"particolari materie" – Sussiste – Riferimento all a natura delle situazioni soggettive coinvolte, e non al dato, oggettivo, delle materie –
Occorre.
2. Giustizia amministrativa – Giurisdizione esclusiva del G.A. – Limiti ex art. 103, primo comma, Cost. – Mera partecipazione della
pubblica amministrazione al giudizio ovvero generico coinvolgimento di un pubblico interesse nella controversia – Insufficienza.
3. Giustizia amministrativa - Giurisdizione esclusiva del G.A. – In materia di servizi pubblici – Ex art. 33 del decreto legislativo 31 marzo
1998, n. 80, come sostituito dall’art. 7 della legge n. 205/2000 – Illegittimità costituzionale – Nella parte in cui non riserva una "particolare
materia" alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo – Va dichiarata.
4. Giustizia amministrativa - Giurisdizione esclusiva del G.A. – In materia di servizi pubblici – Ex art. 33 del decreto legislativo 31 marzo
1998, n. 80, come sostituito dall’art. 7 della legge n. 205/2000 – Legittimità costituzionale – Condizioni – Individuazione.
5. Giustizia amministrativa – Giurisdizione esclusiva del G.A. – In materia di servizi pubblici – Ex art. 33, comma 1, del decreto legislativo
31 marzo 1998, n. 80, come sostituito dall’art. 7, lettera a, della legge n. 205/2000 – Illegittimità costituzionale - Nella parte in cui prevede
che sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo «tutte le controversie in materia di pubblici servizi, ivi compresi
quelli» anziché «le controversie in materia di pubblici servizi relative a concessioni di pubblici servizi, escluse quelle concernenti indennità,
canoni ed altri corrispettivi, ovvero relative a provvedimenti adottati dalla pubblica amministrazione o dal gestore di un pubblico servizio in
un procedimento amministrativo disciplinato dalla legge 7 agosto 1990, n. 241, ovvero ancora relative all’affidamento di un pubblico
servizio, ed alla vigilanza e controllo nei confronti del gestore, nonché» - Va dichiarata.
6. Giustizia amministrativa - Giurisdizione esclusiva del G.A. – In materia di servizi pubblici – Ex art. 33, comma 2 del decreto legislativo 31
marzo 1998, n. 80, come sostituito dall’art. 7, lettera a, della legge n. 205/2000 - Illegittimità costituzionale – Va dichiarata.
7. Giustizia amministrativa - Giurisdizione esclusiva del G.A. – In materia di urbanistica ed edilizia – Ex art. 34, comma 1 del decreto
legislativo 31 marzo 1998, n. 80, come sostituito dall’art. 7, lettera b, della legge n. 205/2000 – Illegittimità costituzionale - Nella parte in cui
prevede che sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie aventi per oggetto «gli atti, i provvedimenti
e i comportamenti» anziché «gli atti e i provvedimenti» delle pubbliche amministrazioni e dei soggetti alle stesse equiparati, in materia
urbanistica ed edilizia – Va dichiarata.
8. Giustizia amministrativa - Giurisdizione esclusiva del G.A. – Potere di condannare la P.A. al risarcimento del danno – Non è
incostituzionale, costituendo non già una nuova materia ma uno strumento di tutela ulteriore, rispetto a quello classico demolitorio (e/o
conformativo).
1. Il vigente art. 103, primo comma, Cost. non ha conferito al legislatore ordinario una assoluta ed incondizionata discrezionalità
nell’attribuzione al giudice amministrativo di materie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, ma gli ha conferito il potere di indicare
"particolari materie" nelle quali "la tutela nei confronti della pubblica amministrazione" investe "anche" diritti soggettivi: un potere,
quindi, del quale può dirsi, al negativo, che non è né assoluto né incondizionato, e del quale, in positivo, va detto che deve considerare la
natura delle situazioni soggettive coinvolte, e non fondarsi esclusivamente sul dato, oggettivo, delle materie. Il legislatore ordinario, quindi,
ben può ampliare l’area della giurisdizione esclusiva, purché lo faccia con riguardo a materie (in tal senso, particolari) che, in assenza di tale
previsione, contemplerebbero pur sempre, in quanto vi opera la pubblica amministrazione-autorità, la giurisdizione generale di legittimità.
2. In materia di giurisdizione esclusiva del G.A., è da escludere che: a) la mera partecipazione della pubblica amministrazione al giudizio sia
sufficiente perché si radichi la giurisdizione del giudice amministrativo (il quale davvero assumerebbe le sembianze di giudice "della"
pubblica amministrazione: con violazione degli artt. 25 e 102, secondo comma, Cost.); b) che sia sufficiente il generico coinvolgimento di un
pubblico interesse nella controversia perché questa possa essere devoluta al giudice amministrativo.
3. La formulazione dell’art. 33 del d.lgs. n. 80 del 1998, quale recata dall’art. 7, comma 1, lettera a), della legge n. 205 del 2000, confligge con
i criteri ai quali deve ispirarsi la legge ordinaria quando voglia riservare una "particolare materia" alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo. Ed infatti, non soltanto (e non tanto) il riferimento ad una materia (i pubblici servizi) dai confini non compiutamente
delimitati (se non in relazione all’ipotesi di concessione prevista fin dall’art. 5 della legge n. 1034 del 1971), quanto, e soprattutto, quello a
"tutte le controversie" ricadenti in tale settore rende evidente che la "materia" così individuata prescinde del tutto dalla natura delle
situazioni soggettive in essa coinvolte: sicché, inammissibilmente, la giurisdizione esclusiva si radica sul dato, puramente oggettivo, del
normale coinvolgimento in tali controversie di quel generico pubblico interesse che è naturaliter presente nel settore dei pubblici servizi. Ma,
in tal modo, viene a mancare il necessario rapporto di species a genus che l’art. 103 Cost. esige allorché contempla, come "particolari",
rispetto a quelle nelle quali la pubblica amministrazione agisce quale autorità, le materie devolvibili alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo.
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4. La materia dei pubblici servizi può essere oggetto di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo se in essa la pubblica
amministrazione agisce esercitando il suo potere autoritativo ovvero, attesa la facoltà, riconosciutale dalla legge, di adottare strumenti
negoziali in sostituzione del potere autoritativo, se si vale di tale facoltà (la quale, tuttavia, presuppone l’esistenza del potere autoritativo:
art. 11 della legge n. 241 del 1990).
5. È costituzionalmente illegittimo l’art. 33, comma 1, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80, come sostituito dall’art. 7, lettera a, della
legge 21 luglio 2000, n. 205, nella parte in cui prevede che sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo «tutte le
controversie in materia di pubblici servizi, ivi compresi quelli» anziché «le controversie in materia di pubblici servizi relative a concessioni
di pubblici servizi, escluse quelle concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi, ovvero relative a provvedimenti adottati dalla pubblica
amministrazione o dal gestore di un pubblico servizio in un procedimento amministrativo disciplinato dalla legge 7 agosto 1990, n. 241,
ovvero ancora relative all’affidamento di un pubblico servizio, ed alla vigilanza e controllo nei confronti del gestore, nonché».
6. È costituzionalmente illegittimo l’art. 33, comma 2, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80, come sostituito dall’art. 7, lettera a, della
legge 21 luglio 2000, n. 205.
7. È costituzionalmente illegittimo l’art. 34, comma 1, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80, come sostituito dall’art. 7, lettera b, della
legge 21 luglio 2000, n. 205, nella parte in cui prevede che sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le
controversie aventi per oggetto «gli atti, i provvedimenti e i comportamenti» anziché «gli atti e i provvedimenti» delle pubbliche
amministrazioni e dei soggetti alle stesse equiparati, in materia urbanistica ed edilizia.
8. La dichiarazione di incostituzionalità degli artt. 33 e 34 del D.L.vo n. 80/1998 non investe in alcun modo l’art. 7 della legge n. 205 del 2000,
nella parte in cui (lettera c) sostituisce l’art. 35 del d.lgs. n. 80 del 1998: il potere riconosciuto al giudice amministrativo di disporre, anche
attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto non costituisce sotto alcun profilo una nuova "materia"
attribuita alla sua giurisdizione, bensì uno strumento di tutela ulteriore, rispetto a quello classico demolitorio (e/o conformativo), da
utilizzare per rendere giustizia al cittadino nei confronti della pubblica amministrazione (1).
Considerato in diritto
1.– Il Tribunale di Roma solleva questione di legittimità costituzionale, con r.o. n. 488 del 2002, dell’art. 33, comma 1 e comma 2, lettere b) ed e) e,
con r.o. n. 226, n. 227 e n. 680 del 2003, dell’art. 34, comma 1, del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80, come sostituiti dall’art. 7 della legge 21 luglio 2000,
n. 205; in tutte le ordinanze di rimessione si assumono violati gli artt. 3, 24, 102, 103, 111 e 113 della Costituzione, mentre la prima ordinanza
dubita, altresì, della violazione degli artt. 25 e 100 della Costituzione.
I giudizi – in ciascuno dei quali è adeguatamente motivata la rilevanza della questione – devono essere riuniti in quanto, sia pure in relazione a due
norme diverse (artt. 33 e 34 del d.lgs. n. 80 del 1998, come modificati dall’art. 7 della legge n. 205 del 2000), in tutti viene sostanzialmente posta la
(medesima) questione dei limiti che il legislatore ordinario deve rispettare nel disciplinare, ampliandola, la giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo.
2.– Le questioni sono fondate nei limiti di seguito precisati.
2.1.– I giudici rimettenti lamentano che la legge n. 205 del 2000, portando a compimento un disegno di politica legislativa volto, a partire dal 1990,
ad estendere l’area della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, abbia sostituito al criterio di riparto della giurisdizione fissato in
Costituzione, e costituito dalla dicotomia diritti soggettivi-interessi legittimi, il diverso criterio dei "blocchi di materie": in tal modo sarebbe stato
alterato non soltanto il rapporto tra giurisdizione del giudice ordinario e del giudice amministrativo – rapporto che, pur non essendo stato realizzato il
principio dell’unicità della giurisdizione, dovrebbe pur sempre essere di regola ad eccezione quanto alla cognizione su diritti soggettivi – ma anche il
rapporto, all’interno della giurisdizione del giudice amministrativo, tra giurisdizione (generale) di legittimità e giurisdizione (speciale, se non
eccezionale) esclusiva.
La violazione degli artt. 102 e 103 Cost. (e dell’art. 100 – aggiunge l’ordinanza n. 488 del 2002 – con la trasformazione del Consiglio di Stato da
giudice "nell’amministrazione" in giudice "dell’amministrazione") non si sarebbe realizzata con i pur massicci interventi legislativi degli anni ’90, in
quanto le nuove ipotesi di giurisdizione esclusiva concernevano pur sempre «talune specifiche controversie» caratterizzate «dall’intreccio di
posizioni giuridiche riconducibili tanto al diritto soggettivo quanto all’interesse legittimo»: è con il d.lgs. n. 80 del 1998, specie come trasfuso
nell’art. 7 della legge n. 205 del 2000, che il legislatore ha abbandonato il criterio dello «inestricabile nodo gordiano» ravvisabile in specifiche
controversie correlate all’interesse generale per accogliere quello dei «blocchi di materie», nelle quali «la commistione di diritti soggettivi ed
interessi legittimi non si debba ricercare nelle varie tipologie delle singole controversie ma nell’atteggiarsi dell’azione della pubblica
amministrazione in settori determinati, anche se molto estesi, connotati da una significativa presenza dell’interesse pubblico».
La Costituzione, attribuendo al giudice ordinario «il ruolo di giudice naturale dei diritti soggettivi tra privati e pubblica amministrazione», avrebbe
recepito e fatto propri i principi ispiratori della legge n. 2248 del 1865, All. E, così conferendo alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo
un carattere residuale, che può giustificare «eccezioni ma non stravolgimenti» rispetto alla «tendenziale generalità ed illimitatezza delle attribuzioni
del giudice ordinario».
Anche a voler prescindere dall’irragionevolezza della scelta legislativa di esaltare il ruolo del giudice amministrativo nel momento in cui al c.d.
modello autoritativo dei rapporti cittadino-pubblica amministrazione viene sempre più sostituito il c.d. modello negoziale, tale scelta – unita al
conferimento al giudice amministrativo di «pienezza di poteri decisori» e quindi anche risarcitori, perfino «al di fuori della giurisdizione esclusiva e
nell’ambito della sua giurisdizione generale di legittimità» – farebbe sì che «il giudice amministrativo sia ormai proiettato in una dimensione
civilistica che fino a ieri costituiva territorio esclusivo del giudice ordinario», per giunta senza sottostare al controllo nomofilattico, che costituisce
anche garanzia di parità di trattamento, della Corte di cassazione.
2.2.– Del tutto correttamente i rimettenti osservano che la Carta costituzionale ha recepito – non senza conservare traccia nell’art. 102, primo
comma, dell’orientamento favorevole all’unicità della giurisdizione – il nucleo dei principi in materia di giustizia amministrativa quali evolutisi a
partire dalla legge abolitrice del contenzioso amministrativo del 1865: ed i lavori della Costituente documentano come «l’indispensabile
riassorbimento nella Costituzione dei principi fondamentali della legge 20 marzo 1865» conducesse, da un lato, alla proposta di Calamandrei per cui
«l’esercizio del potere giudiziario in materia civile, penale e amministrativa appartiene esclusivamente ai giudici ordinari» (art. 12, discusso dalla
seconda Sottocommissione il 17 dicembre 1946) e, dall’altro lato, al testo (proposto dagli on.li Conti, Bettiol, Perassi, Fabbri e Vito Reale) approvato
dall’Assemblea costituente nella seduta pomeridiana del 21 novembre 1947, corrispondente agli attuali artt. 102 e 103 Cost.; e conducesse, inoltre,
alla esclusione della soggezione delle decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti al controllo di legittimità della Corte di cassazione,
limitandolo al solo «eccesso di potere giudiziario», coerentemente alla «unità non organica, ma funzionale di giurisdizione, che non esclude, anzi
implica, una divisione dei vari ordini di giudici in sistemi diversi, in sistemi autonomi, ognuno dei quali fa parte a sé» (così Mortati, seduta
pomeridiana del 27 novembre 1947).
In realtà, come la dottrina ha da tempo chiarito, la legge n. 2248 del 1865, All. E, nel momento stesso in cui assicurava tutela al cittadino davanti al
giudice ordinario per «tutte le materie nelle quali si faccia questione di un diritto civile o politico, comunque vi possa essere interessata la pubblica
amministrazione» (art. 2), sanciva in ogni altro caso (per «gli affari non compresi nell’articolo precedente») la totale sottrazione a qualsiasi controllo
giurisdizionale della sfera della c.d. amministrazione pura (art. 3): in tal modo – anche grazie all’ampiezza con la quale questa zona "franca"
dell’amministrazione fu intesa dalla giurisprudenza, in ciò incoraggiata dall’allora giudice dei conflitti, il Consiglio di Stato, e dal successivo giudice
ex legge 31 marzo 1877 n. 3761, le sezioni unite della Cassazione romana – la legge del 1865 creava le premesse della legislazione successiva volta a
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colmare il sempre più grave vuoto di tutela giurisdizionale da essa lasciato con il puro e semplice ignorare tale esigenza negli «affari non compresi»
nell’art. 2.
La relazione Crispi al disegno di legge, divenuto la legge (istitutiva della IV Sezione) 31 marzo 1889, n. 5992, chiarisce infatti che «la legge 20
marzo 1865, All. E, proclamò l’unità della giurisdizione, ma nulla avendo sostituito al contenzioso amministrativo che abolì, rimase abbandonata alla
potestà amministrativa l’immensa somma di interessi onde lo Stato è depositario»; e pur se soltanto la legge 7 marzo 1907, n. 62, istitutiva della V
Sezione, definì "giurisdizionale" questa e la IV Sezione, riconoscendo alle loro decisioni l’efficacia del giudicato, la funzione giurisdizionale
dell’organo, che sarebbe stato chiamato a colmare il vuoto di tutela da essa lasciato, era già insita nella legge abolitrice del contenzioso
amministrativo.
E’ evidente, quindi, l’ambivalenza del richiamo – operato così da Calamandrei come dai suoi oppositori nell’Assemblea costituente –
all’«indispensabile riassorbimento nella Costituzione dei principi fondamentali della legge 20 marzo 1865, All. E»: richiamo, che potrebbe dirsi
"statico", da parte di chi voleva colmare, nel 1947, con il giudice ordinario (eventualmente attraverso sue sezioni specializzate), il vuoto di tutela
lasciato nel 1865 ed "abusivamente" (rispetto ai principi proclamati nell’art. 2) poi riempito da un Consiglio di Stato che aveva, ormai, «esaurito
storicamente» il suo compito (Calamandrei, II Sottocommissione, seduta pomeridiana del 9 gennaio 1947); richiamo, che potrebbe dirsi "dinamico",
da parte di chi sottolineava che «il Consiglio di Stato non ha mai tolto nulla al giudice ordinario» (così Bozzi, ivi) in quanto la giurisdizione
amministrativa è sorta «non come usurpazione al giudice ordinario di particolari attribuzioni, ma come conquista di una tutela giurisdizionale da
parte del cittadino nei confronti della pubblica amministrazione; quindi non si tratta di ristabilire la tutela giudiziaria ordinaria del cittadino che sia
stata usurpata da questa giurisdizione amministrativa, ma di riconsacrare la perfetta tradizione di una conquista particolare di tutela da parte del
cittadino» (Leone, Assemblea, seduta pomeridiana del 21 novembre 1947).
Sembra allora chiaro che il Costituente, accogliendo quest’ultima impostazione, ha riconosciuto al giudice amministrativo piena dignità di giudice
ordinario per la tutela, nei confronti della pubblica amministrazione, delle situazioni soggettive non contemplate dal (modo in cui era stato inteso)
l’art. 2 della legge del 1865; così come di questa legge ha, con quello che sarebbe diventato l’art. 113 Cost., recepito il principio – «e fu per questo
ritenuta una conquista liberale di grande importanza» – «per il quale, quando un diritto civile o politico viene leso da un atto della pubblica
amministrazione, questo diritto si può far valere di fronte all’Autorità giudiziaria ordinaria, in modo che la pubblica amministrazione davanti ai
giudici ordinari viene a trovarsi, in questi casi, come un qualsiasi litigante privato soggetto alla giurisdizione … principio fondamentale che è stato
completato poi con l’istituzione delle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato … dell’unicità della giurisdizione nei confronti della pubblica
amministrazione» (Calamandrei, Assemblea, seduta pomeridiana del 27 novembre 1947).
2.3.– Se, relativamente alla conservazione della giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo, l’esame dei lavori dell’Assemblea
costituente offre il quadro che si è tratteggiato, da essi non emergono particolari elementi di chiarificazione relativamente alla previsione, nel testo
dell’art. 103 Cost., della giurisdizione esclusiva: previsione che compare quasi come accessoria rispetto a quella generale di legittimità, per «la
inscindibilità delle questioni di interesse legittimo e di diritto soggettivo, e per la prevalenza delle prime», le quali impongono di «aggiungere la
competenza del Consiglio di Stato per i diritti soggettivi, nelle materie particolari specificamente indicate dalla legge» (Ruini, Assemblea, seduta
pomeridiana del 21 novembre 1947).
3.– L’ambivalenza stessa della premessa, si è rilevato, esclude in radice che possa sostenersi che la Costituzione abbia definitivamente ed
immutabilmente cristallizzato la situazione esistente nel 1948 circa il riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo, ma deve
anche escludersi che dalla Costituzione non si desumano i confini entro i quali il legislatore ordinario, esercitando il potere discrezionale suo proprio
(più volte riconosciutogli da questa Corte), deve contenere i suoi interventi volti a ridistribuire le funzioni giurisdizionali tra i due ordini di giudici: a
ciò non ostando la circostanza che, per la prima volta in un testo normativo, è nella Costituzione che compare, e ripetutamente, la locuzione
"interessi legittimi".
Si è detto della chiara opzione del Costituente in favore del riconoscimento al giudice amministrativo della piena dignità di giudice: riconoscimento
per il quale milita, oltre e più che l’apprezzamento, più volte espresso nell’Assemblea costituente, per l’indipendenza con la quale il Consiglio di
Stato aveva operato durante il regime fascista, la circostanza che l’art. 24 Cost. assicura agli interessi legittimi – la cui tutela l’art. 103 riserva al
giudice amministrativo – le medesime garanzie assicurate ai diritti soggettivi quanto alla possibilità di farli valere davanti al giudice ed alla effettività
della tutela che questi deve loro accordare.
Si è anche sostenuto che, in presenza di tale opzione, il principio dell’unicità della giurisdizione – espresso dall’art. 102, con riguardo al giudice, e
riflesso nell’art. 113, con riguardo alle forme di tutela garantite al cittadino – sta a significare che in nessun caso il legislatore ordinario può far sì che
la pubblica amministrazione sia, in quanto tale, assoggettata ad una particolare giurisdizione, ovvero sottratta alla giurisdizione alla quale soggiace
«qualsiasi litigante privato»: la specialità di un giudice può fondarsi esclusivamente sul fatto che questo sia chiamato ad assicurare la giustizia
"nell’amministrazione", e non mai sul mero fatto che parte in causa sia la pubblica amministrazione.
3.1.– Alla luce di tali principi occorre valutare se la disciplina introdotta, in punto di giurisdizione esclusiva, dalla legge n. 205 del 2000 è tale da
confliggere con essi; ciò che equivale a chiedersi se quei principi conformino la giurisdizione esclusiva, ritenuta ammissibile dalla Costituzione, in
modo incompatibile con la disciplina dettata dalla legge de qua.
Si è rilevato (sub 2.1.) che i rimettenti ricordano diffusamente come la giurisdizione esclusiva – fino al 1990 confinata nei ristretti limiti segnati dagli
artt. 29 del t.u. n. 1054 del 1924 e 5, comma 1, della legge n. 1034 del 1971 (ma adde gli artt. 11 della legge n. 1185 del 1967; 32 della legge n. 426
del 1971; 16 della legge n. 10 del 1977; 6 della legge n. 440 del 1978; 35 della legge n. 47 del 1985; 11 della legge n. 210 del 1985) – sia stata
notevolmente estesa a partire da tale anno contemplando l’impugnazione degli atti delle c.d. autorità amministrative indipendenti (artt. 33 della legge
n. 287 del 1990; 7 del d.lgs. n. 74 del 1992; 10 della legge n. 109 del 1994; 2 della legge n. 481 del 1995; 1 della legge n. 249 del 1997) nonché
quella degli accordi tra privati e pubblica amministrazione (artt. 11 e 15 della legge n. 241 del 1990; legge n. 537 del 1993); ma tale estensione non
appare loro confliggente con alcun parametro costituzionale in quanto, osservano, pur sempre limitata a specifiche controversie connotate non già da
una generica rilevanza pubblicistica, bensì dall’intreccio di situazioni soggettive qualificabili come interessi legittimi e come diritti soggettivi.
La giurisdizione esclusiva introdotta, viceversa, dalla legge n. 205 del 2000 sarebbe qualitativamente diversa e, come tale, incompatibile con il
dettato costituzionale.
3.2.– Le censure che si sono sinteticamente riferite (sub 2.1.) colgono nel segno nella parte in cui denunciano l’adozione, da parte del legislatore
ordinario del 1998-2000, di un’idea di giurisdizione esclusiva ancorata alla pura e semplice presenza, in un certo settore dell’ordinamento, di un
rilevante pubblico interesse; un’idea – come osservano i rimettenti – che presuppone l’approvazione (mai avvenuta) di quel progetto di riforma (Atto
Camera 7465 XIII Legislatura) dell’art. 103 Cost. secondo il quale «la giurisdizione amministrativa ha ad oggetto le controversie con la pubblica
amministrazione nelle materie indicate dalla legge».
E’ evidente, viceversa, che il vigente art. 103, primo comma, Cost. non ha conferito al legislatore ordinario una assoluta ed incondizionata
discrezionalità nell’attribuzione al giudice amministrativo di materie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, ma gli ha conferito il potere di
indicare "particolari materie" nelle quali "la tutela nei confronti della pubblica amministrazione" investe "anche" diritti soggettivi: un potere, quindi,
del quale può dirsi, al negativo, che non è né assoluto né incondizionato, e del quale, in positivo, va detto che deve considerare la natura delle
situazioni soggettive coinvolte, e non fondarsi esclusivamente sul dato, oggettivo, delle materie.
Tale necessario collegamento delle "materie" assoggettabili alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo con la natura delle situazioni
soggettive – e cioè con il parametro adottato dal Costituente come ordinario discrimine tra le giurisdizioni ordinaria ed amministrativa – è espresso
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dall’art. 103 laddove statuisce che quelle materie devono essere "particolari" rispetto a quelle devolute alla giurisdizione generale di legittimità: e
cioè devono partecipare della loro medesima natura, che è contrassegnata della circostanza che la pubblica amministrazione agisce come autorità nei
confronti della quale è accordata tutela al cittadino davanti al giudice amministrativo.
Il legislatore ordinario ben può ampliare l’area della giurisdizione esclusiva purché lo faccia con riguardo a materie (in tal senso, particolari) che, in
assenza di tale previsione, contemplerebbero pur sempre, in quanto vi opera la pubblica amministrazione-autorità, la giurisdizione generale di
legittimità: con il che, da un lato, è escluso che la mera partecipazione della pubblica amministrazione al giudizio sia sufficiente perché si radichi la
giurisdizione del giudice amministrativo (il quale davvero assumerebbe le sembianze di giudice "della" pubblica amministrazione: con violazione
degli artt. 25 e 102, secondo comma, Cost.) e, dall’altro lato, è escluso che sia sufficiente il generico coinvolgimento di un pubblico interesse nella
controversia perché questa possa essere devoluta al giudice amministrativo.
3.3.– E’ appena il caso di rilevare che, ove il legislatore ordinario si attenga ai criteri appena enunciati, si risolve in radice anche il problema che i
rimettenti pongono con riguardo all’art. 111, settimo comma, Cost.: è sufficiente osservare, infatti, che è la stessa Carta costituzionale a prevedere
che siano sottratte al vaglio di legittimità della Corte di cassazione le pronunce che investono i diritti soggettivi nei confronti dei quali, nel rispetto
della "particolarità" della materia nel senso sopra (3.2) chiarito, il legislatore ordinario prevede la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
3.4.– Alla luce di tali criteri – desumibili dalla lettera delle norme nelle quali si è incarnata, nella Costituzione, la storia della giustizia amministrativa
in Italia – la disciplina dettata dall’art. 7 della legge n. 205 del 2000, nella parte in cui sostituisce gli artt. 33 e 34 del d.lgs. n. 80 del 1998, non è
conforme a Costituzione.
3.4.1.– Va premesso che la dichiarazione di incostituzionalità non investe in alcun modo – nonostante i rimettenti ne adducano il disposto a sostegno
delle loro censure – l’art. 7 della legge n. 205 del 2000, nella parte in cui (lettera c) sostituisce l’art. 35 del d.lgs. n. 80 del 1998: il potere
riconosciuto al giudice amministrativo di disporre, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto non
costituisce sotto alcun profilo una nuova "materia" attribuita alla sua giurisdizione, bensì uno strumento di tutela ulteriore, rispetto a quello classico
demolitorio (e/o conformativo), da utilizzare per rendere giustizia al cittadino nei confronti della pubblica amministrazione.
L’attribuzione di tale potere non soltanto appare conforme alla piena dignità di giudice riconosciuta dalla Costituzione al Consiglio di Stato (sub 3),
ma anche, e soprattutto, essa affonda le sue radici nella previsione dell’art. 24 Cost., il quale, garantendo alle situazioni soggettive devolute alla
giurisdizione amministrativa piena ed effettiva tutela, implica che il giudice sia munito di adeguati poteri; e certamente il superamento della regola
(avvenuto, peraltro, sovente in via pretoria nelle ipotesi olim di giurisdizione esclusiva), che imponeva, ottenuta tutela davanti al giudice
amministrativo, di adire il giudice ordinario, con i relativi gradi di giudizio, per vedersi riconosciuti i diritti patrimoniali consequenziali e l’eventuale
risarcimento del danno (regola alla quale era ispirato anche l’art. 13 della legge 19 febbraio 1992, n. 142, che pure era di derivazione comunitaria),
costituisce null’altro che attuazione del precetto di cui all’art. 24 Cost..
3.4.2.– La formulazione dell’art. 33 del d.lgs. n. 80 del 1998, quale recata dall’art. 7, comma 1, lettera a), della legge n. 205 del 2000, confligge con i
criteri, quali si sono individuati sub 3.2. ai quali deve ispirarsi la legge ordinaria quando voglia riservare una "particolare materia" alla giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo.
Ed infatti, non soltanto (e non tanto) il riferimento ad una materia (i pubblici servizi) dai confini non compiutamente delimitati (se non in relazione
all’ipotesi di concessione prevista fin dall’art. 5 della legge n. 1034 del 1971), quanto, e soprattutto, quello a "tutte le controversie" ricadenti in tale
settore rende evidente che la "materia" così individuata prescinde del tutto dalla natura delle situazioni soggettive in essa coinvolte: sicché,
inammissibilmente, la giurisdizione esclusiva si radica sul dato, puramente oggettivo, del normale coinvolgimento in tali controversie di quel
generico pubblico interesse che è naturaliter presente nel settore dei pubblici servizi. Ma, in tal modo, viene a mancare il necessario rapporto di
species a genus che l’art. 103 Cost. esige allorché contempla, come "particolari", rispetto a quelle nelle quali la pubblica amministrazione agisce
quale autorità, le materie devolvibili alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
Tale conclusione è avvalorata dalla circostanza che il comma 2 della norma individua esemplificativamente ("in particolare") controversie, quale
quella incardinata davanti al giudice a quo, nelle quali può essere del tutto assente ogni profilo riconducibile alla pubblica amministrazione-autorità:
e certamente le ipotesi specificamente censurate (lettere b ed e) sono tali da non resistere al vaglio di costituzionalità in quanto non soltanto (come le
altre contemplate dal comma 2) travolte dalla censura che investe la previsione di "tutte le controversie in materia di pubblici servizi", ma anche
perché, ex se, integrano ipotesi nelle quali tali controversie non vedono, normalmente, coinvolta la pubblica amministrazione-autorità.
La materia dei pubblici servizi può essere oggetto di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo se in essa la pubblica amministrazione agisce
esercitando il suo potere autoritativo ovvero, attesa la facoltà, riconosciutale dalla legge, di adottare strumenti negoziali in sostituzione del potere
autoritativo, se si vale di tale facoltà (la quale, tuttavia, presuppone l’esistenza del potere autoritativo: art. 11 della legge n. 241 del 1990): sicché,
conclusivamente, va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 33, comma 1, nella parte in cui prevede che sono devolute alla giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo «tutte le controversie in materia di pubblici servizi» anziché le controversie in materia di pubblici servizi
relative a concessioni di pubblici servizi, escluse quelle concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi (così come era previsto fin dall’art. 5 della
legge n. 1034 del 1971), ovvero relative a provvedimenti adottati dalla pubblica amministrazione o dal gestore di un pubblico servizio in un
procedimento amministrativo disciplinato dalla legge n. 241 del 7 agosto 1990, ovvero ancora relative all’affidamento di un pubblico servizio, ed alla
vigilanza e controllo nei confronti del gestore (così come era previsto dall’art. 33, comma 2, lettere c e d).
Va altresì dichiarata l’illegittimità costituzionale del comma 2 della norma in esame.
3.4.3.– Analoghi rilievi investono la nuova formulazione dell’art. 34 del d.lgs. n. 80 del 1998, quale recata dall’art. 7, comma 1, lettera b), della legge
n. 205 del 2000: formulazione che si pone in contrasto con la Costituzione nella parte in cui, comprendendo nella giurisdizione esclusiva – oltre "gli
atti e i provvedimenti" attraverso i quali le pubbliche amministrazioni (direttamente ovvero attraverso "soggetti alle stesse equiparati") svolgono le
loro funzioni pubblicistiche in materia urbanistica ed edilizia – anche "i comportamenti", la estende a controversie nelle quali la pubblica
amministrazione non esercita – nemmeno mediatamente, e cioè avvalendosi della facoltà di adottare strumenti intrinsecamente privatistici – alcun
pubblico potere.
Poiché, mutatis mutandis, a tale previsione dell’art. 34, comma 1, del d.lgs. n. 80 del 1998 si attagliano le medesime considerazioni che si sono
esposte (sub 3.4.2.) a proposito dell’art. 33, comma 1, deve dichiararsi l’illegittimità costituzionale dell’art. 34, comma 1, del d.lgs. n. 80 del 1998,
come sostituito dall’art. 7, comma 1, lettera b), della legge n. 205 del 2000, nella parte in cui devolve alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo le controversie aventi per oggetto «gli atti, i provvedimenti e i comportamenti» in luogo che «gli atti e i provvedimenti» delle
amministrazioni pubbliche e dei soggetti alle stesse equiparati.
Per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 33, comma 1, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80 (Nuove disposizioni in materia di
organizzazione e di rapporti di lavoro nelle amministrazioni pubbliche, di giurisdizione nelle controversie di lavoro e di giurisdizione amministrativa,
emanate in attuazione dell’articolo 11, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59), come sostituito dall’art. 7, lettera a, della legge 21 luglio 2000,
n. 205 (Disposizioni in materia di giustizia amministrativa), nella parte in cui prevede che sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo «tutte le controversie in materia di pubblici servizi, ivi compresi quelli» anziché «le controversie in materia di pubblici servizi
relative a concessioni di pubblici servizi, escluse quelle concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi, ovvero relative a provvedimenti adottati
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dalla pubblica amministrazione o dal gestore di un pubblico servizio in un procedimento amministrativo disciplinato dalla legge 7 agosto 1990, n.
241, ovvero ancora relative all’affidamento di un pubblico servizio, ed alla vigilanza e controllo nei confronti del gestore, nonché»;
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 33, comma 2, del medesimo decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80, come sostituito dall’art. 7, lettera
a, della legge 21 luglio 2000, n. 205;
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 34, comma 1, del medesimo decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80, come sostituito dall’art. 7, lettera
b, della legge 21 luglio 2000, n. 205, nella parte in cui prevede che sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le
controversie aventi per oggetto «gli atti, i provvedimenti e i comportamenti» anziché «gli atti e i provvedimenti» delle pubbliche amministrazioni e
dei soggetti alle stesse equiparati, in materia urbanistica ed edilizia.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 luglio 2004.
F.to:
Gustavo ZAGREBELSKY, Presidente
Romano VACCARELLA, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 6 luglio 2004.
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2) LA GIURISDIZIONE DEL G.A. IN MATERIA DI COMPORTAMENTI, CON PARTICOLARE RIFERIMENTO ALLE
CONTROVERSIE IN MATERIA DI OCCUPAZIONE APPROPRIATIVA ED USURPATIVA
CORTE COSTITUZIONALE - sentenza 11 maggio 2006 n. 191 - Pres. Marini, Red. Vaccarella - (giudizi promossi con ordinanze del 22 ottobre
2004 e del 5 maggio 2005 dal T.A.R. Calabria sui ricorsi proposti da Marzano Fabrizio ed altri contro il Ministero dell’interno ed altri e da Carè
Ilario contro il Comune di Nardodipace, iscritte ai numeri 36 e 425 del registro ordinanze 2005 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
numeri 7 e 37, prima serie speciale, dell’anno 2005).
1. Giurisdizione e competenza - Espropriazione per p.u. - Occupazione acquisitiva - Controversie - Devoluzione di esse alla giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo - Ex art. 53, comma 1, del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 325 - Illegittimità costituzionale di
quest’ultima norma - Va dichiarata nella parte in cui non esclude dalla giurisdizione del g.a. i comportamenti non riconducibili, nemmeno
mediatamente, all’esercizio di un pubblico potere.
2. Giurisdizione e competenza - Giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo - Sentenza n. 204 del 2004 - Interpretazione Controversie relative a "comportamenti" (di impossessamento del bene altrui) collegati all’esercizio, pur se illegittimo, di un pubblico
potere - Conferimento alla giurisdizione esclusiva del g.a. - Legittimità - Controversie relative a "comportamenti" posti in essere in carenza
di potere ovvero in via di mero fatto - Conferimento alla giurisdizione esclusiva del g.a. - Illegittimità.
3. Giurisdizione e competenza - Risarcimento dei danni - Controversie in materia - Giurisdizione del giudice amministrativo - Nel caso di
annullamento di atti illegittimi - Sussiste - Circostanza che la pretesa risarcitoria abbia, o non abbia, intrinseca natura di diritto soggettivo Irrilevanza.
4. Espropriazione per p.u. - Occupazione appropriativa ed occupazione usurpativa - Differenze - Nozione - Individuazione.
5. Espropriazione per p.u. - Occupazione appropriativa ed occupazione usurpativa - Previsione nel primo caso del solo risarcimento del
danno per equivalente monetario - Previsione nel secondo caso, in alternativa, anche della restituzione del bene.
1. Va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 53, comma 1, del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 325 (Testo unico delle
disposizioni legislative in materia di espropriazione per pubblica utilità – Testo B), trasfuso nell’art. 53, comma 1, del d.P.R. 8 giugno 2001,
n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità – Testo A), nella parte in
cui, devolvendo alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie relative a «i comportamenti delle pubbliche
amministrazioni e dei soggetti ad esse equiparati», non esclude i comportamenti non riconducibili, nemmeno mediatamente, all’esercizio di
un pubblico potere (1).
2. I principi già enunciati dalla Corte costituzionale in materia di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo con la sentenza n. 204
del 2004 comportano che deve ritenersi conforme a Costituzione la devoluzione alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo delle
controversie relative a "comportamenti" (di impossessamento del bene altrui) collegati all’esercizio, pur se illegittimo, di un pubblico
potere, laddove deve essere dichiarata costituzionalmente illegittima la devoluzione alla giurisdizione esclusiva del g.a. di "comportamenti"
posti in essere in carenza di potere ovvero in via di mero fatto.
3. Con l'art. 7 della L. n. 205 del 2000, al precedente sistema che, in considerazione della natura intrinseca di diritto soggettivo della
situazione giuridica conseguente all'annullamento del provvedimento amministrativo, attribuiva al giudice ordinario le controversie sul
risarcimento del danno conseguente all'annullamento di atti amministrativi, il legislatore ha sostituito un sistema che riconosce
esclusivamente al giudice naturale della legittimità dell'esercizio della funzione pubblica poteri idonei ad assicurare piena tutela, e quindi
anche il potere di risarcire, sia per equivalente sia in forma specifica, il danno sofferto per l'illegittimo esercizio della funzione; da ciò
consegue che, ai fini del riparto di giurisdizione, è irrilevante la circostanza che la pretesa risarcitoria abbia, o non abbia, intrinseca natura
di diritto soggettivo.
4. Si ha occupazione appropriativa (ovvero, anche, accessione invertita o espropriazione sostanziale) quando il fondo è stato occupato a
seguito di dichiarazione di pubblica utilità, e pertanto nell’ambito di una procedura di espropriazione, ed ha subìto una irreversibile
trasformazione in esecuzione dell’opera di pubblica utilità senza che, tuttavia, sia intervenuto il decreto di esproprio o altro atto idoneo a
produrre l’effetto traslativo della proprietà; si ha invece occupazione usurpativa, nel caso di apprensione del fondo altrui in carenza di
titolo: carenza universalmente ravvisata nell’ipotesi di assenza ab initio della dichiarazione di pubblica utilità, e da taluni anche nell’ipotesi
di annullamento, con efficacia ex tunc, della dichiarazione inizialmente esistente ovvero di sua inefficacia per inutile decorso dei termini
previsti per l’esecuzione dell’opera pubblica.
5. Nel caso dell’occupazione appropriativa, perfezionandosi con l’irreversibile trasformazione del fondo la traslazione in capo
all’amministrazione del diritto di proprietà, il proprietario del fondo non può che chiedere la tutela per equivalente, mentre, nel caso
dell’occupazione usurpativa (rectius: nelle ipotesi – in relazione a taluna delle quali non v’è unanimità di consensi – ad essa riconducibili) il
proprietario può scegliere tra la restituzione del bene e, ove a questa rinunci così determinando il prodursi (dei presupposti) dell’effetto
traslativo, la tutela per equivalente.
-------------------------------------------Considerato in diritto
1.– Il TAR per la Calabria, sede di Catanzaro, solleva, con ordinanza n. 36 del 2005, in riferimento agli artt. 25 e 102, comma secondo, della
Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 53, comma 1, del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative
e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità – Testo A), e con ordinanza n. 425 del 2005, in riferimento all’art. 103 della
Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 53, comma 1, del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 325 (Testo unico delle
disposizioni legislative in materia di espropriazione per pubblica utilità – Testo B), disposizione trasfusa nell’art. 53, comma 1, del d.P.R. 8 giugno
2001, n. 327, innanzi menzionato, nella parte in cui devolvono alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie aventi per
oggetto i «comportamenti» delle pubbliche amministrazioni, e dei soggetti ad esse equiparati, in materia di espropriazione per pubblica utilità.
Entrambe le ordinanze – emesse nel corso di giudizi nei quali era stata proposta domanda di risarcimento dei danni per avere subìto, il fondo di
proprietà dei ricorrenti, radicali trasformazioni durante il periodo di occupazione disposta per la realizzazione di un’opera pubblica senza che fosse
intervenuto il decreto di esproprio – osservano che l’art. 53, comma 1, prevede la devoluzione alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo
delle controversie aventi ad oggetto (anche) «i comportamenti» delle pubbliche amministrazioni, e cioè la medesima ipotesi che questa Corte – con
la sentenza n. 204 del 2004 – ha espunto, ritenendola costituzionalmente illegittima, dall’art. 34, comma 1, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n.
80 (Nuove disposizioni in materia di organizzazione e di rapporti di lavoro nelle amministrazioni pubbliche, di giurisdizione nelle controversie di
lavoro e di giurisdizione amministrativa, emanate in attuazione dell’articolo 11, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59), come sostituito dall’art.
7, comma 1, lettera b), della legge 21 luglio 2000, n. 205 (Disposizioni in materia di giustizia amministrativa).
L’ordinanza n. 36 del 2005 precisa che il dubbio circa la conformità a Costituzione della norma de qua non avrebbe ragion d’essere ove la
dichiarazione di pubblica utilità ed urgenza fosse stata pronunciata dopo l’entrata in vigore del d.P.R. n. 327 del 2001 (e cioè dopo il 30 giugno 2003:
art. 1 del decreto legislativo n. 302 del 2002), dal momento che in tal caso opererebbe (ex art. 57 del d.P.R. n. 327, come modificato dal citato art. 1
del decreto legislativo n. 302 del 2002) anche l’art. 43 del medesimo d.P.R., il quale attribuisce alla pubblica amministrazione il potere (certamente
sindacabile dal giudice amministrativo) di acquisire l’immobile, «modificato in assenza del valido ed efficace provvedimento di esproprio o
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dichiarativo della pubblica utilità», al patrimonio indisponibile con «condanna al risarcimento del danno e con esclusione della restituzione del bene
senza limiti di tempo»; poiché nel caso sottoposto al suo esame la dichiarazione di pubblica utilità è intervenuta «ben prima del 30 giugno 2003», la
previsione (che sarebbe certamente di diritto sostanziale) dell’art. 43 non potrebbe operare e, pertanto, ci si troverebbe in una situazione
perfettamente analoga a quella che era disciplinata dall’art. 34 (dichiarato incostituzionale dalla sentenza n. 204 del 2004), del quale l’art. 53, comma
1, riproduce (aggiungendovi soltanto «gli accordi») il contenuto.
2.– Va rilevato che mentre una ordinanza (n. 425 del 2005) vede nella dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 53, comma 1, una sorta di
completamento di quanto, ex art. 27 della legge n. 87 del 1953, già con la sentenza n. 204 del 2004 questa Corte avrebbe potuto fare; l’altra (n. 36 del
2005) osserva che il mancato utilizzo da parte della Corte dello strumento della dichiarazione consequenziale di illegittimità costituzionale si
giustificherebbe per il collegamento, sopra ricordato, della previsione di cui all’art. 53, comma 1, con quella di cui all’art. 43: sicché, ove tale
collegamento ratione temporis non operi, il riferimento ai "comportamenti" dovrebbe essere cassato come lo fu quello contenuto nell’art. 34 del
d.lgs. n. 80 del 1998.
Ne discende che il petitum delle due ordinanze diverge in ciò, che l’una (n. 425) sollecita una pronuncia che definitivamente espunga dalla norma
censurata la locuzione "i comportamenti", mentre l’altra (n. 36) chiede che la Corte ciò faccia relativamente ai giudizi nei quali non potrebbe trovare
applicazione la norma (ritenuta) di diritto sostanziale (art. 43), che, sola, giustifica la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in quanto
contempla un potere della pubblica amministrazione sindacabile da parte di quel giudice.
3.– Questa Corte, con la sentenza n. 204 del 2004, ha giudicato di questioni di legittimità costituzionale che investivano, da un lato, l’art. 33 (relativo
ai pubblici servizi) e, dall’altro, l’art. 34 (relativo all’edilizia ed urbanistica) del d.lgs. n. 80 del 1998, come modificati dall’art. 7 (lettere a e b) della
legge n. 205 del 2000, in quanto con tali norme il legislatore aveva «sostituito al criterio di riparto della giurisdizione fissato in Costituzione, e
costituito dalla dicotomia diritti soggettivi-interessi legittimi, il diverso criterio dei "blocchi di materie"» (punto 2.1. del Considerato in diritto).
La Corte ha osservato che le censure mosse dai giudici rimettenti «colgono nel segno nella parte in cui denunciano l’adozione, da parte del
legislatore ordinario del 1998-2000, di un’idea di giurisdizione esclusiva ancorata alla pura e semplice presenza, in un certo settore dell’ordinamento,
di un rilevante pubblico interesse», laddove «è evidente che il vigente art. 103, primo comma, Cost., non ha conferito al legislatore ordinario una
assoluta ed incondizionata discrezionalità nell’attribuzione al giudice amministrativo di materie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, ma gli ha
conferito il potere di indicare "particolari materie" nelle quali "la tutela nei confronti della pubblica amministrazione" investe "anche" diritti
soggettivi». «Tale necessario collegamento delle "materie" assoggettabili alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo con la natura delle
situazioni soggettive – e cioè con il parametro adottato dal Costituente come ordinario discrimine tra le giurisdizioni ordinaria ed amministrativa – è
espresso dall’art. 103 laddove statuisce che quelle materie devono essere "particolari" rispetto a quelle devolute alla giurisdizione generale di
legittimità: e cioè devono partecipare della loro medesima natura, che è contrassegnata dalla circostanza che la pubblica amministrazione agisce
come autorità nei confronti della quale è accordata tutela al cittadino davanti al giudice amministrativo», sicché, «da un lato, è escluso che la mera
partecipazione della pubblica amministrazione al giudizio sia sufficiente perché si radichi la giurisdizione del giudice amministrativo […] e,
dall’altro lato, è escluso che sia sufficiente il generico coinvolgimento di un pubblico interesse nella controversia perché questa possa essere devoluta
al giudice amministrativo» (punto 3.2.).
Sulla base di tali premesse, questa Corte – dopo aver distinto nell’ambito dell’art. 33 le ipotesi in cui la materia dei servizi pubblici era
legittimamente devoluta al giudice amministrativo in quanto «la pubblica amministrazione agisce esercitando il suo potere autoritativo» da quelle
prive di tale connotato (punto 3.4.2.) – ha osservato che «analoghi rilievi investono la nuova formulazione dell’art. 34», la quale «si pone in contrasto
con la Costituzione nella parte in cui, comprendendo nella giurisdizione esclusiva – oltre "gli atti e i provvedimenti" attraverso i quali le pubbliche
amministrazioni […] svolgono le loro funzioni pubblicistiche in materia urbanistica ed edilizia – anche "i comportamenti", la estende a controversie
nelle quali la pubblica amministrazione non esercita – nemmeno mediatamente, e cioè avvalendosi della facoltà di adottare strumenti intrinsecamente
privatistici – alcun pubblico potere» (punto 4.3.3. del Considerato in diritto).
3.1.– Discende, dalla sommaria esposizione dell’iter argomentativo seguito dalla sentenza n. 204 del 2004, che non è corretta la premessa dalla quale
implicitamente muovono entrambe le ordinanze di rimessione, e cioè che, avendo questa Corte espunto dalla disposizione di cui all’art. 34 la
locuzione "i comportamenti", tale espunzione non possa non estendersi all’identica locuzione impiegata nell’art. 53, comma 1, del d.P.R. n. 327 del
2001.
Tale tesi, infatti, si fonda esclusivamente sulla circostanza che, con il suo dispositivo, la sentenza n. 204 del 2004 ha inciso sul testo dell’art. 34, ma
trascura del tutto non soltanto la motivazione che è alla base di quel dispositivo, ma anche, e soprattutto, la valenza che la locuzione espunta aveva,
specie in relazione alla questione di legittimità costituzionale allora sottoposta alla Corte, nella disposizione dell’art. 34 del d.lgs. n. 80 del 1998.
Ed infatti, nell’affrontare la questione del se fosse costituzionalmente legittimo devolvere alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo
"blocchi di materie" ed in particolare l’intera "materia urbanistica ed edilizia" (comprensiva, la prima, di "tutti gli aspetti dell’uso del territorio"),
questa Corte ha ravvisato – come risulta dalla motivazione della sentenza – nella locuzione "i comportamenti" lo strumento utilizzato dal legislatore
per operare l’indiscriminata devoluzione che si andava a censurare: sicché l’espunzione di tale locuzione, per la funzione "di chiusura" assegnatale
dal legislatore nell’art. 34, valeva a ribadire che la "materia edilizia ed urbanistica" non poteva essere devoluta "in blocco" alla giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo, ma poteva esserlo nei limiti precisati nella motivazione.
3.2.– La questione di legittimità costituzionale sulla quale questa Corte è ora chiamata a pronunciarsi investe (non più la pretesa del legislatore
ordinario di attribuire alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo "in blocco" la materia edilizia ed urbanistica, ma) specificamente la
conformità a Costituzione – e, segnatamente, agli artt. 25, 102, comma secondo, e 103 – della norma che, in tema di espropriazione per pubblica
utilità, devolve «alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie aventi per oggetto», oltre che «gli atti, i provvedimenti, gli
accordi», anche «i comportamenti delle amministrazioni pubbliche e dei soggetti ad esse equiparati»; questione che, per quanto si è fin qui osservato,
non può essere risolta attraverso la semplice e meccanica estensione a questa disposizione dell’espunzione (solo perché, allora, operata) della
locuzione de qua dall’art. 34 del d.lgs. n. 80 del 1998.
Va, altresì, precisato che, non essendo implausibile la tesi per cui l’art. 53, in quanto norma processuale (e non anche l’art. 43, in quanto norma di
diritto sostanziale), troverebbe applicazione nei giudizi aventi ad oggetto fattispecie non governate, quanto al diritto sostanziale, dal d.P.R. n. 327 del
2001, la questione di legittimità costituzionale ora all’esame della Corte concerne l’art. 53, comma 1, esclusivamente nella sua valenza di norma
attributiva della giurisdizione al giudice amministrativo, e pertanto senza che in alcun modo possa esserne coinvolta la norma nella parte in cui –
essendo applicabile l’art. 43 del d.P.R. n. 327 del 2001 – presuppone la possibilità che sia sindacato dal giudice amministrativo l’esercizio, da parte
della pubblica amministrazione, del potere di acquisire al suo patrimonio indisponibile l’immobile modificato.
Peraltro la questione sollevata è rilevante nei giudizi a quibus perché, non essendo implausibile la tesi dell’immediata applicabilità dell’art. 53,
comma 1, quale norma processuale (specie a giudizi incardinati nella vigenza dell’art. 34 del d. lgs. n. 80 del 1998, come modificato dalla legge n.
205 del 2000) e pendendo la causa davanti al giudice amministrativo, l’eventuale carenza di sua giurisdizione a norma dell’art. 34 del d.lgs. n. 80 del
1998 – a seguito dell’espunzione della locuzione "i comportamenti" operata da questa Corte – legittimerebbe (ex art. 5 del codice di procedura civile)
una pronuncia declinatoria della giurisdizione solo ove fosse dichiarata costituzionalmente illegittima la disposizione dell’art. 53, comma 1, che ex
novo rende il giudice amministrativo munito di giurisdizione: se è vero, infatti, che la giurisdizione si determina con riguardo alla legge vigente al
momento della proposizione della domanda, è anche vero che il sopravvenire della giurisdizione in capo al giudice che originariamente ne era (o ne
era divenuto) sfornito impedisce – per pacifica giurisprudenza – la pronuncia declinatoria.
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4.– Le questioni sono fondate nei limiti di seguito precisati.
4.1.– Entrambe le fattispecie oggetto dei giudizi a quibus sono riconducibili alle ipotesi tradizionalmente denominate (in giurisprudenza e dottrina)
di occupazione appropriativa (ovvero, anche, di accessione invertita o espropriazione sostanziale): il che si verifica quando il fondo è stato occupato
a seguito di dichiarazione di pubblica utilità, e pertanto nell’ambito di una procedura di espropriazione, ed ha subìto una irreversibile trasformazione
in esecuzione dell’opera di pubblica utilità senza che, tuttavia, sia intervenuto il decreto di esproprio o altro atto idoneo a produrre l’effetto traslativo
della proprietà.
Tale fenomeno viene contrapposto a quello cosiddetto di occupazione usurpativa, caratterizzato dall’apprensione del fondo altrui in carenza di titolo:
carenza universalmente ravvisata nell’ipotesi di assenza ab initio della dichiarazione di pubblica utilità, e da taluni anche nell’ipotesi di
annullamento, con efficacia ex tunc, della dichiarazione inizialmente esistente ovvero di sua inefficacia per inutile decorso dei termini previsti per
l’esecuzione dell’opera pubblica.
Nel caso dell’occupazione appropriativa, perfezionandosi con l’irreversibile trasformazione del fondo la traslazione in capo all’amministrazione del
diritto di proprietà, il proprietario del fondo non può che chiedere la tutela per equivalente, laddove, nel caso dell’occupazione usurpativa (rectius:
nelle ipotesi – in relazione a taluna delle quali non v’è unanimità di consensi – ad essa riconducibili) il proprietario può scegliere tra la restituzione
del bene e, ove a questa rinunci così determinando il prodursi (dei presupposti) dell’effetto traslativo, la tutela per equivalente.
4.2.– È evidente che la soluzione della questione di legittimità costituzionale in esame non può che muovere da quanto questa Corte, con la più volte
citata sentenza n. 204 del 2004, ha statuito riguardo all’art. 35 (come modificato dall’art. 7, lettera c, della legge n. 205 del 2000) del d.lgs. n. 80 del
1998; statuizione, va precisato, e non già obiter dictum, in quanto la Corte – investita della questione di legittimità costituzionale della devoluzione
alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo dei "blocchi di materie" relative ai servizi pubblici ed all’edilizia ed urbanistica e del potere,
altresì, di giudicare di azioni risarcitorie riconosciutogli come attributo della giurisdizione esclusiva – non poteva non considerare, quanto meno con
riferimento al disposto dell’art. 35, comma 1, se anche la tutela risarcitoria fosse configurabile come una "materia" devoluta in blocco alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
In proposito questa Corte ha statuito che «il potere riconosciuto al giudice amministrativo di disporre, anche attraverso la reintegrazione in forma
specifica, il risarcimento del danno ingiusto non costituisce sotto alcun profilo una nuova "materia" attribuita alla sua giurisdizione, bensì uno
strumento di tutela ulteriore, rispetto a quello classico demolitorio (e/o conformativo), da utilizzare per rendere giustizia al cittadino nei confronti
della pubblica amministrazione».
4.3.– I principi appena ricordati impongono di escludere che, per ciò solo che la domanda proposta dal cittadino abbia ad oggetto esclusivo il
risarcimento del danno, la giurisdizione competa al giudice ordinario: ciò dicendo non intende questa Corte prendere posizione sul tema della natura
della situazione soggettiva sottesa alla pretesa risarcitoria, ovvero sulla natura (di norma secondaria, id est sanzionatoria di condotte aliunde vietate,
oppure primaria) dell’art. 2043 cod. civ., ma esclusivamente ribadire che laddove la legge – come fa l’art. 35 del d.lgs. n. 80 del 1998 – costruisce il
risarcimento del danno, ai fini del riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo, come strumento di tutela affermandone –
come è stato detto – il carattere "rimediale", essa non viola alcun precetto costituzionale e, anzi, costituisce attuazione del precetto dell’art. 24 Cost.
laddove questo esige che la tutela giurisdizionale sia effettiva e sia resa in tempi ragionevoli.
In altri termini, al precedente sistema che, in considerazione della natura intrinseca di diritto soggettivo della situazione giuridica conseguente
all’annullamento del provvedimento amministrativo, attribuiva al giudice ordinario «le controversie sul risarcimento del danno conseguente
all’annullamento di atti amministrativi» (così l’art. 35, comma 5, del d. lgs. n. 80 del 1998, come modificato dall’art. 7, lettera c della legge n. 205
del 2000), il legislatore ha sostituito (appunto con l’art. 35 cit.) un sistema che riconosce esclusivamente al giudice naturale della legittimità
dell’esercizio della funzione pubblica poteri idonei ad assicurare piena tutela, e quindi anche il potere di risarcire, sia per equivalente sia in forma
specifica, il danno sofferto per l’illegittimo esercizio della funzione.
Da ciò consegue che, ai fini del riparto di giurisdizione, è irrilevante la circostanza che la pretesa risarcitoria abbia – come si ritiene da alcuni –, o
non abbia, intrinseca natura di diritto soggettivo: avendo la legge, a questi fini, inequivocabilmente privilegiato la considerazione della situazione
soggettiva incisa dall’illegittimo esercizio della funzione amministrativa, a questa Corte competeva (e compete) solo di valutare se tale scelta del
legislatore – di collegare, cioè, quanto all’attribuzione della giurisdizione, la tutela risarcitoria a quella della situazione soggettiva incisa dal
provvedimento amministrativo illegittimo – confligga, o non, con norme costituzionali; ciò che, con la più volte ricordata sentenza n. 204 del 2004,
questa Corte ha escluso.
5.– Le considerazioni fin qui esposte rendono palese che la questione di legittimità costituzionale sollevata dalle ordinanze de quibus non può
risolversi in base al solo petitum, id est alla domanda di risarcimento del danno, bensì considerando il fatto, dedotto a fondamento della domanda,
che si assume causativo del danno ingiusto.
Con espressione ellittica l’art. 53, comma 1, individua (anche) nei "comportamenti" della pubblica amministrazione il fatto causativo del danno
ingiusto, in parte qua riproducendo il contenuto dell’art. 34 del d.lgs. n. 80 del 1998 (come modificato dall’art. 7 della legge n. 205 del 2000).
Tale previsione è costituzionalmente illegittima là dove la locuzione, prescindendo da ogni qualificazione di tali "comportamenti", attribuisce alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo controversie nelle quali sia parte − e per ciò solo che essa è parte − la pubblica amministrazione, e
cioè fa del giudice amministrativo il giudice dell’amministrazione piuttosto che l’organo di garanzia della giustizia nell’amministrazione (art. 100
Cost.).
Viceversa, nelle ipotesi in cui i "comportamenti" causativi di danno ingiusto – e cioè, nella specie, la realizzazione dell’opera – costituiscono
esecuzione di atti o provvedimenti amministrativi (dichiarazione di pubblica utilità e/o di indifferibilità e urgenza) e sono quindi riconducibili
all’esercizio del pubblico potere dell’amministrazione, la norma si sottrae alla censura di illegittimità costituzionale, costituendo anche tali
"comportamenti" esercizio, ancorché viziato da illegittimità, della funzione pubblica della pubblica amministrazione.
In sintesi, i principi sopra esposti – peraltro già enunciati da questa Corte con la sentenza n. 204 del 2004 – comportano che deve ritenersi conforme
a Costituzione la devoluzione alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo delle controversie relative a "comportamenti" (di
impossessamento del bene altrui) collegati all’esercizio, pur se illegittimo, di un pubblico potere, laddove deve essere dichiarata costituzionalmente
illegittima la devoluzione alla giurisdizione esclusiva di "comportamenti" posti in essere in carenza di potere ovvero in via di mero fatto.
L’attribuzione alla giurisdizione del giudice amministrativo della tutela risarcitoria – non a caso con la medesima ampiezza, e cioè sia per
equivalente sia in forma specifica, che davanti al giudice ordinario, e con la previsione di mezzi istruttori, in primis la consulenza tecnica,
schiettamente "civilistici" (art. 35, comma 3) – si fonda sull’esigenza, coerente con i principi costituzionali di cui agli artt. 24 e 111 Cost., di
concentrare davanti ad un unico giudice l’intera tutela del cittadino avverso le modalità di esercizio della funzione pubblica (così Corte di cassazione,
sez. un., 22 luglio 1999, n. 500 ), ma non si giustifica quando la pubblica amministrazione non abbia in concreto esercitato, nemmeno mediatamente,
il potere che la legge le attribuisce per la cura dell’interesse pubblico.
Per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 53, comma 1, del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 325 (Testo unico delle disposizioni legislative
in materia di espropriazione per pubblica utilità – Testo B), trasfuso nell’art. 53, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno
2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità – Testo A), nella parte in cui,
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devolvendo alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie relative a «i comportamenti delle pubbliche amministrazioni e dei
soggetti ad esse equiparati», non esclude i comportamenti non riconducibili, nemmeno mediatamente, all’esercizio di un pubblico potere.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 maggio 2006.
F.to:
Annibale MARINI, Presidente
Romano VACCARELLA, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria l'11 maggio 2006.
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. UNITE CIVILI - ordinanza 13 giugno 2006 n. 13659 - Pres. Carbone, Rel. Picone - Cisilin c. Fasana e
Università degli Studi di Pisa.
1. Giurisdizione e competenza - Risarcimento dei danni - Per lesione di interessi legittimi - Giurisdizione amministrativa - Sussiste in
presenza di un concreto esercizio del potere da parte della P.A., riconoscibile come tale in base al procedimento svolto ed alle forme
adottate, in consonanza con le norme che lo regolano.
2. Giurisdizione e competenza - Risarcimento dei danni - Per lesione di interessi legittimi - Giurisdizione amministrativa - Tutela
giurisdizionale - Non può essere negata se nel termine di decadenza non siano stati chiesti l'annullamento dell'atto e la conseguente
rimozione dei suoi effetti.
3. Giurisdizione e competenza - Risarcimento dei danni - Nei confronti di un pubblico funzionario - Giurisdizione dell’A.G.O. - Sussiste.
1. La giurisdizione del giudice amministrativo in materia di risarcimento dei danni per lesione di interessi legittimi sussiste in presenza di un
concreto esercizio del potere da parte della P.A., riconoscibile per tale in base al procedimento svolto ed alle forme adottate, in consonanza
con le norme che lo regolano; spetta infatti al giudice amministrativo disporre le diverse forme di tutela che l'ordinamento appresta per le
situazioni soggettive sacrificate dall'esercizio illegittimo del potere e tra queste forme di tutela rientra il risarcimento del danno (1).
2. Il giudice amministrativo rifiuta di esercitare la giurisdizione e la sua decisione, a norma dell'art. 362, primo comma, c.p.c., si presta a
cassazione da parte delle Sezioni unite quale giudice del riparto della giurisdizione, se l'esame del merito della domanda autonoma di
risarcimento del danno sia rifiutato per la ragione che nel termine per ciò stabilito non sono stati chiesti l'annullamento dell'atto e la
conseguente rimozione dei suoi effetti (2).
3. Ai sensi dell'art. 103 Cost. (che non consente di ritenere che il giudice amministrativo possa conoscere di controversie di cui non sia parte
una pubblica amministrazione, o soggetti ad essa equiparati) va affermata la giurisdizione ordinaria per una azione di risarcimento dei
danni nei confronti di un funzionario pubblico, essendo a tal fine irrilevante stabilire se il funzionario stesso abbia agito quale organo
dell’Ente pubblico, ovvero, a causa del perseguimento di finalità private, si sia verificata la cd. "frattura" del rapporto organico. Nell'uno,
come nell'altro caso, l'azione risarcitoria è proposta nei confronti del funzionario in proprio, e, quindi, nel confronti di un soggetto privato,
distinto dall'amministrazione, con la quale, al più, può risultare solidalmente obbligato (art. 28 Cost).
RITENUTO IN FATTO
1. Alessandro Cisilin propone istanza per il regolamento della giurisdizione in relazione a giudizio pendente dinanzi al Tribunale di Firenze (R.g. n.
4464/03), promosso nei confronti dell'Università degli studi di Pisa e di Enrico Fasana con citazione del 3 maggio 2003, per la condanna dei
convenuti, in solido, al risarcimento dei danni cagionatigli dall'illegittima esclusione dal corso di dottorato di ricerca.
L'istante, premesso che le parti convenute avevano eccepito il difetto di giurisdizione ordinaria, chiede che le Sezioni unite della Corte di cassazione
dichiarino competente il giudice ordinario.
2. Riferisce il Cisilin che, previa partecipazione al concorso indetto dall'Università di Pisa, era stato ammesso al corso per il conseguimento del
dottorato di ricerca in storia, istituzioni e relazioni internazionali dei Paesi extraeuropei, relatore e tutor il prof. Enrico Fasana.
Durante lo svolgimento del corso, dopo il primo anno, il prof. Fasana aveva assunto comportamenti di contrapposizione e ostacolo della sua attività
di ricerca, culminati nella presentazione di una relazione sull'attività del dottorando "volutamente quanto ingiustamente negativa".
Con decreto del rettore n. 01/1607 del 12.12.1999, era stata disposta la sua esclusione dal proseguimento del corso sulla base della relazione del prof.
Fasana, approvata dal collegio dei docenti.
3. Resiste con controricorso Enrico Fasana, mentre non ha svolto attività di resistenza l'Università; con le conclusioni scritte il Pubblico ministero ha
chiesto dichiararsi la giurisdizione del giudice amministrativo trattandosi di pretesa risarcitoria consequenziale all'ambito di giurisdizione
riconosciuta al giudice amministrativo dall'art. 63, comma 4, d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165.
Hanno depositato memorie il Cisilin ed il Fasana.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. La Corte, a sezioni unite, in parziale difformità dalle conclusioni del Pubblico ministero, regola la giurisdizione nel senso che appartiene alla
cognizione del giudice amministrativo la controversia promossa nei confronti dell'Università degli studi di Pisa; alla cognizione del giudice ordinario
la controversia promossa nei confronti del prof. Enrico Fasana.
2. Va premesso che, nel caso di specie, non viene in rilievo l'ambito attribuito alla giurisdizione amministrativa dall'art. 63, comma 4, d.lgs. 30 marzo
2001, n. 165, relativamente alle controversie in materia di procedure concorsuali per l'assunzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni.
Il dottorato di ricerca, come disciplinato dal d.P.R. 11 luglio 1980, n. 382 (Riordinamento della docenza universitaria, relativa fascia di formazione
nonché sperimentazione organizzativa e didattica) - e successive modificazioni e integrazioni - è titolo accademico che si consegue all'esito di un
corso preordinato a sviluppare autonome capacità di ricerca scientifica, attraverso le quali evidenziare originalità creativa e rigore metodologico (e,
difatti, le relative prove di esame sono intese ad accertare l'attitudine del candidato alla ricerca scientifica: art. 71, quarto comma, dello stesso d.P.R.
n. 382 del 1980). L'ammissione al corso, quindi, non instaura un rapporto di lavoro, né ha natura retributiva l'eventuale borsa di studio attribuita al
dottorando.
3. Gli effetti dannosi sono collegati dal Cisilin sia alle modalità di gestione del corso, sia, in particolare, al decreto rettoriale di esclusione.
Secondo le disposizioni dell'art. 68 del d.P.R. n. 382 del 1980, in vigore all'epoca dei fatti (l'articolo è stato abrogato dall'art. 6, 1. 3 luglio 1998, n.
210, a far data dall'anno successivo all'entrata in vigore del decreto ministeriale di cui all'art. 4, comma 2, della detta legge - D.M. 30 aprile 1999, n.
224 -), il titolo di dottore di ricerca è conseguito a seguito di svolgimento di attività di ricerca, successive al conseguimento del diploma di laurea,
che abbiano dato luogo, con contributi originali, alla conoscenza in settori uni o interdisciplinari; la stessa norma precisa i contenuti degli studi;
contempla, alla fine di ciascun anno, la presentazione di particolareggiata relazione sull'attività e le ricerche svolte al collegio dei docenti; prevede,
infine, che la valutazione dell'assiduità e dell'operosità possa portare a proporre al rettore l'esclusione dal proseguimento del corso di dottorato di
ricerca.
Non si può, perciò, dubitare della sussistenza di una fattispecie di esercizio di attività autoritativa dell'amministrazione universitaria, quanto
all'ammissione al corso, alle verifiche e controlli sul suo svolgimento, all'esclusione dallo stesso. La pretesa risarcitoria, quindi, è stata proposta con
riguardo all'uso dannoso della funzione amministrativa, sia, come si diceva, in relazione alle modalità di organizzazione, indirizzo e controllo dei
corsi (si vedano le numerose illegittimità imputate al tutor, prof. Fasano), sia, e soprattutto, con riguardo al provvedimento di esclusione dal
proseguimento del corso.
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4. L'appartenenza alla giurisdizione amministrativa di legittimità (che si configura anche in ambito di materie di giurisdizione esclusiva) del controllo
sulle determinazioni dell'amministrazione universitaria in ordine ai corsi di dottorato, discende dalla sicura attribuzione di "poteri"
all'amministrazione, discrezionali, o anche vincolati - in quanto radicati sopra giudizi tecnico-scientifici, espressioni di discrezionalità cd. tecnica siccome le norme escludono sicuramente la configurabilità di pretese del dottorando protette con la consistenza del diritto soggettivo quanto allo
svolgimento dei corsi e al conseguimento del titolo.
5. Le sezioni unite sono chiamate a pronunciarsi sulla questione di giurisdizione in tema di responsabilità civile della p.a. connessa ad attività
provvedimentale.
L'argomento, a partire dal D. Lgs. 31 marzo 1998, n. 80, ha dato origine, com'è noto, ad un vasto dibattito in dottrina ed in giurisprudenza, in
particolare dopo le decisioni di parziale illegittimità costituzionale pronunciate dal giudice delle leggi con le sentenze 6 luglio 2004 n. 204 e 28 luglio
2004 n. 281, sulla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in relazione alla legge 21 luglio 2000, n. 205 ("Disposizioni in materia di
giustizia amministrativa"): decisioni alle quali si è di recente aggiunta la sentenza 3 maggio 2006 n. 191, con cui è stato dichiarato in parte illegittimo
l'art. 53, comma 1, del D. Lgs. 8 giugno 2001, n. 327 ("Testo unico delle disposizioni legislative in materia di espropriazioni per pubblica utilità").
Orbene, due sono gli aspetti di questo tema, cui le sezioni unite sono chiamate a dare risposta: come, dopo la legge 205 del 2000, è ripartita tra
giudice ordinario e giudice amministrativo la tutela giurisdizionale intesa a far valere la responsabilità della p.a. da attività provvedimentale
illegittima; se la parte si può limitare a chiedere il risarcimento del danno, senza dover anche chiedere l'annullamento e quale sia il regime di tale
diversa forma di tutela giurisdizionale, una volta che la si ammetta.
E, per una corretta impostazione del problema - sia sulle modifiche del riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo,
intervenute negli anni dal 1992 al 2000, sia sugli effetti della dichiarazione di incostituzionalità degli artt. 33, commi 1 e 2, e 34, comma 1, d. lgs. 31
marzo 1998, n. 80, come novellati dall'art. 7 1. 21 luglio 2000, n. 205 - è opportuno prendere l'avvio dalle considerazioni svolte dalla Corte
costituzionale, nella sentenza 204, sui lavori preparatori della Costituzione.
6. In quella sede, come ha osservato la Corte, si ribadì "l'indispensabile riassorbimento nella Costituzione dei principi fondamentali della l. 20 marzo
1865, n. 2248, all. E", ispirati al principio dell'unità della giurisdizione, ma vi emerse il contrasto tra la tesi - perdente - a favore del giudice unico
("l'esercizio del potere giudiziario in materia civile, penale e amministrativa appartiene esclusivamente ai giudici ordinari") e quella vincente, per il
mantenimento di giudici diversi da quelli ordinari, quali Consiglio di Stato e Corte dei conti ("una divisione dei vari ordini di giudici.. ognuno dei
quali fa parte a sé").
La regola tradizionale del riparto della giurisdizione - se si tratta di diritti soggettivi la giurisdizione è del giudice ordinario, se è fatto valere un
interesse legittimo la giurisdizione appartiene al giudice amministrativo - trova il proprio antecedente storico e logico negli artt. 2 e 4 1. 20 marzo
1865, n. 2248, all. E, tuttora vigenti.
Se la legge è uguale per tutti, anche per la p.a., il cittadino che ha subito un pregiudizio ad un suo diritto può rivolgersi al giudice ordinario e il
giudice si limiterà a conoscere gli effetti dannosi dell'atto amministrativo, senza sindacare le scelte discrezionali, del tutto autonome, della p.a.
La legge del 1865 realizza così il principio dell'unità della giurisdizione, ma questa regola si rivelerà non idonea ad assicurare una tutela adeguata al
cittadino, sia per la grande quantità di controversie che la legge abolitiva del contenzioso riservava all'autorità amministrativa, così sottraendola al
sindacato giurisdizionale, sia per una certa timidezza del giudice ordinario nel dare applicazione ai princìpi sanciti dall'allegato E della legge del
1865. E in questa situazione che, nel 1889, si registra la scelta per l'introduzione del sindacato sugli atti amministrativi da parte di un organo
consultivo, il Consiglio di Stato, la cui natura giurisdizionale viene poi esplicitamente affermata con la legge n. 642 del 1907 istitutiva della V
Sezione del Consiglio di Stato. L'area delle situazioni tutelabili davanti a un giudice è in tal modo ampliata. L'assetto cosi realizzato trova conferma
nel t.u. 26 giugno 1924, n. 1054 sul Consiglio di Stato. Questo assetto non viene d'altro canto inciso dalla introduzione della "giurisdizione
esclusiva".
La giurisdizione sui diritti è devoluta al Consiglio di Stato in casi tassativamente enumerati, a conferma della regola generale posta alla base del
riparto. Si tratta di una giurisdizione esclusiva, obiettivamente diversa, allora, da quella voluta dal legislatore in questi ultimi anni. Limitata a pochi
"casi di confine", la sua introduzione è spiegata con la difficoltà di distinguere nell'aggrovigliato intreccio tra diritti soggettivi e interessi legittimi,
anche se la sua introduzione stava ad indicare un chiaro recupero della logica propria del contenzioso amministrativo abolito nel 1865.
Tale è l'assetto cristallizzato nella Costituzione del 1948, che all'art. 24 dà riconoscimento sostanziale alla tutela sia del diritto soggettivo che
dell'interesse legittimo e mentre all'art. 103, primo comma, limita la giurisdizione del giudice amministrativo in tema di diritti soggettivi alle
"particolari materie" indicate dalla legge, nell'art. 113 rimette alla legge di indicare il giudice che può annullare l'atto amministrativo e le
conseguenze dell'annullamento.
Questo assetto continua a riflettersi nella legislazione successiva, sino al d. lgs. 31 marzo 1998, n. 80.
Invero, come nei nove "particolari" casi enucleati nell'art. 8 r.d. 30 settembre 1923, n. 2840 (ribaditi negli artt. 29 del tu. 1054 del 1924 e 7 della 1.
1034 del 1971) così in quelli successivamente introdotti (tra gli altri: art. 11 1. 1185/1967; art. 16 1. 10/1977; art. 35 1. 47/1985; art. 11 1. 210/1985;
artt. 11 e 15 1. 241/1990; art. 33.1. 1.287/1990; art. 7.11. d.lgs. 74/1992; art. 4.7. 1. 109/1994; art. 2.25. 1. 481/1995; art. 1.26. 1. 249/1997), sono
sempre rimaste riservate al giudice ordinario le questioni attinenti ai diritti patrimoniali conseguenziali, compreso il risarcimento del danno.
Ma, vale la pena di notarlo, è in questo assetto normativo che la giurisprudenza ha nel tempo elaborato, e con costanza applicato, i principi
dell'irrisarcibilità dell'interesse legittimo, della degradazione del diritto ad interesse e della pregiudizialità amministrativa.
Sicché non sarà senza ragione, se questo assetto normativo ed il bagaglio dei concetti che sono valsi a dargli spiegazione, apparirà richiedere
modifiche, una volta che si affermerà, con il d.lgs. 80 del 1998, la contraria regola della risarcibilità dell'interesse legittimo.
7. Facendo un passo indietro e tornando al riparto delle giurisdizioni, va detto che il dibattito restava aperto, non tanto sull'ubi consistam del riparto,
non più contestato, quanto sull'esatta individuazione dei rispettivi territori, dei diritti e degli interessi, che non vivevano in mondi separati, poiché gli
uni e gli altri costellavano il rapporto tra privato e p.a., vagando da un rapporto di coesistenza ad uno di successione, in situazioni dal confine incerto,
a volte dubbio, di "facile trapasso" (Cass., sez. un., 5 dicembre 1987 n. 9095 e 9096).
Il sistema - al di là di qualche decisione provocatoria della Cassazione, rimasta isolata (Cass., sez. I, 3 maggio 1996 n. 4083), o di eccezioni di
incostituzionalità, poi disattese (Corte cost., 8 maggio 1998 n. 165) - è durato dal 1865 fino al 1992 (un periodo lungo ben 127 anni). A metterlo in
crisi sono stati i principi comunitari in tema di appalti pubblici di lavori o forniture.
L'introduzione di una fattispecie di risarcibilità degli interessi legittimi lesi, in violazione del diritto comunitario, viene alla luce con l'art. 13 1. 19
febbraio 1992, n. 142 (legge comunitaria del 1991).
In attuazione della direttiva del consiglio Ce n. 665/89 del 21 dicembre 1989, si riconosceva, in materia di aggiudicazione di appalti pubblici, la
possibilità di ottenere, dopo l'annullamento dell'atto lesivo da parte del giudice amministrativo, il risarcimento del danno dal giudice ordinario.
Tuttavia, l'itinerario da percorrere apparve subito particolarmente gravoso, in quanto si obbligava il privato ad adire prima il giudice amministrativo
per l'annullamento e, poi, il giudice ordinario per il risarcimento del danno, così mettendo in discussione il principio di effettività della tutela
giurisdizionale sancito dall'art. 24 della Costituzione.
Il legislatore italiano, in un primo tempo, estese la norma anche agli appalti dei settori esclusi (art. 11 l. 19 dicembre 1992, n. 489) e poi agli appalti
di servizi (art. 11, lett. i), l. 22 febbraio 1994, n. 146: legge comunitaria per il 1993), ma, per negare la valenza dirompente sul precedente riparto, si
preferì considerarla "una norma di settore e non di portata generale" (Cass., sez. un., 20 aprile 1994 n. 3732). Di qui un deciso cambiamento di rotta
10
con la soppressione del richiamo dell'art. 13 della legge 142 del 1992 contenuto nel terzo comma dell'art. 32 1. 11 febbraio 1994, n. 109, per effetto
della novella introdotta dal d.l. 3 aprile 1995, n. 101, convertito con modifiche nella 1. 2 giugno 1995, n. 216.
La "rivoluzionaria disposizione" è stata infine espressamente abrogata dall'ultimo comma dell'art. 35 d. lgs. 80 del 1998 (divenuto ultimo comma
dell'art. 7 1. 205 del 2000), insieme con "ogni altra disposizione che prevede la devoluzione al giudice ordinario delle controversie sul risarcimento
del danno conseguente all'annullamento di atti amministrativi".
Si può dunque dire, per un verso, che la disposizione introdotta con la l. 142 del 1992 ha contribuito a smantellare il precedente sistema orientato ad
evitare il risarcimento del danno da lesione dell'interesse legittimo; e per altro verso che per il suo mezzo sono state poste le premesse perché la
Corte costituzionale sia stata indotta a riconoscere nella concentrazione delle tutele dinanzi allo stesso giudice una piena attuazione dell'art. 24 della
Costituzione.
8. E nel quadro sino ad ora descritto che il legislatore di fine secolo introduce una nuova specie di giurisdizione esclusiva, separata anche dalla
giurisdizione di legittimità e ancorata a "settori" dell'ordinamento pubblico, con rilevante presenza di un pubblico interesse.
Il Governo con il d. lgs. 80 del 1998 - anche superando i limiti della delega conferita dall'art. 11, comma 4, lett. g), 1. 15 marzo 1997, n. 59 - e, dopo
la dichiarazione di incostituzionalità (Corte cost., 17 luglio 2000, n. 292), il Parlamento con la 1. 205 del 2000, attribuiscono i "settori particolari"
degli appalti e servizi pubblici nonché dell'edilizia e urbanistica ad una "nuova" giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, estesa anche ai
diritti patrimoniali conseguenziali e al risarcimento del danno.
Il legislatore, inoltre, estende la nuova giurisdizione non solo alle vecchie ipotesi di "servizi pubblici, edilizia ed urbanistica", ma a qualsiasi
fattispecie di giurisdizione esclusiva vecchia o nuova.
Si porta a compimento l'indirizzo che vede nella giurisdizione esclusiva "il ramo più fertile e cioè più proiettato nel futuro della giurisdizione
amministrativa". Nel contempo, la risarcibilità dell'interesse legittimo, già prevista dal d. lgs. 80 del 1998 (ma ricondotta dalle sentenze della Corte
costituzionale 292 del 2000 e 281 del 2004 nei limiti della delega conferita con la 1. 59 del 1997) è estesa all'intero ambito delle situazioni giuridiche
giustiziabili davanti al giudice amministrativo.
9. In conclusione, l'ordinamento ha ora accolto il principio della risarcibilità della lesione dell'interesse legittimo in conseguenza dell'illegittimità
dell'atto amministrativo, prevedendo - in attuazione della regola della concentrazione - che il giudice amministrativo può conoscere di tutte le
questioni relative all'eventuale risarcimento del danno e disporlo.
10. Il tessuto normativo che è alla base della soluzione da adottare si può così sintetizzare.
L'art. 35 del d. lgs. 80 del 1998, come sostituito dall'art. 7, lettera e), della legge 205 del 2000, nel comma 1 stabilisce che "Il giudice amministrativo,
nelle controversie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, dispone, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno
ingiusto". Il citato articolo, nel comma 4 (sostituendo il primo periodo del terzo comma dell'art. 7 della legge n. 1034 del 1971), prevede che "Il
tribunale amministrativo regionale, nell'ambito della sua giurisdizione, conosce anche di tutte le questioni relative all'eventuale risarcimento del
danno, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, e agli altri diritti patrimoniali consequenziali".
A sua volta, il comma 2 disciplina le modalità di determinazione della somma dovuta, disponendo che " .. il giudice amministrativo può stabilire i
criteri in base ai quali l'amministrazione pubblica o il gestore del pubblico servizio devono proporre a favore dell'avente titolo il pagamento di una
somma entro un congruo termine. Se le parti non giungono ad un accordo, con il ricorso previsto dall'art. 27, primo comma, numero 4), del testo
unico approvato con regio decreto 26 giugno 1924, n. 1054, può essere chiesta la determinazione della somma dovuta."
11. La dichiarazione di incostituzionalità non ha colpito la normativa appena ricordata; ha invece riguardato l'art. 7 della l. 205 del 2000 per la
mancata esclusione dall'ambito della giurisdizione esclusiva delle controversie "nelle quali può essere del tutto assente ogni profilo riconducibile alla
pubblica amministrazione-autorità", con il ritorno alla dicotomia "diritti soggettivi -interessi legittimi", ripudiando il diverso criterio dei "blocchi di
materie" che mirava a trasformare il giudice amministrativo nel "giudice dell'amministrazione".
Si afferma in proposito che la giurisdizione esclusiva introdotta dalla 1. 205 del 2000 appare confliggere con i parametri costituzionali ed è
qualitativamente diversa dalla precedente, che riguardava specifiche controversie "connotate non già da una generica rilevanza pubblicistica, bensì
dall'intreccio di situazioni soggettive qualificabili come interessi legittimi e come diritti soggettivi".
Si precisa che l'adozione, da parte del legislatore del 1998-2000, di un'idea di giurisdizione esclusiva, ancorata alla pura e semplice presenza, in un
certo settore dell'ordinamento, di un rilevante pubblico interesse, avrebbe presupposto la modifica dell'art. 103 Cost., mai approvata, nel senso che
"la giurisdizione amministrativa ha ad oggetto le controversie con la pubblica amministrazione nelle materie indicate dalla legge" (Atto Camera
7465, XIII Legislatura). Viceversa, il vigente art. 103, comma 1, Cost. "non ha conferito al legislatore ordinario una assoluta ed incondizionata
discrezionalità nell'attribuzione al giudice amministrativo di materie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, ma gli ha conferito il potere di indicare
«particolari materie», nelle quali, «la tutela nei confronti della pubblica amministrazione» investe «anche» diritti soggettivi". Il collegamento delle
"materie" assoggettabili alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo con la natura delle situazioni soggettive è espresso dall'art. 103 Cost.
laddove statuisce che quelle materie devono essere "particolari" rispetto a quelle già devolute alla giurisdizione generale di legittimità, in cui la p.a.
agisce come autorità nei confronti della quale è accordata tutela al cittadino davanti al giudice amministrativo.
In conclusione, il legislatore ordinario ben può ampliare l'area della giurisdizione esclusiva, ma con riguardo a "materie particolari" in cui la
giurisdizione naturale sugli interessi attrae la cognizione dei diritti concorrenti e strettamente connessi. Ciò comporta che la mera partecipazione
della p.a. al giudizio non è sufficiente per radicare la giurisdizione del giudice amministrativo - "il quale davvero assumerebbe le sembianze di
giudice «della» pubblica amministrazione: con violazione degli artt. 25 e 102, secondo comma, Cost." - e, inoltre, non è sufficiente "il generico
coinvolgimento di un pubblico interesse nella controversia perché questa possa essere devoluta al giudice amministrativo".
Sono, pertanto, sottratte alla funzione unificante della Corte di cassazione le sole pronunce che investano i diritti soggettivi nei confronti dei quali,
nel rispetto della "particolarità" della materia nel senso sopra chiarito, il legislatore ordinario abbia legittimamente previsto la giurisdizione esclusiva
del giudice amministrativo su diritti e interessi, nonché quelle che riguardano le forme di tutela che il giudice amministrativo ritenga di accordare
all'interesse legittimo.
12. Si tornerà sulle conseguenze che, dalle precedenti affermazioni di principio, la Corte ha tratto a proposito del modo in cui il legislatore ha
configurato le materie di giurisdizione esclusiva delineate negli artt. 33 e 34 del d. lgs. 80 del 1998 modificati dalla l. 205 del 2000: punto sul quale
la Corte si è ancora soffermata nella sentenza 191 del 2006 a proposito del ruolo che, nel campo dell'espropriazione, assumono comportamenti volti
alla anticipata realizzazione di opere, pur sempre dichiarate di pubblica utilità.
13. Qui interessa soffermarsi sul punto che la dichiarazione di incostituzionalità non ha investito le disposizioni contenute nell'art. 35 del d. lgs. 80
come riformulate dall'art. 7, lett. e), della l. 205 del 2000.
La Corte ha osservato che "il potere riconosciuto al giudice amministrativo di disporre, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il
risarcimento del danno ingiusto non costituisce sotto alcun profilo una nuova «materia» attribuita alla sua giurisdizione, bensì uno strumento di tutela
ulteriore, rispetto a quello classico demolitorio (e/o conformativo), da utilizzare per rendere giustizia al cittadino nei confronti della pubblica
amministrazione".
Su questa parte della motivazione della sentenza 204, la Corte è tornata nella sentenza 191 di questo anno.
Ha in particolare considerato come sia da escludere che "per ciò solo che la domanda proposta dal cittadino abbia ad oggetto esclusivo il
risarcimento del danno, la giurisdizione competa al giudice ordinario": ed ha osservato che dove "la legge - come fa l'art. 35 del d. lgs. n. 80 del 1998
- costruisce il risarcimento del danno, ai fini del riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo, come strumento di tutela
11
affermandone - come è stato detto - il carattere «rimediale», essa non viola alcun precetto costituzionale e, anzi, costituisce attuazione del precetto
dell'art. 24 Cost. laddove questo esige che la tutela giurisdizionale sia effettiva e sia resa in tempi ragionevoli".
"In altri termini" - ha osservato la Corte - "al precedente sistema che, in considerazione della natura intrinseca di diritto soggettivo della situazione
giuridica conseguente all'annullamento del provvedimento amministrativo, attribuiva al giudice ordinario «le controversie sul risarcimento del danno
conseguente all'annullamento di atti amministrativi» (così l'art. 35, comma 5, del d. lgs. n. 80 del 1998, come modificato dell'art. 7, lett. e della legge
n. 205 del 2000) il legislatore ha sostituito (appunto con l'art. 35 cit.) un sistema che riconosce esclusivamente al giudice naturale della legittimità
dell'esercizio della funzione pubblica poteri idonei ad assicurare piena tutela, e quindi anche il potere di risarcire, sia per equivalente sia in forma
specifica, il danno sofferto per l'illegittimo esercizio della funzione".
14. Il lungo cammino sin qui percorso nel ricostruire la vicenda normativa è valso a rendere intelligibile quale si debba oggi considerare il punto
d'arrivo nella ricerca della soluzione del primo degli aspetti segnalati all'inizio, ovverosia in base a quali criteri si trovi oggi ad essere stabilito il
riparto tra le giurisdizioni. Rilevano a questo fine due momenti ed in particolare la situazione soggettiva del cittadino considerata nel suo aspetto
statico e gli effetti che l'ordinamento ricollega all'azione amministrativa una volta che questa sia esercitata.
La tutela giurisdizionale contro l'agire illegittimo della pubblica amministrazione spetta al giudice ordinario, quante volte il diritto del privato non
sopporti compressione per effetto di un potere esercitato in modo illegittimo o, se lo sopporti, quante volte l'azione della pubblica amministrazione
non trovi rispondenza in un precedente esercizio del potere, che sia riconoscibile come tale, perché a sua volta deliberato nei modi ed in presenza dei
requisiti richiesti per valere come atto o provvedimento e non come mera via di fatto. A questo fine, si ritiene che vada richiamato il principio di
diritto affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza 204 del 2000, secondo cui la giurisdizione del giudice amministrativo resta in ogni caso
delimitata dal collegamento con l'esercizio in concreto del potere amministrativo secondo le forme tipiche previste dall'ordinamento: ciò sia nella
giurisdizione esclusiva che nella giurisdizione di annullamento.
Il che non si verifica quando l'amministrazione agisca in posizione di parità con i soggetti privati, ovvero quando l'operare del soggetto pubblico sia
ascrivibile a mera attività materiale, con la consapevolezza che si verte in questo ambito ogni volta che l'esercizio del potere non sia riconoscibile
neppure come indiretto ascendente della vicenda.
Esemplificando, l'amministrazione deve essere convenuta davanti al giudice ordinario in tutte le ipotesi in cui l'azione risarcitoria costituisca reazione
alla lesione di diritti incomprimibili, come la salute (Cass. 7 febbraio 1997 n. 1187; 8 agosto 1995 n. 8681; 29 luglio 1995 n. 8300; 20 novembre
1992 n. 12386; 6 ottobre 1979 n. 5172) o l'integrità personale.
Deve ancora essere convenuta davanti al giudice ordinario, quante volte la lesione del patrimonio del privato sia l'effetto indiretto di un esercizio
illegittimo o mancato di poteri, ordinati a tutela del privato (Cass. 29 luglio 2005 n. 15916; 2 maggio 2003 n. 6719): qui si è nell'ambito delle
controversie meramente risarcitone già contemplate nell'art. 33, comma 2, d. lgs. 80 del 1998, nel testo anteriore alla riformulazione attuatane con la
sentenza 204 del 2004, la cui previsione non è più necessaria, nella misura in cui in esse è ravvisabile, più in generale, la reazione a meri
comportamenti lesivi dell'amministrazione.
Nel settore delle occupazioni illegittime, sono poi chiaramente ascrivibili alla giurisdizione ordinaria le forme di occupazione "usurpativa",
caratterizzate dal tratto, che la trasformazione irreversibile del fondo si produce in una situazione in cui una dichiarazione di pubblica utilità manca
affatto.
E alla stessa conclusione si deve pervenire nel caso in cui il decreto di espropriazione è pur stato emesso, e però in relazione a bene, la cui
destinazione ad opera di pubblica utilità la si debba dire mai avvenuta giuridicamente od ormai venuta meno, per mancanza iniziale o sopravvenuta
scadenza del suo termine d'efficacia.
Dove per contro la situazione soggettiva, nei termini che si sono indicati, si presenta come interesse legittimo, la tutela risarcitoria va chiesta al
giudice amministrativo.
Conviene a tale riguardo soffermarsi su alcune fattispecie la cui classificazione ha sin qui dato luogo a discussione ed il cui tratto peculiare si
rinviene nella circostanza che oggetto della domanda non è l'annullamento di un atto, ma appunto solo il risarcimento del danno.
Riconducibili alla giurisdizione del giudice amministrativo appaiono i casi in cui la lesione di una situazione soggettiva dell'interessato è postulata
come conseguenza d'un comportamento inerte, si tratti di ritardo nell'emissione di un provvedimento risultato favorevole o di silenzio.
Ciò che viene qui in rilievo è bensì un comportamento, ma il comportamento si risolve nella violazione di una norma che regola il procedimento
ordinato all'esercizio del potere e perciò nella lesione di una situazione di interesse legittimo pretensivo (Ad. pl. 15 settembre 2005 n. 7), non di un
diritto soggettivo. Presenta analogie con questa situazione, quella valutata dalla Corte costituzionale nella sua più recente decisione, dove parimenti
l'accesso al giudice amministrativo non è segnato da una domanda di annullamento, ma si considera che ad attrarre la fattispecie nell'orbita della sua
giurisdizione possa valere la presenza di un concreto riconoscibile atto di esercizio del potere: quel potere, in particolare, che si è manifestato nella
dichiarazione di pubblica utilità.
15. - Resta da affrontare quello che all'inizio si è indicato come secondo aspetto problematico della tutela del cittadino di fronte all'attività
provvedimentale illegittima della pubblica amministrazione, ovverosia la possibilità di domandare la sola tutela risarcitoria.
Da quando nell'ordinamento si è preso a considerare risarcibile la lesione di un interesse legittimo, è emerso il tema se il privato si possa limitare a
rivendicare per il diritto o l'interesse leso la sola tutela risarcitoria e quale possa essere il trattamento processuale di tale domanda.
16. Sino alla più recente sentenza della Corte costituzionale, si erano manifestate sul punto due posizioni ermeneutiche in assoluto contrasto tra loro.
Secondo una prima, più diffusa opinione, "tutta amministrativa", il d. lgs. 80 del 1998 e la l. 205 del 2000 avrebbero attribuito, in via generale, al
giudice amministrativo la cognizione delle pretese di risarcimento del danno da atti illegittimi della p.a., in sede di giurisdizione esclusiva (in virtù
del comma 1 dell'art. 35) o di legittimità (in virtù del comma 4), che entrambe hanno ora assunto il connotato di giurisdizione "piena".
In tal senso è apparso orientarsi il Consiglio di Stato, secondo cui la ratio della riforma iniziata con il d.lgs. 80 del 1998 e completata con la legge
205 del 2000 è stata quella di concentrare davanti ad un unico giudice, quello amministrativo, in coerenza con l'art. 24 Cost, ogni forma di tutela,
anche risarcitoria, nei confronti della p.a., quando viene in gioco la lesione di interessi legittimi (Cons. Stato, sez. VI, 18 giugno 2002 n. 3338; Ad.
plen. 26 marzo 2003 n. 4; Ad plen. 30 agosto 2005 n. 8).
In particolare, alcune pronunce (Ad plen. 4 del 2003) hanno fatto propria la tesi per cui le norme richiamate avrebbero previsto, come necessaria
condizione per l'accesso alla tutela risarcitoria, che nel termine di decadenza per l'impugnazione fosse anche esperita con esito favorevole l'azione di
annullamento, ancorché la tutela risarcitoria possa essere richiesta non insieme, ma successivamente.
Ciò in ragione del principio della cd. pregiudiziale amministrativa.
L'annullamento avrebbe dovuto essere richiesto in via principale nel termine di decadenza, perché al giudice amministrativo non è consentita la
cognizione incidentale della illegittimità degli atti amministrativi né esso è munito del potere di disapplicazione.
Consegue che, se la tutela di annullamento non è richiesta nel termine per l'impugnazione del provvedimento, questo diviene inoppugnabile,
precludendo l'accesso non solo alla tutela risarcitoria erogabile dal giudice amministrativo, ma anche a quella che potesse essere chiesta al giudice
ordinario, facendo valere l'atto illegittimo come elemento costitutivo dell'illecito civile (secondo la sent. 500 del 1999 delle S.U.).
Il Consiglio di Stato aveva peraltro ammesso che l'azione risarcitoria potesse essere proposta in taluni casi davanti al giudice amministrativo come
domanda autonoma (Cons. Stato, sez. VI, 18 giugno 2002 n. 3338).
12
E ciò, oltre che nei casi di danno da ritardo, in quelli in cui l'annullamento del provvedimento vi sia già stato, ad opera dello stesso giudice
amministrativo (ad esempio in epoca in cui la giurisdizione amministrativa non era ancora una giurisdizione "piena") od a seguito di annullamento su
ricorso amministrativo o straordinario o di annullamento di ufficio.
Nello scenario così delineato, la giurisdizione del giudice amministrativo sulle pretese risarcitone del cittadino che si assume leso in una posizione
giuridica sostanziale (di diritto o di interesse legittimo) dall'esercizio illegittimo della funzione amministrativa non dovrebbe concorrere con una, sia
pur residuale, giurisdizione del giudice ordinario. Ovvio che il giudice amministrativo, nato come giudice dell'atto e non del rapporto, avrà non
poche difficoltà a distinguere il danno specie sotto il profilo della determinazione del quantum del danno risarcibile: dovrà mutuare le regole
civilistiche sul concetto stesso di danno come fatto, sul nesso di causalità, anche ipotetico (si pensi all'art. 1221 ce), sui criteri di valutazione ex art.
1223, 1225, 1226,1227 co. 1 (concorso di cause) e co. 2 (danni evitabili con l'ordinaria diligenza) c.c.
Una diversa ricostruzione, "tutta civilistica", è stata prospettata da parte della dottrina, muovendo dai principi affermati dalla sent. 500 del 1999 delle
S.U.
Punto di partenza ne è la qualificazione della pretesa risarcitoria come diritto soggettivo, sia nei confronti del privato che della p.a., in una
concezione che nega rilevanza ai successivi interventi normativi, i quali non potrebbero scalfire, con il mero collegamento processuale, la tutela
sostanziale riconosciuta al diritto soggettivo, nei confronti di chiunque azionato.
Si è mossi dalla considerazione che, secondo la Corte costituzionale, "il potere riconosciuto al giudice amministrativo di disporre, anche attraverso la
reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto non costituisce sotto alcun profilo una nuova «materia» attribuita alla sua
giurisdizione, bensì uno strumento di tutela ulteriore, rispetto a quello classico demolitorio (e/o conformativo), da utilizzare per rendere giustizia al
cittadino nei confronti della p.a.".
Il profilo di connessione processuale non avrebbe escluso tuttavia che la tutela sia apprestata ad una posizione sostanziale avente natura di diritto
soggettivo: il diritto al risarcimento del danno ingiusto.
Il danno ingiusto, determinato dalla lesione di un interesse giuridicamente rilevante (sia esso diritto soggettivo o interesse legittimo: sent. 500 del
1999), sarebbe fonte di una obbligazione di risarcimento (ex art. 2043 c.c. o ex art. 1218 c.c. secondo il possibile diverso atteggiarsi della
responsabilità della p.a.), mentre la parte che chiede il risarcimento aziona sempre un diritto soggettivo. La sentenza 204 del 2004 della Corte
costituzionale avrebbe, quindi, solo negato che il novellato art. 35 abbia istituito una nuova giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo avente
ad oggetto il diritto al risarcimento del danno.
Il punto rilevante, nella decisione della Corte, sarebbe stato là dove si è rilevato che l'attribuzione dell'ulteriore strumento della tutela risarcitoria,
venuto ad aggiungersi a quello classico della tutela di annullamento, è valsa a configurare la giurisdizione del giudice amministrativo, in attuazione
del precetto dell'art. 24 Cost., come giurisdizione atta a garantire piena ed effettiva tutela alle situazioni soggettive ad essa devolute, per evitare al
cittadino di doversi rivolgere a due diversi ordini di giudici, cioè a quello amministrativo per conseguire prima l'annullamento e poi a quello
ordinario per ottenere il risarcimento del danno, come diritto patrimoniale consequenziale.
E' stato messo in dubbio che la Corte abbia inteso riferirsi soltanto alla giurisdizione esclusiva (art. 35, comma 1), ovvero anche a quella generale di
legittimità (art. 35, comma 4), ma si è considerato corretto attribuire ampia valenza alla ravvisata estensione dei poteri del g.a. in entrambe le
giurisdizioni, che risultano quindi connotate da pienezza.
La Corte non si sarebbe peraltro in alcun modo espressa sulla natura del risarcimento del danno.
Se, quindi, si tiene ferma la qualificazione del diritto al risarcimento del danno ingiusto come diritto soggettivo, resterebbe valido il principio di
ordine generale secondo cui il giudice dei diritti soggettivi è il giudice ordinario (art. 2 della l.a.c.a). Di qui la conseguenza che il giudice della tutela
risarcitoria sarebbe stato, di regola, il giudice ordinario.
A questa regola l'art. 35, commi 1 e 4, avrebbe apportato deroga (secondo il criterio della connessione), col consentire che il giudice amministrativo,
nelle controversie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, possa disporre, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del
danno ingiusto e che nell'esercizio della sua giurisdizione (di legittimità) possa conoscere di tutte le questioni relative all'eventuale risarcimento del
danno e agli altri diritti patrimoniali consequenziali.
Non sarebbe stato tuttavia corretto sostenere che si tratti di una concentrazione necessaria, con attrazione inscindibile della tutela risarcitoria al
seguito di quella di annullamento, in presenza di un atto amministrativo da impugnare. La concentrazione sarebbe infatti funzionale, in termini di
pienezza ed effettività della tutela, alle esigenze del cittadino che chiede giustizia nei confronti della p.a., e pertanto non la si potrebbe ritenere
doverosa e tale da dover essere praticata come unica via esclusiva.
Né, d'altra parte, sarebbe desumibile dal testo normativo - così come interpretato costituzionalmente - che al riconoscimento, in positivo, al giudice
amministrativo del potere di disporre il risarcimento del danno ingiusto (comma 1) e di conoscere delle questioni relative all'eventuale risarcimento
del danno (comma 4), si unisca, in negativo, la totale sottrazione di eguale potere al giudice ordinario.
Il giudice amministrativo avrebbe potuto conoscere di questioni relative al risarcimento del danno e, cioè, di questioni attinenti ad un diritto
soggettivo la cui cognizione è di regola attribuita al giudice ordinario, nel caso in cui il cittadino si fosse avvalso della facoltà di richiedere a tale
giudice la tutela risarcitoria congiuntamente a quella di annullamento. In questa ipotesi, come è stato osservato, le norme in esame realizzerebbero
una deroga alla giurisdizione per ragioni di connessione.
Si è ancora notato che la prevista concentrazione troverebbe giustificazione nel tipo di tutela che, oltre a quella di annullamento, il giudice
amministrativo può somministrare: una "tutela ulteriore" che è di completamento rispetto a quella primaria della quale postula l'esito positivo, nel
senso che serve a rimuovere i pregiudizi che l'annullamento non ha potuto eliminare.
E' per effetto della dipendenza della tutela ulteriore da quella di annullamento che il giudice amministrativo può prendere in esame questioni relative
al risarcimento (ed agli altri diritti patrimoniali consequenziali) solo se gli è richiesto e ritiene di concedere l'annullamento dell'atto lesivo.
Quanto alle conseguenze della omessa richiesta della tutela di annullamento nel termine di decadenza, con conseguente inoppugnabilità dell'atto, si è
rilevato che la decadenza preclude la via della tutela di annullamento e, di conseguenza, della tutela risarcitoria di completamento (da erogare nelle
peculiari forme di cui all'art. 35, comma 2).
Non sarebbe invece precluso il ricorso alla sola tutela risarcitoria. Si è rilevato, infatti, che in un sistema in cui al cittadino sono riconosciuti sia la
tutela di annullamento, sia quella risarcitoria (e questa nella duplice connotazione di tutela di completamento che al g.a. è dato somministrare ex art.
35, comma 2, e di tutela risarcitoria secondo le regole del diritto civile), non necessariamente le due forme di tutela debbono essere spese entrambe.
Se il danneggiato dall'esercizio illegittimo del potere amministrativo non si vuole avvalere, non avendone interesse, della tutela costitutiva di
annullamento del provvedimento lesivo della sua posizione giuridica sostanziale, ma ritiene, invece, conforme al suo concreto interesse avvalersi
della sola tutela risarcitoria, potrà farlo, in via autonoma, davanti al giudice ordinario.
Quest'ultimo non dovrà giudicare in via incidentale della legittimità dell'atto, in funzione della sua disapplicazione (art. 4, comma 1, l.a.c.a.), ma
dovrà valutare il provvedimento solo come fatto, come elemento costitutivo dell'illecito. Non si porrebbe un problema di pregiudizialità in senso
tecnico, poiché tale problema si poneva solo quando, prima della sentenza n. 500 del 1999, era necessario attendere l'annullamento per poter risarcire
il danno arrecato dal sacrificio di situazioni di diritto degradato ad interesse. Una volta riconosciuto che la lesione dell'interesse protetto obbliga
anche la p.a. al risarcimento del danno, è venuto meno il nesso di dipendenza della risarcibilità dal previo annullamento dell'atto.
Nelle ipotesi in cui l'annullamento non fosse stato chiesto, potrebbe eventualmente porsi un problema attinente al merito della decisione, sotto il
profilo se nel danno risarcibile rientri la situazione determinata dal provvedimento di cui non si sia voluto domandare l'annullamento. Nelle ipotesi in
13
cui l'annullamento sia stato già disposto dallo stesso giudice amministrativo (in epoca in cui la giurisdizione amministrativa non era ancora una
giurisdizione "piena"), a seguito di ricorso straordinario, o d'ufficio, ovvero nel caso in cui manchi l'atto, come avviene per il danno da ritardo, si
sarebbe potuto egualmente adire per la tutela risarcitoria il giudice ordinario, poiché l'estensione della cognizione del giudice amministrativo alle
questioni relative al risarcimento postula che la relativa tutela sia stata richiesta congiuntamente a quella di annullamento.
17. La sopravvenuta decisione della Corte costituzionale spiana la strada e indirizza la scelta verso la concentrazione della tutela risarcitoria presso il
giudice amministrativo, ma lascia impregiudicato il punto del trattamento processuale della tutela risarcitoria.
18. - Le Sezioni unite - nell'esercizio della funzione di riparto della giurisdizione (artt. 31, 41, 360 n. 1, 362 c.p.c; art. 37, secondo comma, L. 11
marzo 1953, n. 87) ad esse attribuito dal nuovo codice di rito (dopo la soppressione del Tribunale dei conflitti, istituito con L. 31 marzo 1877, n.
3761, cd. legge Mancini-Peruzzi) - ritengono che sia necessario accedere ad una soluzione, che, mentre tiene conto dei principi costituzionali che
legano la tutela giurisdizionale offerta dai due ordini di giudici alle situazioni soggettive, alla luce del criterio enunciato dall'art. 103 Cost., fa propri i
valori di effettività e concentrazione delle tutele sottesi all'art. Ili Cost. - e in particolare al principio della ragionevole durata dei processi - che la
Corte costituzionale ha assunto come criterio-guida di interpretazione delle altre norme in materia di giustizia.
19. In quest'ottica, va adeguatamente ricordato che alla tutela risarcitoria dell'interesse legittimo nei confronti della pubblica amministrazione questa
Corte è pervenuta non già estendendo la detta tutela dai diritti soggettivi agli interessi legittimi, bensì affermando che, sul piano della tutela
risarcitoria, non si può fare differenza tra interessi che trovano protezione diretta nell'ordinamento e interessi che trovano protezione attraverso
l'intermediazione del potere amministrativo.
Questa svolta - che cancella sul piano sostanziale, con riferimento alla tutela risarcitoria, il divario tra diritti ed interessi altrimenti rilevanti - matura
in un momento storico in cui il legislatore ha imboccato la strada che lo porterà a configurare la giurisdizione del giudice amministrativo come una
giurisdizione piena ed esige, di conseguenza, che sia data una più coerente lettura al sistema del riparto di giurisdizioni, in particolare una lettura che
leghi la potestas iudicandi alla natura della situazione soggettiva.
La tesi "tutta civilistica" non può essere condivisa allorché disattende la svolta voluta dal legislatore di assicurare all'interesse legittimo una tutela
piena, concentrata dinanzi a un unico giudice per il principio di effettività che reca in sé la ragionevolezza dei tempi di tutela.
La soluzione, fatta propria dal legislatore del 2000 e in linea con la portata di "norma di sistema" riconosciuta dalla Corte costituzionale all'art. 24
Cost. con la sentenza 204 del 2004, da ultimo ribadita, è coerente con la riaffermazione del criterio tradizionale del riparto fondato non sulla
distinzione tra le tecniche di tutela, bensì sulla natura sostanziale delle situazioni soggettive.
D'altra parte, questa ricostruzione è coerente anche con il processo di evoluzione che caratterizza l'interesse legittimo, che va perdendo la sua
tradizionale funzione meramente famulativa o ancillare rispetto all'interesse pubblico, per assumere un più marcato connotato sostanziale,
coerentemente del resto con l'evoluzione della stessa nozione di interesse pubblico, al cui perseguimento si accompagna un aumento della
discrezionalità, ma anche della connessa responsabilità dell'amministrazione.
Deriva da ciò che - in linea di principio e salvo quanto si è già considerato - la giurisdizione sulla tutela dell'interesse legittimo non può che spettare
al giudice amministrativo, sia nella tecnica della tutela di annullamento, sia nelle tecniche della tutela risarcitoria, in forma specifica o per
equivalente: tecniche che non possono essere oggetto di separata e distinta considerazione ai fini della giurisdizione.
20. Del pari non può essere condivisa la soluzione cd. "amministrativa", dove, da una parte, pone un nesso inscindibile, non richiesto dalle norme di
legge né dal quadro costituzionale, tra tutela di annullamento e tutela risarcitoria (Ad. Plen. n. 4 del 2003), dall'altra, sembra ricomprendere nella
giurisdizione amministrativa ogni contesto caratterizzato dalla presenza della funzione pubblica senza esigere che di tale funzione si sia avuto un
concreto esercizio, nei modi e forme tipici del potere amministrativo, che soli consentono di riconoscere l'atto come espressione di un potere
esistente.
Dal primo punto di vista non è privo di rilievo il considerare che la teoria della pregiudizi alita amministrativa, intesa come dipendenza del diritto al
risarcimento dal previo annullamento, era maturata in un contesto nel quale da un lato si escludeva la risarcibilità del pregiudizio sofferto per il
sacrificio di situazioni di interesse legittimo, dall'altro si era omologato al trattamento di questa situazione quella del diritto soggettivo degradato ad
interesse.
Né è senza importanza considerare che la soggezione a termine di decadenza è prevista dalla legge per l'azione di annullamento e, in questo sistema,
l'accertamento incidentale dell'illegittimità viene negato non solo per escludere che vizi prima non rilevati possano esserlo dopo dando luogo
all'annullamento di provedimenti che presuppongono quello non impugnato, ma anche perché gli effetti dell'azione di annullamento non si
esauriscono nel rapporto tra amministrazione e soggetto leso e, ben spesso, si rifrangono su altri soggetti in conflitto con chi sollecita l'annullamento.
Ma, non di questo si tratta quando non l'annullamento dell'atto è preteso, bensì l'accertamento della illiceità della situazione determinata dalla sua
adozione ed esecuzione, accertamento che esaurisce la sua rilevanza nel rapporto tra soggetto leso e pubblica amministrazione.
Queste considerazioni, unitamente ai ricordati processi di cambiamento che caratterizzano l'interesse legittimo e la sua relazione con l'interesse
pubblico, giustificano ampiamente l'abbandono di un approccio di tipo tradizionale. Ammettere la necessaria dipendenza del risarcimento dal previo
annullamento dell'atto illegittimo e dannoso, anziché dal solo accertamento della sua illegittimità significherebbe restringere la tutela che spetta al
privato di fronte alla pubblica amministrazione ed assoggettare il suo diritto al risarcimento del danno, anziché alla regola generale della
prescrizione, ad una Verwirkung amministrativa, tutta italiana.
La conclusione da accogliere è dunque che, dopo l'irruzione nel mondo del diritto della risarcibilità — effettiva e non solo dichiarata - anche
dell'interesse legittimo, e dopo i ricordati tentativi dei primi anni novanta della doppia tutela (espressamente abrogata sia dall'art. 35 d. lgs. 80 del
1998 sia dall'art. 7, lett. e), della l. 205 del 2000), il legislatore di fine secolo non ha inteso ridurre la tutela risarcitoria al solo profilo di
completamento di quella demolitoria, ma, mentre l'ha riconosciuta con i caratteri propri del diritto al risarcimento del danno, ha ritenuto di affidare la
corrispondente tutela giudiziaria al giudice amministrativo, nell'intento di rendere il conseguimento di tale tutela più agevole per il cittadino.
21. In definitiva, si può affermare che entrambe le tesi su esposte ("tutta civilistica" e "tutta amministrativistica") conducono ad una possibile
diminuzione dell'effettività della tutela del cittadino, in violazione dei principi derivanti dall'art. 24 Cost.
Quella civilistica, perché finisce per frammentare o moltiplicare le sedi e i tempi della tutela giurisdizionale, per giunta secondo una direttrice che si
allontana dalla regola del riparto.
Quella amministrativistica, perché rischia di assicurare all'interesse legittimo una protezione che comprime l'ambito della tutela risarcitoria
riducendone, per modalità o contenuti, la portata.
Essa altresì, secondo alcuni svolgimenti già segnalati, finisce con l'estendere l'area della giurisdizione amministrativa al di là della connessione con
l'esercizio in concreto del potere pubblico.
In una situazione del genere, l'osservazione secondo la quale il legislatore del 2000 ha opportunamente concentrato le forme di tutela dell'interesse
legittimo in una sola sede giudiziaria deve essere accompagnata dalla consapevolezza della perdurante vigenza degli articoli 2 e 4 della legge 20
marzo 1865, all. E, che configurano comunque a tutela del cittadino la giurisdizione ordinaria come presidio per tutte le materie in cui si faccia
questione "di un diritto civile o politico".
Il nostro sistema si basa appunto sull'art. 2907 c.c., cui fa riscontro l'art. 99 c.p.c, ed è un sistema di cìvil law, in cui il riconoscimento della posizione
soggettiva da tutelare, cristallizzata dal riconoscimento costituzionale (artt. 24 e 113 Cost.), precede la tutela giurisdizionale.
14
In un sistema del genere, l'art. 2 della legge del 1865 - secondo una lettura coerente con le disposizioni di cui al Titolo IV della Costituzione costituisce, in definitiva, una norma di chiusura del sistema, che attribuisce al giudice ordinario il potere-dovere di assicurare la pienezza della tutela,
quando altri valori di pari rilievo costituzionale non rendono legittimo il ricorso a diversi modelli di tutela.
22. Quante volte si sia in presenza di atti riferibili oltre che ad una pubblica amministrazione a soggetti ad essa equiparati ai fini della tutela
giudiziaria del destinatario del provvedimento e l'atto sia capace di esplicare i propri effetti perché il potere non incontra ostacolo in diritti
incomprimibili della persona, la tutela giudiziaria deve dunque essere chiesta al giudice amministrativo.
Gli potrà essere chiesta la tutela demolitoria e, insieme o successivamente, la tutela risarcitoria completiva.
Ma la parte potrà chiedere al giudice amministrativo anche solo la tutela risarcitoria, senza dover osservare allora il termine di decadenza pertinente
all'azione di annullamento.
23. A proposito di questo secondo enunciato, merita da un lato soffermarsi qui sulle considerazioni, già svolte, che hanno condotto a questa
interpretazione delle norme attributive della giurisdizione e dall'altro renderne esplicite le conseguenze.
Si è notato che, in rapporto alla tutela risarcitoria, è venuta meno sul piano del diritto sostanziale la differenza tra le situazioni che nell'ordinamento
trovano protezione.
L'evoluzione dell'ordinamento ha cioè condotto ad omologare gli interessi legittimi ai diritti quanto al bagaglio delle tutele: com'era stato per le
situazioni di diritto soggettivo, di norma dotate, oltre che di tutela risarcitoria, anche di una tutela ripristinatoria, completata dal diritto al risarcimento
del danno, così per gli interessi legittimi una tutela risarcitoria autonoma è stata affiancata alla tutela reale di annullamento, la sola di cui le situazioni
di interesse legittimo erano prima dotate, e la tutela di annullamento è stata inoltre conformata in modo da comprendervi il risarcimento del danno,
che con l'annullamento non si può elidere.
Se dal piano delle forme di tutela ci si sposta a quello del riparto della funzione di tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi nei confronti della
pubblica amministrazione, un'interpretazione costituzionalmente orientata delle norme che hanno attribuito al giudice amministrativo la giurisdizione
sul risarcimento del danno, consente di riconoscere loro la portata d'avere dato al giudice amministrativo giurisdizione anche solo in rapporto alla
tutela risarcitoria autonoma.
Ma ciò perché, nel bilanciamento tra valori rilevanti sul piano costituzionale, è da riconoscere legittimità ad una norma che mentre concentra la tutela
giurisdizionale presso il giudice amministrativo, non reca pregiudizio alla tutela sostanziale delle situazioni soggettive sacrificate dall'agire
illegittimo della pubblica amministrazione.
D'altra parte, questa interpretazione è la sola che riesce a rendere operanti insieme, per le situazioni soggettive di cui ora ci si occupa, il valore della
giurisdizione piena e quello di una tutela sostanziale degli interessi legittimi non difforme da ogni altra situazione protetta in rapporto alla tutela
risarcitoria.
Sicché dalla premessa discende in modo necessario la conseguenza che il giudice amministrativo non possa, allo stato della legislazione, se non
esercitare la giurisdizione, che le norme gli attribuiscono quanto alla tutela risarcitoria autonoma, prescindendo dalle regole proprie della
giurisdizione di annullamento.
Si può obiettare, che è nella disponibilità del legislatore disciplinare la tutela delle situazioni soggettive assoggettando a termini di decadenza
l'esercizio dell'azione, Tuttavia, una norma che oggi manca e che in modo esplicito assoggettasse ad un termine di decadenza la domanda di solo
risarcimento del danno davanti al giudice amministrativo non potrebbe essere formulata nel senso di rendere il termine sostanzialmente eguale a
quello cui è soggetta la domanda dì annullamento, perché ciò varrebbe a porre il diverso problema della legittimità di una disciplina che tornasse a
negare la tutela risarcitoria autonoma per le situazioni soggettive sacrificate dall'esercizio illegittimo del potere della pubblica amministrazione.
Resta da esplicitare un altro aspetto che inerisce in modo necessario all'avere affermato che l'art. 7 della L. 21 luglio 2000, n. 205 ha dato al giudice
amministrativo la giurisdizione sulla domanda autonoma di risarcimento del danno.
Tutela risarcitoria autonoma delle situazioni di interesse legittimo significa tutela che spetta alla parte per il fatto che la situazione soggettiva è stata
sacrificata da un potere esercitato in modo illegittimo e la domanda con cui questa tutela è chiesta richiede al giudice di accertare l'illegittimità di tale
agire.
Questo accertamento non può perciò risultare precluso dalla inoppugnabilità del provvedimento né il diritto al risarcimento può essere per sé
disconosciuto da ciò che invece concorre a determinare il danno, ovverosia la regolazione che il rapporto ha avuto sulla base del provvedimento e
che la pubblica amministrazione ha mantenuto nonostante la sua illegittimità.
Dunque, il rifiuto della tutela risarcitoria autonoma, motivato sotto gli aspetti indicati, si rivelerà sindacabile attraverso il ricorso per cassazione per
motivi attinenti alla giurisdizione. Il giudice amministrativo avrà infatti rifiutato di esercitare una giurisdizione che gli appartiene.
24. Al termine di questo lungo excursus, i principi di diritto enunciati da queste Sezioni Unite sono i seguenti:
1) la giurisdizione del giudice amministrativo sussiste in presenza di un concreto esercizio del potere, riconoscibile per tale in base al procedimento
svolto ed alle forme adottate, in consonanza con le norme che lo regolano;
2) spetta al giudice amministrativo disporre le diverse forme di tutela che l'ordinamento appresta per le situazioni soggettive sacrificate dall'esercizio
illegittimo del potere e tra queste forme di tutela rientra il risarcimento del danno;
3) il giudice amministrativo rifiuta di esercitare la giurisdizione e la sua decisione, a norma dell'art. 362, primo comma c.p.c, si presta a cassazione da
parte delle sezioni unite quale giudice del riparto della giurisdizione, se l'esame del merito della domanda autonoma di risarcimento del danno è
rifiutato per la ragione che nel termine per ciò stabilito non sono stati chiesti l'annullamento dell'atto e la conseguente rimozione dei suoi effetti.
25. Va affermata, invece, la giurisdizione ordinaria sulla controversia promossa nei confronti del prof. Enrico Fasano. Ai fini della risoluzione del
problema processuale non rileva stabilire se il Fasano abbia agito quale organo dell'Università, ovvero, a causa del perseguimento di finalità private,
si sia verificata la ed. "frattura" del rapporto organico. Nell'uno, come nell'altro caso, l'azione risarcitoria è proposta nei confronti del funzionario in
proprio, e, quindi, nel confronti di un soggetto privato, distinto dall'amministrazione, con la quale, al più, può risultare solidalmente obbligato (art. 28
Cost).
La questione di giurisdizione, infatti, dalla quale esulano le altre sopra accennate, va risolta esclusivamente sulla base dell'art. 103 Cost., che non
consente di ritenere che il giudice amministrativo possa conoscere di controversie di cui non sia parte una pubblica amministrazione, o soggetti ad
essa equiparati.
26. Al riguardo, la giurisprudenza delle sezioni unite si è espressa in modo univoco nel ritenere essenziale, perchè possa prospettarsi l'appartenenza
della controversia alla giurisdizione amministrativa, che sia proposte nei confronti di soggetti titolari di poteri amministrativi (Cass. S.u. 22494/2004,
2560/2005, 7800/2005).
Il principio ha trovato specifica applicazione per il caso di pretesa risarcitoria avanzata nei confronti del funzionario cui era imputata l'adozione di
provvedimento illegittimo (Cass. S.u. 3357/1992) ed ulteriormente precisato nel senso che la controversia va devoluta alla giurisdizione del giudice
ordinario in quanto fondata sulla deduzione di un fatto illecito extracontrattuale e intercorrente tra privati, non ostando a ciò la proposizione della
domanda anche nei confronti dell'ente pubblico sotto il profilo della responsabilità solidale dello stesso, attenendo al merito l'effettiva riferibilità
all'ente dei comportamenti dei funzionari (Cass. S.u. 4591/2006).
Va aggiunto che, in linea generale, la giurisdizione è inderogabile per ragioni di connessione (salva diversa, specifica, previsione normativa) e che il
coordinamento tra le giurisdizioni su rapporti diversi ma interdipendenti può trovare soluzione secondo le regole della sospensione del procedimento
pregiudicato (Cass. S.u. 3508/2003).
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27. Conclusivamente, va dichiarata la giurisdizione del giudice amministrativo in relazione alla domanda di risarcimento del danno proposta nei
confronti dell'Università degli studi di Pisa; la giurisdizione ordinaria per la domanda proposta contro il prof. Enrico Fasana.
Sussistono, evidenti, giusti motivi per compensare le spese del giudizio tra il ricorrente e il Fasano, mentre nulla va disposto per le spese nei
confronti dell'Università, che non ha svolto attività difensive in questo giudizio.
P.Q.M.
La Corte, a sezioni unite, dichiara la giurisdizione del giudice amministrativo sulla domanda proposta nei confronti dell'Università degli studi di Pisa;
dichiara la giurisdizione del giudice ordinario sulla domanda proposta nei confronti di Enrico Fasana; compensa le spese del giudizio tra il Cisilin e il
Fasana.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio delle sezioni unite civili del 24 novembre 2005.
Depositata in Cancelleria in data 13 giugno 2006.
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3) RIPARTO DI GIURISDIZIONE IN MATERIA DI ACCESSIONE INVERTITA
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA - sentenza 22 ottobre 2007 n. 12 - Pres. Schinaia, Est. Ruoppolo - Provincia di Mantova
(Avv.ti Colombo e Sperati) c. Gatti (Avv. Di Matteo) e Corso ed altri (n.c.) - (conferma T.A.R. Lombardia - Brescia, 19 dicembre 2005, n. 1342; la
questione era stata rimessa con ordinanza della Sez. IV, 19 giugno 2007 n. 3288, in questa Rivista, pag. http://www.lexitalia.it/p/71/cds4_2007-0619.htm).
1. Giurisdizione e competenza - Espropriazione per p.u. - Controversie in materia di accessione invertita - Proposte allorché la formale
espropriazione intervenga dopo la sopravvenuta inefficacia, per decorso del suo termine finale, della dichiarazione di p.u. - Giurisdizione del
giudice amministrativo - Sussiste.
2. Giurisdizione e competenza - Espropriazione per p.u. - Controversie in materia di occupazione acquisitiva - Proposte dopo la
trasformazione del bene a seguito di dichiarazione di p.u. - Giurisdizione del giudice amministrativo - Sussiste.
1. Rientrano nella giurisdizione del giudice amministrativo le controversie in tema di c.d. accessione invertita, proposte allorché la formale
espropriazione intervenga dopo la sopravvenuta inefficacia, per decorso del suo termine finale, della dichiarazione di pubblica utilità (1).
2. Nella materia dei procedimenti di espropriazione per p.u., sono devolute alla giurisdizione amministrativa esclusiva le controversie nelle
quali si faccia questione - naturalmente anche ai fini complementari della tutela risarcitoria - di attività di occupazione e trasformazione di
un bene conseguenti ad una dichiarazione di pubblica utilità e con essa congruenti, anche se il procedimento all’interno del quale sono state
espletate non sia sfociato in un tempestivo atto traslativo ovvero sia caratterizzato dalla presenza di atti poi dichiarati illegittimi (2).
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA - sentenza 30 luglio 2007 n. 9 - Pres. Schinaia, Est. P. Salvatore - Comune di Melilli (Avv.
Floresta) c. Giuliano ed altri (Avv.ti Saltalamacchia e Pellegrino) e Azienda Unità Sanitaria Locale n. 8 di Siracusa (Avv. Algozini) - (conferma
T.A.R. Sicilia - Catania, Sez. I, sentenza 12 luglio 2005, n. 1126; la questione era stata rimessa all’Ad. Plen. con ordinanza del C.G.A. 2 marzo 2007,
n. 75, pubblicata in questa Rivista, pag. http://www.lexitalia.it/p/71/cga_2007-03-02.htm).
1. Giurisdizione e competenza - Espropriazione per p.u. - Azione di risarcimento dei danni - Proposta dai proprietari a seguito di
occupazione di urgenza - Nel caso di decreto di esproprio mancante o tardivo, cioè emesso dopo la scadenza della dichiarazione di p.u. Giurisdizione amministrativa - Sussiste.
2. Giustizia amministrativa - Giudizio abbreviato - Previsto dall’art. 23 bis della L. n. 1034 del 1971 - In materia (fra l’altro) di
espropriazione per p.u. - Inapplicabilità nel caso di giudizio meramente risarcitorio.
3. Giustizia amministrativa - Risarcimento dei danni - Per lesione di interessi legittimi - Regola della c.d. "pregiudizialità amministrativa" Secondo cui occorre la previa impugnazione dell’atto per ottenere il risarcimento dei danni - Non opera nel caso di annullamento in via di
autotutela del provvedimento lesivo ovvero nel caso di danni causato da atti materiali di esecuzione del provvedimento - Fattispecie in
materia di occupazione acquisitiva.
1. Rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo un’azione di risarcimento dei danni proposta a seguito di occupazione d’urgenza
nel caso di decreto di esproprio mancante o tardivo, cioè emesso dopo la scadenza della dichiarazione di pubblica utilità; nella materia dei
procedimenti di esproprio, infatti, sono devolute alla giurisdizione amministrativa esclusiva le controversie nelle quali si faccia questione –
naturalmente anche ai fini complementari della tutela risarcitoria - di attività di occupazione e trasformazione di un bene conseguenti ad
una dichiarazione di pubblica utilità e con essa congruenti, anche se il procedimento all’interno del quale sono state espletate non sia
sfociato in un tempestivo atto traslativo ovvero sia caratterizzato dalla presenza di atti poi dichiarati illegittimi (1).
2. Il rito abbreviato, di cui all’art. 23 bis della legge n. 1034 del 1971, non è applicabile ad una controversia che consegue ad una procedura
di espropriazione ma nella quale vengono in rilievo profili di stampo esclusivamente risarcitorio; nei giudizi meramente risarcitori, infatti,
non ricorre la ratio per la quale il Legislatore ha ritenuto di favorire, in deroga ai termini processuali ordinari, una più rapida tutela degli
interessi pubblici in ambiti individuati (2).
3. La regola della c.d. pregiudiziale amministrativa – secondo la quale l’ammissibilità della domanda risarcitoria presuppone la previa
demolizione in s.g. del provvedimento lesivo – non opera ove l’atto sia stato rimosso in sede amministrativa, in autotutela o su ricorso di
parte, oppure se il danno non sia prodotto dalle statuizioni costitutive contenute nell’atto ma sia materialmente causato dalle particolari
modalità di sua esecuzione; in particolare la suddetta regola non opera nel caso di azione risarcitoria proposta a seguito dell’irreversibile
trasformazione del fondo operata dalla P.A. sulla base di una occupazione d’urgenza alla quale non sia seguita, nei termini previsti dalla
dichiarazione di p.u., l’emissione del decreto di esproprio (3).
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Adunanza Plenaria, ha pronunciato la seguente
DECISIONE
sul ricorso in appello n. 4/2007, dell’Adunanza Plenaria (n. 1125/2005 del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana proposto
dal COMUNE DI MELILLI, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avv. Attilio Floresta, con domicilio eletto presso lo
studio dell’avv. Elisabetta Borgese, in Palermo, via Notarbartolo n. 38;
contro
i signori DOMENICO GIULIANO, LUIGI GIULIANO, SEBASTIANO GIULIANO, FRANCESCO SETTIMO GIULIANO, MARIA GIULIANO,
BIANCA GIULIANO, e CARMELO GIULIANO, tutti in persona della sorella germana SEBASTIANA GIULIANO, che in loro nome agisce,
dichiara e sottoscrive, nonchè la signora SEBASTIANA GIULIANO, in proprio, tutti rappresentati e difesi dall’avv. Antonino Saltalamacchia, e
dall’avv. Gian Luigi Pellegrino con domicilio eletto in Palermo, via Tripoli n. 3, presso lo studio dell’avv. Giuseppina Daniela Monterosso;
e nei confronti
della AZIENDA UNITÀ SANITARIA LOCALE N. 8 DI SIRACUSA, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa
dall’avv. Alessandro Algozini, con domicilio eletto in Palermo, presso lo studio del medesimo in Palermo, via Duca della Verdura n. 4 (appellante
incidentale);
per la riforma
della sentenza n. 1126, in data 12 luglio 2005, del Tribunale amministrativo regionale della Sicilia, Sezione staccata di Catania, I;
FATTO
1) Con ricorso al Tribunale amministrativo regionale della Sicilia, Sezione staccata di Catania, i germani Giuliano, premessa la propria qualità di
comproprietari pro indiviso dell’area situata in territorio del comune di Melilli, censita in catasto al foglio di mappa 57, p.lle 750, 754, 614, 618 ed
interessata dalla costruzione del poliambulatorio dell’Azienda U.S.L. n. 8 di Siracusa, esponevano che le Amministrazioni citate avevano occupato senza notificare gli atti della procedura ad essi proprietari - i terreni in questione, realizzando il poliambulatorio.
Deducevano le seguenti censure:
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a) violazione degli artt. 7 e 8 della legge 7 agosto 1990, n. 241, in quanto i ricorrenti, proprietari del fondo occupato, non erano stati resi edotti
dell’avvio del procedimento amministrativo finalizzato all’espropriazione; in particolare ad essi non era stato notificato l’avviso di deposito del
decreto di approvazione dell’opera pubblica, cui per legge ordinariamente consegue l’indifferibilità ed urgenza della stessa;
b) illegittimità dell’azione amministrativa, esistenza di danni, di nesso causale, di dolo/colpa della p.a., in quanto agli interessati (in qualità di
effettivi proprietari dei beni) non erano stati notificati gli atti del procedimento espropriativo, e ciò per asserita colpa dell’ente espropriante.
I ricorrenti chiedevano conclusivamente di accertare e dichiarare la illegittimità e la illiceità della condotta delle Amministrazioni intimate in
relazione alla procedura di espropriazione avente ad oggetto l’area sulla quale era stato edificato il Poliambulatorio di Melilli e per l’effetto
chiedevano la condanna in solido tra loro del Comune di Melilli e della Azienda U.S.L. n. 8 di Siracusa al risarcimento della lesione subita,
invocando l’art. 2043 c.c. e l’art. 35 decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80, oltre che la corresponsione di interessi e rivalutazione monetaria, ed il
ristoro dell’ulteriore pregiudizio derivante dal ritardo subito nella reintegrazione del proprio patrimonio.
Si costituivano l’Azienda U.S.L. n.8 di Siracusa che rappresentava la propria estraneità alla vicenda, nonchè il Comune di Melilli che contestava in
fatto ed in diritto le deduzioni dei ricorrenti.
Il T.A.R. adito osservava che:
- nel 1991 era intervenuta la dichiarazione di pubblica utilità dell’opera in questione, che prevedeva (art. 3 del Decreto dell’Assessorato Regionale
alla sanità n. 94477/1991) l’avvio delle espropriazioni nel termine di tre mesi dalla data di comunicazione del D.A. stesso e la ultimazione entro
cinque anni con la medesima decorrenza;
- nel 1995 era stata disposta l’occupazione d’urgenza;
- il decreto di espropriazione non era mai intervenuto, come si desumeva, anche ai sensi dell’art. 116/2 c.p.c., dal silenzio sul punto delle
amministrazioni, le quali erano state espressamente sollecitate dall’ordinanza interlocutoria a fornire documentati chiarimenti riguardo ad esso;
Ciò premesso riteneva sussistente la giurisdizione amministrativa e nel merito accoglieva il ricorso, dichiarando illegittima ed inefficace l’attività
espropriativa delle parti resistenti nei confronti dell’immobile dei ricorrenti, accoglieva la domanda risarcitoria e condannava in solido le
amministrazioni resistenti a risarcire ai ricorrenti il danno, per l’ammontare da determinarsi, ai sensi dell’art. 35/2 del decreto legislativo n. 80/1998,
secondo i criteri stabiliti in motivazione e poneva le spese e gli onorari di giudizio a carico solidale delle amministrazioni resistenti.
La sentenza del T.A.R. veniva appellata dal Comune di Melilli che eccepiva:
il difetto di giurisdizione amministrativa concernendo la controversia de qua comportamenti non involgenti l’esercizio di pubbliche potestà;
l’inammissibilità di accertamento incidentale della legittimità di atti amministrativi non impugnati nel termine decadenziale ed al solo fine di un
giudizio risarcitorio.
Contestava poi la propria responsabilità essendo un mero delegato alla procedura relativa ad un’opera di cui si giova la Azienda U.S.L. n. 8 di
Siracusa.
La sentenza veniva, altresì, impugnata con appello incidentale dalla Azienda U.S.L. n. 8 di Siracusa che, oltre a rilevare l’inammissibilità e la
tardività del ricorso in primo grado, sosteneva:
l’inapplicabilità degli articoli 53 e 43 d.lgs. n. 327/2001 richiamati dal T.A.R. e che la giurisdizione spetterebbe al giudice ordinario in assenza di
alcun atto o provvedimento del quale la caducazione è pregiudiziale;
l’erroneità della dichiarazione di responsabilità in solido dell’Azienda, del tutto estranea alla procedura espropriativa della quale dovrebbe – se mai rispondere la Regione attraverso la gestione liquidatoria delle pregresse poste debitorie e creditorie sorte in capo alle ex UU.SS.LL..
I ricorrenti in primo grado nelle memorie presentate, oltre a svolgere puntuali controdeduzioni, hanno eccepito l’irricevibilità (per tardiva notifica) e
l’inammissibilità (per tardivo deposito) dell’appello incidentale dell’Azienda.
Il Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione Siciliana con ordinanza n.75/07 depositata il 2 marzo 2007 avendo rilevato l’esistenza di
alcune questioni pregiudiziali negli appelli proposti, ha ritenuto opportuno ex art. 10, quarto comma del d.lgs 24 dicembre 2003 n.373 rimettere la
soluzione della intera controversia all’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato.
L’ordinanza di rimessione – in relazione alla fattispecie oggetto del contenzioso caratterizzata in punto di fatto dagli elementi sopra illustrati –
sottopone all’esame dell’Adunanza Plenaria, collocandole in un ampio quadro di riferimento giurisprudenziale e dottrinario, le questioni che possono
essere schematizzate nei seguenti termini, secondo un ordine di successione logico giuridico.
Una prima questione che attiene alla sussistenza nella specie della giurisdizione amministrativa sotto il profilo della riconducibilità del danno
prospettato all’esercizio di un potere ovvero ad un mero comportamento, tenendo presente che i lavori iniziati con l’immissione in possesso nel
termine di efficacia della dichiarazione sono stati ultimati quando detto termine era ampiamente decorso e fermo restando che il decreto di esproprio
non è mai stato adottato;
una seconda questione che attiene, sotto un profilo gradato, alla ammissibilità di un’azione non impugnatoria, ma autonomamente risarcitoria e
diretta a far dichiarare – secondo la prospettazione dei ricorrenti in primo grado – la illiceità e la illegittimità della procedura ablatoria al di fuori di
una specifica domanda di annullamento degli atti contestati ed all’esclusivo fine di ottenere il risarcimento per equivalente del danno causato
dall’irreversibile trasformazione dell’immobile in questione;
una terza questione che concerne l’applicabilità al presente giudizio di appello della procedura accelerata di cui all’art. 23 bis della legge 6 dicembre
1971 n.1034, atteso che l’appello incidentale della Azienda U.S.L. non è stato notificato nel termine breve di trenta giorni dalla ricevuta notifica della
sentenza, come invece prescrive l’art.23 bis, ed è stato depositato oltre il termine dimidiato di cinque giorni dalla notifica.
Nelle note di udienza depositate tardivamente ma con l’adesione delle controparti, i ricorrenti in primo grado hanno ribadito, illustrandole
ulteriormente in maniera diffusa, le argomentazioni ed i rilievi espressi nelle precedenti fasi del giudizio.
1. Gli appelli non sono fondati e la sentenza impugnata va perciò confermata.
Come riferito nelle premesse la controversia all’esame consegue alla realizzazione di un Poliambulatorio U.S.L. sul terreno di proprietà dei germani
Giuliano sito nel comune di Melilli.
La dichiarazione di pubblica utilità dell’opera, che risale all’anno 1991, prevedeva il termine di cinque anni per il compimento dei lavori e della
procedura ablatoria.
In fatto, l’occupazione del fondo da parte del comune è avvenuta nell’anno 1995 con successivo avvio a cura della U.S.L. dei lavori che sono stati
però ultimati dopo l’anno 2000, senza che il decreto di esproprio venisse nel frattempo adottato.
I germani Giuliano hanno quindi proposto nel 2002 ricorso al T.A.R. Catania, chiedendo il risarcimento per equivalente del danno patito.
Con sentenza n. 1126 del 2005 il T.A.R. ha accolto il ricorso, condannando le Amministrazioni al risarcimento.
Per quanto qui ora rileva il Tribunale ha statuito che la controversia, pur riguardando "comportamenti" dell’Amministrazione, risultava devoluta alla
giurisdizione amministrativa esclusiva in base all’art. 53 T.U. sulle espropriazioni n. 327 del 2001, all’epoca ancora non inciso da Corte cost. n. 191
del 2006.
Nel nuovo contesto normativo derivante dalla pronuncia costituzionale ora citata, il Consiglio di Giustizia amministrativa – affrontando la questione
in base al primo motivo di impugnazione proposto dall’appellante – dubita della perdurante condivisibilità delle conclusioni cui è pervenuto il
Giudice di primo grado e chiede quindi di chiarire se della controversia all’esame possa effettivamente conoscere il giudice amministrativo.
Al riguardo l’Adunanza Plenaria ricorda che, come è noto, la Corte di Cassazione è in sostanza ferma nel ritenere la giurisdizione dell’A.G.O. in
relazione a controversie espropriative caratterizzate dalla omessa pronuncia del decreto di esproprio o (secondo l’ipotesi più frequente) dalla sua
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adozione dopo la scadenza dei termini comminati dalla dichiarazione di P.U., sul rilievo che in questi casi l’Amministrazione è ormai carente di ogni
potere ablatorio rispetto al diritto reale vantato dal proprietario.
In tali sensi chiarisce la Suprema Corte che nel caso di inutile decorso dei termini finali fissati nella dichiarazione di P.U. per il compimento
dell'espropriazione e dei lavori senza che sia intervenuto il decreto traslativo non rileva più che il potere espropriativo fosse in origine attribuito
all'Amministrazione, in quanto è decisivo che tale attribuzione, circoscritta nel tempo direttamente dal Legislatore, fosse già venuta meno all'epoca
dell'utilizzazione della proprietà privata (per tutte SS.UU. nn. 13659 del 2006 e 2688 del 2007).
A tale insegnamento si è conformata una parte della giurisprudenza amministrativa, in sostanza rilevando che un diverso criterio poteva valere solo
fino a quando la Corte costituzionale, con la nota sentenza n. 204 del 2004, non ha espunto dall’art. 34 del D. L.vo n. 80 del 1998 la devoluzione alla
giurisdizione esclusiva dei "comportamenti" della P.A. in materia urbanistica e di governo del territorio.
Per contro, questa Adunanza Plenaria ha invece da tempo ricondotto alla giurisdizione del Giudice amministrativo il caso del decreto di esproprio
mancante o tardivo, cioè emesso dopo la scadenza della dichiarazione di pubblica utilità.
Giudicando di una controversia in cui appunto la domanda risarcitoria fondava sulla sopravvenuta perdita di efficacia della dichiarazione di pubblica
utilità e sulla mancata emanazione del decreto di esproprio, questa Adunanza ha infatti affermato la sussistenza della giurisdizione amministrativa
esclusiva in relazione a liti che abbiano ad oggetto diritti soggettivi quando la lesione di questi ultimi tragga origine, sul piano eziologico, da fattori
causali riconducibili all’esplicazione del pubblico potere, pur se in un momento nel quale quest’ultimo risulta ormai mutilato della sua forza
autoritativa per la sopraggiunta inefficacia disposta dalla legge per la mancata conclusione del procedimento ( Ap. n. 4 del 2005 ma cfr. anche nn. 9
del 2005 e 2 del 2006).
La fondatezza di tali conclusioni va oggi ribadita in quanto il diritto vigente, per come delimitato dalle sentenze n. 204 del 2004 e 191 del 2006 del
Giudice delle leggi, depone per la rimeditazione dell’insegnamento sin qui impartito dalla Corte regolatrice.
Dopo l’entrata in vigore del T.U. sulle espropriazioni n. 327 del 2001 il procedimento ablatorio si attiva con l’imposizione – in virtù della pertinente
previsione urbanistica o degli altri strumenti individuati all’art. 10 – del vincolo preordinato all’esproprio, cui deve conseguire entro cinque anni la
dichiarazione di pubblica utilità dell’opera nonchè, entro il successivo quinquennio di efficacia legale di questa, il decreto di esproprio.
Attualmente quindi l’esercizio della funzione pubblica emerge dalla fase di apposizione del vincolo, la quale apre e qualifica originariamente – col
necessario riflesso semplificante in termini di giurisdizione – l’intero procedimento nel cui alveo si innestano in chiave tendenzialmente attuativa i
successivi segmenti.
In precedenza – alla stregua del procedimento bifasico disegnato dalla legge fondamentale n. 2359 del 1865 e ancor più dopo le innovazioni in tema
di dichiarazione implicita introdotte dalla legge n. 1 del 1978 – cardine dell’attività ablatoria era invece la dichiarazione di pubblica utilità, avendo
questa l’effetto di sottoporre il bene al regime di espropriabilità così determinando, appunto in vista dell’espropriazione, l'affievolimento del diritto
di proprietà.
In questo ambito, il decisivo rilievo provvedimentale della dichiarazione e la conseguente sua capacità di incidere costitutivamente nella sfera
giuridica del proprietario si coglie del resto dal fatto che la stessa è stata sempre ritenuta come immediatamente impugnabile, a differenza degli atti
meramente infraprocedimentali.
In sostanza, nei procedimenti come quello in controversia non governati ratione temporis dalle norme sostanziali del T.U., la dichiarazione di
pubblica utilità è l’atto autoritativo che fa emergere il potere pubblicistico in rapporto al bene privato e costituisce al tempo stesso origine funzionale
della successiva attività, giuridica e materiale, di utilizzazione dello stesso per scopi pubblici previamente individuati.
In questo quadro, la mancata adozione del provvedimento traslativo entro il prescritto termine non sembra poter dequotare la valenza giuridica di
un’attività appunto espletata nel corso e in virtù di un procedimento che la dichiarazione ha ab origine funzionalizzato a scopi specifici e concreti di
pubblica natura o utilità.
La omessa conclusione del procedimento mediante tempestiva pronuncia del decreto di esproprio, impedendo la formalizzazione dell’acquisizione al
patrimonio pubblico del bene realizzato, connota la precedente attività dispiegata dall’Amministrazione in termini materiali o comportamentali: ma,
pur privato del suo naturale sbocco costitutivo e quindi illegittimo, questo comportamento di impossessamento e irreversibile modifica del bene
altrui resta pur sempre, nel senso ora detto, riconducibile all’esercizio del pubblico potere.
La fattispecie ora all’esame presenta dunque evidenti punti di contatto con quella che si determina a seguito dell’annullamento in s.g. della
dichiarazione di pubblica utilità, in quanto in entrambi i casi gli effetti retroattivi naturalmente conseguenti alla pronuncia demolitoria o quelli
derivanti dalla mancata conclusione del procedimento non sembrano poter travolgere a posteriori il nesso funzionale che ha comunque legato
l’attività dell’Amministrazione alla realizzazione del fine di interesse collettivo individuato all’origine.
Il vero è infatti che il collegamento con l’esercizio del potere corre sul piano storico, nella dinamica dei fatti giuridici in cui l’attività si è estrinsecata
–sulla base dei necessari presupposti- secondo univoci procedimenti, moduli ed atti di struttura pubblicistica ( la dichiarazione di P.U.) ed assume
rilevanza ai fini della riconducibilità della stessa, non meramente materiale, all’Amministrazione nella sua veste pubblicistica.
Su di un piano diverso si colloca il tema della validità/legittimità degli atti adottati, riguardati nella loro connotazione di atti giuridici, che rileva sul
piano della configurabilità ed individuazione dell’esistenza dei presupposti oggettivi della fattispecie risarcitoria.
Ben distinto invece – e dunque non equiparabile ai fini del riparto di giurisdizione ai sensi dell’art. 34 del D. L.vo n. 80 del 1998 e delle
corrispondenti norme processuali contenute nell’art. 53 del T.U. n. 327 del 2001 come incisi dalle citate sentenze della Corte costituzionale – è il
caso in cui la dichiarazione manchi del tutto, venendo allora in rilievo un mero comportamento per vie di fatto, in nessun modo e nemmeno
mediatamente funzionalizzato all’esercizio di un effettivo potere degradatorio e traslativo.
Da quanto sin qui esposto deve trarsi la conclusione che nella materia dei procedimenti di esproprio sono devolute alla giurisdizione amministrativa
esclusiva le controversie nelle quali si faccia questione – naturalmente anche ai fini complementari della tutela risarcitoria - di attività di occupazione
e trasformazione di un bene conseguenti ad una dichiarazione di pubblica utilità e con essa congruenti, anche se il procedimento all’interno del quale
sono state espletate non sia sfociato in un tempestivo atto traslativo ovvero sia caratterizzato dalla presenza di atti poi dichiarati illegittimi.
Impostazione questa che da un lato sembra la più aderente al criterio di riparto della giurisdizione in materia di governo del territorio disegnato a
livello normativo per effetto delle pronunce del Giudice delle leggi; dall’altro, nella misura in cui àncora ad un parametro obiettivo la vasta nozione
dei comportamenti mediatamente riconducibili all’esercizio del pubblico potere, sembra meglio rispondere anche a decisive esigenze di economia
processuale e di ragionevole durata del processo, semplificando l’individuazione del giudice fornito di giurisdizione da parte del proprietario che si
ritenga leso e danneggiato in conseguenza della realizzazione dell’opera già dichiarata di pubblica utilità.
In conclusione, nel caso all’esame vanno confermate le statuizioni del Tribunale in ordine alla sussistenza della giurisdizione amministrativa
esclusiva.
2. Ritenuta la giurisdizione deve passarsi all’esame dell’eccezione mediante la quale gli appellati deducono l’inammissibilità dell’appello incidentale
della Azienda U.S.L., in quanto notificato e depositato nei termini ordinari e non in quelli speciali indicati dall’art. 23 bis della legge n. 1034 del
1971.
La questione si risolve nel decidere se il rito abbreviato, di cui al citato art. 23 bis, è applicabile ad una controversia che consegue ad una procedura
di espropriazione ma nella quale vengono in rilievo profili di stampo esclusivamente risarcitorio.
Come osservato dal Consiglio di giustizia amministrativa, al riguardo la giurisprudenza non ha sin qui assunto un atteggiamento univoco.
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Secondo un primo orientamento la dimidiazione dei termini prevista dal citato art. 23 bis nelle controversie aventi ad oggetto le procedure di
espropriazione di aree per la realizzazione di opere pubbliche si applica anche alle conseguenti domande risarcitorie, perchè queste – secondo
l’insegnamento della Corte costituzionale - non costituiscono materia a se stante, bensì uno strumento di tutela ulteriore e aggiuntivo rispetto a quello
classico demolitorio. ( cfr. tra le recenti Csi. n. 434 del 2006).
Un diverso indirizzo giurisprudenziale perviene invece ad opposte conclusioni, rilevando che nei giudizi meramente risarcitori non ricorre la ratio
per la quale il Legislatore ha ritenuto di favorire, in deroga ai termini processuali ordinari, una più rapida tutela degli interessi pubblici in ambiti
individuati ( cfr. da ultimo V Sez. n. 7194 del 2006).
L’Adunanza Plenaria ritiene che tale ultima impostazione sia da privilegiare, sulla scorta di convergenti considerazioni di ordine sia testuale che
sistematico.
In tal senso, è da osservare in primo luogo che secondo la lettera della legge il rito abbreviato si applica nei giudizi aventi ad oggetto " l’
impugnazione di provvedimenti..relativi ..alle procedure di espropriazione": stando al dato testuale, quindi, la dimidiazione dei termini non riguarda
le domande risarcitorie autonome, nelle quali non si mira a demolire i provvedimenti adottati nell’ambito della procedura di esproprio ma si lamenta
il danno derivante dalla loro esecuzione.
L’oggetto del giudizio risarcitorio non rientra dunque tra quelli tassativamente enumerati al comma 1 dell’art. 23 bis, le cui disposizioni acceleratorie
– nella misura in cui derogano incisivamente all’ordinario regime processuale – risultano di stretta interpretazione e non possono essere applicate
estensivamente al di fuori delle ipotesi nominate che il Legislatore ha ritenuto di individuare.
Sotto altro e decisivo profilo, la normativa in argomento risponde all’evidente fine di favorire, nei limiti di compatibilità con le esigenze individuali
di tutela giurisdizionale, una tempestiva definizione di controversie incidenti su peculiari interessi pubblici, onde ad esempio contenere il nocumento
che la collettività riceve dal ritardo nella realizzazione di opere pubbliche.
In questa prospettiva, la definizione del giudizio risarcitorio evidentemente non incide sugli interessi che l’art. 23 bis mira a tutelare, con la
conseguenza che anche la ratio della norma depone per la inapplicabilità del rito abbreviato alle controversie – come quella all’esame - introdotte da
domande autonome di risarcimento del danno per equivalente.
E’ appena il caso di osservare come dalle suesposte conclusioni derivi anche l’inapplicabilità in questo giudizio del disposto di cui all’art. 23 bis
comma 6, relativamente alla pubblicazione anticipata del dispositivo della decisione.
Assorbito ogni ulteriore profilo l’appello incidentale della azienda U.S.L. risulta quindi tempestivamente proposto nei termini ordinari.
3. Venendo alla questione della pregiudiziale, prospettata dal Consiglio in base alle ulteriori deduzioni degli appellanti, si rileva che in realtà la
controversia de qua si presenta caratterizzata in fatto da elementi che rendono la questione stessa irrilevante sicchè il presente giudizio – proprio
perchè definibile sotto altri profili - non costituisce occasione processualmente idonea per affrontare la relativa e complessa problematica.
Il contesto fattuale sottostante è infatti caratterizzato dalla mancata tempestiva adozione del decreto di esproprio e dalla circostanza che, come
osservato con riferimento ai profili di giurisdizione, la occupazione e irreversibile trasformazione del bene costituisce il frutto di una attività
esecutiva iniziata sì nell’arco temporale concesso dalla dichiarazione di P.U. e sotto l’egida di questa ma condotta a compimento senza che la
proprietà del bene immobile ormai trasformato venisse mai formalmente traslata.
Ne deriva che, come si evince dall’obiettivo esame del ricorso originario, le censure ivi tardivamente dedotte per lumeggiare l’illegittimità della
suddetta dichiarazione di pubblica utilità hanno valenza meramente ancillare e non rivestono rilievo significativo ai fini della qualificazione del
fattore causativo del danno e della proposizione della domanda risarcitoria.
Per contro, questa Adunanza Plenaria ha invece da tempo ricondotto alla giurisdizione del Giudice amministrativo il caso del decreto di esproprio
mancante o tardivo, cioè emesso dopo la scadenza della dichiarazione di pubblica utilità.
Giudicando di una controversia in cui appunto la domanda risarcitoria fondava sulla sopravvenuta perdita di efficacia della dichiarazione di pubblica
utilità e sulla mancata emanazione del decreto di esproprio, questa Adunanza ha infatti affermato la sussistenza della giurisdizione amministrativa
esclusiva in relazione a liti che abbiano ad oggetto diritti soggettivi quando la lesione di questi ultimi tragga origine, sul piano eziologico, da fattori
causali riconducibili all’esplicazione del pubblico potere, pur se in un momento nel quale quest’ultimo risulta ormai mutilato della sua forza
autoritativa per la sopraggiunta inefficacia disposta dalla legge per la mancata conclusione del procedimento ( Ap. n. 4 del 2005 ma cfr. anche nn. 9
del 2005 e 2 del 2006).
Ed anzi nella ipotesi da ultimo richiamata un danno giuridicamente rilevante ben può coesistere con la inoppugnabilità o acclarata legittimità del
provvedimento (solo malamente eseguito) il quale effettivamente rileverà nel giudizio risarcitorio come mero presupposto.
In conclusione, a ben vedere nella controversia in esame la omessa contestazione nel termine di decadenza – da parte dei proprietari – della
dichiarazione di pubblica utilità non spiega alcun rilievo giuridicamente apprezzabile, poichè il danno giuridicamente rilevante in capo ad essi deriva
dalla irreversibile trasformazione e dalla mancata pronuncia del provvedimento traslativo.
Le considerazioni ora svolte consentono peraltro di assorbire l’esame delle censure mediante le quali gli appellanti deducono questioni – ad esempio
relative alla tardività del ricorso originario ove volto all’impugnativa della dichiarazione – che non rivestono più rilievo nell’economia della
decisione.
Parimenti, il fatto che - come già dimostrato dal Consiglio di Giustizia - la sentenza impugnata abbia errato nel considerare inefficace la
dichiarazione di pubblica utilità più non rileva, una volta che il decreto di occupazione emesso in vigenza del vincolo discendente dalla dichiarazione
stessa abbia retroattivamente cessato di esplicare i suoi effetti.
4. Sgombrato il campo dalle questioni preliminari, occorre dunque passare all’esame dei motivi proposti dagli appellanti per contestare alcuni profili
di merito della decisione di primo grado.
In questo ambito inammissibile è il mezzo mediante il quale il comune deduce genericamente che i germani Giuliano non avrebbero provato che
l’ambulatorio è stato effettivamente realizzato su terreno di loro proprietà.
Con statuizione non specificamente gravata e quindi coperta da giudicato il Tribunale ha infatti stabilito che l’immobile insiste effettivamente sul
fondo dei ricorrenti, come del resto risulta – salvo qualche limitatissima discrasia rilevante ai soli fini della quantificazione del risarcimento – dalla
perizia giurata e dai documenti acquisiti al fascicolo di causa.
Ciò premesso, nel merito gli appellanti contestano poi, ovviamente in prospettive antitetiche, la statuizione con la quale il Tribunale ha dichiarato il
comune di Melilli e l’azienda U.S.L. n. 8 come tenuti in solido al risarcimento del danno, i cui criteri di quantificazione globale non sono stati invece
specificamente gravati.
Al riguardo il comune eccepisce infatti di aver operato quale mero delegato alla procedura mentre l’ente sanitario oppone di esservi rimasto del tutto
estraneo, salvo affermare in subordine che il debito dovrebbe in ogni caso gravare sulla gestione liquidatoria regionale della ex U.S.L. n. 27.
Questi mezzi non meritano positiva considerazione e vanno perciò disattesi.
Per quanto riguarda il comune è sufficiente osservare che lo stesso è intervenuto nella procedura quale vero soggetto espropriante secondo quanto
stabilito dalla normativa regionale allora applicabile ( art. 39 L.R. n. 87 del 1980 e art. 45 L.R. n. 69 del 1991) in coerenza con le corrispondenti
previsioni allora contenute nella legge di istituzione del Servizio sanitario nazionale.
Di ciò si ha tra l’altro piena e decisiva riprova documentale sia perchè il decreto di occupazione, prima rilasciato nei confronti dell’U.S.L., fu poi
espressamente modificato con individuazione del destinatario nel Sindaco sia perchè l’indennità provvisoria è stata quantificata ed offerta con
pertinente delibera comunale.
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Per quanto riguarda la pretesa dell’A.S.L. di essere considerata estranea alla vicenda ablatoria è sufficiente osservare – prescindendo da ogni
ulteriore considerazione – da un lato che il progetto definitivo dell’opera fu approvato proprio dall’allora Comitato di gestione della U.S.L. n. 27 e
dall’altro che il finanziamento regionale fu accreditato al Commissario di quella struttura sanitaria, il quale ha poi direttamente provveduto
all’appalto dei relativi lavori.
Come si è detto l’azienda deduce poi in via subordinata il suo difetto di legittimazione passiva riguardo un rapporto che troverebbe radice in epoca
antecedente alla sua istituzione, sostenendo che della posta debitoria deve rispondere la gestione liquidatoria della ex U.S.L. n. 27.
Questa tesi risulta inammissibile in quanto formulata in modo troppo generico e non è comunque convincente perchè l’istituzione dell’azienda ed il
suo subentro formale deve farsi in realtà risalire ( cfr. art. 6 L. n. 724 del 1994 e corrispondenti norme contenute negli artt. 55 L.R. n. 30 del 1993 e 1
L.R. n. 34 del 1995) ad epoca in cui, essendo legalmente in corso l’occupazione, l’obbligazione risarcitoria non era certamente venuta in essere.
Tenuta presente la particolare natura del rapporto dedotto in giudizio deve quindi confermarsi quanto statuito dal T.A.R. in ordine alla sussistenza, in
chiave di causalità materiale, di una concorrente responsabilità risarcitoria dell’azienda appellante.
5. Le considerazioni che precedono impongono il rigetto degli appelli.
Considerata la complessità delle questioni trattate sussistono motivi per disporre l’integrale compensazione tra le parti delle spese e onorari di questo
grado del giudizio.
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CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. UNITE CIVILI - sentenza 19 dicembre 2007 n. 26732 - Pres. Carbone, Est. Benini - Provincia Regionale di
Catania c. Bruno e altri - (rigetta il ricorso).
1. Espropriazione per p.u. - Acquisizione sanante - Ex art. 43 D.P.R. n. 327 del 2001 (T.U. espropriazione per p.u.) - Applicabilità
dell’istituto in via retroattiva, anche i fini della determinazione della giurisdizione - Impossibilità.
2. Giurisdizione e competenza - Espropriazione per p.u. - Occupazione c.d. usurpativa - Controversie in materia - Giurisdizione del G.O. Sussiste - Adozione, da parte della P.A., di un provvedimento di acquisizione sanante - Ex art. 43 del T.U. espropriazione per p.u. Irrilevanza.
1. L'art. 43 D.P.R. n. 327 del 2001 (T.U. espropriazioni), sulla c.d. "acquisizione sanante" concernente l'acquisizione di beni utilizzati dalla
pubblica amministrazione in assenza di decreto di esproprio, è inapplicabile, anche agli effetti della giurisdizione, ove l'acquisizione alla
proprietà pubblica sia avvenuta per irreversibile trasformazione del fondo occupato, consumata anteriormente all'entrata in vigore della
stessa norma, tanto più ove la responsabilità per l’appropriazione sia definita contrattuale, nell'ambito dell'azione di risoluzione di
precedente contratto di cessione dei beni oggetto di occupazione, per inadempimento dell'amministrazione cessionaria (1).
2. Nel caso di proposizione di una azione di risarcimento dei danni derivanti da occupazione usurpativa, l'azione risarcitoria intrapresa dal
privato per la perdita della proprietà, siccome relativa ad un danno arrecato da un mero comportamento dell'amministrazione, nel quale
non è ravvisabile, nemmeno mediatamente, l'esercizio di alcun potere amministrativo, è attribuita alla giurisdizione del giudice ordinario,
indipendentemente da un autonomo atto di acquisizione dell' immobile utilizzato senza titolo, adottato conformemente all'art. 43 d.p.r. n.
327 del 2001, come atto utile alla trascrizione nei registri immobiliari.
(1) Con la sentenza in rassegna le Sez. Unite della Cassazione affrontano dichiaratamente per la prima volta ex professo la questione
dell'applicabilità in via retroattiva dell'art. 43 del t.u. espropriazioni, in particolare della determinazione della giurisdizione sulle controversie
pendenti, ove sia emanato un atto di acquisizione sanante.
Hanno premesso in proposito le Sez. Unite che l'art. 43 cit. pone un fondamentale interrogativo, in ordine alla propria possibile applicabilità
retroattiva (ovvero per fatti espropriativi in cui la pubblica utilità sia stata dichiarata in epoca anteriore all'entrata in vigore del t.u. espropriazioni,
come previsto dall'art. 57 dello stesso, o in cui la pubblica utilità non sia stata dichiarata, ma l'actio iudicii sia comunque anteriore alla legge).
Hanno ritenuto le Sez. Unite che l’art. 43 cit., che prevede l’acquisizione sanante, è inapplicabile in via retroattiva, anche ai fini della
determinazione della giurisdizione (che è attribuita dalla norma stessa al giudice amministrativo), ove l'acquisizione alla proprietà pubblica sia
avvenuta per irreversibile trasformazione del fondo occupato, consumata anteriormente all'entrata in vigore della stessa norma (v. in prec. nello
stesso senso Cass., Sez. I, sentenza 5 settembre 2005, n. 18239)
E ciò tanto più ove la responsabilità per l’appropriazione sia definita contrattuale, nell'ambito dell'azione di risoluzione di precedente contratto di
cessione dei beni oggetto di occupazione, per inadempimento dell'amministrazione cessionaria (nella specie infatti la P.A. aveva adottato un
provvedimento di acquisizione sanante nel corso di un giudizio proposto dai privati affinchè venisse dichiarata la risoluzione per grave
inadempimento della cessione volontaria convenuta nel 1975 e la P.A. fosse condannata al risarcimento dei danni conseguenti, equivalente al valore
dei beni illegittimamente appresi).
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo, la Provincia Regionale di Catania ha prospettato che - avendo la stessa P.A. disposto, con provvedimento dirigenziale n. 172
del 22 settembre 2005, l'acquisizione dei terreni controversi ai sensi dell'art. 43 del d.P.R. n. 327 del 2001 - venisse accertata l'applicabilità al
giudizio in questione di tale norma, con conseguente annullamento delle statuizioni sulle indennità adottate dalla Corte d'appello, diversamente
applicandosi quella prevista nel provvedimento di acquisizione, con le tutele previste nella norma, in particolare, il difetto della giurisdizione del
giudice ordinario.
Con il secondo motivo, la Provincia Regionale di Catania, denunciando violazione di legge (artt. 43 d.p.r. n. 327 del 2001 e 5 bis d.l. n. 222 del
1992), censura la sentenza impugnata per 1'erronea valutazione dei terreni, da effettuare alla stregua della destinazione agricola, e non certo in base a
valori edificabili propri della zona industriale e commerciale, trattandosi di danno da occupazione appropriativa che presuppone il preventivo esatto
inquadramento del terreno espropriato, esclusa ogni rilevanza dell'edificabilità di fatto.
Con il terzo motivo, la ricorrente, denunciando erronea qualificazione del danno, mancata applicazione e violazione degli artt. 37 e 55 d.p.r. n. 327
del 2001, come modificato dal d.lgs. n. 302 del 2002, censura la sentenza impugnata per non aver applicato il criterio risarcitorie legislativamente
regolamentato per 1'occupazione illegittima delle aree edificabili, trattandosi di utilizzazione del fondo in assenza del provvedimento di esproprio
alla data del 30.9.1996. A seguito della rituale notificazione del ricorso, gli intimati si sono costituiti in questo grado depositando apposito
controricorso, con il quale hanno insistito per il rigetto dell'impugnazione.
In particolare, con riferimento al primo motivo del ricorso, i controricorrenti, oltre a dedurne l'inammissìblità per l'assoluta novità della sua
prospettazione, hanno rappresentato che la giurisdizione del giudice ordinario è da ritenersi ormai divenuta incontestabile, stante l'intangibile
accertamento intervenuto al riguardo a seguito del passaggio in giudicato della sentenza n. 548 del 1999 della Corte di Appello (confermata con la
predetta sentenza della Corte di cassazione n. 11640 del 2003), senza trascurare la circostanza che il d.P.R. n. 327 del 2001 (come modificato dal
d.lgs. n. 3 02 del 2002) non potrebbe giammai essere considerato applicabile alla controversia in discorso sia in relazione al disposto di cui all'art. 57
del medesimo t.u. (risalendo la dichiarazione di pubblica utilità all'anno 1974) che in virtù del fatto che il diritto alla reintegrazione patrimoniale per
il danno da essi subito è coperto dal giudicato riconducibile alla predetta sentenza, con 1'intervenuta applicazione, per 1'apprensione dei terreni
oggetto dei contratti, delle norme civilistiche sul risarcimento del danno conseguente alla risoluzione per inadempimento contrattuale e, per i fondi
eccedenti le superfici contrattualmente previste, delle norme sulla responsabilità extracontrattuale {i cui criteri di indennizzo sono diversi ed
incompatibili con i criteri di liquidazione del danno previsti dal citato T.U. n. 327 del 2001).
Inoltre, i medesimi controricorrenti hanno evidenziato che la sopravvenuta normativa sulle espropriazioni si appalesa estranea rispetto alla fattispecie
in oggetto, con la insussistenza dell'eventuale giurisdizione del giudice amministrativo, anche perché, ove mai un conflitto fra giudice ordinario e
giudice amministrativo fosse astrattamente possibile, questo andrebbe risolto secondo il principio della perpetuatio iurisdictionis, con applicazione
della legge in vigore al momento della prima azione giudiziale, che fissa in concreto il momento di determinazione della litispendenza, rendendo così
inidonea la successiva attribuzione della cognizione della stessa domanda da parte di un diverso giudice. In ogni caso, i controricorrenti hanno posto
in luce come, nel caso in esame, non ricorra alcuno dei presupposti previsti per l'applicabilità del più volte citato art. 43 t.u. n. 327 del 2001, sia per
espressa previsione dell'art. 57 del medesimo d.p.r. sia perché la controversia de gua non attiene all'assenza di un valido ed efficace provvedimento di
esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, bensì alla dichiarata risoluzione per inadempimento di atti di vendita di diritto privato e al riconosciuto
diritto al risarcimento del danno secondo i principi civilistici in base ad una sentenza passata in giudicato.
Gli stessi controricorrenti hanno, altresì, dedotto l'inammissibilità e l'infondatezza degli altri due motivi allegati dalla ricorrente, sul presupposto del
giudicato per acquiescenza formatosi sia sui valori degli immobili che sui criteri di liquidazione dei danni, senza che, peraltro, la medesima Provincia
di Catania avesse mai proposto il tema della contestazione della natura urbanistica dei beni o, comunque, fornito il riscontro della destinazione
agricola dei medesimi. La questione dì giurisdizione, proposta con il primo motivo, richiede preliminarmente l'esatta qualificazione dell'oggetto del
contendere giacché se l'amministrazione ricorrente pretende che il decreto di acquisizione postumo dei terreni occupati, emanato nel 2 005, comporti
automaticamente l'attribuzione della giurisdizione al giudice amministrativo, in base al 1 'art. 43 d.p.r. n. 327 del 2001, la conoscenza che della causa
ha avuto il giudice ordinario, nei primi due gradi di giurisdizione, conclusi con una sentenza di condanna dell'attuale ricorrente al risarcimento dei
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danni, era giustificata dalla qualificazione della domanda, da un lato, come diretta a fa valere una responsabilità contrattuale dell'amministrazione,
per i terreni oggetto di contratti di cessione volontaria dichiarati risolti, e dall'altro come responsabilità da fatto illecito permanente, definito
occupazione usurpativa.
La causa pone all'attenzione di queste Sezioni unite, per la prima volta ex professo, la questione dell'applicabilità dell'art. 43 del t.u. espropriazioni
(la cui applicazione retroattiva è stata esclusa dalla sez. I di questa Corte, con sentenza 5.9.2005, n. 18239), in particolare della sistemazione della
giurisdizione sulle controversie pendenti, ove sia emanato quell'atto di acquisizione cui la legge attribuisce ora effetto sanante per quelle situazioni di
utilizzazione senza titolo, per la mancata emanazione dì decreto di esproprio o financo di dichiarazione di pubblica utilità.
La norma attribuisce la cognizione delle azioni d'impugnazione degli atti della procedura espropriativa, oltre che dell'atto di acquisizione, al giudice
amministrativo, davanti al quale la pubblica amministrazione è abilitata - sempre che la pretesa impugnatoria del proprietario ricorrente sia fondata a optare per la propria condanna al risarcimento, con esclusione della restituzione del bene.
La norma pone un fondamentale interrogativo, in ordine alla propria possibile applicabilità retroattiva (ovvero per fatti espropriativi in cui la
pubblica utilità sia stata dichiarata in epoca anteriore all'entrata in vigore del t.u. espropriazioni, come previsto dall'art. 57 dello stesso, o in cui la
pubblica utilità non sia stata dichiarata, ma l'actio iudicii sia comunque anteriore alla legge).
Nella fattispecie all'esame l'acquisizione di una parte dei terreni è stata presa in considerazione dal giudice di merito dal particolarissimo angolo
visuale della responsabilità per i danni connessi alla risoluzione di tre contratti di cessione volontaria che quei terreni avevano lo scopo di trasferire, e
di un ulteriore stacco, per via dell'abusivo sconfinamento in sede di occupazione, al di fuori della dichiarazione di pubblica utilità.
Il problema, dunque, si seziona in due diversi aspetti, dei quali il primo, quello della responsabilità contrattuale, rende irrilevante, in virtù
dell'evoluzione del contenzioso fino all'attuale giudizio in cassazione, l'atto postumo di acquisizione sanante, ed il secondo si pone al di fuori della
logica del risarcimento quale conseguenza di un comportamento della pubblica amministrazione nel quale ravvisare l'esercizio di poteri autoritativi.
Riguardo al primo punto, la sentenza non definitiva n. 548 del 1999 della Corte di Appello di Catania, passata in giudicato in virtù del rigetto del
ricorso per cassazione su di essa spiegato dalla Provincia di Catania (sentenza n. 11640 del 2003), ha qualificato la responsabilità
dell'amministrazione come responsabilità contrattuale, conseguente alla dichiarata risoluzione del contratto per inadempimento del cessionario dei
terreni, nella quale ha ricompreso anche il danno per la perdita degli stessi beni, nel frattempo irreversibilmente trasformati dall'amministrazione
occupante, e non più restituibili.
Il giudice di merito ha infatti commisurato la responsabilità dell'amministrazione inadempiente, al momento dell'inadempimento agli obblighi
contrattuali (ovvero alla scadenza dell' intimazione ad adempiere, inviata nel 1986, undici anni dopo i contratti di cessione), e di conseguenza ha
tenuto conto del danno nel frattempo consumato, quello della trasformazione dei terreni, avvenuto nel 1979.
Sicché, se anche tecnicamente - risolto il contratto - la restituzione è stata impossibile per via della condotta appropriativa dell'amministrazione (dal
che l'acquisizione in proprietà alla mano pubblica), il danno riconosciuto dalla sentenza passata in giudicato ha assunto natura contrattuale, e
restando in discussione ancora soltanto il quantum della liquidazione, non sembra potersi revocare in dubbio la giurisdizione del giudice dei diritti,
come in tutte le controversie contrattuali, in particolare per ciò che attiene alle vicende della cessione volontaria nell'ambito del procedimento
espropriativo (Cass. 24.4.2007, n. 9845), e l'irrilevanza, sul punto, del decreto di acquisizione del 2005, che, se concepito dalla legge come modo di
acquisto postumo della proprietà di terreni comunque utilizzati a fini pubblici (come testualmente prevede 1'art. 43, comma 2, lett. e) , non può
essere applicato ove il passaggio di proprietà sia già avvenuto.
La riprova di ciò può inferirsi non solo nella dichiarata inapplicabilità delle disposizioni del t.u. (senza esclusione, quindi, dell'art. 43, in base al
disposto dell'art. 57, per i progetti per i quali fosse già intervenuta la dichiarazione di pubblica utilità alla data di entrata in vigore dello stesso t.u.),
ma anche nella specifica regolamentazione dei fatti anteriori, nel corpus normativo, in cui si riproducono (art. 55) le modalità di liquidazione del
danno da occupazione appropriativa, di cui all'art. 5 bis, comma 7 bis, d.l. n. 333 del 1992 conv. in l. n. 359 del 1992, come introdotto dall'art. 3,
comma 65, 1. 662 del 1996 (che si abrogava, ma solo dall' entrata in vigore, ratione temporis, del t.u. - art. 58, nn. 133 e 136 - contemporaneamente
all'entrata in vigore del nuovo sistema imperniato sull'atto di acquisizione e sul risarcimento integrale) .
La pretesa originariamente risarcitoria poi, sarebbe comunque estranea alla valutazione del pubblico interesse, astrattamente connessa alla
restituibilità del bene, tanto che la giurisdizione del giudice amministrativo è predicata dall'art. 43, limitatamente ai casi di impugnazione di
provvedimenti amministrativi, e "ove sia esercitata una azione volta alla restituzione di un bene utilizzato per scopi di interesse pubblico".
Sembra peraltro superfluo invocare la perpetuatio iurisdictionis, come eccepito dai controricorrenti, dato che in materia di responsabilità
contrattuale, nulla l'art. 43 t.u. espropriazioni avrebbe comunque innovato.
Sicché a quella parte del primo motivo di ricorso, relativo al risarcimento del danno conseguente alla risoluzione dei contratti di cessione, può
rispondersi con il seguente principio di diritto: "L'art. 43 d.p.r. n. 327 del 2001, concernente l'acquisizione di beni utilizzati dalla pubblica
amministrazione in assenza di decreto di esproprio, è inapplicabile, anche agli effetti della giurisdizione, ove l'acquisizione alla proprietà pubblica sia
avvenuta per irreversibile trasformazione del fondo occupato, consumata anteriormente all'entrata in vigore della stessa norma, tanto più ove la
responsabilità per l’appropriazione sia definita contrattuale, nell'ambito dell'azione di risoluzione di precedente contratto di cessione dei beni oggetto
di occupazione, per inadempimento dell'amministrazione cessionaria".
Il secondo profilo della questione di giurisdizione, inerente quella parte di terreno non contemplata dai contratti di cessione, e abusivamente occupata
dall'amministrazione per un fatto definito dal giudice di merito come usurpativo, riceve soluzione ugualmente negativa della pretesa inerente al
mezzo d'impugnazione.
All'uopo si richiama quanto sopra osservato in merito all'ambito temporale di applicazione dell'art. 43, del quale nulla autorizza a ritenere un'entrata
in vigore anticipata rispetto al contesto normativo di cui fa parte, e in presenza della norma di chiusura di cui all'art. 57 dello stesso t.u.
Sì aggiunga che l'azione in giudizio parte come pretesa già risarcitoria (e non restitutoria), senza che l'emanazione dell'atto di acquisizione possa
comportare un automatico mutamento dell'oggetto del contendere, da tutela del diritto soggettivo del proprietario, a valutazione del pubblico
interesse ostativo alla restituzione del bene, neppure richiesta.
Sicché questo profilo della controversia, non ad altro attiene, che ad una richiesta di risarcimento per occupazione usurpativa (nella quale, com'è
noto, va inquadrato il fenomeno dell'occupazione e trasformazione dì superfici non comprese nella dichiarazione di pubblica utilità: Cass. 19.2.2007,
n. 3723), che non è dubbio sia da attribuire alla giurisdizione del giudice ordinario, anche alla luce della giurisprudenza costituzionale (sentenze n.
204 del 2004 e 191 del 2006) siccome risultato di un comportamento in nessun modo collegato ad un potere amministrativo {Cass. 13.2.2007, n.
3043; 19.4.2007, n. 9322; 13.6.2006, n. 13659). Pare estranea alla controversia in esame l'avvenuta emissione postuma dell'atto di acquisizione.
Tanto per cominciare, l'attribuzione ad essa di un effetto legalmente acquisitivo della proprietà del bene appare quanto meno dubbia: sia perché alla
scelta abdicativa della proprietà, da parte del privato "usurpato" nel momento in cui egli si sia determinato all'azione risarcitoria, consegue la perdita
della proprietà (Cass. 30.1.2001, n. 1266; 28.3.2001, n. 4451; 12.12.2001, n. 15687), di modo che l'eventuale acquisto di essa da parte dell'autorità
avviene per occupazione di una res nullius (Cass. 18.2.2000, n. 1814), e a tale momento, anteriore al formale atto di acquisizione, andrebbe fatto
risalire, sia perché, comunque, l'acquisizione potrebbe esser avvenuta in precedenza, per usucapione ventennale.
Se poi la nuova disposizione possa venir utilizzata dalle amministrazioni al fine della trascrizione (come testualmente previsto dall'art. 43, comma 2,
lett. f) , questa è vicenda che si pone come successiva e autonoma rispetto all'azione risarcitoria concernente non l'acquisto della proprietà alla mano
pubblica, ma il danno per il proprietario consistente nella definitiva inutilizzabilità del bene e nella conseguente perdita: riguardo alla quale la
giurisdizione è del giudice ordinario •
23
Per tale ipotesi si osserva che l’art, 43 non può leggersi come deroga al principio della perpetuatio iurisdictionis, sia in base alle considerazioni,
sopra svolte, sulla previsione della giurisdizione amministrativa alle sole azioni di restituzione (e non di risarcimento), sia perché, in assenza del
riferimento ad una dichiarazione di pubblica utilità (la cui mancanza, nel fenomeno dell'occupazione usurpativa, è un postulato) , il principio tempus
regit actum non può che relazionarsi alla proposizione dell'azione che, se anteriore all'entrata in vigore del t.u. , si sottrae alla sua applicazione.
E' appena il caso di aggiungere che la trasmigrazione del giudizio al giudice amministrativo, pur con i benefici della tra.sla.tio, di recente
acquisizione nell'ordinamento, nel trapasso tra giurisdizioni diverse, non farebbe che gravare in termini di durata del processo, in contrasto con il
principio costituzionale di ragionevole durata (art. Ili, secondo comma, Cost.), al cui rispetto reiteratamente si richiama la Corte europea dei diritti
dell'uomo.
La giustificazione alla tesi dell'applicabilità retroattiva dell'art. 43 t.u., spesso relazionata all'esigenza di radiare dall'ordinamento un monstrum,
quello dell'occupazione appropriativa, occasione di reiterate condanne dello Stato italiano da parte della Corte europea dei diritti dell'uomo, non può
peraltro far dimenticare che nel precludere la restituzione di un bene occupato in assoluta via di fatto, l'istituto dell'acquisizione sanante mal si
concilia con i principi di cui all’art. 1, all. I, alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, come la stessa Corte di Strasburgo non ha mancato di
sottolineare (Corte europea dei diritti dell'uomo 17.5.2005, Scordino e. Italia). Il che anzi potrebbe indurre a qualche dubbio di legittimità
costituzionale del nuovo istituto, alla luce della riconosciuta natura delle disposizioni della Convenzione, come norme interposte nel sindacato di
legittimità (sentenza n. 348 del 2007).
La Corte costituzionale non si è occupata dell'art. 53 t.u. in relazione all'art. 43 t.u., non volendosi evidentemente impegnare nella questione
dell'attribuzione della giurisdizione nel caso in cui al comportamento sine titulo della pubblica amministrazione segua l'emanazione del
provvedimento di acquisizione, e purtuttavia ha avuto modo di osservare che mentre è plausibile l'applicabilità ante tempus dell'art. 53 t.u., in quanto
norma processuale, non così per l'art. 43, che è norma di diritto sostanziale (sent. n. 191 del 2006).
Riguardo alla seconda parte del primo motivo di ricorso può dunque esprimersi il seguente principio di diritto: "Con riguardo ad azioni di
risarcimento da occupazione usurpativa, l'azione risarcitoria intrapresa dal privato per la perdita della proprietà, siccome relativa ad un danno
arrecato da un mero comportamento dell'amministrazione, nel quale non è ravvisabile, nemmeno mediatamente, l'esercizio di alcun potere amministrativo, è attribuita alla giurisdizione del giudice ordinario, indipendentemente da un autonomo atto di acquisizione dell' immobile utilizzato senza
titolo, adottato conformemente all'art. 43 d.p.r. n. 327 del 2001, come atto utile alla trascrizione nei registri immobiliari" .
La causa può esser decisa anche nei motivi ulteriori alle questioni di giurisdizione, com'è nella facoltà riconosciuta alle SS.UU. dall'art. 192 disp. att.
e.p.e., discendendo la soluzione ai problemi posti dal secondo e dal terzo motivo, che vanno esaminati congiuntamente, dalle considerazioni finora
svolte.
Le doglianze sono infondate in ordine allo stacco di terreno per il quale si è verificata l'occupazione u-surpativa. E' noto infatti che le conseguenze in
tema di responsabilità da comportamento senza potere, non possono che essere ispirate a criteri di integralità, con esclusione di ogni criterio
correttivo che, comunque volto a mediare la tutela del diritto di proprietà, come le esigenze della pubblica amministrazione relativamente alla
realizzazione di un'opera la cui pubblica utilità sia legalmente dichiarata, concepiscono criteri "paraindennitari" di liquidazione del danno (come il
comma 7 bis dell'art. 5 bis d.l. n. 333 del 1992, conv. in 1. 359 del 1992, come introdotto dall’art. 3, comma 65, l. n. 662 del 1996: norma comunque
dichiarata incostituzionale per effetto della sentenza n. 349 del 2007 della Corte costituzionale).
Riguardo alla natura del suolo, la pretesa di voler classificare il medesimo, agli effetti della sua valutazione, come agricolo invece che edificatorio,
introduce un elemento di fatto assolutamente estraneo all'accertamento compiuto dal giudice di merito, relativamente al quale nessun elemento
fornisce l'amministrazione ricorrente in cassazione, in ottemperanza al principio di autosufficienza, in ordine ad una propria contestazione idonea ad
evidenziare la questione, nel corso del giudizio.
L'accertata natura contrattuale della responsabilità, relativamente agli stacchi di terreno oggetto delle cessioni volontarie risolte, toglie a priori ogni
rilevanza alle pretese di liquidare il danno alla stregua del comma 7 bis dell’art. 5 bis (peraltro, come già detto, dichiarato incostituzionale) e secondo
i principi dell'edificabilità legale, apparendo tali pretese articolate sulla premessa di una responsabilità extracontrattuale, come se si dovesse accertare
il danno da occupazione appropriativa, e non, come impone il giudicato riveniente dalla conferma in cassazione (sentenza n. 11640 del 2003) della
sentenza non definitiva n. 2978 del 1995 della Corte d'appello di Catania, come determinazione del danno all'esito della risoluzione del contratto.
In caso di risoluzione del contratto di vendita per inadempimento del compratore, il danno va commisurato all'incremento patrimoniale netto che il
venditore avrebbe conseguito mediante la realizzazione del contratto, considerando anche il lucro cessante, ovvero il profitto che il cedente avrebbe
ricavato in una libera contrattazione di compravendita.
Al rigetto del ricorso segue la condanna alle spese, liquidate in dispositivo.
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CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. UNITE CIVILI - sentenza 31 ottobre 2007 n. 23018 - Pres. ff. Corona, Rel. Vitrone - L.M c. Comune di
Milazzo ed Agnello Costruzioni s.r.l.
1. Espropriazione per p.u. - Occupazione acquisitiva - Azione di risarcimento dei danni - Legittimazione passiva - Della impresa incaricata
di eseguire i lavori e le espropriazioni in forza di concessione - Non esclude la legittimazione passiva e la responsabilità solidale della P.A.
delegante.
2. Giurisdizione e competenza - Espropriazione per p.u. - Controversie in materia di occupazione acquisitiva - Proposte sino al 9 agosto 2000
- Giurisdizione dell’A.G.O. - Controversie proposte dopo tale data - Giurisdizione del G.A.
3. Espropriazione per p.u. - Occupazione acquisitiva - Risarcimento dei danni - Nel caso in cui il bene sia stato irreversibilmente trasformato
e non sia stato emesso il decreto di esproprio - Spetta - Circostanza che, dopo l’irreversibile trasformazione del bene, sia stata rinnovata la
dichiarazione di p.u. e sia stato emesso il decreto di esproprio - Irrilevanza.
1. Nel caso di una procedura di espropriazione per p.u. eseguita dalla impresa appaltatrice dei lavori, per delega dell’Autorità espropriante,
in forza di un rapporto di concessione, la previsione nel rapporto concessorio secondo cui il concessionario assume direttamente nei
confronti dei terzi tutte le obbligazioni negoziali, indennitarie e risarcitorie derivanti dall'esecuzione dell'opera da esso materialmente
realizzata non comporta l'esclusione della responsabilità solidale dell'autorità delegante, la quale conserva la titolarità dei poteri ablatori e
risponde dei danni derivati al titolare dei beni espropriandi per il mancato o tardivo esercizio della potestà ablatoria e il conseguente
acquisto a titolo originario del bene a seguito della sua irreversibile trasformazione.
2. Le controversie in materia di occupazione appropriativa iniziate sino al 9 agosto 2000 restano attribuite al giudice ordinario per effetto
della sentenza della Corte costituzionale n. 281 del 2004, che ha dichiarato l'incostituzionalità per eccesso di delega dell'art. 34 del D.Lgs. n.
80 del 1998, mentre sono attribuite alla giurisdizione del giudice amministrativo solo a far data dal 10 agosto 2000, data di entrata in vigore
della L. n. 205 del 2000, che all'art. 7 ha riformulato l'art. 34 innanzi citato (1).
3. Al proprietario il cui bene sia stato occupato in via temporanea dalla P.A. spetta il risarcimento del danno nel caso in cui la irreversibile
trasformazione del bene non sia stata seguita da un tempestivo decreto di espropriazione; è a tal fine irrilevante che, dopo l’irreversibile
trasformazione del bene sia stata rinnovata la dichiarazione di pubblica utilità e sia stato emesso il decreto di espropriazione, atteso che tali
circostanze non privano di effetti l'acquisto a titolo originario della proprietà da parte dell'Amministrazione per effetto della avvenuta
realizzazione dell'opera pubblica e della conseguente occupazione appropriativa già verificatasi, la quale ha privato di oggetto il decreto di
espropriazione successivamente emanato(2).
FATTO
Con atto di citazione notificato il 13, 22 e 27 febbraio 1995 L.M.S. conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto il
Comune di Milazzo e il Raggruppamento di Imprese Edilter soc. coop. a r.l. - Agnello Costruzioni S.p.A., concessionario della realizzazione
dell'asse viario di raccordo tra l'autostrada (OMISSIS) e il porto e la città di (OMISSIS), per sentirli condannare, previa disapplicazione del decreto
dell'Assessorato Regionale ai Lavori Pubblici con il quale l'opera era stata finanziata e dichiarata di pubblica utilità, al risarcimento dei danni subiti a
seguito dell' occupazione di aree di sua proprietà in assenza di un formale provvedimento ablatorio.
Il Comune di Milazzo eccepiva il difetto di legittimazione passiva e chiedeva in via riconvenzionale che le aree occupate venissero valutate come
aree agricole, con la condanna del Raggruppamento di Imprese a rivalerlo di quanto dovesse essere condannato a corrispondere all'attore.
Le medesime domande ed eccezioni svolgeva la soc. coop. a r.l.
Edilter nella sua qualità di impresa capogruppo.
Il giudizio, interrotto a seguito del fallimento della Edilter soc. coop. a r.l., veniva riassunto e il Comune di Milazzo estendeva le sue domande alla
Agnello Costruzioni S.p.A. subentrata alla Edilter e al Raggruppamento Temporaneo di Impreso nell'esecuzione dei lavori.
Con sentenza del 6 maggio - 1 luglio 2002 il Tribunale rigettava tutte le eccezioni dei convenuti, estrometteva dal giudizio il Fallimento della Edilter
s.r.l. e, dichiarata l'illegittimità originaria dell' occupazione , condannava in solido il Comune di Milazzo e la Agnello Costruzioni S.p.A. al
pagamento della somma di Euro 138.729,00 con interessi e rivalutazione.
La pronuncia veniva impugnata in via principale dal Comune di Milazzo e in via incidentale dal L.M. e dalla Agnello Costruzioni S.p.A. e la Corte
d'Appello di Messina, con sentenza parzialmente non definitiva del 14 febbraio - 14 aprile 2005, dichiarava il difetto di legittimazione passiva del
Comune di Milazzo, confermava l'estromissione del Fallimento Edilter e disponeva con separata ordinanza l'ulteriore istruzione della causa.
Ribadita la giurisdizione e la competenza del giudice adito la Corte affermava che nella specie si verteva in un'ipotesi di occupazione appropriati va e
non usurpativa in quanto l'irreversibile trasformazione delle aree occupate si era conclusa, con la realizzazione dell'opera pubblica, prima del la
scadenza dei termini fissati nella dichiarazione di pubblica utilità e a tal fine era irrilevante; che la irreversibile trasformazione del terreno fosse
avvenuta in pendenza del termine dell' occupazione legittima.
Affermava la carenza di legittimazione passiva del Comune di Milazzo in base alla considerazione che nella specie si era in presenza di una
concessione traslativa in forza della quale il concessionario operava in piena autonomia, in ne me proprio e per conto dell'ente beneficiario, ed era il
solo responsabile di tutte le obbligazioni negoziali, indennitarie e risarcitorie nei confronti dei terzi, conservando il concedente solo un potere di
controllo nell'interesse pubblico che si esauriva nei rapporti con il concessionario.
Dichiarava la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale deLLA L.R. 29 aprile 1985, n. 21, artt. 42 e 43, sollevata dal L.M.
ed escludeva la competenza del Tribunale fallimentare poichè, a seguito del fallimento della Edilter, la S.p.A. Agnello Costruzioni era subentrata in
ogni rapporto attivo e passivo della società fallita; osservava, inoltre, che nel caso di fallimento di uno dei condebitori solidali la competenza del
giudice fallimentare non si estendeva ai condebitori in solido nei riguardi dei quali il giudizio proseguiva con il rito ordinario.
La decisione delle domande relative al quantum veniva infine rimessa al prosieguo del giudizio essendo necessario al riguardo lo svolgimento di
ulteriore attività istruttoria.
Contro la sentenza ricorre per Cassazione L.M.S. con sei motivi.
Resiste il Comune di Milazzo con controricorso contenente ricorso incidentale condizionato affidato a sei motivi.
Anche la Agnello Costruzioni S.p.A. ha depositato controricorso con ricorso incidentale articolato in sei motivi.
Tutte le parti hanno depositato memoria.
Non ha presentato difese il Fallimento Edilter soc. coop. a r.l..
DIRITTO
Va disposta preliminarmente la riunione di tutti i ricorsi proposti contro la medesima sentenza.
Il Comune di Milazzo ha proposto ricorso incidentale condizionato con il quale investe questioni di carattere pregiudiziale come la giurisdizione e la
competenza del giudice adito, sia in generale sia sotto il profilo dell'assorbimento nella competenza del giudice fallimentare delle domande proposte
contro la fallita soc. Edilter.
In forza della riproposizione della questione di giurisdizione il ricorso è stato assegnato allei Sezioni Unite.
Ciò premesso, nell'incertezza della giurisprudenza in ordine alla non vincolatività della subordinazione delle censure articolate dal ricorrente
incidentale totalmente vittorioso ritengono queste Sezioni Unite di doversi attenere all'orientamento - che appare allo stato prevalente - secondo il
ricorso incidentale condizionato dev'essere esaminato con priorità solo se le questioni pregiudiziali di rito o preliminari di merito, rilevabili d'ufficio,
non siano state esaminate nel giudizio di merito poichè quando le questioni siano state affrontate e decise, come nella specie, dal giudice di merito
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esse cessano di essere rilevabili d'ufficio e il loro esame postula la proposizione di una impugnazione che è ammissibile in presenza di un interesse il
quale sorge solo nell'ipotesi della fondatezza del ricorso principale: in caso contrario, infatti, il ricorrente incidentale manca di interesse alla
pronuncia sulla propria impugnazione, il cui eventuale accoglimento non potrebbe procurargli un risultato più favorevole di quello derivante dal
rigetto del ricorso principale (Cass. 6 agosto 2004, n. 15161; 26 gennaio 2006, n. 1690) e anzi lo esporrebbe al rischio di un riesame della vertenza,
con esito incerto, ad opera del giudice munito di giurisdizione.
Passando all'esame del ricorso principale va rilevato che il Comune di Milazzo ne ha eccepito la inammissibilità per violazione dell'art. 360 c.p.c.,
comma 3, che esclude la impugnabilità immediata per Cassazione delle sentenze che decidono di questioni insorte senza definire, neppure
parzialmente, il giudizio.
L'eccezione non ha fondamento poichè, prescindendo dal rilievo che la sentenza impugnata è solo parzialmente non definitiva poichè ha definito il
giudizio nei confronti del Comune di Milazzo e del Fallimento Edilter con la loro estromissione dal giudizio, la norma in questione, introdotta dal
D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, si applica, secondo la previsione dell'art. 27, comma 2, del predetto decreto, ai ricorsi per Cassazione proposti avverso
le sentenze pubblicate a decorrere dalla data della sua entrata in vigore e, quindi, non opera nella specie in quanto la sentenza impugnata è stata
pubblicata il 14 aprile 2005.
Superata l'eccezione di inammissibilità, con il primo motivo del ricorso principale si denuncia il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria
motivazione su un punto decisivo della controversia in quanto la sentenza impugnata avrebbe omesso ogni pronuncia in ordine alla natura dell'
occupazione delle aree appartenenti al L. M., e non avrebbe considerato che essa andrebbe ricondotta alla fattispecie dell' occupazione usurpativa;
avrebbe inoltre affermato contraddittoriamente che l'opera, realizzata in assenza di legittima dichiarazione di pubblica utilità per l'inutile decorso dei
termini previsti per il compimento dell' espropriazione , avrebbe comportato, cionostante, la occupazione appropriativa da parte
dell'Amministrazione.
Entrambi i profili in cui si articola la censura in esame sono destituiti di fondamento poichè - contrariamente a quanto mostra di ritenere il ricorrente
- la sentenza impugnata, nel riformare sul punto la pronuncia del primo giudice, ha espressamente e motivatamente affermato che la fattispecie in
esame si configura come occupazione appropriativa e non usurpativa; nè poi sussiste contraddittorietà di motivazione in quanto il giudice del merito
ha precisato, con statuizione non impugnata, che pur in presenza di una dichiarazione di pubblica utilità divenuta inefficace per scadenza dei termini
per il compimento delle espropriazioni, l' occupazione acquisitiva si era egualmente compiuta poichè l'irreversibile trasformazione del bene si
fondava sulla sussistenza di una valida dichiarazione di pubblica utilità e restava perciò insensibile al la scadenza dei termini fissati per il
compimento delle espropriazioni e dei lavori, verificatasi in epoca successiva.
Col secondo motivo si lamenta il vizio di omessa motivazione in ordine alla natura del rapporto contrattuale intercorso tra il Comune di Milazzo e
l'Associazione Temporanea di Imprese che non sarebbe riconducibile alla fattispecie della concessione in senso tecnico.
La censura non merita accoglimento poichè la sentenza impugnata ha provveduta a interpretare l'art. 27 bis del contratto di concessione intercorso fra
le parti ed ha motivatamente ricostruito la fattispecie in discussione, con ampi richiami alla giurisprudenza di questa Corte, come concessione
traslativa nella quale il concessionario avrebbe operato in piena autonomia, in nome proprio ma per conto del concedente, restando esclusa nella
specie ogni ipotesi di delegazione amministrativa intersoggettiva.
Con il terzo motivo si denuncia il vizio di o messa motivazione in ordine al rilievo che tutti gli atti relativi all' occupazione d'urgenza e all'
espropriazione erano stati compiuti direttamente dal soggetto pubblico.
La censura non ha fondamento poichè la sentenza impugnata ha espressamente riconosciuto che il Comune di Milazzo non ha mai delegato alla
cooperativa e alla società poteri ablatori ed ha affermato che tale delega ha luogo solo nei rapporti tra enti pubblici a seguito di delegazione
amministrativa intersoggettiva.
Con il quarto motivo si denuncia l'omessa motivazione in ordine al punto decisivo della controversia prospettato dal ricorrente il quale aveva
affermato che la responsabilità del Comune sarebbe derivata da omessa vigilanza sulla regolarità della procedura espropriativa.
La censura è inammissibile poichè si dirige in realtà contro la asserita violazione della disciplina giuridica dell'obbligazione risarcitoria nell'ipotesi di
occupazione acquisitiva delle aree espropriande, mentre i vizi di motivazione sono esclusivamente quelli concernenti l'accertamento e la valutazione
di punti di fatto rilevanti per la decisione e non anche quelli riguardanti affermazioni od applicazioni di principi giuridici, denunciabili a norma
dell'art. 360 c.p.c., nn. 1, 2, 3 e 4, rispetto ai quali il sindacato del giudice di legittimità è limitato al controllo dell'esattezza giuridica della statuizione
e alla eventuale correzione o integrazione della motivazione inadeguata, illogica o contraddittoria (Cass. 6 agosto 2003, n. 11883).
Con il quinto motivo si denuncia il vizio di omessa motivazione in ordine al rigetto delle eccezioni di incostituzionalità sollevati dal ricorrente.
La censura non ha fondamento poichè di fronte alla reiezione della denuncia di incostituzionalità la parte interessata ha l'onere di non lasciare passare
in giudicato la statuizione che ha applicato la norma della cui legittimità si dubita, ma non anche quello di impugnare la pronuncia negativa del
l'accesso alla Corte costituzionale data la possibilità di riproposizione della questione su istanza di parte o su rilievo d'ufficio in ogni stato e grado del
processo: pertanto il problema di costituzionalità negli ulteriori gradi del giudizio va risolto in via autonoma e indipendentemente dalla correttezza
della motivazione della sentenza impugnata, con la conseguenza che ove la Corte di Cassazione ritenga, contrariamente al giudice di merito, che la
questione sia rilevante e non manifestamente infondata provvede direttamente a investire la Corte costituzionale (Cass. 13 maggio 1985, n. 2987).
Nella specie la questione, che denuncia la illegittimità costituzionale della L.R. n. 21 del 1985, artt. 42 e 43 i quali consentirebbero,
all'Amministrazione - secondo la prospettazione del ricorrente - di acquisire un bene senza il rispetto della procedura espropriativa togliendo al
soggetto privato, in caso di insolvenza del concessionario, la possibilità di qualsivoglia giusto e serio ristoro, è manifestamente infondata poi che
anche nella concessione di opera pubblica, non viene meno la responsabilità dell'Amministrazione per i danni derivanti dall'irregolare svolgimento
della procedura espropriativa.
Con il sesto ed ultimo motivo viene dedotta una triplice censura.
Si sostiene, innanzi tutto, la violazione del principio generale di diritto sull'obbligo del risarcimento dei danni derivanti da espropriazione il lecita con
riferimento sia alle norme interne sia alla disciplina comunitaria.
La censura è inammissibile poichè investe norme che non hanno trovato applicazione nella sentenza impugnata, che è una pronuncia non definitiva
che ha rimesso al prosieguo del giudizio ogni decisione relativa alla spettanza e all'ammontare del risarcimento richiesto dal ricorrente.
Si deduce, inoltre che alla stregua delle medesime norme non si sarebbe potuto disporre l'estromissione del Comune di Milazzo per carenza di
legittimazione passiva.
La censura - la quale ripropone come violazione di legge quella già prospettata erroneamente come vizio di motivazione con il quarto motivo di
ricorso - merita accoglimento poichè l'affermazione della sentenza impugnata secondo cui il concessionario assume direttamente nei confronti dei
terzi tutte le obbligazioni negoziali, indennitarie e risarcitorie derivanti dall'esecuzione dell'opera da esso materialmente realizzata non comporta
l'esclusione della responsabilità solidale dell'autorità delegante la quale conserva la titolarità dei poteri ablatori e risponde dei danni derivati al
titolare dei beni espropriandi per il mancato o tardivo esercizio della potestà ablatoria e il conseguente acquisto a titolo originario del bene a seguito
del la sua irreversibile trasformazione.
L'accoglimento del secondo profilo della censura in esame comporta l'assorbimento del terzo profilo con il quale si denuncia la violazione della L.R.
n. 21 del 1985, art. 42 e si sostiene che l'obbligazione risarcitoria derivante dall' occupazione acquisitiva del bene privato costituisce un atto illecito
derivante dal mancato esercizio del potere espropriativo e si solleva, in subordine la questione di illegittimità costituzionale della norma suddetta.
Va quindi preso in esame il ricorso incidentale condizionato del Comune di Milazzo.
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Con il primo motivo si contesta la giurisdizione del giudice ordinario, ribadita nella sentenza impugnata, poichè questi non potrebbe esercitare un
sindacato diretto sugli atti amministrativi relativi alla procedura espropriativa, dei quali è stata chiesta la disapplicazione.
La censura non merita accoglimento poichè, premesso che nella specie il giudice adito non ha disapplicato in via incidentale alcun atto
amministrativo valido ed efficace, seppur illegittimo, ma si è limitato a rilevare che l'opera pubblica ha avuto esecuzione senza che alla dichiarazione
di pubblica utilità abbia fatto seguito alcun tempestivo decreto di espropriazione , va considerato che le controversie in materia di occupazione
appropriativa iniziate sino al 9 agosto 2000 restano attribuite al giudice ordinario per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 281 del 2004
che ha dichiarato l'incostituzionalità per eccesso di delega del D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 34 e sono attribuite alla giurisdizione del giudice
amministrativo solo a far data dal 10 agosto 2000, data di entrata in vigore della L. n. 205 del 2000, che all'art. 7 ha riformulato l'art. 34 innanzi citato
(SS.UU. 27 giugno 2007, n. 14794).
Con il secondo motivo si denuncia la violazione della L. 22 ottobre 1971, n. 864, art. 20, in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3, poichè nella specie la
procedura espropriativa avrebbe avuto regolare compimento in considerazione del fatto che l'opera pubblica sarebbe stata ultimata entro il periodo di
occupazione legittima e il decreto di espropriazione è stato emanato in data 30 dicembre 1996 sicchè avrebbe dovuto essere respinta la pretesa
risarcitoria dedotta in giudizio.
La censura non ha fondamento poichè la sentenza impugnata ha correttamente osservato che la irreversibile trasformazione del bene non è stata
seguita da un tempestivo decreto di espropriazione e che la rinnovata dichiarazione di pubblica utilità disposta con decreto assessoriale del 3 marzo
1995, n. 235/14, seguita dal decreto di espropriazione del 1996 - successivo alla notificazione della domanda introduttiva del giudizio - non valeva a
privare di effetti l'acquisto a titolo originario della proprietà da parte dell'Amministrazione per effetto della avvenuta realizzazione dell'opera
pubblica e della conseguente occupazione appropriativa già verificatasi, la quale veniva a provare di oggetto il decreto di espropriazione
successivamente emanato.
Nè vale il richiamo a provvedimenti giudiziali e amministrativi che avrebbero protratto la durata dell' occupazione legittima, trattandosi di questione
nuova, mai sottoposta all'esame del giudice di merito.
Le considerazioni innanzi esposte consentono di rigettare anche il terzo motivo di ricorso con il quale si contesta la statuizione di rigetto
dell'eccezione di inammissibilità della domanda risarcitoria proposta in giudizio dal L.M. in base alla considerazione che il procedimento
espropriativo aveva avuto regolare svolgimento essendosi concluso con il decreto di espropriazione del 1996.
Con il quarto motivo si denuncia la violazione e la falsa applicazione della L. Fall., art. 24 e dell'art. 112 c.p.c., e si sostiene che la mancata
insinuazione del credito risarcitorio nel passivo fallimentare della soc. Edilter avrebbe comportato l'inammissibilità di qualsiasi protesa di rimborso
da parte del Comune, dovendo escludersi qualsiasi ipotesi di successione di questo nei confronti dei rapporti obbligatori del fallito.
La censura è destituita di fondamento in quanto il Comune non è chiamato a rispondere delle obbligazioni assunte dalla società concessionaria
dell'opera pubblica con la stipula del contratto intercorso tra le parti, ma è solidalmente obbligato, insieme al concessionario, per i danni subiti dal
L.M. in dipendenza del mancato rituale completamento della procedura espropriativa e per la perdita definitiva della proprietà dell'area occupata a
seguito della sua irreversibile trasformazione per l'intervenuta realizzazione dell'opera pubblica in assenza di un tempestivo provvedimento ablatorio.
Con il quinto motivo si denuncia la violazione dell'art. 91 c.p.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3, e si sostiene l'erroneità della compensazione
delle spese giudiziali tra le parti in quanto la soccombenza dell'attore ne avrebbe comportato la condanna al pagamento delle spese di entrambi i
gradi del giudizio.
L'esame della censura in oggetto resta assorbito dal rilievo che l'accoglimento del ricorso del L.M. nei confronti del Comune di Milazzo travolge la
sentenza impugnata e comporta una rinnovata disciplina delle spese giudiziali ad opera del giudice di rinvio.
Dev'essere quindi esaminato il ricorso incidentale proposto dalla Agnello Costruzioni s.r.l..
Con il primo motivo si denuncia la violazione dell'art. 112 c.p.c. e il vizio di motivazione in quanto la sentenza impugnata avrebbe omesso ogni
pronuncia sui primi tre motivi di appello, con cui era stato dedotto l'erroneità della pronuncia del primo giudice il quale non avrebbe considerato che
nella specie si erano avuti due provvedimenti di occupazione d'urgenza, in forza di due ordinanze emesse rispettivamente il 18 settembre 1990 e in
data 6 dicembre 1991 aventi a oggetto due aree distinte.
La censura è inammissibile per difetto di interesse in quanto la ricorrente non contesta l'avvenuta occupazione acquisitiva avvenuta per la mancata
tempestiva emanazione di un decreto di espropriazione nei termini previsti dalla originaria dichiarazione di pubblica utilità, la quale assorbe ogni
questione relativa alla regolarità dei provvedimenti di occupazione d'urgenza.
Con il secondo motivo viene dedotta la violazione e la falsa applicazione della L. n. 2359 del 1865, art. 13 e della L. n. 166 del 2002, art. 4 in
relazione alla L. n. 158 del 1991, in quanto - premesso che nella specie si era avuta una prima dichiarazione di pubblica utilità nel 1988 e una
seconda nel 1995 - erroneamente sarebbe stata esclusa l'efficacia della seconda dichiarazione di pubblica utilità, intervenuta quando per effetto delle
leggi di proroga la procedura espropriativa originaria era ancora in corso.
La censura non ha fondamento poichè la rinnovazione della dichiarazione di pubblica utilità è possibile solo dopo la scadenza dei termini della
originaria dichiarazione di pubblica utilità ma non può spiegare efficacia con riferimento a beni che siano già stati acquistati a titolo originario dal
l'espropriante per effetto di occupazione appropriativa, come correttamente osservato dalla sentenza impugnata.
Nè vale il richiamo alle leggi di proroga le delle occupazione in corso in quanto nella specie il decreto di espropriazione è intervenuto dopo il
decorso dei termini finali indicati nella dichiarazione di pubblica utilità quando si era già verificato l'acquisto a titolo originario del bene per la sua
irreversibile trasformazione.
Con il terzo motivo la ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione dell'art. 1362 c.c. e segg., nonchè della L.R. n. 21 del 1985, art. 42,
L.R. n. 20 del 1996, art. 20 e L.R. n. 22 del 1996, art. 16, e infine degli artt. 100 e 111 c.p.c., e della L. Fall., in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 e
sostiene che erroneamente sarebbe stata ritenuta la sua legittimazione passiva per essere subentrata con contratto del 2 aprile 1997 all'originaria
Associazione Temporanea di Imprese, poichè detto contratto non era un contratto di concessione, bensì un semplice contratto di appalto avente a
oggetto l'esecuzione delle espropriazioni e dei lavori da eseguirsi a far data dal 2 aprile 1997, dopo l'estinzione dell'originario mandato con
rappresentanza conferito alla soc. Edilter a seguito del suo fallimento.
La censura non può trovare accoglimento anche se la motivazione della sentenza impugnata merita opportuna correzione.
Va infatti considerato che l'associazione temporanea di due o più imprese nell'aggiudicazione di lavori pubblici è fondata su un rapporto di mandato
con rappresentanza, gratuito e irrevocabile, conferito collettivamente da una o più imprese ad altra impresa, denominata capogruppo, la quale è
legittimata a compiere nei rapporti con l'Amministrazione, ogni attività giuridica connessa o dipendente dal contratto e produttiva di effetti giuridici
direttamente nei confronti delle imprese mandanti sino all'estinzione del rapporto, salva restando, peraltro, l'autonomia negoziale delle imprese
riunite per quanto concerne la gestione dei lavori a ciascuna di esse affidati ed i rapporti con i terzi (Cass. 11 maggio 1998, n. 4728).
Ne consegue che, quale che possa essere la portata del contratto stipulato il 2 aprile 1997 trai la Agnello Costruzioni e il Comune di Milazzo - mai
peraltro specificamente indicato in sentenza - in forza del quale la società mandante sarebbe subentrata in tutti i rapporti attivi e passivi della fallita
Edilter s.r.l., la disciplina del proseguimento della vicenda negoziale dopo il fallimento della società capogruppo non produce alcun effetto rispetto
alle obbligazioni nascenti da comportamenti illeciti nei confronti dei terzi i quali determinano la responsabilità individuale esclusiva del l'impresa
titolare del lotto di lavori nell'ambito del quale è stato compiuto l'illecito.
Ne consegue che per sottrarsi alle pretese risarcitorie avanzate dal L.M. la Agnello Costruzioni s.r.l. avrebbe dovuto eccepire e provare non già che il
contratto in questione aveva a oggetto unicamente l'esecuzione dei lavori ancora a compier si e non comportava alcun subingresso nelle obbligazioni
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pregresse della società capogruppo fallita, ma avrebbe dovuto eccepire e provare che unica autrice della irreversibile trasformazione dei terreni del L.
M. era stata la Edilter s.r.l., tenuta in via esclusiva al risarcimento dei danni per la perdita della proprietà dei suoli da parte del loro titolare il quale
avrebbe dovuto a tal fine trasferire la propria domanda in sede fallimentare.
Con il quarto motivo si denuncia la violazione della L.R. n. 21 del 1985, artt. 42, 43 e 44 in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3, e si sostiene che, anche
nell'ipotesi di successione della società ricorrente nelle obbligazioni derivanti dall'atto di concessione il concessionario non risponderebbe anche del
prezzo dei terreni destinati all'esecuzione dell'opera pubblica.
La censura non può trovare accoglimento poichè si fonda sull'erroneo presupposto che la ricorrente sia stata chiamata a corrispondere l'indennità di
espropriazione mentre nella specie è stato ribadito che si versa in un'ipotesi di occupazione appropriativa e che il giudizio ha ad oggetto il
risarcimento dei danni subiti dall'attore per la perdita definitiva del suo terreno in assenza di qualsiasi provvedimento ablatorio.
Con il quinto motivo si sostiene che erroneamente la sentenza impugnata avrebbe interpretato il contratto originario come contratto di concessione
poichè in realtà si tratterebbe di mero appalto e conseguentemente gli oneri di espropriazione farebbero carico esclusivamente al Comune di Milazzo,
secondo la disciplina espressa contenuta nell'art. 27 bis del contratto stesso.
Le argomentazioni svolte nell'esame del motivo di ricorso che precede consentono di rigettare anche la censura in esame poichè nella specie non
vengono in discussione "le indennità di espropriazione , di asservimento ed accessorie" cui fa riferimento la clausola contrattuale riportata in ricorso,
bensì il risarcimento dei danni derivanti dalla occupazione appropriativa.
Con il sesto ed ultimo motivo si contesta la responsabilità esclusiva del concessionario per le indennità risarcitorie per occupazione illegittima.
La censura, ancorchè formulata con impropria terminologia ed in forma del tutto generica e non argomentata, merita accoglimento, essendo già stata
affermata nei confronti del Comune di Milazzo la responsabilità solidale di concedente e concessionario per i danni arrecati all'espropriando
assoggettato ad occupazione appropriativa.
In conclusione, in accoglimento per quanto di ragione del sesto motivo del ricorso principale e del sesto motivo del ricorso incidentale della Agnello
Costruzioni s.r.l. la sentenza impugnata de v'essere cassata limitatamente ai mezzi accolti e la causa dev'essere rinviata ad altro giudice il quale si
conformerà al principio di diritto secondo cui nella concessione traslativa di opera pubblica, la responsabilità per i danni derivanti dall' occupazione
acquisitiva dell'area destinata alla realizzazione dell'opera pubblica incombe in solido al concedente e al concessionario.
Al giudice di rinvio viene rimessa la pronuncia sulle spese del giudizio di Cassazione.
P.Q.M.
La Corte, pronunciando a sezioni unite, riunisce i ricorsi, accoglie per quanto di ragione il se sto motivo del ricorso principale e rigetta gli altri,
accoglie il sesto motivo del ricorso incidentale della Agnello Costruzioni s.r.l. e rigetta gli altri motivi nonchè il ricorso incidentale condizionato del
Comune di Milazzo, cassa la sentenza impugnata relativamente ai mezzi accolti e rinvia la causa alla Corte d'Appello di Catania cui rimette altresì la
pronuncia sulle spese del giudizio di Cassazione.
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CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. UNITE CIVILI - sentenza 2 luglio 2007 n. 14954 - Pres. ff. Vittoria, Rel. Benini - Comune di Casapesenna c.
P.M.R. ed altri - P.M. Palmieri (conforme).
1. Giurisdizione e competenza - Risarcimento dei danni - Azione proposta nei confronti della P.A. - Giurisdizione del giudice amministrativo
- Sussiste ex art. 35, 4° comma, del D.L.vo n. 80 del 1998 e s.m.i. non solo nelle materie di giurisdizione esclusiva, ma anche nell'ambito della
giurisdizione di legittimità.
2. Giurisdizione e competenza - Espropriazione per p.u. - Dichiarazione per p.u. - Annullamento in s.g. - Azioni di risarcimento dei danni ed
azioni di restituzione del bene occupato - Controversie - Rientrano nella giurisdizione del giudice amministrativo.
3. Giurisdizione e competenza - Espropriazione per p.u. - Dichiarazione per p.u. - Annullamento in s.g. - Azione di restituzione del bene
occupato - Rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo.
1. Le nuove norme in tema di giurisdizione amministrativa contenute nel D.Lgs. 31 febbraio 1998, n. 80 e s.m.i., improntate all'esigenza di
concentrare la tutela davanti a un unico giudice, hanno abolito la riserva di giurisdizione sui diritti consequenziali a favore del giudice
ordinario, stabilendo che il potere cognitivo del giudice amministrativo si estende al risarcimento non solo nelle materie di giurisdizione
esclusiva, ma anche nell'ambito della giurisdizione di legittimità (D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 80, art. 35, comma 4, come modificato dalla L. 11
luglio 2000, n. 205, art. 7, che ha sostituito il primo periodo della L. 6 dicembre 1971, n. 1034, art. 7, comma 3).
2. La configurazione del risarcimento, come strumento di tutela ulteriore, che comprende la restituzione, quale reintegrazione in forma
specifica, unitamente a ragioni di economia processuale, non disgiunte dalle esigenze di ragionevole durata del processo, inducono alla
concentrazione, davanti a un unico giudice, delle pronunce sui diritti consequenziali all'annullamento: e ciò vale non solo nelle ipotesi in cui
il riscontro di un collegamento con l'esercizio del potere farebbe ascrivere la controversia risarcitoria, comunque, al giudice amministrativo
(come nel caso di occupazione appropriativa, assistita dalla dichiarazione di pubblica utilità), ma anche ove, in astratto, l'annullamento ex
tunc della dichiarazione di pubblica utilità sia tale da ripristinare la situazione di diritto soggettivo, in una situazione a posteriori definibile
come occupazione usurpativa. Anche in tal caso la tutela risarcitoria nei confronti della pubblica amministrazione, per il disposto del D.Lgs.
31 febbraio 1998, n. 80, art. 35, comma 4, come modificato dalla L. 21 luglio 2000, n. 205, art. 7, va chiesta al giudice amministrativo a
completamento della tutela demolitoria, sia contestualmente, che dopo l'annullamento dell'atto amministrativo, ovvero anche in via
autonoma prescindendo dall'annullamento dell'atto (1).
3. Rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo una azione restitutoria esercitata dai proprietari di un’area occupata dalla P.A.
nell’ambito di una procedura espropriativa, nel caso in cui le pretese restitutorie siano ricollegate all'avvenuto annullamento, in sede di
giurisdizione amministrativa, del titolo legittimante al procedimento espropriativo.
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4) RIPARTO DI GIURISDIZIONE IN MATERIA DI APPALTI PUBBLICI
LA GIURISDIZIONE SUL CONTRATTO DOPO L’ANNULLAMENTO DELL’AGGIUDICAZIONE
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. UNITE CIVILI - sentenza 28 dicembre 2007 n. 27169 - Pres. Carbone, Rel. Salvago - Citelum s.a. c. Società
I.T. - Innovazione e Tecnologie s.r.l. ed Hera s.p.a. - P.M. Martone (difforme) - (accoglie il ricorso avverso la decisione del Consiglio di Stato, 28
settembre 2005 n. 5196 e dichiara la giurisdizione del giudice ordinario).
1. Giurisdizione e competenza - Contratti della P.A. - Giurisdizione esclusiva del G.A. prevista dagli artt. 6 e 7 della L. n. 205 del 2000 Riguarda solo le controversie riguardanti la fase pubblicistica e non già quelle relative alla successiva fase dell'esecuzione del rapporto.
2. Giurisdizione e competenza - Contratti della P.A. - Controversie in materia di dichiarazione di nullità del contratto di appalto - A seguito
dell’annullamento in s.g. dell’aggiudicazione della gara - Giurisdizione dell’A.G.O. - Sussiste - Ragioni.
1. Gli artt. 6 e 7 della legge 205 del 2000, nel devolvere alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo tutte le controversie relative
alle procedure di affidamento di appalti pubblici di lavori, servizi e forniture, hanno riguardo alla sola fase pubblicistica dell'appalto (in
essa compresi i provvedimenti di non ammissione alla gara o di esclusione dalla stessa), ma non si riferiscono alla successiva fase
dell'esecuzione del rapporto, concernente i diritti e gli obblighi derivanti, per ciascuna delle parti, dal contratto stipulato successivamente
agli atti di evidenza pubblica. In questa seconda fase resta operante la giurisdizione del giudice ordinario quale giudice dei diritti, cui spetta
verificare la conformità alle norme positive delle regole attraverso le quali i contraenti hanno disciplinato i loro contrapposti interessi, e
delle relative condotte attuative: a nulla rilevando che specifiche disposizioni legislative attribuiscano all'amministrazione committente la
facoltà di incidere autoritativamente sul rapporto (e perfino di risolverlo), posto che detti atti amministrativi, non hanno natura
provvedimentale e non cessano di operare nell'ambito delle paritetiche posizioni contrattuali (1).
2. Spetta al giudice ordinario la giurisdizione sulla domanda volta ad ottenere tanto la dichiarazione di nullità quanto quella di inefficacia o
l'annullamento del contratto di appalto, a seguito dell'annullamento della delibera di scelta dell'altro contraente, adottata all'esito di una
procedura ad evidenza pubblica. In ciascuno di questi casi, infatti, la controversia non ha ad oggetto i provvedimenti riguardanti la scelta
suddetta, ma il successivo rapporto di esecuzione che si concreta nella stipulazione del contratto di appalto, del quale i soggetti interessati
chiedono di accertare un aspetto patologico, al fine di impedirne l'adempimento; inoltre le situazioni giuridiche soggettive delle quali si
chiede l'accertamento negativo hanno consistenza di diritti soggettivi pieni ed il giudice è comunque chiamato a verificare la conformità alla
normativa positiva delle regole attraverso cui l'atto negoziale è sorto, ovvero è destinato a produrre i suoi effetti tipici (2).
--------------------------------SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Il TAR Puglia,sez. Lecce, con sentenza del 14 giugno 2004 n. 3721, in accoglimento del ricorso della ATI con capogruppo la s.p.a. Hera (e
comprendente la s.p.a. Gemmo Impianti, la s.r.l. I.T.,nonché la s.r.l. Co.I-MI), annullava tutti gli atti della procedura di gara approvata con
determinazione 15 luglio 2002 n. 89 del Dirigente settore L.P. del comune di Taranto, e finalizzata all'affidamento di un appalto misto per la gestione
tecnologica integrata e la manutenzione degli impianti di pubblica illuminazione di detto comune; nonché la successiva determinazione dirigenziale
2 marzo 2004 n. 25 che aveva preso atto dell’approvazione della graduatoria compilata dalla Commissione di gara ed aveva aggiudicato
definitivamente il servizio all'ATI con capogruppo s.a. Citelum.
Dichiarava altresì la nullità del contratto stipulato in data 12aveva aggiudicato definitivamente il servizio all'ATI con capogruppo s.a. Citelum.
Dichiarava altresì la nullità del contratto stipulato in data 12 marzo 2004 tra quest'ultima ATI e l'amministrazione comunale.
In parziale accoglimento dell'appello dell'ATI Citelum, il Consiglio di Stato, con sentenza 28 settembre 2005 n. 5196, ha dichiarato l'inefficacia del
contratto suddetto, e ne ha respinto gli altri motivi di impugnazione unitamente al gravame dell'amministrazione comunale, osservando (per quanto
qui interessa):
a) che doveva prestarsi adesione all'orientamento secondo cui la caducazione in sede giurisdizionale o amministrativa di atti della fase della
formazione della volontà della P.A. (deliberazione a contrarre, bando di gara, aggiudicazione) priva la stessa amministrazione, con efficacia ex tunc,
della legittimazione a negoziare conferitagli dai precedenti atti amministrativi : in conformità del resto al principio che gli atti della serie
pubblicistica e quelli della serie privatistica sono indipendenti,ma i primi condizionano l'efficacia dei secondi:e tale inefficacia può essere fatta valere
soltanto dalla parte che abbia ottenuto l'annullamento della deliberazione costitutiva della volontà della p.a. senza pregiudizio per i diritti acquistati
dai terzi di buona fede in esecuzione della deliberazione medesima;
b) che pertanto non poteva essere recepito né l'indirizzo propugnante la caducazione automatica del contratto in conseguenza dell' annullamento
dell’aggiudicazione, peraltro comportante l'aggiudicazione automatica in favore del secondo classificato; né quello che mediando tra le due
tesi/riteneva comunque di far salvi i diritti dei terzi richiamando le disposizioni degli art. 23 e 25 cod. civ.
Per la cassazione della sentenza l’ATI Citelum ha proposto ricorso,ai sensi dell'art. 111, 3° comma Costit.; cui resiste l'ATI Hera con controricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il ricorso l'ATI Citelum, deducendo violazione degli art. 6 e 7 della legge 205/2000, 33 d.lgs.80 del 1998 e 25,103 Cost., censura la sentenza
impugnata per aver dichiarato l'inefficacia del contratto di appalto stipulato tra di essa ed il comune dì Taranto, in seguito all'annullamento degli atti
della gara e del verbale di aggiudicazione, senza porsi la questione dei limiti della propria giurisdizione non estesa dalle menzionate norme alla
cognizione delle sorti di detto negozio avente natura paritetica-privatistica e non rientrante nella fase dell' azione della P.A.-autorità,in quanto:
1) con la sottoscrizione del contratto sì instaura tra le parti un vincolo negoziale "iure privatorum" comportante che tutte le controversie attinenti alla
sua esecuzione devono ascriversi alla giurisdizione ordinaria: a maggior ragione configurabile quando si discuta della esistenza giuridica del
contratto,ossia non già come il contratto vada eseguito,ma se deve essere eseguito tra le parti;
2) non ne è sostenibile una sorta di attrazione nell'ambito della giurisdizione amministrativa per l'automatico collegamento tra la procedura
autoritativa di evidenza pubblica e la validità-efficacia del vincolo contrattuale perché le relative questioni con riferimento sia alla patologia del
negozio per cui optare (con le relative conseguenze) tra le categorie tipizzate dal codice civile,sia alla sorte delle prestazioni nel frattempo eseguite
dalle parti,sia alla qualificazione della buona fede del contraente privato,sia al trattamento giuridico dei terzi che abbiano acquisito diritti in forza del
contratto,trascendono la mera cognizione del profilo della legittimità dell’azione autoritativa espletata dalla p.a. come autorità ed implicano
valutazioni meramente civilistiche, ascrivibili al giudice naturale dei rapporti negoziali paritetici;
3) le stesse Sezioni Unite già prima della nota decisione 204/2004 della Corte costituzionale, avevano sistematicamente affermato che i vizi degli atti
amministrativi precedenti la stipulazione dei contratti iure privatorum della p.a. comportano la mera annullabilità del contratto; che solo
l'amministrazione può far valere davanti al giudice ordinario. laddove il giudice amministrativo aveva finito per sconfessare il sistema privatistico
delle patologie del negozio giuridico e creato una automatica inefficacia ad esso completamente estranea 4)ad identica conclusione è pervenuta parte
della giurisprudenza amministrativa secondo la quale al giudice amministrativo è dato conoscere e statuire sulla legittimità dei procedimenti
amministrativi di gara,ma non anche sulle vicende inerenti al contratto, attribuite alla giurisdizione dell'A.G.O.
Il ricorso è manifestamente fondato.
Nel sistema antecedente al d.lgs.80 del 1998, nonché alla legge 205 del 2000, in tema di pubblici appalti costituivano principi giurisprudenziali del
tutto consolidati:
30
1) che il contratto di appalto comunque concluso da vita ad un rapporto essenzialmente di diritto privato, seppur caratterizzato da una disciplina
differenziata dipendente dalla qualità di ente pubblico del committente e dalle finalità di interesse generale perseguite; e che esso è fonte di
reciproche obbligazioni e diritti soggettivi la cui tutela è perciò affidata agli organi della giurisdizione ordinaria;
2) che nella fase antecedente a tale conclusione, nel caso in cui la scelta del contraente privato avvenga con il sistema della "licitazione privata", con
quello dei pubblici incanti o dell'appalto-concorso, la posizione del soggetto aspirante all'affidamento dell'appalto nonché dei partecipanti alla gara
sulla quale l'amministrazione committente con sua azione può interferire favorevolmente o sfavorevolmente, trova protezione nelle norme di legge e
nei regolamenti disciplinanti il procedimento amministrativo di scelta del contraente; con la conseguenza che, assume natura e consistenza di
interesse legittimo al regolare svolgimento del procedimento amministrativo: tutelabile, come tale, davanti al giudice amministrativo;
3) che, in particolare, detto interesse può configurarsi sia come pretensivo, che come oppositivo: avendo egli l'interesse pretensivo all'aggiudicazione
della gara; mentre, ove l'abbia già ottenuto e questa sia stata annullata, egli ha l'interesse oppositivo ad impugnare l'annullamento, ovvero a ricorrere
avverso la nuova aggiudicazione ad altri partecipanti alla gara di appalto. Sicché appartenevano alla giurisdizione generale di legittimità di detto
giudice le impugnative dei provvedimenti di aggiudicazione dell'appalto, nonché degli atti procedimentali a questa precedenti e prodromici; e, per
converso, quelle dei provvedimenti di invalidazione dell' aggiudicazione,che costituiva il limite di operatività di detta giurisdizione anche quando la
stessa segnava nel contempo la conclusione del contratto, con effetti vincolanti per entrambe le parti.
In tal caso, le domande dirette ad ottenere la declaratoria di nullità o l'annullamento del relativo verbale per vizi della volontà o per altre cause
previste dagli art.1418 e segg. cod.civ, esulavano da detta giurisdizione per rientrare nella cognizione del giudice ordinario, riguardando la validità di
un rapporto negoziale di natura privatistica (Cass. sez.un. 1507/1987).
Siffatta disciplina non è sostanzialmente mutata per effetto della legge 205 del 2000, il cui art. 7, recependo con parziali modifiche e sostituendo l'art.
33 del decr. legisl. n. 80 del 1998, ha devoluto alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo tutte le controversie in materia di pubblici
servizi (1° comma); e specificato in quello successivo che "Tali controversie sono, in particolare quelle:....... e) aventi ad oggetto le procedure di
affidamento di appalti pubblici di lavori, di servizi e forniture svolti da soggetti comunque tenute alla applicazione delle norme comunitarie.......;":
perciò nel contempo delimitando l'ambito di tale giurisdizione, già introdotta, significativamente con identica formula, dal precedente art. 6 della
legge.
Queste Sezioni Unite, infatti, fin dalle prime interpretazioni della norma hanno precisato il concetto di pubblico servizio come prestazione resa da un
soggetto pubblico (o privato che al primo, in forza di vari meccanismi giuridici si sostituisca) alla generalità degli utenti, mentre esulano da tale
nozione le prestazioni rese in favore dell'amministrazione,e comunque del gestore per garantirgli l'organizzazione del servizio (Cass. sez. un.
7461/2004; 1997/2003; 10726/2002).
E fra le diverse e pur possibili opzioni ermeneutiche, hanno privilegiato quella cd. privatistica, per la quale gli artt. 6 e 7 della legge 205/2000, nel
devolvere alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo tutte le controversie relative alle procedure di affidamento di appalti pubblici di
lavori, servizi e forniture, hanno riguardo alla sola fase pubblicistica dell'appalto (in essa compresi i provvedimenti di non ammissione alla gara o di
esclusione dalla stessa); e non si riferiscono alla successiva fase dell'esecuzione del rapporto,concernente i diritti e gli obblighi derivanti, per
ciascuna delle parti, dal contratto stipulato successivamente agli atti di evidenza pubblica. In questa seconda fase resta operante la giurisdizione del
giudice ordinario quale giudice dei diritti, cui spetta verificare la conformità alle norme positive delle regole attraverso le quali i contraenti hanno
disciplinato i loro contrapposti interessi, e delle relative condotte attuative:a nulla rilevando che specifiche disposizioni legislative attribuiscano
all'amministrazione committente la facoltà di incidere autoritativamente sul rapporto (e perfino di risolverlo) , posto che detti atti amministrativi, non
hanno natura provvedimentale e non cessano di operare nell'ambito delle paritetiche posizioni contrattuali (da ult., Cass. sez. un. 17829 e
17830/2007; 4427/2007; 4116/2007).
Si è pure evidenziato (Cass. sez. un. 72/2 000) come una diversa lettura della nuova normativa (cd. pubblicistica) , comportando una estensione della
giurisdizione amministrativa a controversie di carattere e contenuto esclusivamente patrimoniale, non direttamente ed effettivamente connesse ad
interessi generali -come, in tesi, quelle relative alla verifica (sulla base di categorie privatistiche) della puntualità o meno della esecuzione di contratti
conclusi dal gestore (sia esso pubblico o privato) di un servizio pubblico per l'acquisizione di beni ed opere strumentali a detta attività - ponesse seri
dubbi di compatibilità con il precetto dell'art. 103 Cost.: dubbi condivisi dalla Corte Costituzionale che, nella recente sentenza 204 del 2004, ha
dichiarato parzialmente illegittimo il menzionato art. 33 d.lgs.80,come recepito dall'art. 7 della legge 205/2000.
La Consulta ha rilevato, infatti, che il riferimento della disposizione ad una materia - quella dei pubblici servizi - dai confini non compiutamente
delimitati, e soprattutto il richiamo a tutte le controversie ricadenti in tale settore rende evidente che la materia così individuata prescinde totalmente
dalla natura delle situazioni soggettive coinvolte, radicando la giurisdizione esclusiva sul dato puramente oggettivo del normale coinvolgimento in
tali controversie del generico pubblico interesse che è naturalmente presente nel settore dei pubblici servizi : e così travolgendo il necessario rapporto
di specie a genere che l'art. 103 Cost. postula come ordinario discrimine tra le giurisdizioni, allorché contempla le materie devolvibili alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo come particolari rispetto a quelle nelle quali la pubblica amministrazione agisce quale autorità. Ha
quindi precisato che il necessario collegamento delle materie assoggettabili a giurisdizione esclusiva con la natura delle situazioni soggettive,
espresso, nell'art. 103 Cost., dalla loro qualificazione di particolari rispetto a quelle devolute alla giurisdizione generale di legittimità, comporta che
le materie affidate alla giurisdizione suddetta devono necessariamente partecipare della medesima natura - segnata dall'agire della P. A. come
autorità, nei confronti della quale è accordata tutela alle posizioni di diritto soggettivo del cittadino dinanzi al giudice amministrativo - di quelle
devolute alla giurisdizione generale di legittimità.
Dopo la declaratoria di parziale incostituzionalità della norma, non sono più ammissibili dubbi ermeneutici sulla possibile estensione della
giurisdizione esclusiva; che può essere istituita o ampliata, per esigenze di concentrazione della tutela,per impedire la moltiplicazione dei giudizi,e
comunque per garantire pienezza di tutela al cittadino attraverso un unico giudizio, soltanto alle condizioni indicate dalla Consulta, che cioè le
posizioni di diritto soggettivo fatte valere si collochino in un'area di rapporti nella quale la p.a. agisce attraverso poteri autoritativi, ovvero si avvalga
della facoltà riconosciuta dalla legge di adottare strumenti negoziali in sostituzione del potere autoritativo ai sensi dell'art. 11 della legge 241 del
1990.
Il che nell'attività di diritto privato si verifica soltanto nella fase della formazione della sua volontà, nonché di scelta del contraente privato, che non è
libera, ma si snoda attraverso una serie di atti procedimentali caratterizzati dall'esercizio di poteri discrezionali e vincolati;i quali hanno normalmente
inizio con la determinazione di contrarre e si concludono (nell'appalto di opere o servizi,che qui interessa) con il provvedimento di aggiudicazione
che individua il contraente privato, perciò costituendo l'ultimo atto e, nel contempo, il confine estremo della fase pubblicistica, del resto evidenziato
dalla stessa formulazione letterale dei ricordati art.6 e 7 lett.a) della legge 205 del 2000, laddove limita l'ambito della giurisdizione esclusiva alle sole
"procedure di affidamento di appalti,.."; con conseguente implicita esclusione della cognizione di tutti gli atti successivi alla sua conclusione (Cass.
sez. un. 1142/2 007; 9601/2006; 4508/2006; 13296/2005) .
In questa seconda fase,pur strettamente connessa con la precedente, e ad essa consequenziale, che ha inizio con l'incontro delle volontà delle parti per
la stipulazione del contratto, e prosegue con tutte le vicende in cui si articola la sua esecuzione,infatti, i contraenti -p.a. e privato- si trovano in una
posizione paritetica e le rispettive situazioni soggettive si connotano del carattere, rispettivamente,di diritti soggettivi ed obblighi giuridici a seconda
delle posizioni assunte in concreto. Sicché è proprio la costituzione di detto rapporto giuridico di diritto comune a divenire l'altro spartiacque fra le
due giurisdizioni,quale primo atto appartenente a quella ordinaria, nel cui ambito rientra con la disciplina posta dagli art. 1321 e segg. cod. civ.;e che
perciò,comprende non soltanto quella positiva sui requisiti (art. 1325 e segg.) e gli effetti (art. 1372 e segg.),ma anche l'intero spettro delle patologie
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ed inefficacie negoziali, siano esse inerenti alla struttura del contratto, siano esse estranee e/o alla stessa sopravvenute: come si verifica appunto nelle
fattispecie prospettate dalla sentenza impugnata in cui viene a mancare uno degli atti del procedimento costitutivo della volontà dell'amministrazione
(deliberazione di contrarre, bando, aggiudicazione). E trova giustificazione il principio da decenni enunciato da dottrina e giurisprudenza, che
seppure gli atti della serie pubblicistica e quelli della serie privatistica sono indipendenti quanto alla validità, i primi condizionano l'efficacia dei
secondi, di modo che il contratto diviene inefficace se uno degli atti del procedimento viene meno per una qualsiasi causa (Cass.. 5 aprile 1976
n.1197 e succ.) .
Per queste ragioni le Sezioni Unite,già con la precedente sentenza 20504/2006 relativa ad un contratto di locazione stipulato da un Comune per
l'acquisizione di un'area privata hanno dichiarato la giurisdizione del giudice ordinario sulla domanda volta ad ottenere la dichiarazione di nullità o
l'annullamento del contratto a seguito dell'annullamento della delibera di scelta dell'altro contraente, adottata all'esito di una procedura ad evidenza
pubblica "non avendo la controversia ad oggetto i provvedimenti riguardanti la scelta dell'altro contraente, ma il rapporto di locazione derivante
dall'atto stipulato in condizione di parità con quest'ultimo, del quale l'Amministrazione chiede di accertare l'invalidità o l'inefficacia, al fine di
impedirne l'esecuzione; onde le situazioni giuridiche soggettive delle quali sì chiede l'accertamento negativo hanno consistenza di diritti soggettivi
pieni".
Identica situazione è ravvisabile nella fase di esecuzione dell'appalto successiva al provvedimento di aggiudicazione, segnata dall'operare
dell'amministrazione non quale autorità che esercita pubblici poteri, ma nell'ambito di un rapporto privatistico contrattuale. Per cui nella fattispecie
apparteneva sicuramente alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo la cognizione della legittimità degli atti della procedura di gara
approvata dal comune di Taranto per il conferimento dell'appalto misto per cui è causa, nonché dei provvedimenti relativi al loro annullamento; ed in
particolare all'annullamento della determinazione dirigenziale 2 marzo 2 00 4 n. 25 che aveva aggiudicato definitivamente il servizio all'ATI con
capogruppo s.a. Citelum. Ma alla sentenza impugnata restava precluso ogni sindacato sugli atti di esecuzione conseguenti all' aggiudicazione, a
cominciare dal contratto stipulato in data 12 marzo 2004 tra quest'ultima ATI e l'amministrazione comunale; che, invece, il Consiglio di Stato ha
dichiarato inefficace, esorbitando dall'ambito della propria giurisdizione limitata dai ricordati art. 6 e 7 della legge 205/2000 "alle procedure di
affidamento di appalti pubblici".
La giurisdizione esclusiva non è nel caso invocabile neppure per il fatto che tale inefficacia è stata considerata dal giudice amministrativo di appello che non ha condiviso la declaratoria di nullità del contratto pronunciata dal TAR - una conseguenza necessaria dell'annullamento giurisdizionale dell'
aggiudicazione {"in forza del rapporto di consequenzialità necessaria tra la procedura di gara ed il contratto successivamente stipulato": pag. 53);
anzitutto perché vige nell'ordinamento processuale il principio generale dell'inderogabilità della giurisdizione per ragioni di connessione, salve
deroghe normative espresse non rinvenibili nella normativa in esame (Cass. sez. un. 7859/2 001; 1760/2 002). E, quindi, perchè valutare l'incidenza
dell' annullamento dell'atto amministrativo di aggiudicazione rispetto al rapporto privatistico che ad esso consegue costituisce una questione di
merito relativa alla verifica della validità e della perdurante efficacia del contratto di appalto; e significa pronunziare intorno alla ricorrenza o meno
delle condiciones juris, incidenti sulla sua giuridica esistenza e validità iniziale, nonché, sul perdurare degli effetti legati al sinallagma funzionale
(Cass. sez.un, 6743/2005; 5179/2004; 931/1999, nonché 5941/2004; 12629/2006): e non già decidere circa il corretto esercizio del potere di
annullamento di ufficio che deve necessariamente arrestarsi all'adozione del relativo provvedimento (nonché alla eventuale pronuncia sul
risarcimento del danno conseguente ex art.35 d.lgs. 80/1998).
Ne è conferma proprio la disamina compiuta dal Consiglio di Stato delle variegate posizioni della giurisprudenza amministrativa e di quella
.ordinaria sulla sorte del contratto,nonché dei diritti ed obblighi dallo stesso derivanti, in seguito all'annullamento del provvedimento che ne
costituisce il presupposto;che in realtà spaziano dalla declaratoria di nullità assoluta (recepita dal TAR Puglia; cfr. Cons. St. V,1218/2003;
6281/2002; Cass. 193/2002) alla mera annullabilità invocabile soltanto dall'amministrazione committente ex art.1441 e 1442 cod.civ. (Cass.
11247/2002; 2 842/1996; Cons. St. VI,570/2002),e comprendono le tesi intermedie che pervengono alla caducazione automatica (per il venir meno,
con efficacia ex tunc, del requisito della legittimazione a contrarre o di uno dei presupposti di efficacia del negozio: Cons. St. V,41/2007; IV,6666/2
003; VI,2992/2 003; Cass. 12 62 9/2 00 6), oppure alla inefficacia (sopravvenuta) del contratto,a sua volta giustificata in base ad istituti diversi
(Cons. St. VI,4295/2 00 6; V,6759/2005; 34 63/2 004; Cass. 6450/2004), che ora comportano il travolgimento dei diritti acquisiti dai terzi per effetto
dell'atto negoziale,ora consentono la salvezza di quelli acquistati in buona fede (Cfr. Cons. St. V,1591/200 6; 5194/2005; 7346/2004; 3465/2004).
Ma che hanno tutte quale presupposto comune una vicenda propria dell'atto negoziale rientrante nel sistema delle inefficacie-invalidità
(significativamente) disciplinate dal codice civile : in forza delle quali non se ne producono gli effetti perseguiti, o questi vengono a cessare.
Anche nell'opzione prescelta dalla decisione impugnata, la condizione di inefficacia e l'effetto costitutivo della caducazione del contratto (perciò
stesso non assimilabile ad un mero atto di ritiro) non discendono dalla statuizione di annullamento adottata dal giudice amministrativo (che pur ne
costituisce il presupposto necessario),ma derivano direttamente dalla legge (cosi come avviene per le patologie del contratto dovute a peculiari vizi
genetici,e riconosce lo stesso Consiglio di Stato invocando i principi civilistici sui negozi collegati). La quale, d'altra parte, ben può escluderla come
ha fatto l'art. 14 d.lgs.190 del 2002 per le procedure di progettazione, approvazione e realizzazione delle infrastrutture ed insediamenti produttivi
strategici e di interesse nazionale: disponendo che l'annullamento giurisdizionale della aggiudicazione di prestazioni pertinenti alle infrastrutture non
determina la risoluzione del contratto eventualmente già stipulato dai soggetti aggiudicatoti; e che in tal caso il risarcimento degli interessi o diritti
lesi avviene per equivalente, con esclusione della reintegrazione in forma specifica.
Le Sezioni Unite devono, allora, ribadire che i riflessi sul contratto di appalto, del sistema delle irregolarità-illegittimità che affliggono la procedura
amministrativa a monte, devono essere scrutinati in ogni caso dal giudice ordinario: e, quindi, non soltanto nelle fattispecie di radicale mancanza del
procedimento di evidenza pubblica (o di vizi che ne affliggono singoli atti), ma anche in quella della sua successiva mancanza legale provocata
dall'annullamento del provvedimento di aggiudicazione perché nella materia il criterio di riparto delle giurisdizioni non e fondato sul grado ed i
profili di connessione tra dette disfunzioni ed il sistema delle invalidità-inefficacia del contratto;e neppure sulla tipologia delle sanzioni civilistiche
che dottrina e giurisprudenza di volta in volta gli riservano, ma unicamente sulla separazione imposta dall'art. 103, 1° comma Costit. tra il piano del
diritto pubblico (e del procedimento amministrativo) ed il piano negoziale, interamente retto dal diritto privato: separazione nuovamente ribadita dall'
art. 244 del codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 20 04/17/CE e 2004/18/CE (d.lgs. 163 del
2006),che ha confermato l'attribuzione alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo di "tutte le controversie, ivi incluse quelle risarcitorie,
relative a procedure di affidamento di lavori, servizi, forniture, svolte da soggetti comunque tenuti, nella scelta del contraente o del socio,
ali'applicazione della normativa comunitaria ovvero al rispetto dei procedimenti di evidenza pubblica previsti dalla normativa statale o regionale". E,
per quanto riguarda la successiva fase contrattuale, soltanto di quelle "relative al divieto di rinnovo tacito dei contratti, quelle relative alla clausola di
revisione del prezzo e al relativo provvedimento applicativo nei contratti ad esecuzione continuata o periodica, nell'ipotesi di cui ali'art. 115, nonché
quelle relative ai provvedimenti applicativi dell'adeguamento dei prezzi ai sensi dell'art. 133 commi 3 e 4": nelle quali (almeno fino alle leggi 359 del
1992, art. 3 e 109 del 1994, art. 26), la posizione del contraente privato è stata da decenni qualificata dalla giurisprudenza di interesse legittimo e
perciò devoluta già nel quadro normativo antecedente all'art.33 d.lgs.80/1998, alla giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo ex
art.2 e 3 legge 1034 del 1971 (Cass. sez.un. 21292,21293 e 21294/2005; 18126/2005; 1996/2003) .
Conclusivamente, spetta al giudice ordinario la giurisdizione sulla domanda volta ad ottenere tanto la dichiarazione di nullità quanto quella di
inefficacia o l'annullamento del contratto di appalto, a seguito dell'annullamento della delibera di scelta dell'altro contraente, adottata all'esito di una
procedura ad evidenza pubblica: posto che in ciascuno di questi casi la controversia, non ha ad oggetto i provvedimenti riguardanti la scelta suddetta,
ma il successivo rapporto di esecuzione che si concreta nella stipulazione del contratto di appalto, del quale i soggetti interessati chiedono di
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accertare un aspetto patologico, al fine di impedirne l'adempimento; che le situazioni giuridiche soggettive delle quali si chiede l'accertamento
negativo hanno consistenza di diritti soggettivi pieni; e che il giudice è comunque chiamato a verificare la conformità alla normativa positiva delle
regole attraverso cui l'atto negoziale è sorto,ovvero è destinato a produrre i suoi effetti tipici.
Questo risultato non è contraddetto dalla recente decisione 24658/2007 delle Sezioni Unite, che in una controversia in cui il giudice amministrativo
aveva annullato l'aggiudicazione di un appalto relativo alla progettazione di un complesso polifunzionale, ha recepito la tesi della caducazione
automatica del successivo contratto stipulato con l'impresa vincitrice della gara in quanto nella fattispecie esaminata, la sentenza del Consiglio di
Stato gravata dal ricorso, si era limitata ad annullare il provvedimento di aggiudicazione senza emettere alcuna statuizione in ordine alla successiva
vicenda contrattuale.
Era stata invece la stazione appaltante a dedurre che nel caso il contratto di appalto aveva avuto integrale esecuzione, ed a sostenere in base a tale
presupposto (3° motivo) "la insussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo",per essere competente quello ordinario a pronunciare la
caducazione del contratto.
Ma la Corte non ha condiviso tale prospettazione che modificherebbe il criterio di riparto delle giurisdizioni -delineato dagli art. 6 e 7 della legge
205/2000 con esclusivo riguardo alla fase pubblicistica o privatistica dell'appalto - in funzione dell'esaurimento di quest'ultima fase;ed in conformità
alla propria consolidata giurisprudenza ha ribadito anche in tal caso la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo a pronunciare in ogni
momento (Cass. sez. un. 1142/2007 cit.) l'annullamento del provvedimento di aggiudicazione, ritenendo al riguardo ininfluente l'intero effettovicenda negoziale da esso derivato (Cass. sez.un. 4508/2006; 13296/2005; 5179/2004). E rilevando che era invece la fase esecutiva del rapporto ad
esser priva di autonomia propria,in quanto destinata a subire gli effetti del vizio che inficia il provvedimento amministrativo cui è collegata, nonché a
restare immediatamente travolta in conseguenza del suo annullamento senza richiedere pronunce di caducazione o atti di ritiro dell'Amministrazione.
E sempre sulla distinzione tra la fase pubblicistica scandita dalle regole della evidenza pubblica e la successiva fase negoziale è stato fondato il
criterio di riparto delle giurisdizioni anche in un appalto di servizi da Cass. sez.un. 24668/2007 che ha specificato,da un lato come l'intera procedura
diretta alla scelta dell'altro contraente e fino all'atto di aggiudicazione nei diversi momenti in cui si articola sia devoluta dal legislatore alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo,unitamente alla tutela risarcitoria completiva,pur se chiesta senza quella demolitoria (art. 35 d.lgs.
80/1998,come recepito dall'art. 7 l. 205/2000). Ma dall'altro,ha riaffermato che il provvedimento di aggiudicazione "segna il momento terminale
dell'esercizio della fase pubblicistica", sicché nella fase successiva concernente l'esecuzione del rapporto resta operante la giurisdizione del giudice
ordinario, quale giudice dei diritti e degli obblighi di ciascun contraente.
Pertanto,in accoglimento del ricorso,le Sezioni Unite devono dichiarare la giurisdizione del giudice ordinario in relazione alla declaratoria di
inefficacia del contratto suddetto,e conseguentemente cassare la sentenza impugnata limitatamente a tale parte. Mentre la peculiarità delle questioni
trattate, che aveva già indotto il Consiglio di Stato, a compensare tra le parti le spese dell' intero giudizio, induce il Collegio a confermare detta
statuizione e ad estenderla anche a quelle di questa fase.
P.Q.M.
La Corte,a sezioni unite,accoglie il ricorso, dichiara la giurisdizione del giudice ordinario, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto
e dichiara interamente compensate tra le parti le spese di questa fase del giudizio.
Così deciso in Roma il 9 ottobre 2007.
Depositata in Segreteria in data 28 dicembre 2007.
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CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA - sentenza 30 luglio 2008 n. 9
- Pres. Salvatore, Est. Lamberti - Kpmg Advisory s.p.a. (Avv. Terracciano) e Regione Molise (Avv.ra Stato) c. Engineering Sanità Enti
Locali s.p.a. (Avv.ti Vinti e Barbieri) - (dichiara il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo sulla domanda volta a far accertare
- con efficacia di giudicato - l’avvenuta caducazione del contratto d’appalto; la questione era stata rimessa all'Ad. Plen. dalla Sez. V con
ordinanza 28 marzo 2008, n. 1328, in LexItalia.it, pag. http://www.lexitalia.it/p/81/cds5_2008-03-28.htm).
1. Giurisdizione e competenza - Contratti della P.A. - Domanda del concorrente non aggiudicatario volta a
conseguire, quale "reintegrazione in forma specifica", l’aggiudicazione o l’assegnazione del servizio (anche parziale)
- A seguito dell’annullamento in s.g. dell’aggiudicazione - Giurisdizione esclusiva del G.A. - Non sussiste.
2. Giurisdizione e competenza - Contratti della P.A. - Controversie in materia di dichiarazione di nullità e/o di
caducazione del contratto di appalto - A seguito dell’annullamento in s.g. dell’aggiudicazione della gara Giurisdizione dell’A.G.O. - Sussiste - Ragioni.
3. Giurisdizione e competenza - Contratti della P.A. - Disciplina prevista dall’art. 244 del D.L.vo n. 363 del 2006 Interpretazione - Giurisdizione dell’A.G.O. - Sussiste sia in ordine all’accertamento delle conseguenze provocate
dalla sopravvenuta mancanza delle condizioni di legalità del vincolo contrattuale, sia per ciò che concerne le
conseguenze prodotte sul contratto dalla sentenza amministrativa di annullamento della aggiudicazione della gara.
4. Giurisdizione e competenza - Contratti della P.A. - Sentenza di annullamento dell’aggiudicazione - Esecuzione Potere del giudice amministrativo, in sede di esecuzione della sentenza, di adottare tutte le misure (direttamente o
per il tramite di un commissario) necessarie ed opportune per dare esatta ed integrale esecuzione alla sentenza Sussiste - Potere in particolare di disporre la sostituzione dell’aggiudicatario, quale "reintegrazione in forma
specifica" del soggetto che ha ottenuto la statuizione di annullamento - Sussiste.
1. Nel caso di annullamento in s.g. dell’aggiudicazione di una gara pubblica, deve ritenersi sottratta alla
giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo la domanda avanzata dal concorrente non
aggiudicatario volta a conseguire - quale "reintegrazione in forma specifica" - l’aggiudicazione o
l’assegnazione del servizio (anche parziale).
2. Appartiene alla giurisdizione del Giudice ordinario, e non già a quella esclusiva del Giudice
amministrativo, la decisione in ordine alla domanda volta ad accertare - con efficacia di giudicato l’avvenuta caducazione del contratto d’appalto, a seguito dell’annullamento in s.g. dell’aggiudicazione
della gara.
3. L’art. 244, comma 1, del D.Lgs. n. 163 del 2006 (che ha sostituito, per l’abrogazione disposta dal
successivo art. 256, l’art. 6, comma 1, della L. n. 205 del 2000), va interpretato nel senso che: a) la
giurisdizione del giudice ordinario sussiste in ordine all’accertamento delle conseguenze provocate dalla
sopravvenuta mancanza delle condizioni di legalità del vincolo contrattuale, essendo il criterio di riparto
della giurisdizione basato unicamente sulla separazione imposta dall’art. 103, comma 1, Cost. tra il piano
procedimentale del diritto pubblico e quello negoziale, retto interamente dal diritto privato (1); b) la
giurisdizione del giudice ordinario sussiste anche quando si tratti di individuare, con statuizioni idonee a
passare in giudicato, le conseguenze prodotte sul contratto dalla sentenza amministrativa di
annullamento della aggiudicazione della gara (2).
4. Nel caso in cui, a seguito dell’annullamento in s.g. dell’aggiudicazione di una gara di appalto,
l’Amministrazione non si conformi puntualmente ai principi contenuti nella sentenza oppure non constati
le conseguenze giuridiche che da essa discendono, ovvero ancora nel caso di successiva sua inerzia,
l’interessato può instaurare il giudizio di ottemperanza, nel quale il giudice amministrativo - nell’esercizio
della sua giurisdizione di merito - ben può sindacare in modo pieno e completo (e satisfattivo per il
ricorrente) l’attività posta in essere dall’amministrazione o anche il suo comportamento omissivo,
adottando tutte le misure (direttamente o per il tramite di un commissario) necessarie ed opportune per
dare esatta ed integrale esecuzione alla sentenza e per consentire una corretta riedizione del potere
amministrativo; tra tali misure vi è anche quella di disporre la sostituzione dell’aggiudicatario, quale
"reintegrazione in forma specifica" del soggetto che ha ottenuto la statuizione di annullamento (3).
-----------------------------------Breve commento di
GIOVANNI VIRGA
La rivalutazione della giurisdizione di merito
Negli ultimi tempi si è sempre più diffusa la tendenza di rimettere all’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato la
soluzione di questioni concernenti il riparto di giurisdizione.
E’ una tendenza questa che, sommessamente, chi scrive non condivide, non solo perché - sul piano dei principi - nel
nostro ordinamento l’unico organo deputato a risolvere le questioni concernenti la giurisdizione è, com’è noto, la
Cassazione a Sezioni unite, ma anche perché - sotto il profilo pratico - vi è il rischio che, in tal modo, si acuisca quel
conflitto tra giudice amministrativo e giudice ordinario che - specie a seguito dell’ampliamento della giurisdizione
esclusiva operato dal D.L.vo n. 80 del 1998, poi ridimensionato grandemente dal Giudice delle leggi con la nota
sentenza n. 204 del 2004 - si è andato manifestando, al punto che da più parti si è auspicato una sorta di "concordato
giurisprudenziale", sulla scorta di quanto avvenne ai tempi di Santi Romano e di D'Amelio (v. per tutti M. Clarich in un
articolo pubblicato dal Sole 24 Ore nell’ormai lontano 1999).
Mi rendo conto che alcune pronunce delle Sezioni Unite degli ultimi tempi in materia di giurisdizione (v. per tutte
quelle concernenti la c.d. "pregiudiziale amministrativa") non sono del tutte persuasive e che le ordinanze di
rimessione delle relative questioni all’Adunanza Plenaria costituiscono una sorta di sfogo (se non, addirittura, di
larvata protesta) del giudice amministrativo; tuttavia sussiste sempre il pericolo che, nel decidere tali questioni,
l’Adunanza Plenaria possa acuire il contrasto.
Tale pericolo sussisteva anche per ciò che concerneva la soluzione della questione (oggetto della pronuncia in
commento) della determinazione delle conseguenze che derivano al contratto di appalto nel caso di annullamento
dell’aggiudicazione e dell’individuazione dei poteri che il giudice amministrativo può esercitare in materia.
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Com’è noto in ordine a tale questione, in punto di giurisdizione, la Cassazione si era già pronunciata con due sentenze
puntualmente richiamate nella decisione dell’Adunanza Plenaria in commento (si tratta delle sentenze Sez. Unite 28
dicembre 2007, n. 27169, in LexItalia.it, pag. http://www.lexitalia.it/p/81/cassciv_2007-12-28.htm e 23 aprile 2008,
n. 10443, ivi, pag. http://www.lexitalia.it/p/81/cassciv_2008-04-23.htm).
Con tali sentenze le Sezioni Unite avevano avuto modo di affermare che:
a) la giurisdizione del giudice ordinario sussiste in ordine all’accertamento delle conseguenze provocate dalla
sopravvenuta mancanza delle condizioni di legalità del vincolo contrattuale, essendo il criterio di riparto della
giurisdizione basato unicamente sulla separazione imposta dall’art. 103, comma 1, Cost. tra il piano procedimentale
del diritto pubblico e quello negoziale, retto interamente dal diritto privato;
b) la giurisdizione del giudice ordinario sussiste anche quando si tratti di individuare, con statuizioni idonee a passare
in giudicato, le conseguenze prodotte sul contratto dalla sentenza amministrativa di annullamento della
aggiudicazione della gara.
E ciò in base all’esegesi dell’art. 244, comma 1, del D.Lgs. n. 163 del 2006 (che ha sostituito l’art. 6, comma 1, della
L. n. 205 del 2000) ed in coerenza con il principio di cui all’art. 103, comma 1, Cost. che impone una separazione tra
il piano negoziale e quello procedimentale, il quale preclude ogni pronunzia da parte del giudice amministrativo sul
regolamento dei rapporti con l’aggiudicatario connessi all’annullamento dell’atto illegittimo.
Si tratta di un principio che in astratto è esatto - essendo ormai da tempo stato affermato che il discrimine della
giurisdizione in materia di contratti della P.A. è costituito dalla distinzione tra la fase genetica di formazione del
vincolo contrattuale e la fase prettamente esecutiva - ma che sul piano pratico pone non pochi problemi, costringendo
il ricorrente vittorioso che ha ottenuto dal giudice amministrativo l’annullamento dell’aggiudicazione, a rivolgersi al
giudice ordinario (proponendo un nuovo ed ulteriore giudizio) al fine di ottenere l’annullamento o comunque la
dichiarazione di inefficacia del contratto di appalto stipulato sulla base dell’aggiudicazione dichiarata illegittima.
L’Adunanza Plenaria con la pronuncia in rassegna, sventando il pericolo di una potenziale situazione di contrasto con
le Sezioni Unite, ha ritenuto di adeguarsi (sia pure, come diremo meglio in seguito, con qualche puntualizzazione) al
cennato principio, affermando che esula dalla giurisdizione esclusiva del G.A. in materia di contratti della P.A. (o
meglio, sarebbe dire, in materia di "formazione" dei contratti della P.A.), il potere di pronunciarsi sulla domanda di
annullamento (o comunque di dichiarazione di inefficacia) del contratto di appalto) stipulato nelle more del giudizio
avverso l’aggiudicazione.
La decisione dell’Adunanza Plenaria tuttavia non ha affrontato la questione - così come recentemente prospettata da
una interessante sentenza (v. T.A.R. Lombardia - Milano, Sez. I, 8 maggio 2008, n. 1380, in LexItalia.it, pag.
http://www.lexitalia.it/p/81/tarlombmi1_2008-05-08.htm) - della possibilità di far rientrare detto potere nell’ambito
delle questioni incidentali riguardanti diritti; una impostazione questa che, forse, avrebbe evitato gli inconvenienti
pratici della soluzione "duale" seguita (prima ricorso innanzi al G.A. per l’annullamento dell’aggiudicazione, poi ricorso
al G.O. per la dichiarazione di inefficacia del contratto stipulato), ma che avrebbe finito forse per creare un potenziale
contrasto con le Sezioni Unite.
La decisione dell’Adunanza Plenaria, tuttavia, assume grande interesse allorché aggiunge che comunque il Giudice
amministrativo ha il potere di pronunciarsi sulle sorti del contratto di appalto nel momento stesso in cui, a seguito
dell'annullamento dell'aggiudicazione, è investito della questione in sede di esecuzione del giudicato. In tal caso
infatti, secondo l'A.P., utilizzando i poteri che sono propri alla giurisdizione di merito, il Giudice amministrativo può
adottare "tutte le misure (direttamente o per il tramite di un commissario) necessarie ed opportune per dare esatta
ed integrale esecuzione alla sentenza e per consentire una corretta riedizione del potere amministrativo"; tra tali
misure, come precisato dall’Adunanza Plenaria, vi è anche quella di disporre la sostituzione dell’aggiudicatario, quale
"reintegrazione in forma specifica" del soggetto che ha ottenuto la statuizione di annullamento.
Si tratta a ben vedere di una sorta di rivalutazione della giurisdizione di merito, un tipo di giurisdizione questa che,
come notato in precedenza (sia consentito far rinvio al precedente intervento in argomento intitolato "La giurisdizione
di merito e la nuova disciplina del silenzio della P.A.", in LexItalia.it n. 2/2006, pag.
http://www.lexitalia.it/p/61/virgag_silenzio.htm), sembrava ormai un relitto del passato, ma che in realtà ritorna
prepotentemente di attualità nel momento stesso in cui si afferma che i maggiori poteri decisori che sono propri a tale
tipo di giurisdizione possono essere utilmente impiegati in sede di esecuzione del giudicato anche al fine di disporre la
sostituzione dell’aggiudicatario, quale "reintegrazione in forma specifica" del soggetto che ha ottenuto la statuizione di
annullamento.
Rimane a questo punto da vedere se il principio affermato dall’Adunanza Plenaria sia applicabile non solo in sede di
esecuzione del giudicato, ma anche in sede di esecuzione della sentenza di primo grado. Il problema non ha solo
rilevanza teorica, ma anche pratica, dato che in molti casi vi è il pericolo che, una volta ottenuta in primo grado la
sentenza di annullamento dell’aggiudicazione, la impresa controinteressata o, addirittura la stessa amministrazione
appaltante, al fine di evitare una pronuncia sulle sorti del contratto di appalto, proponga (magari pretestuosamente)
un appello, in tal modo evitando il passaggio in giudicato e la conseguente pronuncia del G.A. - in quest’ultima sede sul contratto stesso.
In tale ipotesi occorre chiedersi se il ricorrente vittorioso possa rivolgersi al giudice di primo grado - così come
consentito dalla L. n. 205 del 2000 - nelle more delle definizione del giudizio di appello e comunque in attesa del
passaggio in giudicato della sentenza - per ottenere non solo l’esecuzione della sentenza, ma anche una pronuncia
costitutiva di sostituzione dell’aggiudicatario, così come affermato dall’Adunanza Plenaria per il giudizio di
ottemperanza.
La risposta a tale quesito è, a sommesso avviso dello scrivente, positiva, atteso che, così come testualmente previsto
dall'art. 31 della L. T.A.R. (novellato dall'art. 10, 1° comma, della L. n. 205 del 2000, secondo cui «Per l’esecuzione
delle sentenze non sospese dal Consiglio di Stato il tribunale amministrativo regionale esercita i poteri inerenti al
giudizio di ottemperanza al giudicato di cui all’articolo 27, primo comma, numero 4), del testo unico delle leggi sul
Consiglio di Stato, approvato con regio decreto 26 giugno 1924, n. 1054, e successive modificazioni»), il giudice di
35
primo grado, in sede di esecuzione della sentenza ancora non definitiva ma immediatamente esecutiva, dispone degli
stessi poteri del giudice dell’ottemperanza.
Conseguentemente, se il giudice dell’ottemperanza può - come affermato dalla decisione dell’Adunanza Plenaria in
rassegna - "disporre la sostituzione dell’aggiudicatario" a seguito dell’annullamento dell’aggiudicazione, altrettanto - in
via transitiva - è da dirsi per il giudice di primo grado investito della questione dell’esecuzione della sentenza ancora
non passata in giudicato.
Parigi, 7 agosto 2008.
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI - sentenza 3 marzo 2008 n. 796
- Pres. Barbagallo, Est. Giovagnoli - Air One s.p.a. (Avv.ti Clarizia e Criscuolo) c. Ministero dello Sviluppo Economico (Avv. Stato
Tamiozzo), Franchini e Volare Group s.p.a. (Avv.ti Pierallini, Bucello e Cafagno) ed Alitalia - Linee Aeree Italiane s.p.a. (Avv.ti Consolo,
Zavattarelli, Quici, Molè, Vetrò e Scoca) - (accoglie il ricorso per esecuzione del giudicato formatosi sulla sentenza del Cons. Stato, Sez.
VI, 25 settembre 2007, n. 4956).
1. Contratti della P.A. - Gara - Indetta nonostante che la P.A. non sia a ciò tenuta - Comporta un autovincolo per la
P.A. - Osservanza delle regole previste per le procedure ad evidenza pubblica - Necessità - Sussiste.
2. Contratti della P.A. - Offerte - Criteri di valutazione - Previsti dal bando di gara - Genericità degli stessi - Necessità
di specificare sottocriteri prima dell’apertura delle offerte - Sussiste.
3. Giustizia amministrativa - Esecuzione del giudicato - Natura di tale giudizio e poteri del giudice dell’ottemperanza
- Individuazione.
4. Giustizia amministrativa - Esecuzione del giudicato - Poteri del giudice dell’ottemperanza - Potere di sostitutivi,
ordinatori e cassatori - Sussistono - Equiparabilità dei poteri a quelli esercitati in sede di cognizione - Sussiste.
5. Giustizia amministrativa - Esecuzione del giudicato - Poteri del giudice dell’ottemperanza - Circostanza che nelle
more del giudizio sia stato stipulato il contratto - Non può precludere al giudice di ottemperanza di valutare, sia
pure incidenter tantum, la sua eventuale nullità od inefficacia - Riferimento al fatto che il giudizio di ottemperanza
rientra nella giurisdizione di merito.
1. Nel caso in cui la P.A. si autovincoli, indicendo una gara ad evidenza pubblica, pur non essendo a ciò tenuta, la
P.A. stessa è tenuta l’osservanza delle regole fondamentali previste per tale tipo di procedure, tra le quali non vi è
solo quella di non fissare i sotto-criteri dopo l’apertura delle buste, ma, ancora prima, quella che impone a chi indice
la gara di autolimitare la propria discrezionalità laddove gli elementi di valutazione contenuti nel bando siano affetti
da genericità tale da non poter consentire la seppur minima individuazione e delimitazione della discrezionalità
valutativa dell’amministrazione, che non potrebbe essere controllata.
2. Nel caso in cui in una procedura ad evidenza pubblica gli elementi di valutazione previsti dall’art. 63, comma 3,
d.lgs. n. 270/1999 e richiamati dal bando (ammontare del prezzo offerto; affidabilità dell’offerente e del piano di
prosecuzione delle attività imprenditoriali presentato dall’offerente anche con riguardo alla garanzia del
mantenimento dei livelli occupazionali) si presentino generici ed indeterminati, al fine di individuare l’offerta
migliore occorre, in base ai principi generali, che la commissione di gara stabilisca dei sotto-criteri di valutazione, i
quali debbono essere necessariamente determinati prima che venga conosciuto il contenuto delle singole offerte.
3. Il giudizio di ottemperanza ha natura mista, di esecuzione e di cognizione: ciò perché spesso la regola posta dal
giudicato amministrativo è una regola implicita o incompleta, che spetta al giudice dell’ottemperanza esplicitare o
completare. Non a caso si è efficacemente parlato del giudizio di ottemperanza come prosecuzione del giudizio di
merito, diretto ad arricchire, pur rimanendone condizionato, il contenuto vincolante della sentenza amministrativa.
Rientra, quindi, a pieno titolo tra i compiti del giudice dell’ottemperanza dare un contenuto concreto all’obbligo
conformativo che discende dalla sentenza, risolvendo i problemi possibili al riguardo.
4. In sede di giudizio di ottemperanza, il giudice amministrativo può esercitare cumulativamente, ove ne ricorrano i
presupposti, sia poteri sostitutivi che poteri ordinatori e cassatori e può, conseguentemente, integrare l'originario
disposto della sentenza con statuizioni che ne costituiscono non mera «esecuzione», ma «attuazione» in senso
stretto, dando luogo al cosiddetto giudicato a formazione progressiva (1). Nel giudizio di ottemperanza, in definitiva,
il giudice amministrativo può adottare una statuizione analoga a quella che potrebbe emettere in un nuovo giudizio
di cognizione, risolvendo eventuali problemi interpretativi che comunque sarebbero devoluti alla sua giurisdizione.
5. L’ottemperanza non può preclusa dalla circostanza che, nelle more della definizione del giudizio di cognizione, il
contratto è già stato stipulato e che pende davanti al giudice ordinario un giudizio per l’impugnativa negoziale dello
stesso. Ferma infatti restando la giurisdizione del giudice ordinario sulla sorte del contratto, l’eventuale nullità o
inefficacia del contratto stipulato può comunque essere valutata incidenter tantum dall’Amministrazione chiamata
a dare esecuzione al giudicato e, di conseguenza, può essere incidentalmente valutata dal giudice amministrativo in
sede di ottemperanza, in quanto in tale sede egli si sostituisce all’amministrazione rimasta inerte ed esercita una
giurisdizione di merito (2).
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato la seguente
DECISIONE
sul ricorso in appello proposto da n. 1162/2008 proposto da AIR ONE S.P.A.rappresentato e difeso dall’Avv. ANGELO CLARIZIA e
dall’Avv. FABRIZIO CRISCUOLO con domicilio eletto in Roma, VIA PRINCIPESSA CLOTILDE, 2, presso lo studio del primo
contro
MINISTERO DELLO SVILUPPO ECONOMICO, in persona del Ministro pro-tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale
dello Stato e domiciliato ex lege in Roma,Via dei Portoghesi n.12,
36
FRANCHINI FABIO, COMM.RIO STRAORDINARIO VOLARE GROUP IN AMM. STRAORD., rappresentato e difeso come Volare
Group S.p.A.;
e nei confronti di
COMITATO SORVEGLIANZA DI VOLARE GROUP IN AMM. STRAORD., in persona del legale rappresentante pro-tempore, non
costituito;
ALITALIA - LINEE AEREE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro-tempore, rappresentato e difeso dall’Avv.
CLAUDIO CONSOLO, dall’Avv. DANIELA ZAVATTARELLI, dall’Avv. EMANUELA QUICI, dall’Avv. FRANCESCO MOLE', dall’Avv.
FRANCESCO VETRO' e dall’Avv. FRANCO GAETANO SCOCA, con domicilio eletto in Roma, VIA DELLA FARNESINA, 272 presso lo
studio dell’avv. MOLE',
VOLARE Group S.P.A., in persona del legale rappresentante pro-tempore, rappresentato e difeso dall’Avv. LAURA PIERALLINI,
dall’Avv. MARIO BUCELLO e dall’Avv. MAURIZIO CAFAGNO con domicilio eletto in Roma VIALE LIEGI, 28 presso LAURA
PIERALLINI
per l'ottemperanza
della sentenza del Consiglio di Stato, sez. VI, n. 4956 del 25 settembre 2007;
Visto il ricorso con i relativi allegati;
Visti i motivi aggiunti proposti da Air One;
Visto l’atto di costituzione in giudizio dell’Avvocatura dello Stato, di Volare Group in amministrazione straordinaria, di Alitalia;
Viste le memorie difensive depositate dalla parti a sostegno delle rispettive posizioni;
Visti gli atti tutti della causa;
Alla pubblica udienza del 26 febbraio 2008 relatore il Consigliere Roberto Giovagnoli.
Uditi l’avv. Clarizia, l’avv. Scoca, l’avv. Molè, l’avv. Vetrò, l’avv. Zavattarelli, l’avv. Bucello, l’avv. Pierallini e l’avv. dello Stato Tamiozzo;
Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:
FATTO
1.
Air One s.p.a. lamenta la mancata esecuzione della sentenza di questa Sezione n. 4956/2007. Essa sostiene, in particolare, che il
Ministero dello sviluppo economico ed il Commissario straordinario di Volare Group, per ottemperare, avrebbero dovuto esperire una
nuova gara, anziché limitarsi a rinnovare il tratto procedimentale della valutazione delle offerte raccolte.
Sulla base di tali premesse, Air One deduce, quindi, la nullità (per violazione e/o elusione del giudicato) del provvedimento in data
30.1.2008, con il quale il Direttore Generale per la Politica Industriale del Ministero dello Sviluppo Economico ha autorizzato il
Commissario Straordinario di Volare Group ad accettare "ora per allora" l’offerta di Alitalia per l’acquisto del complesso aziendale del
gruppo Volare.
2.
Si sono costituiti in giudizio il Ministero dello Sviluppo Economico, il Commissario Straordinario del Gruppo Volare e l’Alitalia
chiedendo il rigetto del ricorso per l’ottemperanza.
3.
All’udienza del 26 febbraio 2008, fissata per la decisione sull’istanza cautelare, la causa, con il consenso delle parti, è stata trattenuta
per la decisione.
MOTIVIDELLADECISIONE
1.
Il ricorso per l’ottemperanza è da accogliere.
Occorre, in primo luogo, precisare, anche se la relativa questione non è stata sollevata dalle parti, che il ricorso rientra nella competenza
funzionale del Consiglio di Stato: la decisione di cui si chiede l’esecuzione, infatti, pur confermando la sentenza del T.a.r. Lazio Sez. III
ter, n. 11613/2006, ne ha modificato la motivazione, con particolare incidenza sull’effetto conformativo del giudicato, di cui, in questa
sede, si chiede l’attuazione.
2.
Nel merito, il ricorso è fondato.
A prescindere dalla questione se il decreto del Ministero dello Sviluppo Economico del 30.1.2008 si limiti a fare puntuale applicazione
dei criteri di valutazione già previsti dal bando oppure introduca nuovi sottoscriteri di valutazione, il Collegio ritiene che dalla sentenza
di questa Sezione n. 4956/2007 derivi, in capo al Commissario Straordinario del Gruppo Volare, l’obbligo di rinnovare la gara,
mediante invito, ai soggetti che hanno preso parte all’iniziale procedura, di presentare nuove offerte.
3.
Gli elementi di valutazione previsti dall’art. 63, comma 3, d.lgs. n. 270/1999 e richiamati dal bando (ammontare del prezzo offerto;
affidabilità dell’offerente e del piano di prosecuzione delle attività imprenditoriali presentato dall’offerente anche con riguardo alla
garanzia del mantenimento dei livelli occupazionali) si presentano, infatti, generici ed indeterminati e la loro concreta applicazione, al
fine di individuare l’offerta migliore, non può che avvenire sulla base di sotto-criteri di valutazione che debbono essere necessariamente
fissati prima che venga conosciuto il contenuto delle singole offerte.
3.1.
Tale specificazione, mediante l’adozione di sotto-criteri di valutazione, si impone alla luce dei principi – ai quali fa espresso richiamo la
sentenza di cui si chiede l’ottemperanza (pag. 11) – che regolano le procedure di evidenza pubblica.
L’autovincolo, assunto nel caso di specie dal commissario con l’indizione di una gara retta da un vero e proprio bando, implica, invero,
l’osservanza delle regole fondamentali dell’evidenza pubblica, tra cui non vi è solo quella – espressamente stigmatizzata dalla sentenza
di questa Sezione n. 4956/2007 – di non fissare i sotto-criteri dopo l’apertura delle buste, ma, ancora prima, quella che impone a chi fa
la gara di autolimitare la propria discrezionalità laddove gli elementi di valutazione contenuti nel bando siano affetti da genericità tale
da non poter consentire la seppur minima individuazione e delimitazione della discrezionalità valutativa dell’amministrazione, che non
potrebbe essere controllata.
E’ evidente, infatti, che in mancanza di tali sottocriteri, l’autovincolo assunto con l’indizione del bando sarebbe facilmente eluso, perché
l’amministrazione disporrebbe di un potere valutativo pressoché illimitato. La mancata fissazione dell’autovincolo, in tali condizioni,
già di per sé rappresenta una indice di eccesso di potere, perché tradisce uno sviamento nell’esercizio del potere valutativo.
3.2.
Nella gara oggetto del presente giudizio, del resto, la necessità di fissare sotto-criteri di valutazione per specificare gli elementi
genericamente indicati dal bando era stata avvertita dallo stesso commissario. Egli, infatti, già nell’allegato A al verbale del 29 dicembre
del 2005 aveva determinato dei sottocriteri di valutazione, poi annullati dalla sentenza n. 4956/2007 perché fissati in un torno di
tempo successivo all’apertura delle buste.
37
Il fatto che, dopo l’annullamento giurisdizionale degli atti di gara, tale esigenza di ponderazione e specificazione degli elementi del
bando non sia stata più avvertita, rappresenta un ulteriore indice di sviamento, che determina l’illegittimità sia della determinazione del
commissario di riaggiudicare, ora per allora, la gara ad Alitalia, sia del decreto del Ministero che ha autorizzato l’accettazione della
relativa offerta.
3.3.
Né si può replicare che l’obbligo di fissare i sottocriteri non è stato espressamente sancito dalla sentenza di cui si chiede l’esecuzione e
che, pertanto, la pretesa alla rinnovazione della gara non potrebbe essere fatta valere in sede di ottemperanza.
3.3.1.
In primo luogo, occorre rilevare che la sentenza n. 4956/2007 contiene un riferimento, sia pure solo accennato (anche perché non
rilevante nell’economia complessiva della decisione volta a stigmatizzare principalmente la fissazione postuma dei sottocriteri più che la
loro mancanza), alla necessaria fissazione di sottocriteri. A pag. 7, della decisione, all’inizio del paragrafo 3.2., si legge infatti: "sono
invece infondati i motivi di appello volti a stigmatizzare l’accoglimento delle due censure relative alla violazione della norma del bando
che imponeva la fissazione dei sottocriteri e la valutazione delle offerte in presenza del notaio nonché alla posteriorità della fissazione
dei sottocriteri rispetto all’apertura delle buste contenenti le offerte". Il Collegio ritiene, pertanto, che il giudicato in questione
implicasse la necessità di fissazione dei sottocriteri.
3.3.2.
In ogni caso non vi è dubbio che il giudizio di ottemperanza possa essere attivato anche laddove il giudicato amministrativo non
definisca in modo puntuale ed incondizionato gli obblighi di comportamento dell’Amministrazione.
Il giudizio di ottemperanza ha natura mista, di esecuzione e di cognizione: ciò perché spesso la regola posta dal giudicato
amministrativo è una regola implicita o incompleta, che spetta al giudice dell’ottemperanza esplicitare o completare. Non a caso si è
efficacemente parlato del giudizio di ottemperanza come prosecuzione del giudizio di merito, diretto ad arricchire, pur rimanendone
condizionato, il contenuto vincolante della sentenza amministrativa.
Rientra, quindi, a pieno titolo tra i compiti del Giudice dell’ottemperanza dare un contenuto concreto all’obbligo conformativo che
discende dalla sentenza, risolvendo i problemi possibili al riguardo.
Il giudice amministrativo, cioè, in sede di giudizio di ottemperanza, può esercitare cumulativamente, ove ne ricorrano i presupposti, sia
poteri sostitutivi che poteri ordinatori e cassatori e può, conseguentemente, integrare l'originario disposto della sentenza con statuizioni
che ne costituiscono non mera «esecuzione», ma «attuazione» in senso stretto, dando luogo al cosiddetto giudicato a formazione
progressiva (in questi termini, cfr. di recente Cons. Stato, sez. VI, 16 ottobre 2007, n. 5409).
Nel giudizio di ottemperanza, in definitiva, il giudice amministrativo può adottare una statuizione analoga a quella che potrebbe
emettere in un nuovo giudizio di cognizione, risolvendo eventuali problemi interpretativi che comunque sarebbero devoluti alla sua
giurisdizione.
3.4.
Applicando i suesposti principi al presente caso, deve ritenersi che rientri certamente tra compiti del giudice dell’ottemperanza, nel
definire le modalità di esecuzione del giudicato, stabilire che dall’esecuzione della sentenza n. 4956/2007, scaturisce, in capo al
commissario straordinario di Volare Group, l’obbligo di rinnovare la gara mediante invito, ai soggetti che hanno preso parte all’iniziale
procedura, di presentare nuove offerte.
4.
L’ottemperanza non può, infine, essere preclusa nemmeno dalla circostanza che il contratto con Alitalia è già stato stipulato e che pende
davanti al Tribunale ordinario di Roma il giudizio, proposto da Air One, per l’impugnativa negoziale dello stesso.
Ed invero, come precisato da questa Sezione (29 novembre 2007, n. 6071), ferma restando la giurisdizione del giudice ordinario sulla
sorte del contratto, l’eventuale nullità o inefficacia del contratto stipulato può comunque essere valutata incidenter tantum
dall’Amministrazione chiamata a dare esecuzione al giudicato e, di conseguenza, può essere incidentalmente valutata dal Giudice
Amministrativo in sede di ottemperanza, in quanto in tale sede egli si sostituisce all’Amministrazione rimasta inerte ed esercita una
giurisdizione di merito.
Anche, in pendenza dell’impugnativa negoziale, quindi, il giudice dell’ottemperanza può ordinare la rinnovazione della gara.
5.
Alla luce delle considerazioni che precedono, il ricorso deve essere accolto e, per l’effetto:
- va dichiarata la nullità del provvedimento in data 30 gennaio 2008 del Ministero dello Sviluppo Economico perché adottato in
violazione del giudicato;
- va ordinato al Commissario Straordinario di Volare Group in amministrazione straordinaria di rinnovare la gara mediante invito ai
soggetti che hanno preso parte all’iniziale procedura di presentare nuove offerte;
- va fissato, per la rinnovazione della gara il termine di 30 gg. decorrenti dalla comunicazione o, se anteriore, dalla notificazione della
presente decisione;
- in caso di perdurante inerzia, si nomina sin da ora come Commissario ad acta il direttore generale per la politica industriale del
Ministero per lo sviluppo economico.
6.
Le spese del giudizio possono essere integralmente compensate fra le parti, sussistendo giusti motivi, anche in ragione della complessità
delle questioni affrontate.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato, sez. VI, definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe indicato, lo accoglie e, per l’effetto:
- ordina al Commissario Straordinario di Volare Group in amministrazione straordinaria di rinnovare la gara mediante invito ai
soggetti che hanno preso parte all’iniziale procedura di presentare nuove offerte;
- fissa, per la rinnovazione della gara, il termine di 30 gg. decorrenti dalla comunicazione o, se anteriore, dalla notificazione della
presente decisione;
- in caso di perdurante inerzia, nomina come Commissario ad acta il Direttore Generale per la Politica Industriale del Ministero per lo
Sviluppo Economico.
Compensa le spese del giudizio.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità amministrativa.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio del 26 febbraio 2008, dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, con l’intervento dei
Sig.ri:
Giuseppe Barbagallo Presidente
Luciano Barra Caracciolo Consigliere
Bruno Rosario Polito Consigliere
Roberto Giovagnoli Consigliere Est.
38
Francesco Bellomo Consigliere
39
5) PROVVEDIMENTI DI REQUISIZIONE E RIPARTO DI GIURISDIZIONE
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA - sentenza 30 luglio 2007 n. 10 - Pres. Schinaia, Est. Volpe - Comune di Palermo (Avv.
Sansone) c. Villa Heloise s.p.a. (Avv. Raimondo), Banco di Sicilia s.p.a. (n.c.), Island Finance 2 (ICR7) s.r.l. (Avv.ti Armao) e Ministero dell’interno
(Avv. Stato Varrone) - (previa riunione degli appelli, annulla con rinvio T.A.R. Sicilia - Palermo, sez. II, sentenze 5 giugno 2003, nn. 853 e 854; la
questione era stata rimessa all’Ad. Plen. con ordinanza 2 marzo 2007, n. 87).
1. Comune e Provincia - Sindaco - Ordinanze contingibili ed urgenti - Ordinanza con la quale si dispone la requisizione in uso di alloggi
privati - Per far fronte ad esigenze abitative della cittadinanza - Non può essere considerata come una ordinanza contingibile ed urgente Ragioni.
2. Comune e Provincia - Sindaco - Ordinanza di requisizione in uso di alloggi privati - Ex art. 7 della L. n. 2248/1865, all. E - Presupposti per
l’adozione - Individuazione - Motivazione che fa riferimento alla necessità di far fronte a situazioni di carenza abitativa sussistenti da
diverso tempo - Illegittimità.
3. Giustizia amministrativa - Risarcimento dei danni - Derivanti da lesione di interessi legittimi - Domanda - Proposizione nel corso del
giudizio di impugnazione - Con atto notificato alle altre parti - Possibilità - Sussiste.
4. Comune e Provincia - Sindaco - Ordinanza di requisizione in uso di alloggi privati - Ex art. 7 della L. n. 2248/1865, all. E - Banca che
vanta crediti assistiti da ipoteca gravanti sull’immobile requisito - Legittimazione ad intervenire nel giudizio contro il provvedimento di
requisizione ovvero legittimazione ad impugnare autonomamente il provvedimento stesso - Sussiste.
5. Comune e Provincia - Sindaco - Ordinanza di requisizione in uso di alloggi privati - Ex art. 7 della L. n. 2248/1865, all. E - Banca che
vanta crediti assistiti da ipoteca gravanti sull’immobile requisito - Cessionario dei relativi crediti - E’ legittimato ad agire al pari del cedente.
6. Giustizia amministrativa - Risarcimento dei danni - Derivanti da lesione di interessi legittimi - Prova dell’ammontare del danno - Deve
essere rigorosa - Possibilità di fare riferimento a presunzioni - Limiti.
7. Giustizia amministrativa - Risarcimento dei danni - Derivanti da lesione di interessi legittimi - Prova dell’ammontare del danno Mancanza - Rigetto della domanda - Necessità - Sussiste.
8. Giurisdizione e competenza - Risarcimento dei danni - Derivanti a seguito di requisizione di alloggi privati - Danni prodottisi dopo il
periodo di efficacia dell’ordinanza di requisizione - Domanda - Rientra non già nella giurisdizione esclusiva del g.a. ex art. 34 del D.L.vo n.
80/1998, ma in quella generale di legittimità dello stesso giudice.
1. Non costituisce ordinanza contingibile ed urgente ex art. 38, comma 2, della L. n. 142/1990, un provvedimento con il quale il Sindaco di un
Comune dispone la requisizione di alloggi per far fronte ad esigenze abitative, non vertendosi in tal caso "in materia di sanità ed igiene,
edilizia e polizia locale" e comunque non sussistendo la specifica finalità in virtù della quale è attribuito il previsto potere, consistente nella
prevenzione e nell’eliminazione di "gravi pericoli che minacciano l'incolumità dei cittadini".
2. Il Sindaco può adottare provvedimenti di requisizione di alloggi privati per grave necessità pubblica - ai sensi dell’art. 7 della l. n.
2248/1865, all. E - solo se sono presenti eccezionali motivi di assoluta necessità e urgenza tali da non consentire l'intervento del Prefetto. E’
pertanto illegittima l’ordinanza di requisizione di alloggi privati, adottata dal Sindaco ai sensi della citata norma, se le addotte situazioni di
carenza abitativa sussistano da diverso tempo, o qualora si voglia provvedere alla sistemazione di famiglie rimaste senza tetto in
conseguenza di sfratto, o quando la situazione di emergenza sia rivolta a ovviare all'inerzia, protrattasi nel tempo, della stessa
Amministrazione pubblica (1).
3. La domanda risarcitoria può essere proposta anche nel corso del giudizio per l'annullamento dell'atto amministrativo che ha causato il
danno, purché con atto notificato alla controparte (e non con semplice memoria depositata) nel rispetto dei principi di difesa e del
contraddittorio; la domanda risarcitoria, infatti, costituendo sviluppo della domanda originaria, può essere ricondotta allo schema dei
motivi aggiunti (2).
4. Nel caso in cui il Sindaco disponga la requisizione di uno stabile, la banca che è titolare di crediti (garantiti da ipoteche) nei confronti della
società proprietaria dello stabile requisito, è legittimata sia a intervenire nel giudizio instaurato dal proprio debitore, supportandone le
relative ragioni, sia a instaurare azione autonoma, ciò in considerazione dei possibili effetti pregiudizievoli sugli immobili oggetto di
garanzia causati da un provvedimento di requisizione (nella specie disposto, tra l’altro, per dare alloggio agli sfrattati) e indipendentemente
dal pagamento delle indennità conseguenti all’occupazione; le quali possono non coprire eventuali danni ulteriori e maggiori arrecati agli
immobili.
5. Una società che si è resa cessionaria, nelle more del giudizio avverso la requisizione di uno stabile, dei crediti vantati da una banca
garantiti da ipoteche gravanti sullo stabile requisito è legittimata ad agire e a resistere, in luogo del cedente e a difesa delle medesime ragioni
creditorie. Infatti, ai sensi dell’art. 111, comma ultimo, del c.p.c., la sentenza pronunciata contro l’alienante spiega sempre i suoi effetti
anche contro il successore a titolo particolare ed è impugnabile pure da lui.
6. In sede di riconoscimento del diritto al risarcimento del danno da illegittimo esercizio del potere, la prova del danno deve essere rigorosa,
mentre il ricorso alle presunzioni può essere ammesso solo quando derivi da fatti accertati univoci e concordanti, e la valutazione equitativa
ai sensi dell’art. 1226 del c.c. è ammissibile per la determinazione dell’entità del danno e non per la prova della sua esistenza (3).
7. Deve rigettarsi la domanda di risarcimento danni non supportata da alcuna prova del pregiudizio effettivamente subito (4).
8. Non rientrano nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ex art. 34 del D.L.vo n. 80/1998, ma nella giurisdizione generale di
legittimità dello stesso giudice le domande di condanna della P.A. al risarcimento dei danni subiti con riguardo al periodo successivo alla
scadenza del termine di efficacia (nella specie fissata in dodici mesi) previsto da una ordinanza di requisizione (5).
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (adunanza plenaria) ha pronunciato la seguente
DECISIONE
………….
FATTO E DIRITTO
1.1. Il sindaco di Palermo, con ordinanza 6 febbraio 1999, n. 540/OS, disponeva la requisizione con effetto immediato, per il periodo di dodici mesi,
dell’edificio in proprietà di Villa Heloise s.p.a. in liquidazione, sito in Palermo, via Brigata d’Aosta, complesso di via dei Cantieri scale C-D-E, per
complessivi 64 alloggi, 11 locali destinati a uffici e 5 locali destinati a negozi; da adibire a temporanea abitazione dei nuclei familiari in situazione di
grave disagio abitativo e in attesa della concessione del contributo alloggiativo. Il sindaco definiva altresì l’indennità di requisizione degli alloggi
applicando il valore di mercato e fissava l’esecuzione per il giorno 12 febbraio 1999.
L’ordinanza veniva impugnata, con separati ricorsi, da Villa Heloise s.p.a., in liquidazione, e dal Banco di Sicilia s.p.a., Filiale di Palermo, che
chiedevano anche, la prima società a mezzo di motivi aggiunti successivamente notificati, il risarcimento dei danni subiti.
Il primo giudice, con la sentenza 5 giugno 2003, n. 853, ha accolto in parte il ricorso di Villa Heloise s.p.a. e, per l’effetto, ha annullato il
provvedimento impugnato e condannato il Comune di Palermo al risarcimento dei danni in favore della società ricorrente, da determinarsi con i
criteri e nei termini di cui in motivazione, nonché lo ha dichiarato inammissibile per la restante parte. Lo stesso ha affermato:
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a) l’infondatezza dell’eccezione di difetto di legittimazione passiva del Comune di Palermo, sollevata dallo stesso, per non trovare il provvedimento
impugnato supporto nell’art. 38 della l. 8 giugno 1990, n. 142, in quanto i provvedimenti contingibili e urgenti possono essere emanati "in materia di
sanità ed igiene, edilizia e polizia locale al fine di prevenire ed eliminare gravi pericoli che minacciano l'incolumità pubblica" e poiché la
requisizione di immobili privati disposta dal sindaco, quale ufficiale del Governo e ai sensi dell’art. 7 della l. 20 marzo 1865, n. 2248, all. E, in
relazione a urgenti necessità abitative degli abitanti del Comune, soddisfa un interesse che fa capo al Comune stesso, il quale assume la veste di
beneficiario;
b) l’infondatezza dell’eccezione di inammissibilità dell’intervento ad adiuvandum proposto dal Banco di Sicilia, vantando esso invece interesse per
avere concesso alla società ricorrente un mutuo di credito fondiario ed edilizio per la realizzazione dell’immobile requisito;
c) la fondatezza del primo motivo di gravame, attinente l’incompetenza, nonché la violazione e la falsa applicazione dell’art. 7 della l. n. 2248/1865,
all. E, poiché il potere di requisizione di cui alla norma stessa spetta in generale al prefetto, mentre il sindaco può farne uso, in via sostitutiva, solo
nei casi in cui l’urgenza e l’imprevedibilità della situazione venutasi a creare siano tali da non consentire al capo dell’amministrazione comunale,
ancorché nella veste di ufficiale di Governo, di promuovere il naturale intervento del prefetto;
d) l’insussistenza, nella specie, di situazioni di urgenza e imprevedibilità;
e) l’infondatezza dell’eccezione di inammissibilità della domanda di risarcimento dei danni, dedotta dal Comune di Palermo nella prospettazione che
essa si sarebbe dovuta proporre con l’atto introduttivo del giudizio;
f) il parziale difetto di giurisdizione del giudice adito e la giurisdizione del giudice ordinario, con riguardo alla domanda risarcitoria per il periodo
successivo alla scadenza dei dodici mesi previsti nel provvedimento impugnato, dovendosi l’occupazione successiva a tale periodo ritenersi "sine
titulo" e quindi fatto illecito;
g) la sussistenza dei presupposti per condannare il Comune di Palermo al risarcimento del danno, ai sensi dell’art. 2043 del c.c., conseguente
all’illegittimo esercizio della funzione pubblica, con riguardo al periodo di dodici mesi previsto nell’ordinanza impugnata;
h) di avvalersi del meccanismo previsto dall’art. 35, comma 2, del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80, stabilendo i seguenti criteri in base ai quali
l'amministrazione dovrà proporre a favore dell'avente titolo il pagamento di una somma:
h.a) "parziale deprezzamento degli immobili occupati, derivante anche dai danni dagli stessi subiti";
h.b) "maggiori somme dovute dalla società ricorrente all’istituto di credito interveniente a titolo di interessi maturati".
1.2. Il primo giudice, con la sentenza 5 giugno 2003, n. 854, ha accolto, nei limiti indicati in motivazione, il ricorso del Banco di Sicilia s.p.a., Filiale
di Palermo e, per l’effetto, ha annullato il provvedimento impugnato. Lo stesso ha affermato:
a) l’infondatezza dell’eccezione di carenza di legittimazione a ricorrere in capo al Banco di Sicilia s.p.a., sollevata dal Comune di Palermo, in
quanto, avendo la banca concesso alla costruttrice Villa Heloise s.p.a., per la realizzazione del complesso edilizio requisito, mutui di credito
fondiario ed edilizio per oltre 40 miliardi di lire, garantiti da ipoteche, la stessa può vantare un interesse qualificato alla rimozione del provvedimento
di requisizione, atteso il pregiudizio patrimoniale discendente dalla sottrazione (seppure temporanea) del bene, che impedisce la soddisfazione delle
regioni creditorie;
b) quanto esposto alle lettere a), c), d) e f) del paragrafo 1.1. della presente decisione;
c) l’inammissibilità della domanda risarcitoria per non essere supportata da alcuna prova del danno effettivamente subito e della sua entità, nonché
per genericità.
2.1. La sentenza n. 853/2003 viene appellata dal Comune di Palermo, con ricorso n. 1235/2003 e n. 5/2007 del ruolo dell'adunanza plenaria, per i
seguenti motivi:
1) avuto riguardo alla titolarità del potere in concreto esercitato dal sindaco, il provvedimento impugnato e gli effetti giuridici a esso connessi
sarebbero riconducibili alle funzioni attribuite al sindaco medesimo in qualità di ufficiale di Governo, ai sensi dell’art. 38 della l. n. 142/1990,
applicabile nella Regione Siciliana; anche se si ritenesse, come affermato dal primo giudice, che le funzioni nella specie esercitate dal sindaco siano
riconducibili al potere di requisizione di cui all’art. 7 della l. n. 2248/1865, all. E, si tratterebbe pur sempre di funzioni svolte in qualità di organo di
Governo e, in quanto tali, non imputabili all’amministrazione comunale; con il conseguente difetto, nel giudizio di primo grado, della legittimazione
passiva del Comune, che non potrebbe considerarsi beneficiario della requisizione;
2) omessa pronuncia sull’eccezione, sollevata dal Comune di Palermo, di difetto di legittimazione passiva ai sensi dell’art. 35 del d.lgs. 25 febbraio
1995, n. 77, come modificato dall’art. 4 del d.lgs. 15 settembre 1997, n. 342 (oggi art. 191 del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267), data la non imputabilità
allo stesso di ogni conseguenza derivante dall’inosservanza delle norme di contabilità pubblica e la responsabilità diretta, nei confronti del terzo, dei
soggetti che abbiano consentito la prestazione. Nella specie, avendo il Comune, con la deliberazione consiliare 30 maggio 2001, n. 207, non
impugnata dagli interessati, riconosciuto la legittimità del debito fuori bilancio conseguente all’ordinanza impugnata e all’occupazione "sine titulo"
per il periodo successivo alla vigenza della stessa, e corrisposto, sino al 31 dicembre 2002, un indennizzo per l’utilizzazione dei locali di cui trattasi,
solo a seguito dell’intervento della detta deliberazione sarebbe sorta, per il Comune, l’obbligazione di pagare la somma in essa liquidata; così che si
dovrebbe escludere che al Comune siano imputabili oneri diversi e ulteriori rispetto a quelli che esso ha volontariamente assunto con la deliberazione
da ultimo citata. L’ente, quindi, sarebbe privo della legittimazione passiva in ordine alle domande avversarie, tendenti a conseguire indennizzi
ulteriori per l’occupazione degli immobili in questione;
3) il primo giudice avrebbe erroneamente ritenuto l’ammissibilità della domanda di risarcimento dei danni proposta da Villa Heloise s.p.a. con il
ricorso per motivi aggiunti (notificato il 12 marzo 2002), trattandosi, invece, di "mutatio libelli" non consentita dall’ordinamento;
4) inammissibilità dell’intervento ad adiuvandum del Banco di Sicilia s.p.a., poiché tale società intenderebbe fare valere una posizione giuridica
autonoma e sarebbe portatrice di un interesse non riconducibile a quello della ricorrente; la banca, inoltre, ha anche proposto autonomo ricorso in
primo grado;
5) il primo giudice avrebbe erroneamente ritenuto l’ammissibilità della domanda del Banco di Sicilia s.p.a. di risarcimento dei danni subiti in
conseguenza dell’ordinanza impugnata;
6) il primo giudice avrebbe errato nel condannare il Comune al risarcimento dei danni in favore della società ricorrente, in mancanza di alcun
principio di prova sulla sussistenza di un danno risarcibile e di un accertamento giudiziale al riguardo. Avendo la società ricorrente conseguito sino al
31 dicembre 2002 l’indennità di occupazione, determinata applicando i valori correnti di mercato, essa non avrebbe subito alcun pregiudizio
risarcibile. E comunque nessuna prova sarebbe stata fornita sulla sussistenza e sull’entità del danno subito, oltre che sull’esistenza di un nesso
eziologico tra il pregiudizio e l’illegittimità del provvedimento impugnato. Infine, i criteri di stima del danno, come fissati dal primo giudice,
sarebbero assolutamente generici e arbitrari, oltre che inapplicabili siccome del tutto avulsi dalle risultanze processuali, con riguardo in particolare
alle "maggiori somme dovute dalla società ricorrente all’istituto di credito interveniente a titolo di interessi maturati".
2.2. La sentenza n. 854/2003 viene appellata dal Comune di Palermo, con ricorso n. 1300/2003 e n. 6/2007 del ruolo dell'adunanza plenaria, per i
seguenti motivi:
1) il primo giudice avrebbe errato nel dichiarare la legittimazione a ricorrere del Banco di Sicilia s.p.a., in quanto l’ordinanza impugnata non sarebbe
idonea a incidere sulla posizione giuridica della ricorrente, titolare di un diritto reale di garanzia sugli immobili requisiti, avendo determinato soltanto
la temporanea perdita del possesso dei beni da parte della società proprietaria e non avendo sottratto in alcun modo i beni stessi alla garanzia
creditoria. Sarebbe irrilevante, inoltre, la circostanza che l’immobile, prima della requisizione, non aveva ospitato alcuno e, comunque, gli interessi
di natura economica della banca avrebbero conseguito (dalla requisizione) un beneficio avendo il Comune corrisposto alla società proprietaria
41
l’indennità di requisizione e, per il periodo successivo, l’indennità di occupazione "sine titulo", entrambe commisurate al valore di mercato del bene;
consentendo in tal modo la solvibilità della debitrice. La sentenza, infine, sarebbe anche in contrasto con quanto affermato dal primo giudice con la
sentenza n. 853/2003, che ha ritenuto ammissibile l’intervento ad adiuvandum del Banco di Sicilia s.p.a., il quale aveva proposto le medesime
domande oggetto del giudizio poi instaurato in via autonoma;
2) sussistenza delle esigenze che hanno determinato il ricorso alla requisizione, anche sulla base dei successivi provvedimenti emessi
dall’amministrazione statale, concernenti la dichiarazione dello stato di emergenza per fare fronte alle esigenze abitative di soggetti in stato di
povertà estrema e senza dimora, e dei conseguenti provvedimenti di conferimento al sindaco di poteri straordinari (decreto del presidente del
Consiglio dei ministri 21 gennaio 2000, n. 18 e ordinanza in pari data); medesime censure dedotte dal Comune nel primo motivo del ricorso in
appello principale proposto avverso la sentenza n. 853/2003;
3) stesse censure dedotte dal Comune nel secondo motivo del ricorso in appello principale proposto avverso la sentenza n. 853/2003.
2.3. La medesima sentenza n. 854/2003 viene appellata anche da Island Finance 2 (Icr7) s.r.l., cessionaria (in virtù di contratto in data 31 dicembre
2001) del credito ipotecario vantato dal Banco di Sicilia s.p.a. nei confronti di Villa Heloise s.p.a., con ricorso n. 1482/2003 e n. 7/2007 del ruolo
dell'adunanza plenaria, che la contesta nella parte in cui, in relazione alla propria domanda di condanna del Comune di Palermo al risarcimento dei
danni subiti:
a) si è dichiarato il difetto di giurisdizione per il periodo successivo alla scadenza del termine di dodici mesi previsto dall’ordinanza di requisizione;
b) non sono state accolte le domande risarcitorie per pretesa carenza di prova e genericità;
c) non si è emessa alcuna statuizione sulle domande subordinate di condanna del Comune al risarcimento dei danni in misura equitativa, ai sensi
dell’art. 1226 del c.c..
Sono dedotti i seguenti motivi:
1) sussistenza della legittimazione a proporre l’appello;
2) sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo in ordine alla domanda risarcitoria per il periodo successivo al termine previsto per la
requisizione, sia se si ritenga che la controversia, rientrando nella materia dell’urbanistica e dell’edilizia, sia devoluta alla giurisdizione esclusiva ai
sensi dell’art. 34 del d.lgs. n. 80/1998, sostituito dall’art. 7 della l. 21 luglio 2000, n. 205, sia se la si consideri appartenere alla giurisdizione generale
di legittimità;
3) la richiesta risarcitoria non sarebbe stata sfornita di prova, avendo la ricorrente quantificato e documentato il danno, e comunque il primo giudice,
così come richiesto, avrebbe potuto liquidarlo con valutazione equitativa.
3.1. Island Finance 2 (Icr7) s.r.l. si è costituita nei giudizi relativi ai primi due ricorsi in appello principale, chiedendo il rigetto degli stessi.
3.2. Villa Heloise s.p.a. e Island Finance 2 (Icr7) s.r.l. hanno proposto ricorsi in appello principale in forma di appello incidentale, rispettivamente,
nell’ambito dei giudizi relativi al primo e al secondo ricorso in appello principale.
Villa Heloise s.p.a. contesta la sentenza n. 853/2003 nella parte in cui, in relazione alla propria domanda di condanna del Comune di Palermo al
risarcimento dei danni subiti, si è dichiarato il difetto di giurisdizione per il periodo successivo alla scadenza del termine di dodici mesi previsto
dall’ordinanza di requisizione. La società sostiene, anche per tale ulteriore periodo, la giurisdizione del giudice amministrativo; ciò sia se si ritenga
che la controversia, rientrando nella materia dell’urbanistica e dell’edilizia, sia devoluta alla giurisdizione esclusiva ai sensi dell’art. 34 del d.lgs. n.
80/1998, sostituito dall’art. 7 della l. n. 205/2000, sia se la si consideri appartenere alla giurisdizione generale di legittimità.
Island Finance 2 (Icr7) s.r.l. contesta la sentenza n. 854/2003 nelle medesime parti e per gli stessi motivi di cui al proprio ricorso n. 1482/2003 e n.
7/2007 del ruolo dell'adunanza plenaria, proposto avverso la medesima sentenza (si rimanda al paragrafo 2.3. della presente decisione).
3.3. Il sindaco di Palermo, quale ufficiale di Governo, si è costituito nel giudizio relativo al terzo ricorso in appello principale.
Il Ministero dell’interno ha proposto atti di intervento, deducendo la propria assoluta estraneità alla controversia, non avendo il sindaco di Palermo
mai agito nella qualità e con i poteri dell’ufficiale di Governo.
Le parti hanno prodotto memorie illustrando ulteriormente le rispettive difese. Il Comune di Palermo, in particolare, ha eccepito l’inammissibilità del
ricorso in appello principale in forma di appello incidentale proposto da Island Finance 2 (Icr7) s.r.l. nel giudizio relativo al secondo ricorso in
appello principale, per non essere stato notificato anche al Banco di Sicilia s.p.a. quale parte necessaria del giudizio.
4. Il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana, con l’ordinanza 2 marzo 2007, n. 87, previa riunione dei giudizi inerenti i tre
ricorsi in appello principale, ne ha rimesso l’esame all’adunanza plenaria delle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato.
Il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana ha rilevato, preliminarmente, che l’esame nel merito delle diverse e contrapposte
doglianze dedotte dagli appellanti principali e incidentali implica il superamento di numerose e articolate questioni pregiudiziali in rito, fra le quali
particolare considerazione merita la questione di giurisdizione scaturente dall’impugnazione, da parte delle appellanti società Villa Heloise s.p.a. e
Island Finance 2 (Icr7) s.r.l., del capo di ambedue le sentenze di primo grado con cui è stata declinata la giurisdizione del giudice amministrativo, a
favore di quella del giudice ordinario; con riferimento a una parte della domanda di risarcimento dei danni avanzata in ambedue i giudizi di primo
grado da Villa Heloise s.p.a. (con motivi aggiunti) e dal Banco di Sicilia s.p.a. (con il ricorso introduttivo), nella cui posizione processuale è
subentrata Island Finance 2 (Icr7) s.r.l..
Ha poi devoluto all’esame di questa adunanza plenaria le seguenti questioni:
1) se la presente controversia, avente a oggetto l’impugnazione di un provvedimento di requisizione in uso di immobile da destinare al temporaneo
soddisfacimento di una situazione di emergenza abitativa, con destinazione degli alloggi a temporanea abitazione di nuclei familiari destinatari di
provvedimenti di sfratto esecutivo, sia, o meno, riconducibile alla materia di giurisdizione esclusiva dell’edilizia e urbanistica di cui all’art. 34 del
d.lgs. n. 80/1998 e successive modificazioni;
2) l’applicabilità o meno, al caso da decidere, dei principi enunciati da questa adunanza plenaria, nelle decisioni 30 agosto 2005, n. 4, 16 novembre
2005, n. 9 e 9 febbraio 2006, n. 2, in tema di riparto di giurisdizione in materia di risarcimento dei danni da occupazione di immobili conseguente a
provvedimento illegittimo e, come tale, annullato, ovvero a provvedimento divenuto inefficace per decorso del tempo, qual’è tipicamente la
dichiarazione di pubblica utilità dopo la scadenza dei termini in essa contemplati per il compimento dei lavori e delle espropriazioni; rispondendo,
anche alla luce di quanto statuito dalla Corte Costituzionale con la sentenza 11 maggio 2006, n. 191, al seguente interrogativo:
"se, in ipotesi di requisizione in uso protrattasi de facto oltre il termine di scadenza contemplato dal provvedimento in virtù del quale si è attuato lo
spossessamento, permanga, o meno, in relazione al comportamento materiale quel collegamento anche mediato…tra pubblica amministrazione ed
esercizio di potestà pubblicistica, che soltanto, secondo il giudice delle leggi, legittima sul piano costituzionale la devoluzione della relativa
controversia alla giurisdizione amministrativa".
Ulteriori memorie sono state prodotte dal Ministero dell’interno previa costituzione per il tramite dell’Avvocatura generale dello Stato e, nei giudizi
relativi al secondo e al terzo ricorso in appello principale, da Island Finance 2 (Icr7) s.r.l. previa costituzione.
5.1. I ricorsi proposti dal Comune di Palermo sono infondati per le seguenti considerazioni.
Le premesse dell’ordinanza sindacale di requisizione impugnata in primo grado, così come enunciate nel testo della stessa, sono le seguenti:
a) "grave situazione abitativa presente in Città che non consente a numerose famiglie di reperire soluzioni abitative alternative per proprio conto";
b) "assoluta mancanza di disponibilità alloggi di proprietà Comunale da destinare all’emergenza abitativa derivante da sfratto o da altre situazioni di
grave disagio abitativo";
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c) "diversi nuclei familiari hanno richiesto un intervento abitativo all’Amministrazione Comunale non riuscendo a reperire un appartamento in
locazione nel libero mercato";
d) "diversi nuclei familiari vivono situazioni di grave disagio sia perché lo sfratto è già esecutivo o perché lo sarà a breve scadenza e che
l’Amministrazione Comunale è impossibilitata a provvedere con soluzioni abitative temporanee, quale ad esempio l’ospitalità in pensione,
specialmente in presenza di bambini, anziani e persone in precarie condizioni di salute";
e) i tempi ristretti e il costo notevole per le casse comunali dell’ospitalità in locanda;
f) "sono in corso modifiche per la concessione del Contributo alloggiativo, e comunque i tempi di attesa per alcune situazioni sono troppo lunghi".
Il Comune, considerati i fatti sopra descritti, riteneva, con la detta ordinanza, di "provvedere immediatamente con il reperimento di situazioni
abitative adottando provvedimenti eccezionali, al fine di realizzare un parco di alloggi parcheggio da utilizzare nel caso di situazioni abitative
imprevedibili (crollo, sfratto per morosità e situazioni gravi di indigenza) per avere il tempo necessario per la concessione del contributo
alloggiativo, ed eliminare l’uso delle locande". E si indirizzava nei confronti degli alloggi in proprietà di Villa Heloise s.p.a., considerato che erano
vuoti, che alla società era stata avanzata una proposta di concessione in locazione dell’immobile e che era stato concordato un sopralluogo dei tecnici
per la valutazione ai fini di un eventuale acquisto dell’immobile stesso.
L’adunanza ritiene, innanzitutto, che il potere esercitato con l’impugnata ordinanza di requisizione non trovi fondamento nell’art. 38, comma 2, della
l. n. 142/1990 (dal titolo "Attribuzioni del sindaco nei servizi di competenza statale"), non essendosi in presenza di alcuna delle ipotesi che
consentono al sindaco, quale ufficiale del Governo, di adottare provvedimenti contingibili e urgenti; non vertendosi "in materia di sanità ed igiene,
edilizia e polizia locale" e comunque non sussistendo la specifica finalità in virtù della quale è attribuito il previsto potere, consistente nella
prevenzione e nell’eliminazione di "gravi pericoli che minacciano l'incolumità dei cittadini".
Il potere esercitato, invece, trova fondamento nell’art. 7 della l. n. 2248/1865, all. E, secondo cui, "allorché per grave necessità pubblica l'autorità
amministrativa debba senza indugio disporre della proprietà privata, od in pendenza di un giudizio per la stessa ragione, procedere all'esecuzione
dell'atto delle cui conseguenze giuridiche si disputa, essa provvederà con decreto motivato, sempre però senza pregiudizio dei diritti delle parti". Si
tratta, tuttavia, di potere che spetta al prefetto ed è esercitatile dal sindaco solo in presenza di dati presupposti.
Il sindaco, infatti, può adottare provvedimenti di requisizione di beni privati per grave necessità pubblica - ai sensi dell’art. 7 della l. n. 2248/1865,
all. E - solo se sono presenti eccezionali motivi di assoluta necessità e urgenza tali da non consentire l'intervento del prefetto. Il che non si verifica,
come nella fattispecie per cui è causa, se le situazioni di carenza abitativa sussistono da diverso tempo, o qualora si voglia provvedere alla
sistemazione di famiglie rimaste senza tetto in conseguenza di sfratto, o quando la situazione di emergenza sia rivolta a ovviare all'inerzia, protrattasi
nel tempo, della stessa amministrazione pubblica; la quale, con la requisizione di alloggi, intende invece ovviare a endemiche carenze abitative
(Cons. Stato, sez. IV: 13 settembre 1995, n. 693; 28 marzo 1994, n. 291; 6 marzo 1989, n. 144; 18 luglio 1984, n. 569).
Con riguardo alla fattispecie per cui è causa, tra l’altro, l’ordinanza adottata ha lo scopo dichiarato di realizzare una situazione (parco di alloggi
parcheggio) da utilizzare nel caso di evenienze abitative imprevedibili. Così che viene falsata la stessa causa del potere attribuito dalla legge;
consistente nel provvedere in ipotesi di attuale "grave necessità pubblica" e non per trovare soluzioni a situazioni imprevedibili che si verificheranno
in futuro.
Quanto ai provvedimenti emessi dall’amministrazione statale, successivi all’ordinanza impugnata, essi non influiscono sulla legittimità della stessa
che va valutata al momento della sua adozione e, anzi, rafforzano ulteriormente l’insussistenza di una situazione di emergenza in quel momento.
Di qui l’illegittimità dell’ordinanza sindacale, che ha disposto la requisizione di alloggi, per le censure dedotte al primo motivo di entrambi i ricorsi
di primo grado e l’imputabilità al Comune che l’ha adottata, con la sua conseguente legittimazione passiva nel giudizio di primo grado. Infatti, le
conseguenze di un provvedimento emesso dal sindaco, ai sensi dell’art. 7 della l. n. 2248/1865, all. E, ma al di là delle ipotesi che consentono al
medesimo di sostituirsi al prefetto nell’esercizio del potere di requisizione, non possono che ricadere sull’ente locale; il quale, tra l’altro, nella specie,
si è anche fatto carico del pagamento dell’indennità di requisizione provvedendo alla relativa liquidazione (con la deliberazione consiliare n.
207/2001).
5.2. Né quanto disposto dall’art. 35 del d.lgs. n. 77/1995 (dal titolo "Regole per l'assunzione di impegni e per l'effettuazione di spese"), né la
deliberazione consiliare n. 207/2001, che non andava impugnata, costituiscono ostacolo alla possibilità, da parte del danneggiato, di conseguire, nei
confronti del Comune danneggiante, il risarcimento per fatto illecito ai sensi dell’art. 2043 del c.c. derivante dall’illegittimo esercizio del potere (di
requisizione); qualora, oltre agli altri presupposti richiesti dalla norma medesima, il pregiudizio subito superi, in valore, l’entità dell’indennizzo
liquidato e corrisposto dall’ente locale per l’occupazione degli alloggi di cui trattasi. Così che il Comune, per la sola adozione della detta
deliberazione, non ha acquisto alcuna inimputabilità né, tanto meno, ha perduto la legittimazione passiva.
5.3. Va ritenuta l’ammissibilità della domanda di risarcimento dei danni proposta da Villa Heloise s.p.a. con ricorso per motivi aggiunti, notificato
successivamente al ricorso originario.
La domanda risarcitoria può essere proposta anche nel corso del giudizio per l'annullamento dell'atto che ha causato il danno, purché con atto
notificato alla controparte (e non con semplice memoria depositata) nel rispetto dei principi di difesa e del contraddittorio. La questione risarcitoria,
infatti, costituendo sviluppo della domanda originaria, può essere ricondotta allo schema dei motivi aggiunti (Cons. Stato, sez. VI, 9 maggio 2006, n.
2556 e 26 marzo 2002, n. 1699; Cons. giust. amm. Sicilia, sez. giurisd., 7 novembre 2002 , n. 606).
5.4. Quanto alla posizione processuale del Banco di Sicilia s.p.a., l’adunanza plenaria ritiene sia l’ammissibilità dell’intervento ad adiuvandum
spiegato nel giudizio conclusosi con la sentenza del primo giudice n. 853/2003 (a seguito del ricorso proposto da Villa Heloise s.p.a.) sia la sua
legittimazione al ricorso poi deciso con la sentenza n. 854/2003.
La circostanza per cui la banca era titolare di crediti nei confronti di Villa Heloise s.p.a. garantiti da ipoteche sugli alloggi requisiti legittimava la
stessa sia a intervenire nel giudizio instaurato dal proprio debitore, supportandone le relative ragioni, sia a instaurare azione autonoma. Ciò in
considerazione dei possibili effetti pregiudizievoli sugli immobili oggetto di garanzia causati da un provvedimento di requisizione (disposto, tra
l’altro, per dare alloggio agli sfrattati) e indipendentemente dal pagamento delle indennità conseguenti all’occupazione; le quali possono non coprire
eventuali danni ulteriori e maggiori arrecati agli immobili.
Quanto poi all’impossibilità di fare valere con un intervento ad adiuvandum una posizione giuridica autonoma, l’adunanza plenaria rileva anche il
difetto di interesse al riguardo del Comune, a causa dell’autonomo ricorso proposto in primo grado dal Banco di Sicilia s.p.a..
L’adunanza plenaria rileva, infine, che il primo giudice, con la sentenza n. 853/2003, diversamente da quanto affermato dal Comune appellante, non
ha ritenuto l’ammissibilità della domanda del Banco di Sicilia s.p.a. di risarcimento dei danni subiti in conseguenza dell’ordinanza impugnata.
5.5. Con riguardo alla condanna del Comune di Palermo, disposta dal primo giudice, a risarcire i danni subiti da Villa Heloise s.p.a., per il periodo di
durata annuale della requisizione, l’adunanza plenaria ritiene che:
a) la ricorrente abbia dato prova sufficiente dell’esistenza di danni risarcibili e della loro derivazione dall’ordinanza impugnata, depositando, tra
l’altro, anche una relazione tecnica, con allegata documentazione fotografica, illustrativa dello stato degli immobili;
b) il primo giudice abbia accertato la sussistenza di tutti i presupposti per la configurazione del risarcimento per fatto illecito ai sensi dell’art. 2043
del c.c.;
c) come già osservato, il pagamento dell’indennità di occupazione non esclude la sussistenza di altri danni risarcibili, conseguenti, nella specie, allo
stato di degrado e di incuria in cui si trovano gli alloggi di cui trattasi e ai danneggiamenti dagli stessi subiti;
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d) i criteri di stima fissati dal primo giudice non siano né generici né arbitrari, basandosi, invece, sul deprezzamento degli immobili occupati, sui
danni subiti dagli stessi e sulle "maggiori somme dovute dalla società ricorrente all’istituto di credito interveniente a titolo di interessi maturati"; il
che non vuol dire altro che considerare il mancato godimento degli immobili da parte della società proprietaria, connesso alla perdita di eventuali
diverse occasioni di loro sfruttamento economico (per vendita e/o locazione degli stessi, tenuto conto sempre dell’indennità percepita).
6.1. I ricorsi presentati da Island Finance 2 (Icr7) s.r.l. (in appello principale, e in appello principale in forma di appello incidentale nel giudizio
relativo al secondo ricorso in appello principale del Comune di Palermo) sono infondati con riguardo alla domanda di risarcimento dei danni subiti
nel periodo di dodici mesi previsto dall’ordinanza di requisizione; periodo solo per il quale il primo giudice ha ritenuto la propria giurisdizione.
Va rilevato, in primo luogo, che, una volta che Island Finance 2 (Icr7) s.r.l. si è resa cessionaria (dopo l’ordinanza impugnata ma prima della
pubblicazione delle sentenze appellate) del credito vantato dal Banco di Sicilia s.p.a. e dell’annessa garanzia ipotecaria nei confronti di Villa Heloise
s.p.a. (situazioni tutelate dalla banca attraverso il ricorso di primo grado), essa è legittimata ad agire e a resistere, in luogo del cedente e a difesa delle
medesime ragioni creditorie. Infatti, ai sensi dell’art. 111, comma ultimo, del c.p.c., la sentenza pronunciata contro l’alienante spiega sempre i suoi
effetti anche contro il successore a titolo particolare ed è impugnabile pure da lui.
Inoltre, i gravami proposti da Island Finance 2 (Icr7) s.r.l. non andavano notificati al Banco di Sicilia s.p.a., che non è parte necessaria del giudizio di
appello ma parte (parzialmente) soccombente in primo grado e che, in quanto tale, non può integrare il "thema decidendum" una volta decorsi i
termini per proporre gravame autonomo (Cons. Stato, ad. plen., 24 marzo 2004, n. 7). E comunque Island Finance 2 (Icr7) s.r.l., avendo acquisito il
credito del Banco di Sicilia s.p.a., è subentrata nella medesima posizione di quest’ultima che, conseguentemente, non ha più interesse sia alla
domanda impugnatoria che a quella risarcitoria.
6.2. Banco di Sicilia s.p.a. con il ricorso di primo grado si era limitata a chiedere la condanna dell’amministrazione comunale "al risarcimento del
danno subito…in termini di lucro cessante e di danno emergente, adottando ogni conseguente statuizione". Poi, con memoria depositata il 28 marzo
2003, aveva insistito sul degrado degli immobili e sulla "vulnerazione del loro valore commerciale". Il che avrebbe pregiudicato le garanzie
ipotecarie acquisite, nonché "la concreta possibilità della società debitrice di procedere e concludere l’attività liquidatoria, finendo per limitare
fortemente la possibilità di recupero dell’ingente credito del Banco di Sicilia s.p.a.". E aveva aggiunto:
a) che l’ordinanza impugnata e il persistere della requisizione hanno precluso alla banca la possibilità di procedere esecutivamente sugli immobili di
cui trattasi;
b) l’esistenza di danni agli immobili;
c) la rilevante menomazione del valore di garanzia dell’intero complesso finanziato;
d) che il danno emergente venga determinato in misura percentuale non inferiore al 30% rispetto al valore di perizia degli immobili stessi (euro
6.197.482,78 su euro 20.658.275,96) e il lucro cessante rapportato al mancato recupero del credito, o comunque in misura equitativa.
L’adunanza plenaria ritiene che il primo giudice abbia rettamente considerato la domanda risarcitoria del tutto carente di prova, non avendo il Banco
di Sicilia s.p.a. dimostrato in primo grado i danni subiti dalla requisizione; i quali, non comportando l’ipoteca su di un bene il possesso dello stesso,
avrebbero potuto semmai conseguire a ratei di mutuo scaduti e non pagati nel periodo di requisizione e all’eventuale proposizione, senza esito, di
azioni di recupero di tali crediti.
Infatti, in sede di riconoscimento del diritto al risarcimento del danno da illegittimo esercizio del potere, la prova del danno deve essere rigorosa, il
ricorso alle presunzioni può essere ammesso solo quando derivi da fatti accertati univoci e concordanti, e la valutazione equitativa ai sensi dell’art.
1226 del c.c. è ammissibile per la determinazione dell’entità del danno e non per la prova della sua esistenza (Cons. Stato, sez. IV, 20 novembre
2006, n. 6734). Al che consegue la reiezione della domanda di risarcimento danni non supportata da alcuna prova del pregiudizio effettivamente
subito (Cons. Stato, sez. IV, 7 settembre 2006, n. 5199 e 22 giugno 2006, n. 3885).
7.1. Sono fondati il ricorso in appello principale in forma di appello incidentale proposto da Villa Heloise s.p.a. nel giudizio relativo al primo ricorso
in appello principale del Comune di Palermo e, in parte, i ricorsi presentati da Island Finance 2 (Icr7) s.r.l. (in appello principale, e in appello
principale in forma di appello incidentale nel giudizio relativo al secondo ricorso in appello principale del Comune di Palermo). Ciò in quanto va
dichiarata la giurisdizione del giudice amministrativo sulle domande di condanna del Comune di Palermo al risarcimento dei danni subiti con
riguardo al periodo successivo alla scadenza del termine di dodici mesi previsto dall’ordinanza di requisizione.
L’adunanza plenaria ritiene, innanzitutto, che la controversia per cui è causa, avente a oggetto l’impugnazione di un provvedimento di requisizione in
uso di immobile da destinare al temporaneo soddisfacimento di una situazione di emergenza abitativa, con destinazione degli alloggi a temporanea
abitazione di nuclei familiari destinatari di provvedimenti di sfratto esecutivo, emesso ai sensi dell’art. 7 della l. n. 2248/1865, all. E, non sembri
rientrare nella materia dell’urbanistica e dell’edilizia; e, quindi, non possa essere devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo
prevista dall’art. 34, comma 1, del d.lgs. n. 80/1998, come sostituito dall’art. 7, comma 1, lett. b), della l. n. 205/2000.
E’ vero che, ai sensi del comma 2 del citato art. 34 e ai limitati effetti di giurisdizione, alla materia urbanistica viene attribuita una definizione lata,
prevedendosi che essa concerne "tutti gli aspetti dell’uso del territorio" e che nella stessa rientrano i provvedimenti di esproprio e di occupazione
d’urgenza per la realizzazione di opere pubbliche; atti che sono una "species" del più ampio "genus" dei provvedimenti ablatori nei quali viene fatta
rientrare la requisizione in uso.
Secondo la Cassazione (Cass. civ., sez. un., 13 gennaio 2005, n. 463) - ai sensi dell'art. 34 del d.lgs. n. 80/1998 (nel testo novellato dall'art. 7 della l.
n. 205/2000 e inciso dalla sentenza della Corte cost. 6 luglio 2004, n. 204) - la domanda di restituzione del bene requisito in uso (nella specie, per
essere adibito dal Comune ad alloggi per i terremotati), basata sulla cessazione delle esigenze che avevano determinato la requisizione stessa, rientra
nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, atteso che essa ha per oggetto un provvedimento dell’amministrazione, espressione di un
potere autoritativo, riguardante l'uso del territorio. Come pure è devoluta al giudice amministrativo la domanda di risarcimento del danno da
ingiustificata detenzione del detto bene, in quanto, in base al comma 1 dell'art. 35 del d.lgs. n. 80/1998, tale giudice, nelle controversie devolute alla
sua giurisdizione esclusiva, dispone il risarcimento del danno ingiusto. Appartiene, invece, alla giurisdizione del giudice ordinario la domanda di
condanna dell’amministrazione al pagamento dell'indennità di requisizione, poiché, ai sensi del comma 3, lett. b), del citato art. 34, "nulla è innovato
in ordine…alla giurisdizione del giudice ordinario per le controversie riguardanti la determinazione e la corresponsione delle indennità in
conseguenza dell'adozione di atti di natura espropriativa o ablativa"; rientrando la requisizione tra gli atti di tale natura.
L’adunanza plenaria osserva, tuttavia, che la requisizione, a differenza dell’occupazione d’urgenza preordinata all’esproprio, tende a soddisfare
bisogni transitori non connessi all’uso del territorio e non si risolve nella successiva ablazione del bene.
Inoltre, la requisizione è stata disciplinata in maniera autonoma rispetto alla materia espropriativa. La prima ha trovato regolamentazione nell’art. 7
della l. n. 2248/1865, all. E, ("Legge sul contenzioso amministrativo") e nel r.d. 18 agosto 1940, n. 1741 ("Norme per la disciplina delle
requisizioni"). Mentre l’intera disciplina della seconda era contenuta nella l. 25 giugno 1865, n. 2359 ("Espropriazioni per causa di utilità pubblica"),
poi abrogata dal d.p.r. 8 giugno 2001 n. 327 ("Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica
utilità"); nei quali non vi è alcuna norma in tema di requisizione.
Infine, l’art. 34 del d.lgs. n. 80/1998, costituendo norma di tipo eccezionale, non può essere oggetto di interpretazione né analogica né estensiva.
7.2. Ma anche esclusa la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, la controversia rientrerebbe pur sempre nella giurisdizione (generale di
legittimità) dello stesso.
Il giudice amministrativo è diventato il giudice del risarcimento del danno arrecato dall’illegittimo esercizio della funzione pubblica, innanzi al quale
sono concentrate sia la domanda annullatoria che quella risarcitoria. Ciò a seguito dell’art. 7 della l. n. 205/2000, il quale, sostituendo il primo
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periodo del comma 3 dell’art. 7 della l. 6 dicembre 1971, n. 1034, ha previsto che "Il tribunale amministrativo regionale, nell'àmbito della sua
giurisdizione, conosce anche di tutte le questioni relative all'eventuale risarcimento del danno, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, e
agli altri diritti patrimoniali consequenziali".
Nella fattispecie per cui è causa è accaduto che il Comune si è immesso nella detenzione di beni privati in virtù di un provvedimento di requisizione,
manifestazione di esercizio di potere, che riconosceva alla requisizione "validità temporanea" di dodici mesi. Una volta scaduto il termine i beni non
sono stati riconsegnati alla società proprietaria, avendo il Comune continuato a persistere nell’occupazione.
La detenzione, avvenuta in virtù del provvedimento, è continuata con le stesse modalità e i medesimi contenuti di prima. Tanto è vero che il Comune
risulta avere corrisposto, sino al 31 dicembre 2002, un’indennità per l’utilizzo dei locali in questione; sia per il periodo iniziale di dodici mesi sia per
il periodo successivo e sempre in misura corrispondente all’importo dell’indennità di requisizione, a sua volta definita, con la citata deliberazione
consiliare n. 207/2001, applicando il valore di mercato (si veda quanto esposto dal Comune di Palermo alle pagine 7 e 15 del primo ricorso in
appello principale).
Ciò che arreca danno è la complessiva condotta in esecuzione del provvedimento impugnato, atteso che anche la condotta successiva alla scadenza
del termine di dodici mesi trova occasione, collegamento e sviluppo nel medesimo provvedimento, come emerge con chiarezza dalle premesse dello
stesso riportate al paragrafo 5.1. della presente decisione. Così che l’illecito consegue pur sempre all’adozione del provvedimento illegittimo da parte
dell’amministrazione, anzi avviene proprio in virtù dello stesso; e, collegandosi la tutela risarcitoria a quella della situazione soggettiva incisa dal
provvedimento amministrativo illegittimo, si rapporta alla lesione di una situazione di interesse legittimo che fa da contraltare all’esercizio del
potere.
Inoltre, una volta annullato il provvedimento impugnato a seguito dell’accertata illegittimità del potere, la situazione di abusiva occupazione non
resta limitata al periodo successivo ai dodici mesi ma si verifica dall’inizio, dato che, a causa dell’effetto retroattivo dell’annullamento
giurisdizionale, il titolo autorizzativo all’occupazione è come se non fosse mai intervenuto. Tra l’altro, nella specie, la situazione di abusiva
occupazione si era verificata già nel corso del giudizio di primo grado, avendo il Tribunale amministrativo regionale della Sicilia, sede di Palermo,
sezione seconda, con le ordinanze 1° aprile 1999, nn. 618 e 619, sospeso il provvedimento impugnato a meno di due mesi dalla sua esecuzione. Il
fatto illecito, quindi, si concretizza astrattamente e unitariamente in una situazione di abusiva occupazione che si verifica sin dal momento in cui il
Comune, per effetto dell’ordinanza di requisizione, si è immesso nella detenzione dei beni e i danni conseguono pur sempre all’esercizio del potere.
Si tratta di situazione unitaria e con riguardo alla quale era stata presentata, da ciascuna delle società ricorrenti in primo grado, una domanda
annullatoria e un’unica domanda risarcitoria per tutti i danni conseguenti all’illegittima apprensione del bene. La circostanza per cui la presente
controversia ha a oggetto in via primaria la contestazione del provvedimento di requisizione, la differenzia da quella esaminata dalla Cassazione
(civ., sez. un., 3 luglio 2006, n. 15203), la quale, con riferimento a una domanda di restituzione del terreno requisito e di risarcimento del danno per il
protrarsi dell'occupazione, ha ritenuto la giurisdizione del giudice ordinario ove, per la scadenza del termine stabilito dall'ordinanza di requisizione,
essa sia divenuta inefficace; ma proprio perché il provvedimento di requisizione, non essendo stato impugnato, non era in contestazione e la
controversia non aveva a oggetto atti o provvedimenti amministrativi.
Esigenze di concentrazione innanzi a un unico giudice dell’intera tutela del cittadino avverso le modalità di esercizio della funzione pubblica oltre
che di effettività della tutela giurisdizionale (costituzionalmente garantite: artt. 24 e 111 della cost.), su cui si fonda l’attribuzione alla giurisdizione
del giudice amministrativo della tutela risarcitoria (evidenziate da Corte cost. n. 191/2006 e da Cass. civ., sez. un., 31 marzo 2005, n. 6745 e 22
luglio 1999, n. 500), inducono a non "spezzettare" la domanda risarcitoria - unica, fondata su medesimi presupposti e conseguente a fattispecie
unitaria di illecito - attribuendola a due giudici diversi con riguardo solo a differenti periodi temporali. Diversamente opinando si penalizzerebbe il
soggetto leso dal provvedimento limitativo, il quale dovrebbe adire il giudice amministrativo per conseguire l’annullamento dell’ordinanza di
requisizione e i danni contestuali, nonché il giudice ordinario per chiedere il risarcimento conseguente alla successiva detenzione illecita.
L’adunanza plenaria ritiene che quanto statuito dalla stessa sia anche in sintonia con la recente evoluzione giurisprudenziale e, in particolare, con le
seguenti affermazioni:
a) <<il potere riconosciuto al giudice amministrativo di disporre, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno
ingiusto non costituisce sotto alcun profilo una "nuova materia" attribuita alla sua giurisdizione, bensì uno strumento di tutela ulteriore, rispetto a
quello classico demolitorio (e/o conformativo), da utilizzare per rendere giustizia al cittadino nei confronti della pubblica amministrazione>> (Corte
cost. n. 204/2004);
b) la giurisdizione del giudice amministrativo resta in ogni caso delimitata dal collegamento con l'esercizio in concreto del potere amministrativo
secondo le forme tipiche previste dall'ordinamento: ciò sia nella giurisdizione esclusiva che nella giurisdizione di annullamento (Corte cost. n.
204/2004);
c) "al precedente sistema che, in considerazione della natura intrinseca di diritto soggettivo della situazione giuridica conseguente all'annullamento
del provvedimento amministrativo, attribuiva al giudice ordinario le controversie sul risarcimento del danno conseguente all'annullamento di atti
amministrativi (così l’art. 35, comma 5, del d.lgs. n. 80 del 1998, come modificato dall’art. 7, lettera c della legge n. 205 del 2000), il legislatore ha
sostituito (appunto con l'art. 35 cit.) un sistema che riconosce esclusivamente al giudice naturale della legittimità dell'esercizio della funzione
pubblica poteri idonei ad assicurare piena tutela, e quindi anche il potere di risarcire, sia per equivalente sia in forma specifica, il danno sofferto per
l'illegittimo esercizio della funzione" (Corte cost. n. 191/2006);
d) "la tutela giurisdizionale contro l'agire illegittimo della pubblica amministrazione spetta al giudice ordinario, quante volte il diritto del privato non
sopporti compressione per effetto di un potere esercitato in modo illegittimo o, se lo sopporti, quante volte l'azione della pubblica amministrazione
non trovi rispondenza in un precedente esercizio del potere, che sia riconoscibile come tale, perchè a sua volta deliberato nei modi ed in presenza dei
requisiti richiesti per valere come atto o provvedimento e non come mera via di fatto". Non si verifica il collegamento con l’esercizio del potere
"quando l'amministrazione agisca in posizione di parità con i soggetti privati, ovvero quando l'operare del soggetto pubblico sia ascrivibile a mera
attività materiale, con la consapevolezza che si verte in questo ambito ogni volta che l'esercizio del potere non sia riconoscibile neppure come
indiretto ascendente della vicenda" (Cass. civ., sez. un., 15 giugno 2006, n. 13911, nonché 13 giugno 2006, nn. 13660 e 13659);
e) il venire meno, per annullamento giurisdizionale, di atti che sono espressione di una posizione di autorità, non rende rilevanti solo come
comportamenti gli effetti "medio tempore" prodottisi in loro esecuzione, ma determina la concentrazione della cognizione dinanzi allo stesso giudice
amministrativo, il quale verifica il corretto esercizio del potere (Cons. Stato, ad. plen., n. 2/2006);
f) va considerata come controversia riconducibile all'esplicazione del pubblico potere qualunque lite suscitata da lesioni del diritto di proprietà
provocate dall’esecuzione di provvedimenti autoritativi degradatori, venuti meno o per annullamento o per sopraggiunta inefficacia (Cons. Stato, ad.
plen., n. 4/2005).
Da ultimo, non assume rilevanza la circostanza, rilevata dal Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana, secondo cui Villa Heloise
s.p.a., con atto di citazione in data 3 marzo 2004, ha agito innanzi al giudice ordinario per conseguire i danni derivanti dall’occupazione degli
immobili nel periodo successivo alla scadenza della requisizione; trattandosi di strategia processuale che di per sé non incide sulla determinazione
del giudice competente.
8. In conclusione, i ricorsi in appello principale proposti dal Comune di Palermo devono essere respinti. Mentre vanno accolti, del tutto, il ricorso in
appello principale in forma di appello incidentale proposto da Villa Heloise s.p.a. nel giudizio relativo al primo ricorso in appello principale del
45
Comune di Palermo e, in parte, i ricorsi presentati da Island Finance 2 (Icr7) s.r.l. (in appello principale, e in appello principale in forma di appello
incidentale nel giudizio relativo al secondo ricorso in appello principale del Comune di Palermo).
Le sentenze appellate devono essere riformate nella parte in cui hanno dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo e la
giurisdizione del giudice ordinario, con riguardo alle domande risarcitorie per il periodo successivo alla scadenza dei dodici mesi previsti
nell’ordinanza impugnata; periodo relativamente al quale va dichiarata la giurisdizione del giudice amministrativo. Per l’effetto, ai sensi dell’art. 35,
commi 1 e 2, della l. n. 1034/1971, la controversia deve essere rinviata al Tribunale amministrativo regionale della Sicilia, sede di Palermo.
Le spese di lite, sussistendo giusti motivi, possono essere compensate per la parte definita, mentre, per il resto, vanno rimesse al prosieguo del
giudizio.
Per questi motivi
il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (adunanza plenaria):
a) respinge i ricorsi in appello principale del Comune di Palermo;
b) accoglie il ricorso in appello principale in forma di appello incidentale di Villa Heloise s.p.a. nel giudizio relativo al primo ricorso in appello
principale del Comune di Palermo;
c) accoglie in parte i ricorsi di Island Finance 2 (Icr7) s.r.l. (in appello principale, e in appello principale in forma di appello incidentale nel giudizio
relativo al secondo ricorso in appello principale del Comune di Palermo);
d) con riguardo alle domande risarcitorie per il periodo successivo alla scadenza dei dodici mesi previsti nell’ordinanza impugnata, riforma le
sentenze appellate nella parte in cui hanno dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo e la giurisdizione del giudice ordinario,
dichiara, conseguentemente, la giurisdizione del giudice amministrativo e rinvia la controversia al Tribunale amministrativo regionale della Sicilia,
sede di Palermo;
e) compensa le spese di lite per la parte definita e, per il resto, le rimette al prosieguo del giudizio;
f) ordina che la presente decisione sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma il 25 giugno 2007 dal Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale (adunanza plenaria), in camera di consiglio, con l’intervento
dei signori
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6) RIPARTO DI GIURISDIZIONE TRA G.A. E COMMISSIONE TRIBUTARIE: IN PARTICOLARE LA GIURISDIZIONE IN
MATERIA DI PROVVEDIMENTI DI AUTOTUTELA TRIBUTARIA
Cassazione civile , sez. un., 27 marzo 2007 , n. 7388
In tema di contenzioso tributario, l'art. 12, comma 2, l. 28 dicembre 2001 n. 448, configurando la giurisdizione tributaria come giurisdizione
a carattere generale, che si radica in base alla materia, indipendentemente dalla specie dell'atto impugnato, comporta la devoluzione alle
commissioni tributarie anche delle controversie relative agli atti di esercizio dell'autotutela tributaria, non assumendo alcun rilievo la
natura discrezionale di tali provvedimenti, in quanto l'art. 103 cost. non prevede una riserva assoluta di giurisdizione in favore del g.a. per
la tutela degli interessi legittimi, ferma restando la necessità di una verifica da parte del giudice tributario in ordine alla riconducibilità
dell'atto impugnato alle categorie indicate dall'art. 19 d.lg. 31 dicembre 1992 n. 546, che non attiene alla giurisdizione, ma alla proponibilità
della domanda.
Con ricorso notificato il 3 giugno 2003 L.G. impugnava dinanzi alla commissione tributaria di primo grado di Trento il provvedimento, emesso dal
direttore dell'Agenzia delle Entrate - ufficio di Borgo Valsugana il 28 marzo 2003, col quale veniva negato l'annullamento in autotutela dell'avviso di
liquidazione, e la cartella di pagamento emessa dal concessionario della riscossione per omesso pagamento di tale avviso, divenuto definitivo, atti
concernenti imposta di registro, con irrogazione di sanzioni, a seguito di revoca dei benefici fiscali accordati all'acquisto di terreni agricoli da parte di
imprenditori agricoli. A sostegno del ricorso deduceva violazione del D.L. n. 564 del 1997 e delle norme che regolavano l'agevolazione revocata,
eccesso di potere per difetto d'istruzione e difetto di motivazione.
Con sentenza dell'11 febbraio 2004 la commissione adita dichiarava il proprio difetto di giurisdizione, osservando che l'esercizio del potere di
autotutela, secondo il D.P.R. 27 marzo 1992, n. 287, art. 68 e il D.M. 11 febbraio 1997, n. 37, rientrava nell'ambito della discrezionalità
amministrativa e non era ricompreso tra le ipotesi di atti impugnabili previste dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19.
Per quanto attiene, specificamente, alla cartella di pagamento, la commissione rilevava che, nella specie, tale atto non era stato impugnato dal
ricorrente per vizi propri, ma del precedente atto con cui veniva notificata la pretesa fiscale, per cui, non essendo stato tale atto impugnato, il ricorso
era, sul punto, inammissibile.
1.2. Il L. proponeva, altresì, ricorso al tribunale di giustizia amministrativa del Trentino Alto Adige, il quale, con sentenza del 25 ottobre 2004,
dichiarava inammissibile il ricorso per difetto di giurisdizione.
Il tribunale premetteva che il provvedimento di revoca dell'agevolazione, emesso con l'avviso di liquidazione, era fondato sul parere negativo emesso
dalla Provincia Autonoma di Trento in data 17 luglio 2002. Tale parere era stato, poi, modificato dall'ufficio competente della Provincia in senso
favorevole al contribuente con un nuovo parere in data 19 febbraio 2003, rilevandosi che la limitazione dell'apporto lavorativo del L. era giustificata
dalle sue condizioni di invalido civile, per cui l'acquisto di terreni poteva essere considerato come ampliamento di proprietà di coltivatore diretto.
Essendo trascorso il termine per impugnare l'avviso di liquidazione, il L. presentava all'Agenzia delle Entrate-ufficio di Borgo Valsugana, istanza di
annullamento in via di autotutela, producendo il nuovo parere.
Secondo il tribunale, a seguito della L. 28 dicembre 2001, n. 448, art. 12, comma 2, che, modificando il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 2, ha attribuito
alle commissioni tributarie tutte le controversie relative a tributi di ogni genere e specie, anche la presente controversia doveva ritenersi devoluta al
giudice tributario. Nella specie, infatti, si discuteva sull'esistenza dei presupposti per l'imposizione tributaria, e in particolare sull'esistenza dei
presupposti per beneficiare del regime agevolativo, e cioè dello status di coltivatore diretto.
Il L. proponeva, quindi, ricorso per cassazione ex art. 362 cod. proc. civ., comma 2, denunciando un conflitto negativo di giurisdizione.
Le Amministrazioni Finanziarie resistono con controricorso, sostenendo che la giurisdizione appartiene al giudice tributario.
Richiamando i principi affermati dalle Sezioni Unite di questa Corte nella sentenza n. 16776/2005, l'Avvocatura sostiene che, dopo l'attribuzione al
giudice tributario di tutte le controversie concernenti tributi, a tale giudice sono sottratte solo le controversie che non involgono direttamente un
rapporto tributario, come quando viene impugnato un atto di carattere generale, o quando l'Amministrazione finanziaria ha riconosciuto dovuto un
rimborso. La giurisdizione tributaria è divenuta, orami, una giurisdizione di carattere generale, unica, autonoma ed esclusiva.
Errato sarebbe anche l'argomento secondo cui gli atti di esercizio del potere di autotutela non sono previsti tra quelli impugnabili elencati nel D.Lgs.
n. 546 del 1992, art. 19. Secondo la citata sentenza delle Sezioni Unite, l'allargamento della giurisdizione tributaria comporta, come conseguenza, un
allargamento degli stretti confini di tale norma, necessario per evitare che il nuovo testo del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 2, resti lettera morta.
Inizio documento
Diritto
3.1. Le Sezioni Unite ritengono che la controversia debba essere devoluta alla giurisdizione delle commissioni tributarie.
Il Collegio aderisce ai principi affermati dalle Sezioni Unite nella sentenza 16778/05, nella quale è stato ritenuto che l'attribuzione al giudice
tributario, da parte della L. n. 448 del 2001, art. 12, comma 2, di tutte le controversie in materia di tributi di qualunque genere e specie comporta che
anche quelle relative agli atti di esercizio dell'autotutela tributaria, come quello nella specie impugnato, in quanto comunque incidenti sul rapporto
obbligatorio tributario, devono ritenersi devoluti al giudice la cui giurisdizione è radicata in base alla materia (in precedenza su alcuni tributi,
attualmente su qualunque tributo), indipendentemente dalla specie di atto impugnato. Pertanto, la natura discrezionale dell'esercizio dell'autotutela
tributaria non comporta la sottrazione delle controversie sui relativi atti al giudice naturale, la cui giurisdizione è ora definita mediante una clausola
generale, per il solo fatto che gli atti di cui tale giudice si occupa sono vincolati. L'attribuzione al giudice tributario di una controversia che può
concernere la lesione di interessi legittimi non incontra un limite nell'art. 103 Cost. Infatti, secondo una costante giurisprudenza costituzionale, non
esiste una riserva assoluta di giurisdizione sugli interessi legittimi a favore del giudice amministrativo, potendo il legislatore attribuire la relativa
tutela ad altri giudici (da ultime, ordinanze n. 165 e 414 del 2001 e sentenza n. 240 del 2006).
Con la conseguenza che il sindacato del giudice (dovrà riguardare, non solo l'esistenza dell'obbligazione tributaria (ove l'atto di esercizio del potere
di auto-tutela contenga una tale verifica), ma prima di tutto il corretto esercizio del potere discrezionale dell'amministrazione, nei limiti e nei modi in
cui l'esercizio di tale potere può essere suscettibile di controllo giurisdizionale, che non può mai comportare la sostituzione del giudice
all'amministrazione in valutazioni discrezionali, né - per i limiti posti dalla L. 20 marzo 1865, n. 2248, art. 4, All. E - l'adozione dell'atto di autotutela
da parte del giudice tributario.
L'invasione, da parte del giudice, della sfera discrezionale propria dell'esercizio dell'autotutela comporterebbe, infatti, un superamento dei limiti
esterni della giurisdizione attribuita alle commissioni tributarie. Sui limiti del sindacato giurisdizionale sugli atti di autotutela, il cui superamento
comporta un'invasione in una sfera estranea a quella della giurisdizione tributaria, le Sezioni Unite ritengono utile il riferimento ai principi affermati
dalla giurisprudenza amministrativa (ex plurimis, Consiglio di Stato, sentenze n. 6758 e 7287 del 2004), in quanto, in base alla disciplina contenuta
D.L. 30 settembre 1994, n. 564, art. 2 quater, nel convertito con modificazioni nella L. 30 novembre 1994, n. 656, e nel regolamento di esecuzione,
approvato con D.M. 11 febbraio 1997, n. 37, i poteri di annullamento d'ufficio e di revoca dell'Amministrazione finanziaria possono essere esercitati
soltanto nel perseguimento di interessi pubblici. L'art. 3 del regolamento stabilisce che, nell'esercizio di tali poteri, deve essere data priorità "alle
fattispecie di rilevante interesse generale e, fra queste ultime, a quelle per le quali sia in atto o vi sia il rischio di un vasto contenzioso".
3.2. E' quindi evidente che l'esercizio del potere in questione, che non richiede alcuna istanza di parte (art. 2 del regolamento), non costituisce un
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mezzo di tutela del contribuente, sostitutivo dei rimedi giurisdizionali che non siano stati esperiti, anche se lo stesso finisce con l'incidere sul
rapporto tributario e, quindi, sulla posizione giuridica del contribuente.
Dai principi sopra enunciati consegue, inoltre, che nel giudizio instaurato contro il mero, ed esplicito, rifiuto di esercizio dell'autotutela può
esercitarsi un sindacato - nelle forme ammesse sugli atti discrezionali - soltanto sulla legittimità dei rifiuto, e non sulla fondatezza della pretesa
tributaria, sindacato che costituirebbe un'indebita sostituzione del giudice nell'attività amministrativa. Ove l'atto di rifiuto dell'annullamento d'ufficio
contenga una conferma della fondatezza della pretesa tributaria, e tale fondatezza sia esclusa dal giudice, l'Amministrazione finanziaria dovrà
adeguarsi a tale pronuncia. In difetto potrà essere esperito il rimedio del ricorso in ottemperanza di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 70 con
l'avvertenza che tale norma, a differenza di quanto previsto per l'analogo rimedio dinanzi al giudice amministrativo ex art. 27, n. 4, del t.u. sul
Consiglio di Stato (R.D. 26 giugno 1924, n. 1054), non attribuisce alle commissioni tributarie una giurisdizione estesa al merito.
Il carattere discrezionale del ricorso all'autotutela comporta, altresì, l'inapplicabilità dell'istituto del silenzio-rifiuto, non esistendo, all'epoca dell'atto
impugnato, alcuna previsione normativa specifica in materia.
3.3. Per quanto attiene alla problematica della riconducibilità dell'atto impugnato alle categorie indicate dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 19,
del sulla quale la citata sentenza delle Sezioni Unite ha fornito alcune indicazioni, tale problematica, come affermato da una consolidata
giurisprudenza della Corte (da ultima, Sez. Un., ord. n. 22245/06), non attiene alla giurisdizione, ma alla proponibilità della domanda. Sarà, quindi,
compito della commissione tributaria verificare se l'atto in contestazione possa ritenersi impugnabile nell'ambito delle categorie individuate dall'art.
19 del d.l.vo n. 546 del 1992. In proposito le Sezioni Unite non possono non rilevare che la mancata inclusione degli atti in contestazione nel
catalogo contenuto in detto articolo comporterebbe una lacuna di tutela giurisdizionale, in violazione dei principi contenuti negli articoli 24 e 113
Cost. Infatti, il carattere esclusivo della giurisdizione tributaria non consente che atti non impugnabili in tale sede siano devoluti, in via residuale, ad
altri giudici, secondo le ordinarie regole di riparto della giurisdizione (Sez. Un., ord. N. 13793/04).
In conclusione, il conflitto deve essere risolto dichiarandosi la giurisdizione del giudice tributario, con la conseguente cassazione della sentenza della
commissione tributaria di primo grado di Trento, alla quale va rimessa la presente causa.
La novità della questione e l'inesistenza di un indirizzo giurisprudenziale consolidato in materia giustificano una pronuncia di compensazione delle
spese.
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7) GIURISDIZIONE SULLE CONTROVERSIE IN MATERIA DI TARSU
Cassazione civile , sez. un., 15 febbraio 2006 , n. 3274
A seguito della trasformazione della tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani in tariffa, disposta dall'art. 49 d.lg. 5 febbraio 1997 n.
22, le controversie aventi ad oggetto la debenza del corrispettivo dovuto per il predetto servizio in base alla tariffa esulano sia dalla
giurisdizione delle commissioni tributarie , essendo venuta meno la natura tributaria della prestazione (almeno quando, come nella
fattispecie, la tariffa sia stata approvata), sia dalla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia di pubblici servizi, prevista
dall'art. 33, lett. e, d.lg. 31 marzo 1998 n. 80, come modificato dall'art. 7 l. 21 luglio 2000 n. 205, nel testo risultante dalla dichiarazione
d'incostituzionalità pronunciata dalla Corte cost. con sentenza n. 204 del 2004, e sono quindi devolute alla giurisdizione del giudice
ordinario. La controversia, infatti, pur avendo ad oggetto una prestazione che si ricollega all'espletamento di un pubblico servizio, non
afferisce ad un rapporto di concessione né implica un sindacato sulla legittimità di un provvedimento amministrativo , in quanto l'obbligo di
pagamento sorge da presupposti interamente preregolati dalla legge, senza che siano riservati alla p.a. spazi di discrezionalità circa la
concreta individuazione dei soggetti obbligati, i presupposti oggettivi o il quantum del corrispettivo dovuto.
8) GIURISDIZIONE IN MATERIA DI COMPORTAMENTI ILLECITI DELL’AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA
Cassazione civile , sez. un., 04 gennaio 2007 , n. 15
Qualora la domanda di risarcimento dei danni sia basata su comportamenti illeciti tenuti dall'Amministrazione finanziaria dello Stato o di
altri enti impositori, la controversia, avendo ad oggetto una posizione sostanziale di diritto soggettivo del tutto indipendente dal rapporto
tributario, è devoluta alla cognizione dell'autorità giudiziaria ordinaria, non potendo sussumersi in una delle fattispecie tipizzate che, ai
sensi dell'art. 2 del d.lg. n. 546 del 1992, rientrano nella giurisdizione esclusiva delle commissioni tributarie; infatti, anche nel campo
tributario, l'attività della p.a. deve svolgersi nei limiti posti non solo dalla legge ma anche dalla norma primaria del "neminem laedere", per
cui è consentito al g.o. - al quale è pur sempre vietato stabilire se il potere discrezionale sia stato, o meno, opportunamente esercitato accertare se vi sia stato, da parte dell'Amministrazione, un comportamento colposo tale che, in violazione della suindicata norma primaria,
abbia determinato la violazione di un diritto soggettivo. (Nella specie, è stata dichiarata la giurisdizione del g.o. in ordine alla domanda con
cui l'attore aveva chiesto il risarcimento dei danni derivanti dalla notificazione di una cartella esattoriale relativa a tassa automobilistica
risultata non dovuta perché già pagata).
9) GIURISDIZIONE IN MATERIA DI VENDITA DI IMMOBILI PUBBLICI
Cassazione civile , sez. un., 12 marzo 2007 , n. 5593
La "cartolarizzazione" degli immobili appartenenti allo Stato e agli enti pubblici disciplinata dal d.l. 25 settembre 2001 n. 351, conv. nella l.
23 novembre 2001 n. 410, è compresa nel più vasto ambito delle "procedure di privatizzazione o di dismissione di imprese o beni pubblici",
indicato come possibile oggetto dei "giudizi davanti agli organi di giustizia amministrativa" dall'art. 23 bis l. 13 dicembre 1971 n. 1034,
introdotto dall'art. 4 l. 21 luglio 2000 n. 205, senza che ciò implichi che la cognizione di tutte le controversie relative sia riservata al giudice
amministrativo, atteso che la disposizione non contiene norme sulla giurisdizione, e perciò non modifica i normali criteri di riparto,
limitandosi a dettare particolari regole di procedura per giudizi che già competevano a quel giudice. Nondimeno, è significativo che con tale
disposizione si sia presupposto che la "materia" in esame rientri fra quelle in cui possono venire in questione non soltanto diritti soggettivi,
ma, in ipotesi, anche interessi legittimi. Ed invero, ai fini dell'individuazione della giurisdizione, per ciascuno dei segmenti in cui si
articolano le attività di "cartolarizzazione" - il Ministero dell'economia e delle finanze costituisce e promuove la costituzione di più società a
responsabilità limitata, aventi ad oggetto esclusivo, appunto, la "cartolarizzazione", alle quali vengono trasferiti a titolo oneroso i beni da
dismettere, previamente individuati dall'Agenzia del demanio; il relativo prezzo iniziale viene versato con i fondi che le società acquisiscono
mediante l'emissione di titoli o l'assunzione di finanziamenti; si provvede infine alla rivendita degli immobili - occorre verificare se sia
sottoposto a norme di diritto amministrativo oppure di diritto privato, sia pure eventualmente "speciale". Nella controversia di specie,
avente ad oggetto l'impugnazione, da parte della s.p.a. Sim 92, della deliberazione di esclusione dall'asta pubblica di un immobile non
residenziale, già di proprietà dell'Inps, posto in vendita, con numerosi altri, dal consorzio G1 Aste individuali, con la collaborazione della
s.p.a. Gabetti, per delega della s.r.l. Società cartolarizzazione immobili pubblici - Scip, rileva solamente il momento della "rivendita" degli
immobili, da effettuarsi, a norma dell'art. 3 del d.l. n. 351 del 2001, "al miglior offerente individuato con procedura competitiva, le cui
caratteristiche sono determinate dai decreti" ministeriali di attuazione, momento in ordine al quale deve verificarsi se la situazione giuridica
degli aspiranti all'acquisto abbia consistenza di diritto soggettivo o di interesse legittimo; ed in proposito, non è decisivo che tanto il
consorzio G1 che la Gabetti non abbiano natura di enti pubblici, né che i loro rapporti con la Scip siano regolati da un contratto di mandato
con rappresentanza di carattere privatistico, dovendosi piuttosto accertare se quest'ultima società fosse dotata, e lo fossero quindi i suoi
mandatari, di poteri pubblicistici verso gli aspiranti acquirenti, o si trovasse nei loro confronti in posizione paritaria. Quel che rileva, infatti,
è la natura delle finalità assegnate all'ente e delle norme che ne disciplinano il perseguimento: quanto alla prima, che la "cartolarizzazione"
sia stata disposta per uno specifico scopo di pubblico interesse di rilevante importanza si evince dalla consistenza e dalla funzione
dell'operazione, consistente in una generale manovra di "privatizzazione" destinata a contribuire efficacemente ad un rapido risanamento
dei conti pubblici; quanto alla seconda, le norme che regolano la "rivendita", di fonte primaria e secondaria, sebbene non rinviino alle
disposizioni della contabilità dello Stato, delineano comunque un procedimento sostanzialmente di "evidenza pubblica" per la scelta
dell'acquirente degli immobili non abitativi (che non sia titolare di diritto di prelazione). La "rivendita", dunque, nella fase precedente alla
conclusione del contratto, è sottoposta a norme di carattere pubblicistico, aventi di mira le finalità di interesse generale complessivamente
perseguite mediante la "cartolarizzazione", che attribuiscono alla società Scip, e per essa ai suoi mandatari, particolari poteri e facoltà, a
fronte dei quali la situazione giuridica dei partecipanti all'asta ha consistenza di interesse legittimo, il che comporta l'appartenenza delle
relative controversie alla giurisdizione del g.a..
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV - sentenza 4 febbraio 2005 n. 316 - Pres. Trotta, Est. Cacace - Consorzio G1 Aste Individuali ed altro (Avv.ti
Scanzano e Clarizia) c. Società Sim 92 Sviluppo Immobiliare s.p.a. (Avv.ti Ferrari e Quattrocchi), Ministero dell’Economia e delle Finanze (Avv.ra
Stato), INPS (Avv.ti Collina e De Ruvo), Gabetti s.p.a. (Avv. Loiacono Romagnoli) e Yucatan Prima s.n.c. (n.c.) – (dispone istruttoria in relazione
ad appello avverso T.A.R. Lazio - Roma, Sez. II, 19 aprile 2004, n. 3369).
49
Giurisdizione e competenza - Demanio e patrimonio - Controversie in materia di alienazione di beni pubblici - A seguito della
privatizzazione degli stessi mediante cartolarizzazione - Individuazione - Verifica dell’agire del gestore dell’asta pubblica, come soggetto
privato ovvero come Autorità - Necessità – Sussiste.
Al fine di acclarare se una controversia in materia di alienazione di beni o imprese pubblici, privatizzati ai sensi del D.L. 25 settembre 2001,
n. 351 ("Disposizioni urgenti in materia di privatizzazione e valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico e di sviluppo dei fondi comuni di
investimento immobiliare", pubbl. nella Gazz. Uff. 26 settembre 2001, n. 224 e convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1 della L. 23
novembre 2001, n. 410), rientri nella giurisdizione del giudice amministrativo, ovvero in quella del giudice ordinario, è necessario verificare
se gli atti della procedura di vendita, emessi dalla società che gestisce la procedura di asta pubblica, siano qualificabili come formali
provvedimenti amministrativi, emessi nell'ambito e nell'esercizio di poteri autoritativi e discrezionali ad essa spettanti (di fronte ai quali le
posizioni soggettive del privato hanno natura non già di diritto soggettivo, bensì di interessi legittimi, tutelabili, quindi, davanti al giudice
amministrativo). Pertanto, è consequenzialmente necessario verificare, se la società che gestisce la procedura di asta pubblica, nell’attività di
alienazione dei beni immobili, agisca come soggetto privato (donde la esclusione della giurisdizione del g.a.), oppure in esecuzione di poteri
pubblici e cioè come Autorità, nei confronti della quale è accordata tutela al cittadino davanti al giudice amministrativo (1).
FATTO
Con la sentenza appellata è stato accolto il ricorso, proposto da SOCIETA’ SIM 92 SVILUPPO IMMOBILIARE S.p.A. (d’ora innanzi SIM 92)
dinanzi al T.A.R. per il Lazio, sede di Roma, inteso a conseguire la declaratoria della illegittimità dell’esclusione della stessa da un’asta pubblica
gestita dal Consorzio G1 Aste Individuali e dalla Gabetti S.p.A. per conto della S.C.I.P. Società Cartolarizzazione Immobili Pubblici S.r.l. (d’ora
innanzi SCIP), finalizzata ad attuare la dismissione di patrimonio immobiliare dell’I.N.P.S.
Avverso tale pronuncia hanno proposto appello principale il CONSORZIO G1 ASTE INDIVIDUALI ( d’ora innanzi Consorzio G1 ), in proprio e
quale mandatario di SCIP, nonché appello incidentale la Gabetti S.p.A..
Entrambi contestano anzitutto la correttezza del convincimento espresso dal Giudice di primo grado in mérito all’appartenenza della giurisdizione
sulla presente controversia al Giudice amministrativo.
Ribadiscono, poi, nel mérito, la piena legittimità delle prescrizioni di gara e dell’operato della Commissione, che ha disposto l’esclusione dalla gara
dell’odierna appellata in applicazione del punto 3.1 del Regolamento d'Asta, che stabilisce che, ai fini della partecipazione all'asta, "... gli interessati
[dovevano] consegnare, a pena di esclusione, ... i documenti di cui in appresso contenuti in un plico chiuso e sigillato su entrambi i lembi di chiusura,
senza indicazioni che possano ricondurre all'identificazione dell'offerente" ( la società ha subìto l’esclusione in relazione alle modalità da essa seguite
per la presentazione della busta contenente la documentazione sopra elencata, che è risultata controfirmata sui lembi di chiusura e, quindi, ritenuta in
contrasto con quanto prescritto dal punto 3.1 del regolamento di gara ).
Resiste la SIM 92, difendendo le statuizioni del Tribunale Amministrativo Regionale, all’uopo ribadendo, in particolare, l’appartenenza della
controversia alla sfera di giurisdizione riservata al Giudice amministrativo e l’illegittimità della veduta clausola del regolamento d’asta e
concludendo per la reiezione dell’appello.
Non si è costituita in giudizio la YUCATAN PRIMA s.n.c. di Giancarlo Melzi d’Eril & C..
Si sono invece costituiti in giudizio il Ministero dell’Economia e delle Finanze e l’I.N.P.S., entrambi aderendo alle ragioni degli appellanti.
Le parti hanno ulteriormente illustrato le loro tesi mediante memorie difensive.
La causa è stata chiamata e trattenuta in decisione alla udienza pubblica del 21 dicembre 2004.
DIRITTO
1. – Deve essere preliminarmente fatta oggetto di disamina la questione di giurisdizione posta con entrambi gli atti di appello.
La ricorrente originaria ha azionato la propria posizione giuridica soggettiva di concorrente in un’asta pubblica gestita dal Consorzio G1 Aste
Individuali e dalla Gabetti S.p.A. per conto della S.C.I.P. Società Cartolarizzazione Immobili Pubblici S.r.l., finalizzata ad attuare la dismissione di
patrimonio immobiliare dell’I.N.P.S.
Essa si è doluta, con il ricorso di primo grado, della lesione della posizione medesima, per effetto dell'alterazione delle regole che presiedono alla
trasparenza ed all'imparzialità del confronto concorrenziale, a sua volta conseguìta alla asserita contraddittorietà, manifesta ingiustizia,
irragionevolezza ed illogicità della norma del regolamento di gara, la cui applicazione ha portato alla sua esclusione dalla gara.
Se tale ricostruzione si rivela esatta ( e non potrebbe dubitarsene se si considera la prospettazione ricavabile dall'esame del complesso degli atti
difensivi di SIM 92 ), si deve, allora, scrutinare la questione della sussistenza della giurisdizione amministrativa non tanto con riferimento alla
verifica dell'ascrivibilità della controversia de qua all’àmbito della giurisdizione esclusiva ( ed in particolare entro l'ambito applicativo dell'art. 23
bis, lett. e), della legge n. 1034/71, a proposito del quale è tuttora controverso in dottrina e giurisprudenza se esso debba intendersi come disposizione
regolatrice del solo rito, avente valore meramente ricognitivo della già esistente giurisdizione generale di legittimità in materia di privatizzazioni di
imprese o beni pubblici, senza alcuna valenza costitutiva di nuove potestà giurisdizionali nelle controversie ivi elencate, ovvero se la stessa comporti
invece l'estensione della giurisdizione amministrativa alla conoscenza di tutte le posizioni soggettive direttamente coinvolte nel complesso fenomeno
della privatizzazione di beni o imprese pubblici, anche laddove siano configurabili diritti ), quanto con riguardo alla pertinenza o meno della lite
all'esercizio di una funzione pubblicistica incidente sull'interesse legittimo ( nella specie azionato ) al rispetto delle regole poste a presidio della
concorrenza ed alla correttezza nella contrattazione delle pubbliche amministrazioni e dunque all’esistenza ed individuazione di vincoli legali
dell’azione di queste ultime in òrdine alla selezione del contraente privato.
Può, quindi, concludersi che la controversia in esame resterebbe validamente radicata davanti al giudice adìto se ed in quanto possa intendersi riferita
alla giurisdizione generale di legittimità, agevolmente riconoscibile nell'esercizio della funzione della contrattazione della pubblica amministrazione
con i privati, dalla quale esulano i soli atti o comportamenti, dei quali non si fa qui peraltro questione, relativi alla fase propriamente esecutiva del
rapporto costituito dalla stipula del contratto ( fase peraltro non configurabile ontologicamente nella materia delle dismissioni di beni pubblici, posto
che il procedimento finalizzato alla cessione del bene o dell'impresa esaurisce i suoi effetti con la stipula del contratto di rivendita, che produce i
relativi e definitivi effetti traslativi della proprietà e che, successivamente a tale momento, non è dato ravvisare alcun ulteriore segmento del rapporto
da sottrarre alla cognizione del giudice amministrativo: v. Cons. St., 14 luglio 2003, n. 4167 ).
Orbene, i provvedimenti impugnati in primo grado sono stati emessi in attuazione della normativa primaria ( D.L. 25 settembre 2001, n. 351,
"Disposizioni urgenti in materia di privatizzazione e valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico e di sviluppo dei fondi comuni di
investimento immobiliare", pubblicato nella Gazz. Uff. 26 settembre 2001, n. 224 e convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1, L. 23
novembre 2001, n. 410 ), che ha previsto la privatizzazione del patrimonio immobiliare pubblico mediante trasferimento a titolo oneroso, con uno o
più decreti di natura non regolamentare del Ministro dell’Economia e delle Finanze ( art. 3, comma 1 ), alle società costituite ai sensi del primo
periodo del comma 1 dell’art. 2 ( "Il Ministro dell'economia e delle finanze è autorizzato a costituire o a promuovere la costituzione, anche attraverso
soggetti terzi, di più società a responsabilità limitata con capitale iniziale di 10.000 euro, aventi ad oggetto esclusivo la realizzazione di una o più
operazioni di cartolarizzazione dei proventi derivanti dalla dismissione del patrimonio immobiliare dello Stato e degli altri enti pubblici di cui
all'articolo 1" ), ai fini della successiva rivendita.
Lo stesso art. 3 citato prevede, infatti, che "con gli stessi decreti sono determinati:
a) il prezzo iniziale che le società corrispondono a titolo definitivo a fronte del trasferimento dei beni immobili e le modalità di pagamento
dell'eventuale residuo, che può anche essere rappresentato da titoli;
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b) le caratteristiche dell'operazione di cartolarizzazione che le società realizzano per finanziare il pagamento del prezzo. All'atto di ogni operazione
di cartolarizzazione è nominato un rappresentante comune dei portatori dei titoli, il quale, oltre ai poteri stabiliti in sede di nomina a tutela
dell'interesse dei portatori dei titoli, approva le modificazioni delle condizioni dell'operazione;
c) l'immissione delle società nel possesso dei beni immobili trasferiti;
d) la gestione dei beni immobili trasferiti e dei contratti accessori, da regolarsi in via convenzionale con criteri di remuneratività;
e) le modalità per la valorizzazione e la rivendita dei beni immobili trasferiti".
Occorre, allora, in sostanza qui accertare se gli atti della procedura di vendita de qua, emessi dal Consorzio G1 all’uopo incaricato dalla SCIP ( ex
art. 4 D.M. 21 novembre 2002 ), siano qualificabili come formali provvedimenti amministrativi, emessi nell'ambito e nell'esercizio di poteri
autoritativi e discrezionali ad essa spettanti ( di fronte ai quali le posizioni soggettive del privato hanno natura non di diritto soggettivo, bensì di
interessi legittimi, tutelabili, quindi, davanti al giudice amministrativo ).
E’ all’uopo da verificarsi, dunque, se la SCIP, nell’attività di alienazione dei beni immobili trasferitile con DD.MM. 30 novembre 2001 e 21
novembre 2002, agisca come soggetto privato ( donde la esclusione della giurisdizione del G.A. ), oppure in esecuzione di poteri pubblici e cioè
come autorità, nei confronti della quale è accordata tutela al cittadino davanti al Giudice amministrativo ( v. Corte cost., 6 luglio 2004, n. 204 ).
Si pone, pertanto, un problema di individuazione della effettiva natura del soggetto SCIP ( costituito ai sensi dell’art. 2, comma 1, citato ), al di là
della sua formale qualificazione come persona giuridica privata in quanto società a responsabilità limitata, ai fini della cui risoluzione rilevano tanto
il carattere strumentale o meno dell’ente societario rispetto al perseguimento di finalità pubblicistiche ( e dunque se esso agisca o meno in forza di
poteri autoritativi delegatile dalla P.A. e nella fedele esecuzione di disposizioni e provvedimenti da questa emanati ), quanto l’esistenza o meno di
una disciplina derogatoria rispetto a quella propria dello schema societario, sintomatica, in particolare, della strumentalità della società rispetto al
conseguimento di finalità pubblicistiche ( v. Cons. St., VI, 17 settembre 2002, n. 4711 ).
Per decidere della natura pubblica di una compagine ( quale la SCIP ) costituita secondo il comune modello della società di capitali e dunque per
appurare se ci si trovi dinanzi ad un caso di privatizzazione solo formale dell’esercizio di pubbliche funzioni, tale da sottrarre la SCIP ad un
inquadramento nella sfera del diritto privato e da configurare, in definitiva, la società stessa come una longa manus ed una portatrice di poteri
autoritativi proprii, ritiene il Collegio che occorra porre in essere una adeguata attività istruttoria, vòlta ad accertare:
numero, ammontare, attribuzione ed intestazione delle quote societarie della SCIP ( in caso di intestazione a persone giuridiche private, occorre
indicare gli stessi elementi, a ritroso, in relazione a ciascuna di dette persone );
quali siano gli atti unilaterali e gli accordi intervenuti a regolare i rapporti tra il Ministero dell’Economia e delle Finanze e la società medesima, dalla
sua costituzione ad oggi;
quali siano gli atti di qualunque natura ( amministrativi, regolamentari e di diritto privato ) posti in essere dal Ministero dell’Economia e delle
Finanze in esecuzione dell’art. 2, comma 1, del D.L. 25 settembre 2001, n. 351, "Disposizioni urgenti in materia di privatizzazione e valorizzazione
del patrimonio immobiliare pubblico e di sviluppo dei fondi comuni di investimento immobiliare";
quali siano gli atti (anche eventualmente di diritto privato), con i quali il Ministero dell’Economia e delle Finanze abbia posto vincoli funzionali di
qualsivoglia natura all’attività della SCIP;
quali siano, a qual titolo ed a quanto ammontino le erogazioni di capitale pubblico in qualunque modo e forma connesse agli atti di cui al citato art. 2,
comma 1;
quali siano, a qual titolo ed a quanto ammontino le erogazioni di capitale pubblico in qualunque modo e forma connesse all’attività gestionale dei
soggetti di cui al citato art. 2, comma 1;
quali siano le procedure poste in essere dal Ministero dell’Economia e delle Finanze in attuazione del disposto del citato art. 2, comma 1;
quali siano l’atto costitutivo e lo statuto della SCIP;
quali siano gli atti di nomina degli amministratori e degli organi di revisione e controllo della SCIP;
quali siano gli eventuali patti parasociali relativi agli atti di nomina, di cui al punto che precede;
quali siano il tipo ed il titolo di ingerenza, a qualunque titolo, anche indirettamente esercitata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze nella
gestione della SCIP;
quali siano le partecipazioni finanziarie, che il Ministero dell’Economia e delle Finanze o qualunque altro soggetto pubblico detenga nel capitale di
soggetti comunque quotisti, anche per via indiretta, della SCIP;
quali siano gli atti emanati nell’esercizio dei diritti derivanti, a qualunque titolo, dalla partecipazione del Ministero dell’Economia e delle Finanze o
di qualunque altro soggetto pubblico alla SCIP od a qualunque soggetto a qualsivoglia titolo partecipante, anche indirettamente, al capitale sociale
e/o alla gestione della SCIP;
quali siano le direttive a qualunque titolo e da qualunque organo governativo emanate in mérito alla promozione, costituzione, gestione,
partecipazione al capitale della SCIP;
quali siano gli atti, di qualunque natura, che prevedano casi, in cui l’autonomia funzionale degli organi societarii della SCIP sia a qualunque titolo,
anche indirettamente, compressa mediante la subordinazione a vincoli, intese, direttive e simili di organi del governo italiano.
Avendo tutti i dati di cui sopra rilievo decisivo, a parere del Collegio, nell’analisi mirante ad affermare la natura pubblica o privata della società in
questione e delle attività da essa svolte oggetto del presente giudizio, il Ministero dell’Economia e delle Finanze e la SCIP provvederanno, per la
parte di rispettiva competenza, nei términi e nei modi indicati in dispositivo, ciascuno al deposito di relazione illustrativa di tutti i punti di cui sopra,
corredata di tutti gli atti dei quali sia ivi fatta menzione, nonché di ogni altro atto ritenuto utile ai fini del decidere.
Resta riservata alla pronuncia definitiva ogni decisione in rito, nel mérito e sulle spese.
P.Q.M.
il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), non definitivamente pronunciando sul ricorso indicato in epigrafe e riservata alla
pronuncia definitiva ogni decisione in rito, nel mérito e sulle spese, ordina al Ministero dell’Economia e delle Finanze, in persona del Ministro in
carica ed alla SCIP, in persona del legale rappresentante pro tempore, di provvedere, per la parte di rispettiva competenza, ciascuno agli
adempimenti di cui in motivazi
51
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV - sentenza 31 gennaio 2006 n. 308 - Pres. Salvatore, Est. Cacace - Onceas S.p.a. (Avv.ti Decio, Satta e
Lattanti) e Consorzio G1 Aste Individuali (Avv. Scanzano e Clarizia) c. Società SIM 92 Sviluppo Immobiliare S.p.a. (Avv.ti Ferrari e Quattrocchi),
Ministero dell’economia e delle finanze (Avv.ra Stato), I.N.P.S. (n.c.) e Gabetti S.p.a. (Avv. Loiacono Romagnoli) – (previa riunione di due appelli,
conferma T.A.R. Lazio - Roma, Sez. II, sent. 19 aprile 2004, n. 3367, pubblicata in questa Rivista, pag. http://www.lexitalia.it/p/tar/tarlazio2_200404-19.htm).
1. Giurisdizione e competenza – Demanio e patrimonio – Vendita di beni pubblici – Procedura di vendita indetta da una società incaricata
dalla SCIP – Nell’ambito del processo di cartolarizzazione dei beni pubblici – Controversie – Giurisdizione generale di legittimità del g.a. –
Sussiste.
2. Contratti della P.A. – Bando – Formalità prescritte – Debbono essere ragionevoli.
3. Contratti della P.A. – Bando – Clausole che pongono a carico dei partecipanti a pena di esclusione oneri non necessari – Illegittimità.
4. Contratti della P.A. – Bando – Clausola che impone la consegna della documentazione in busta priva di segni identificativi – Illegittimità –
Fattispecie.
1. Rientra nella giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo una controversia relativa ad un procedura indetta dal
Consorzio G1 all’uopo incaricato dalla SCIP, nell’attività di alienazione dei beni immobili trasferiti a quest’ultima con DD.MM. 30
novembre 2001 e 21 novembre 2002. Invero, in tema di dismissione degli immobili pubblici ex artt. 2 e 3 del d.l. 25 settembre 2001, n. 351,
convertito, con modificazioni, in legge 23 novembre 2001, n. 410, tanto le disposizioni legislative, quanto i successivi decreti del Ministero
dell'economia e delle finanze (con cui sono stati disciplinati il trasferimento degli immobili alla SCIP, le caratteristiche delle operazioni di
cartolarizzazione e le procedure di vendita degli immobili trasferiti) consentono di ritenere che la SCIP stessa svolga una attività, che, sia
per le sue oggettive caratteristiche, sia per i vincoli posti al suo esercizio, deve considerarsi strettamente funzionalizzata al perseguimento
delle finalità di interesse pubblico (1).
2. In materia di procedimenti ad evidenza pubblica finalizzati all'aggiudicazione di contratti o comunque all'individuazione di soggetti
aspiranti a conseguire un beneficio pubblico, le formalità prescritte dal bando di gara debbono risultare dirette ad assicurare un particolare
interesse dell'amministrazione (2), al fine di evitare di cadere in un eccessivo formalismo, che finirebbe col risolversi nel pretendere una
accurata diligenza da parte dei concorrenti per finalità non degne di nota o di rilievo; ne discende che le formalità richieste dal bando a pena
di esclusione dalla gara devono rispondere al comune canone di ragionevolezza, in stretta relazione con le precitate esigenze.
3. Debbono ritenersi in contrasto con il principio di ragionevolezza e, pertanto, illegittime quelle prescrizioni del bando di gara che
aggravino immotivatamente le condizioni della stessa, ponendo a carico dei partecipanti a pena di esclusione oneri non necessari (3).
4. E’ illegittima la clausola del bando secondo cui, ai fini della partecipazione alla gara, è necessario che gli interessati consegnino, a pena di
esclusione, i documenti "in un plico chiuso e sigillato su entrambi i lembi di chiusura, senza indicazioni che possano ricondurre
all'identificazione dell'offerente"; tale clausola, infatti, pone a carico dei partecipanti oneri del tutto ingiustificati con l’ulteriore
prescrizione, che vieta qualsiasi indicazione, sul plico, suscettibile di "ricondurre all'identificazione dell'offerente" (alla stregua del principio
è stato ritenuto illegittimo il provvedimento di esclusione dalla gara di una ditta che aveva presentato la busta contenente la documentazione
sopra elencata, che era stata controfirmata sui lembi di chiusura).
-----------------------------------------------------FATTO
Con la sentenza appellata è stato accolto il ricorso, proposto da SOCIETA’ SIM 92 SVILUPPO IMMOBILIARE S.p.A. (d’ora innanzi SIM 92)
dinanzi al T.A.R. per il Lazio, sede di Roma, inteso a conseguire la declaratoria della illegittimità dell’esclusione della stessa da un’asta pubblica
gestita dal Consorzio G1 Aste Individuali e dalla Gabetti S.p.A. per conto della S.C.I.P. Società Cartolarizzazione Immobili Pubblici S.r.l. (d’ora
innanzi SCIP), finalizzata ad attuare la dismissione di patrimonio immobiliare dell’I.N.P.S.
Avverso tale pronuncia hanno proposto separati appelli principali ( rispettivamente n. r.g. 5466/04 e n. r.g. 5587/04 ) Onceas S.p.A. ( risultata
aggiudicataria dell’asta in discussione ) ed il CONSORZIO G1 ASTE INDIVIDUALI ( d’ora innanzi Consorzio G1 ), in proprio e quale mandatario
di SCIP, nonché appello incidentale, in entrambi i giudizii, la Gabetti S.p.A..
Sia gli appelli principali che quelli incidentali contestano anzitutto la correttezza del convincimento espresso dal Giudice di primo grado in mérito
all’appartenenza della giurisdizione sulla presente controversia al Giudice amministrativo.
Ribadiscono, poi, nel mérito, la piena legittimità delle prescrizioni di gara e dell’operato della Commissione, che ha disposto l’esclusione dalla gara
dell’odierna appellata in applicazione del punto 3.1 del Regolamento d'Asta, che stabilisce che, ai fini della partecipazione all'asta, "... gli interessati
[dovevano] consegnare, a pena di esclusione, ... i documenti di cui in appresso contenuti in un plico chiuso e sigillato su entrambi i lembi di chiusura,
senza indicazioni che possano ricondurre all'identificazione dell'offerente" ( la società ha subìto l’esclusione in relazione alle modalità da essa seguite
per la presentazione della busta contenente la documentazione sopra elencata, che è risultata controfirmata sui lembi di chiusura e, quindi, ritenuta in
contrasto con quanto prescritto dal punto 3.1 del regolamento di gara ).
Resiste la SIM 92, difendendo le statuizioni del Tribunale Amministrativo Regionale, all’uopo ribadendo, in particolare, l’appartenenza della
controversia alla sfera di giurisdizione riservata al Giudice amministrativo e l’illegittimità della veduta clausola del regolamento d’asta e
concludendo per la reiezione dell’appello.
Si sono costituiti, in entrambi i giudizii, il Ministero dell’Economia e delle Finanze e l’I.N.P.S., entrambi aderendo alle ragioni degli appellanti.
Si sono costituiti, nel giudizio promosso da Onceas S.p.A., il Consorzio G1 Aste individuali e, nel giudizio da quest’ultimo promosso, Onceas
S.p.A., entrambi per aderire alle richieste dell’appellante di turno.
Le parti hanno ulteriormente illustrato le loro tesi mediante memorie difensive.
Con decisione interlocutoria n. 315/2005, disposta la riunione dei due giudizii, sono stati ordinati, a càrico del Ministero dell’Economia e delle
Finanze e della SCIP, incombenti istruttòrii, fissandone il termine per l’adempimento al 31 marzo 2005.
In parziale adempimento della stessa, in data 31 marzo 2005, il Consorzio G1 ha depositato una prima, analitica, relazione, con allegata
documentazione rilevante.
Con Ordinanza Presidenziale n. 1/2005 in data 15 luglio 2005, è stato rinnovato l’ordine istruttorio.
In esecuzione delle dette esigenze istruttorie, in data 29 settembre 2005, il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha prodotto una relazione
corredata da documentazione.
A seguito delle risultanze dell’istruttoria depositata, in data 30 novembre 2005 SIM 92, Consorzio G1 ed Onceas S.p.A. hanno prodotto distinte
memorie, ciascuna traendone elementi per insistere sulle rispettive tesi.
Le cause sono state chiamate e trattenute in decisione alla udienza pubblica del 6 dicembre 2005.
DIRITTO
1. – Deve essere preliminarmente fatta oggetto di disamina la questione di giurisdizione posta con entrambi gli atti di appello.
La ricorrente originaria ha azionato la propria posizione giuridica soggettiva di concorrente in un’asta pubblica gestita dal Consorzio G1 Aste
Individuali e dalla Gabetti S.p.A. per conto della S.C.I.P. Società Cartolarizzazione Immobili Pubblici S.r.l., finalizzata ad attuare la dismissione di
patrimonio immobiliare dell’I.N.P.S.
52
Essa si è doluta, con il ricorso di primo grado, della lesione della posizione medesima, per effetto dell'alterazione delle regole che presiedono alla
trasparenza ed all'imparzialità del confronto concorrenziale, a sua volta conseguìta alla asserita contraddittorietà, manifesta ingiustizia,
irragionevolezza ed illogicità della norma del regolamento di gara, la cui applicazione ha portato alla sua esclusione dalla gara.
Alla stregua di tale ricostruzione, come già osservato nella decisione interlocutoria n. 315/2005, si deve scrutinare la questione della sussistenza della
giurisdizione amministrativa non tanto con riferimento alla verifica dell'ascrivibilità della controversia de qua all’àmbito della giurisdizione esclusiva
(ed in particolare entro l'ambito applicativo dell'art. 23 bis, lett. e), della legge n. 1034/71, a proposito del quale è tuttora controverso in dottrina e
giurisprudenza se esso debba intendersi come disposizione regolatrice del solo rito, avente valore meramente ricognitivo della già esistente
giurisdizione generale di legittimità in materia di privatizzazioni di imprese o beni pubblici, senza alcuna valenza costitutiva di nuove potestà
giurisdizionali nelle controversie ivi elencate, ovvero se la stessa comporti invece l'estensione della giurisdizione amministrativa alla conoscenza di
tutte le posizioni soggettive direttamente coinvolte nel complesso fenomeno della privatizzazione di beni o imprese pubblici, anche laddove siano
configurabili diritti), quanto con riguardo alla pertinenza o meno della lite all'esercizio di una funzione pubblicistica incidente sull'interesse legittimo
(nella specie azionato) al rispetto delle regole poste a presidio della concorrenza ed alla correttezza nella contrattazione delle pubbliche
amministrazioni e dunque all’esistenza ed individuazione di vincoli legali dell’azione di queste ultime in òrdine alla selezione del contraente privato.
Può, quindi, concludersi che la controversia in esame resterebbe validamente radicata davanti al giudice adìto se ed in quanto possa intendersi riferita
alla giurisdizione generale di legittimità, agevolmente riconoscibile nell'esercizio della funzione della contrattazione della pubblica amministrazione
con i privati, dalla quale esulano i soli atti o comportamenti, dei quali non si fa qui peraltro questione, relativi alla fase propriamente esecutiva del
rapporto generato dalla stipula del contratto ( fase peraltro non configurabile ontologicamente nella materia delle dismissioni di beni pubblici, posto
che il procedimento finalizzato alla cessione del bene o dell'impresa esaurisce i suoi effetti con la stipula del contratto di rivendita, che produce i
relativi e definitivi effetti traslativi della proprietà e che, successivamente a tale momento, non è dato ravvisare alcun ulteriore segmento del rapporto
da sottrarre alla cognizione del giudice amministrativo: v. Cons. St., 14 luglio 2003, n. 4167 ).
Orbene, i provvedimenti impugnati in primo grado sono stati emessi in attuazione della normativa primaria ( D.L. 25 settembre 2001, n. 351,
"Disposizioni urgenti in materia di privatizzazione e valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico e di sviluppo dei fondi comuni di
investimento immobiliare", pubblicato nella Gazz. Uff. 26 settembre 2001, n. 224 e convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1, L. 23
novembre 2001, n. 410 ), che ha previsto la privatizzazione del patrimonio immobiliare pubblico mediante trasferimento a titolo oneroso, con uno o
più decreti di natura non regolamentare del Ministro dell’Economia e delle Finanze ( art. 3, comma 1 ), alle società costituite ai sensi del primo
periodo del comma 1 dell’art. 2 ( "Il Ministro dell'economia e delle finanze è autorizzato a costituire o a promuovere la costituzione, anche attraverso
soggetti terzi, di più società a responsabilità limitata con capitale iniziale di 10.000 euro, aventi ad oggetto esclusivo la realizzazione di una o più
operazioni di cartolarizzazione dei proventi derivanti dalla dismissione del patrimonio immobiliare dello Stato e degli altri enti pubblici di cui
all'articolo 1" ), ai fini della successiva rivendita.
Lo stesso art. 3 citato prevede, infatti, che "con gli stessi decreti sono determinati:
a) il prezzo iniziale che le società corrispondono a titolo definitivo a fronte del trasferimento dei beni immobili e le modalità di pagamento
dell'eventuale residuo, che può anche essere rappresentato da titoli;
b) le caratteristiche dell'operazione di cartolarizzazione che le società realizzano per finanziare il pagamento del prezzo. All'atto di ogni operazione
di cartolarizzazione è nominato un rappresentante comune dei portatori dei titoli, il quale, oltre ai poteri stabiliti in sede di nomina a tutela
dell'interesse dei portatori dei titoli, approva le modificazioni delle condizioni dell'operazione;
c) l'immissione delle società nel possesso dei beni immobili trasferiti;
d) la gestione dei beni immobili trasferiti e dei contratti accessori, da regolarsi in via convenzionale con criteri di remuneratività;
e) le modalità per la valorizzazione e la rivendita dei beni immobili trasferiti".
Occorre, allora, in sostanza qui accertare se gli atti della procedura di vendita de qua, emessi dal Consorzio G1 all’uopo incaricato dalla SCIP ( ex
art. 4 D.M. 21 novembre 2002 ), siano qualificabili come formali provvedimenti amministrativi, emessi nell'ambito e nell'esercizio di poteri
autoritativi e discrezionali ad essa spettanti ( di fronte ai quali le posizioni soggettive del privato hanno natura non di diritto soggettivo, bensì di
interessi legittimi, tutelabili, quindi, davanti al giudice amministrativo ).
E’ all’uopo da verificarsi, dunque, se la SCIP, nell’attività di alienazione dei beni immobili trasferitile con DD.MM. 30 novembre 2001 e 21
novembre 2002, agisca come soggetto privato e, quindi, nell’esercizio di corrispondenti potestà (donde la esclusione della giurisdizione del G.A.),
oppure in esecuzione di poteri pubblici e cioè come autorità, nei confronti della quale è accordata tutela al cittadino davanti al Giudice
amministrativo ( v. Corte cost., 6 luglio 2004, n. 204 ).
Si pone, pertanto, un problema di individuazione della effettiva natura del soggetto SCIP ( costituito ai sensi dell’art. 2, comma 1, citato ), al di là
della sua formale qualificazione come persona giuridica privata in quanto società a responsabilità limitata, ai fini della cui risoluzione rilevano tanto
il carattere strumentale o meno dell’ente societario rispetto al perseguimento di finalità pubblicistiche ( e dunque se esso agisca o meno in forza di
poteri autoritativi delegatile dalla P.A. e nella fedele esecuzione di disposizioni e provvedimenti da questa emanati ), quanto l’esistenza o meno di
una disciplina derogatoria rispetto a quella propria dello schema societario, sintomatica, in particolare, della strumentalità della società rispetto al
conseguimento di finalità pubblicistiche ( v. Cons. St., VI, 17 settembre 2002, n. 4711 ): pagg. 8 – 12 dec. cit.
La stessa, citata, decisione interlocutoria, al fine di "decidere della natura pubblica di una compagine ( quale la SCIP ) costituita secondo il comune
modello della società di capitali e dunque per appurare se ci si trovi dinanzi ad un caso di privatizzazione solo formale dell’esercizio di pubbliche
funzioni, tale da sottrarre la SCIP ad un inquadramento nella sfera del diritto privato e da configurare, in definitiva, la società stessa come una longa
manus ed una portatrice di poteri autoritativi proprii", riteneva necessaria una adeguata attività istruttoria, vòlta ad indagare, in estremo dettaglio, le
qualità soggettivo/oggettive dell’attività, oggetto di controversia, posta in essere da SCIP, all’uopo ordinando al Ministero dell’Economia e delle
Finanze ed alla SCIP medesima di provvedere ciascuno al deposito di relazione illustrativa di tutti gli elementi nella stessa decisione analiticamente
indicati, corredata di tutti gli atti dei quali sia ivi fatta menzione, nonché di ogni altro atto ritenuto utile ai fini del decidere, fissandone il termine per
l’adempimento al 31 marzo 2005.
In parziale adempimento della stessa, in data 31 marzo 2005, il Consorzio G1 ha depositato una prima, analitica, relazione, con allegata
documentazione rilevante.
Con Ordinanza Presidenziale n. 1/2005 in data 15 luglio 2005, è stato rinnovato l’ordine istruttorio.
In esecuzione delle dette esigenze istruttorie, in data 29 settembre 2005, il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha prodotto una relazione
corredata da documentazione.
Alla luce delle risultanze della attività istruttoria espletata, il Collegio ritiene che gli atti della procedura di vendita de qua, emessi dal Consorzio G1
all’uopo incaricato dalla SCIP ( ex art. 4 D.M. 21 novembre 2002 ), costituiscano espressione di attivita’ pubblicistica provvedimentale, in relazione
alla quale sussiste la giurisdizione del Giudice amministrativo.
Invero, in tema di dismissione degli immobili pubblici ex artt. 2 e 3 del d.l. 25 settembre 2001, n. 351, convertito, con modificazioni, in legge 23
novembre 2001, n. 410, tanto le dette disposizioni legislative, quanto i successivi decreti del Ministero dell'economia e delle finanze ( con cui sono
stati disciplinati il trasferimento degli immobili alla SCIP, le caratteristiche delle operazioni di cartolarizzazione e le procedure di vendita degli
immobili trasferiti ) consentono di ritenere che la SCIP stessa svolga una attività, che, sia per le sue oggettive caratteristiche, sia per i vincoli posti al
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suo esercizio con i detti atti normativi e non, deve considerarsi strettamente funzionalizzata al perseguimento delle finalità di interesse pubblico, che
sono alla base dell’indicata regolamentazione legislativa.
A tale società sono infatti attribuiti ex lege:
- i beni "trasferiti" dal patrimonio immobiliare dello Stato e degli altri enti pubblici di cui all’art. 1 del d.l. n. 351 cit. (previa loro individuazione e
conseguente passaggio al "patrimonio disponibile", che costituiscono "patrimonio separato a tutti gli effetti" da quello della società) a fronte del
pagamento di un prezzo iniziale, più un eventuale residuo (art. 2, commi 1 e 2; art. 3, comma 1, del d.l. n. 351 cit.);
- il compito di effettuare, per finanziare il pagamento del prezzo suddetto, "le operazioni di cartolarizzazione, anche in più fasi, mediante l’emissione
di titoli o l’assunzione di finanziamenti", i diritti derivanti dalle quali i predetti beni immobili, specificamente individuati per ogni operazione, sono
destinati a soddisfare (art. 2, comma 2; art. 3, comma 1, del d.l. n. 351 cit.);
- l’ulteriore compito, che rappresenta il vero obiettivo politico – economico dell’intera operazione, di rivendere i beni immobili oggetto del
trasferimento, vendita il cui ricavo ( così come quello derivante dalla gestione temporanea degli immobili medesimi ) è in prima battuta destinato al
rimborso dei titoli di cui sopra (oltre che al pagamento degli altri oneri e costi connessi all’operazione di cartolarizzazione) e, per la parte
eventualmente residua, al pagamento di un "prezzo differito", da allocarsi tra i soggetti pubblici originarii proprietarii degli immobili ( art. 3, commi
2 e ss. del d.l. n. 351 cit.; art. 3 D.M. 21 novembre 2002 "Trasferimento alla società di cartolarizzazione dei beni immobili appartenenti agli enti
previdenziali e allo Stato italiano" ).
Orbene, sebbene tale società abbia natura formalmente privatistica ( essendo costituita secondo il modello comune delle società di capitali ), evidenti
sono il suo carattere strumentale rispetto al perseguimento di finalità pubblicistiche e l’esistenza di una disciplina derogatoria rispetto a quella
propria dello schema societario.
Quanto al primo indice, valga notare che la società in questione, per espressa volontà del legislatore ha "ad oggetto esclusivo la realizzazione di una
o più operazioni di cartolarizzazione dei proventi derivanti dalla dismissione del patrimonio immobiliare dello Stato e degli altri enti pubblici di cui
all'articolo 1" (art. 2, comma 1, del D.L. 25-9-2001 n. 351).
In sostanza, dunque, al di là delle pur brillanti prospettazioni contrarie delle odierne appellanti, essa rappresenta lo strumento operativo in concreto
individuato dal legislatore per il soddisfacimento della esigenza pubblicistica, posta alla base delle operazioni di cartolarizzazione ad essa affidate, di
dismissione di una parte non indifferente del patrimonio immobiliare pubblico, garantendo al tempo stesso speditezza, efficacia ed efficienza di
quell’operazione di reperimento di introiti per l’erario, cui in fin dei conti l’intera manovra è finalizzata.
Del resto, elemento decisivo per decidere della natura pubblica della compagine de qua è la qualificazione, alla società medesima attribuita dal
Ministero dell’Economia e delle Finanze, di "società veicolo" ( v. D.M. 18-12-2001 "Operazione di cartolarizzazione degli immobili degli enti
previdenziali, nonché emissione dei titoli da parte della Società veicolo" ) e cioè di ente societario, che costituisce mezzo e strumento per la
realizzazione delle politiche e delle finalità dal legislatore dettate all’Amministrazione; sì che, nella fattispecie, gli enti pubblici possono
cartolarizzare il loro patrimonio immobiliare, una volta svincolato dalla sua destinazione pubblica, solo per il tramite della società veicolo, cui i beni
stessi vengono "trasferiti", si badi, all’unico fine della "rivendita" funzionale ad una operazione di cartolarizzazione effettuata, in definitiva,
esclusivamente nell’interesse dell’Amministrazione, alla quale è infatti corrisposta, a titolo di prezzo differito, la eventuale differenza "se positiva,
tra (a) il ricavo netto effettivo per la S.C.I.P. Società Cartolarizzazione Immobili Pubblici S.r.l. derivante dalla gestione e vendita degli immobili
trasferiti ai sensi del presente decreto e dalle altre operazioni accessorie all'operazione di cartolarizzazione relativa ai medesimi immobili e (b)
quanto dovuto a titolo di capitale ed interessi per il rimborso dei titoli di cui all'articolo 14 e per il pagamento degli altri oneri e costi connessi
all'operazione di cartolarizzazione regolata dal presente decreto" (art. 3, comma 3, del D.M. 21-11-2002 "Trasferimento alla società di
cartolarizzazione dei beni immobili appartenenti agli enti previdenziali e allo Stato italiano").
Quanto al secondo degli indici sopra individuati, la pur suggestiva formula prescelta, nel caso di specie, per il controllo della società veicolo di cui si
tratta ( e cioè l’utilizzo di due fondazioni costituite ai sensi del diritto olandese nella forma di Stichting ), che pare rappresentare l’estremo ésito della
forte spinta verso la privatizzazione di pubbliche funzioni caratteristica della legislazione degli ultimi venticinque anni, non pare, invero, sufficiente
alla affermazione della natura sostanzialmente ( oltre che formalmente ) privata dell’ente di cui si tratta, atteso che:
- "il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha richiesto alle banche incaricate di curare l’operazione di cartolarizzazione sino al collocamento dei
titoli per finanziare il pagamento da parte della società di cartolarizzazione del prezzo iniziale di acquisto dei beni immobili, di provvedere, tra i vari
adempimenti connessi all’operazione, anche alla costituzione di una società avente le caratteristiche indicate dal d.l. 25 settembre 2001 n. 351" (
pagg. 10 – 11 nota illustrativa del Consorzio G1 in data 29 marzo 2005 ): tale richiesta (della quale non vengono peraltro specificati né la forma, né
gli estremi, né i termini e nemmeno, infine, gli effettivi destinatarii, né le loro modalità di selezione) consente di ricondurre in toto al Ministero
stesso la fase costitutiva della società in questione al di là dell’intervento, meramente formale, in sede di costituzione, delle due Stichting;
- "il Ministero ha promosso la costituzione della SCIP S.r.l. versando il capitale sociale iniziale di 10.000 euro, ripartito equamente tra due
fondazioni olandesi" ( pag. 4 Relazione del Ministero dell’Economia e delle Finanze in data 28 settembre 2005 ), il che consente di imputare alla
Pubblica Amministrazione la materiale erogazione dell’intero capitale sociale necessario per la costituzione della società, erogazione che pertanto,
non essendone in alcun modo precisato il titolo, se di sovvenzione, contributo, finanziamento od altro ( così come non vengono indicati né il
documento amministrativo utilizzato per la sua autorizzazione né le modalità di copertura della spesa ), pare più che altro doversi ascrivere all’ipotesi
del socio occulto, che eroghi la provvista finanziaria di una società;
- i vincoli posti alla attività della società veicolo, così come delineati dal legislatore e poi concretamente configurati dai decreti ministeriali di
attuazione ( privi, per espressa volontà del legislatore stesso, dei caratteri della generalità e dell'astrattezza proprii degli atti normativi secondari e per
questo non soggetti al parere del Consiglio di Stato ), paiono sicuramente idonei a condizionare, regolandone anche minuziosamente la gran parte
delle attività, la vita dell’ente veicolo, incidendo in misura decisiva su quel parametro della "autonomia imprenditoriale e patrimoniale", che, pur
avendo consentito a questo Consiglio in sede consultiva di considerare la società di cui si tratta come "completamente estranea alla pubblica
amministrazione" ( Cons. St., sez. III, n. 2342/03 ), si rivela invece, ad una attenta analisi, quasi inesistente.
I penetranti poteri riservati dal legislatore al Ministero dell’Economia e delle Finanze, così come poi da questi concretamente esercitati con i decreti
menzionati, vanificano, invero, del tutto detto elemento di autonomia ( tipico della forma societaria ), facendo emergere peraltro in modo palese
l’intento di avvalersi di tale strumento per esercitare con più ampia libertà gestionale le funzioni proprie dell’Amministrazione medesima.
La società in argomento opera, infatti, completamente secondo gli indirizzi e le direttive specifiche e puntuali impartiti dal Ministero predetto.
Quanto sopra risulta evidente laddove si consideri che:
a) il prezzo dovuto dalla SCIP a fronte del trasferimento degli immobili in suo favore è determinato con il decreto ministeriale di trasferimento ( art.
3, comma 1, lett. a) del d.l. n. 351 cit. ed art. 3 del D.M. 21 novembre 2002 cit. );
b) il capitale necessario per tale operazione viene reperito dalla SCIP tramite l’emissione di titoli su mercati regolamentati (ovvero mediante aperture
di credito da parte del settore bancario e finanziario), le cui caratteristiche e le cui modalità di collocamento sono dettagliatamente disciplinate dal
Ministero dell’Economia e delle Finanze ( art. 2, comma 2 ed art. 3, comma 1, lett. b), del d.l. n. 351 cit.; artt. 3, 12, 14 e 17 del D.M. 21 novembre
2002 cit. ), fino ad imputare al Ministero stesso l’attività di collocamento dei titoli emessi dalla SCIP e ad addossare al medesimo la "copertura dei
rischi connessi alla variabilità del tasso di interesse e dell’eventuale tasso di cambio" sui titoli stessi;
c) la SCIP procede alla rivendita sul mercato degli immobili trasferitile, secondo criterii varii definiti dal legislatore ( v. art. 3 d.l. n. 351 cit. ), ma,
soprattutto, secondo dettagliate modalità e procedure ( per le quali vedansi l’art. 3, comma 1, lett. e) del d.l. n. 351 cit., l’art. 3 del D.M. 21 novembre
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2002 cit. ed il D.M. 21-11-2002 "Modalità e procedure di vendita dei beni immobili trasferiti alla società di cartolarizzazione" ), che giungono a
regolare nei dettagli, tra l’altro, il concreto esperimento delle aste da tenersi per la vendita, il prezzo da porsi a base d’asta (differenziando tra la
prima e le successive), la partecipazione ad esse dei soggetti interessati, i casi di aggiudicazione provvisoria e definitiva, l’esercizio dei diritti di
prelazione, le ipotesi di decadenza dall’aggiudicazione, i termini per la stipula dei contratti conseguenti, i modi di individuazione ( "con procedura
competitiva" ) degli operatori, cui la SCIP affidi la vendita degli immobili non abitativi;
d) la SCIP, benché formalmente titolare degli immobili trasferitile, delega ogni atto di gestione degli immobili agli enti originarii proprietarii ( che
peraltro "fino alla rivendita … sono responsabili a tutti gli effetti ed a proprie spese per gli interventi necessari di manutenzione ordinaria e
straordinaria, nonché per l'adeguamento dei beni alla normativa vigente: art. 3, comma 2, d.l. n. 351 cit. ), in forza di contratti di mandato non
devoluti alla sua autonomia, in quanto da stipularsi secondo la puntuale individuazione di contenuti effettuata dal Ministero dell’Economia e delle
Finanze (v. art. 4 del D.M. 21 novembre 2002 "Trasferimento alla società di cartolarizzazione dei beni immobili appartenenti agli enti previdenziali e
allo Stato italiano"), o, comunque, in forza di una apposita delega ex lege (art. 3, comma 1, lett. d), del d.l. n. 351 cit.);
e) la SCIP non ha nemmeno autonomia alcuna circa le modalità di gestione della propria liquidità, in quanto, ai sensi dell’art. 5 del D.M. 21
novembre 2002 "Trasferimento alla società di cartolarizzazione dei beni immobili appartenenti agli enti previdenziali e allo Stato italiano", accende
"un nuovo conto presso la Tesoreria centrale dello Stato, diverso ed ulteriore rispetto a quello dalla medesima acceso in virtù dell'articolo 5 del D.M.
30 novembre 2001 …, nel quale sono versate le somme specificate all'articolo 16. Sulla giacenza media del medesimo conto il Ministero
dell'economia e delle finanze corrisponde semestralmente alla S.C.I.P. Società Cartolarizzazione Immobili Pubblici S.r.l. interessi calcolati ad un
tasso pari a quello corrisposto dalla Banca d'Italia sul conto «disponibilità del Tesoro per il servizio di Tesoreria» ai sensi della legge 26 novembre
1993, n. 483" ( primi due periodi del comma 1 dell’art. 5 citato );
f) a scapito ulteriore della sua autonomia imprenditoriale, nelle procedure per la vendita dei beni immobili a carattere commerciale facenti parte del
piano straordinario di dismissione di cui all'art. 7 del decreto-legge 28 marzo 1997, n. 79, trasferiti alla società di cartolarizzazione ai sensi del primo
decreto del Ministro dell'economia e modalità di esercizio dell'eventuale diritto di prelazione in relazione a detti immobili ( v. allegato 3 al D.M. 1812-2001 cit. ), la SCIP, nei turni di aste senza prezzo base, può, esercitare la facoltà di non accettare le offerte ritenute non congrue e di non
procedere all'aggiudicazione definitiva dandone comunicazione al notaio incaricato dell'espletamento della relativa asta a mezzo lettera
raccomandata con ricevuta di ritorno da inviarsi entro i sette giorni successivi all'aggiudicazione provvisoria, ma "deve" preventivamente acquisire il
parere in merito della Patrimonio della Stato S.p.A.; mentre, al fine di ottimizzare il prezzo complessivo di vendita degli immobili rimasti invenduti
ad esito di aste in cui sia previsto un prezzo base d'asta, in alternativa alla previsione precedente in merito ad una offerta in vendita degli immobili
senza prezzo base d'asta, può provvedere a suddividere tali immobili rimasti invenduti in diversi lotti comprensivi di uno o più immobili secondo
criteri di omogeneità strutturale e/o di ubicazione geografica, ma la composizione e la strategia di vendita, ivi inclusa la connessa determinazione di
un eventuale prezzo base d'asta, sono sottoposte, con la necessaria documentazione di supporto, alla preventiva approvazione della Patrimonio dello
Stato S.p.A., che è tenuta a fornire le proprie indicazioni entro venti giorni, inutilmente decorsi i quali l'approvazione si dà per ottenuta ( e si badi che
la Patrimonio dello Stato S.p.a. rientra a sua volta nella categoria degli enti pubblici a struttura societaria, alla stregua della giurisprudenza, che ha
riconosciuto la natura di soggetto pubblico alle società per azioni, che: siano istituite direttamente dalla legge; siano regolate da norme, che pongono
deroghe al regime societario tipico ed in tal senso la Patrimonio S.p.a. è sottoposta ad un potere di indirizzo strategico del Ministero dell’Economia e
delle Finanze ed al potere di direttive di massima del C.I.P.E.; siano partecipate in via maggioritaria da soggetti pubblici, come appunto previsto per
la stessa dal comma 3 dell’art. 7 del d.l. 15 aprile 2002, n. 63, convertito in legge 15 giugno 2002, n. 112 ).
1.1 – Se è vero, allora, che, come è stato già più volte sottolineato dalla stessa Corte di Cassazione ( Cass., Sez. Un.: 6.5.1995, n. 4989; 6.6.1997, n.
5085; 26.8.1998, n. 8454; da ultimo, 15 aprile 2005, n. 7799 ), la società per azioni con partecipazione pubblica non muta la sua natura di soggetto di
diritto privato solo perché lo Stato o gli enti pubblici (Comune, Provincia, etc.) ne posseggano le azioni in tutto o in parte (non assumendo rilievo
alcuno, per le vicende della medesima, la persona dell'azionista, dato che tale società, quale persona giuridica privata, opera "nell'esercizio della
propria autonomia negoziale, senza alcun collegamento con l'ente pubblico"), dall’analisi degli elementi di cui sopra ( necessariamente, peraltro,
sintetica anche se adeguata ai fini che nella specie rilevano ) emerge chiaro, a parere del Collegio, come sia proprio tale assoluta autonomia ad essere
del tutto assente nella posizione funzionale della SCIP e nell’esercizio delle attività demandatele dal legislatore, apparendo, al contrario, la stessa
soggetta, in tale ambito, all’esercizio del potere gestionale discrezionale e totalizzante dell’Amministrazione di riferimento ( il Ministero
dell’Economia e delle Finanze ) di incidere in maniera del tutto pervasiva sulla sua solo astratta e presunta autonomia, così divenendo di fatto essa
stessa strumento per l’esercizio di poteri pubblicistici.
Non occorre, dunque, far luogo ad una rivalutazione della teoria dell’organo indiretto per ritenere le controversie inerenti tale esercizio riconducibili
nell’alveo della giurisdizione di legittimità di questo Giudice, versandosi in un’ipotesi di traslazione delle istituzionali funzioni amministrative in
favore di un nuovo soggetto, che lo schermo formale del diritto privato non può valere a sottrarre ai precisi vincoli pubblicistici derivanti dalla
posizione di subordinazione alla legge, che spetta all’attività amministrativa.
2. – Vincoli di siffatta natura, e veniamo così al mérito della questione posta con gli appelli all’esame, risultano esser stati, nella fattispecie che ne
occupa, effettivamente violati nell’attività posta in essere da Consorzio G1 e da Gabetti S.p.A. per conto e nell’interesse della SCIP ( e dunque del
tutto strumentale alle funzioni ed ai poteri pubblicistici ad essa attribuiti ), sì che gli appelli stessi sono da respingere e la sentenza di primo grado va
confermata.
Premesso, invero, che la clausola della lex specialis impugnata con il ricorso originario non rivestiva carattere immediatamente preclusivo
dell'ammissione del concorrente alla selezione e che, dunque, da un lato la partecipazione alla gara con la presentazione della domanda non
costituisce acquiescenza e non impedisce la proposizione del successivo gravame, dall’altro va escluso l'onere dell'immediata impugnazione delle
clausole del bando riguardanti gli oneri formali di partecipazione ( v. Cons. St., Ad. Plen., 29 gennaio 2003, n. 1 ), la clausola del bando di cui si
discute ( punto 3.1 del Regolamento d'Asta, che stabilisce che, ai fini della partecipazione all'asta, "... gli interessati [dovevano] consegnare, a pena di
esclusione, ... i documenti di cui in appresso contenuti in un plico chiuso e sigillato su entrambi i lembi di chiusura, senza indicazioni che possano
ricondurre all'identificazione dell'offerente" ), in applicazione della quale l’odierna appellata ha subito la esclusione dalla gara ( in relazione alle
modalità da essa seguite per la presentazione della busta contenente la documentazione sopra elencata, che è risultata controfirmata sui lembi di
chiusura e, quindi, ritenuta in contrasto con quanto prescritto dal veduto punto 3.1 ), si appalesa effettivamente, come ha rilevato il giudice di primo
grado, "sprovvista di un’idonea giustificazione" ( pag. 9 sent. ).
Com’è noto, in materia di procedimenti ad evidenza pubblica finalizzati all'aggiudicazione di contratti o comunque all'individuazione di soggetti
aspiranti a conseguire un beneficio pubblico, si ritiene che le formalità prescritte dal bando di gara debbano risultare dirette ad assicurare un
particolare interesse dell'amministrazione ( cfr. CdS: sez.IV, 14 maggio 1995, n. 167; sez.V, 17 gennaio 2000, n. 290 ), al fine di evitare di cadere in
un eccessivo formalismo, che finirebbe col risolversi nel pretendere una accurata diligenza da parte dei concorrenti per finalità non degne di nota o di
rilievo.
Ne discende che le formalità richieste dal bando a pena di esclusione dalla gara devono rispondere al comune canone di ragionevolezza, in stretta
relazione con le precitate esigenze.
Al riguardo, occorre allora precisare che il bando di gara de quo, laddove prevede, al punto 3.1, la consegna dei documenti costituenti l’offerta "in un
plico chiuso e sigillato su entrambi i lembi di chiusura, senza indicazioni che possano ricondurre all'identificazione dell'offerente", se risponde
indubbiamente ad un interesse essenziale per il proficuo svolgimento delle operazioni concorsuali ( quello della segretezza delle offerte ) nella parte
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in cui stabilisce che il detto plico deve risultare "chiuso e sigillato su entrambi i lembi di chiusura" ( interesse cui peraltro mira anche la classica
previsione della firma sui lembi di sigillatura del plico, firma invece preclusa dal Regolamento all’esame, che dunque, nel tutelare, come si vedrà,
l’esigenza di anonimato, sacrifica incongruamente quello ben più rilevante della garanzia di segretezza ), pone a càrico dei partecipanti òneri del tutto
ingiustificati con l’ulteriore prescrizione, che vieta qualsiasi indicazione, sul plico medesimo, suscettibile di "ricondurre all'identificazione
dell'offerente".
Alla stregua, invero, del principio, secondo cui devono ritenersi in contrasto con il principio di ragionevolezza e, pertanto, illegittime quelle
prescrizioni del bando di gara, che aggravino immotivatamente le condizioni della stessa, ponendo a carico dei partecipanti a pena di esclusione oneri
non necessarii ( in tal senso Cons. St., Sez. IV, 20 settembre 2000, n. 4934 e 5 aprile 2003, n. 1785 ), il veduto divieto, aggravando immotivatamente
le condizioni di gara, sfugge al necessario scrutinio di ragionevolezza.
Se, infatti, la tutela dell’anonimato dell’offerta, cui detta clausola con tutta evidenza mira, può sicuramente considerarsi meritevole se e nella misura
in cui sia volta ad impedire ai terzi l’accesso alle informazioni riguardanti i soggetti partecipanti alla procedura con misure assimilabili a quella del
pur inconferente, ratione materiae, art. 22 della legge 11-2-1994 n. 109 ( Legge quadro in materia di lavori pubblici ), lo stesso non può dirsi di una
misura di tutela dell’anonimato, che, lungi dall’incidere, come la disposizione appena sopra richiamata, sull’accesso dei terzi, sia volta invece, come
appunto accade nel caso di specie, ad impedire detta conoscenza agli agenti della stessa Amministrazione procedente ( addetti alla ricezione,
smistamento e collazione delle offerte pervenute ) e, addirittura, ai membri della stessa Commissione Aggiudicatrice, la cui "previa conoscenza del
nominativo dell’offerente" potrebbe, secondo l’appellante Onceas S.p.A., "favorire azioni finalizzate all’alterazione del contenuto" dei plichi ( pag.
25 mem. del 28 novembre 2005 ).
Ordunque, se questo è lo scopo specifico della clausola in argomento, la stessa risulta anzitutto contraddetta ( e dunque lo scopo vanificato ), come
pertinentemente rilevato dal T.A.R., da altre prescrizioni del regolamento di gara, che, con lo stabilire la libertà di scelta del mezzo di trasmissione
delle offerte, consentivano per altra, semplice, via all’intraneus di risalire all’identità del presentatore dell’offerta ( e si pensi non solo alla spedizione
tramite corriere, ma anche alla stessa tradizionale modalità della Racc. A.R. tramite servizio postale pubblico ).
Ma, peraltro, la stessa ratio, attribuita dalle appellanti alla disposizione di gara di cui si discute, di evitare possibili effetti pregiudizievoli per
l’Amministrazione derivanti da un "inquinamento" interno della procedura non regge ad una corretta analisi logica, dal momento che il particolare
interesse dell’Amministrazione ad evitare l’alterazione dei plichi è garantito dalla clausola che prevede la chiusura e sigillatura degli stessi (ed anzi
detto preminente interesse è addirittura, come s’è visto, messo in pericolo proprio dalla particolare ulteriore prescrizione della cui legittimità qui si
controverte), mentre quello alla non diffusione di notizie circa l’identità dei partecipanti alla gara ad opera di soggetti interni all’Amministrazione
stessa è garantito a sufficienza dalle norme penali poste a tutela del segreto d’ufficio e della libertà degli incanti, oltre che dal connesso
riconoscimento della qualifica di pubblico ufficiale, secondo la attuale formulazione dell'art. 357 c.p., a tutti i soggetti, che, pubblici dipendenti o
semplici privati, quale che sia la loro posizione soggettiva, possono e debbono, nell'ambito di una potestà regolata dal diritto pubblico, formare e
manifestare la volontà della P.A., ovvero esercitare poteri autoritativi o certificativi (laddove il diritto pubblico comprende il genere tutto ciò che
attiene agli interessi pubblici e alla loro attuazione, a prescindere dai soggetti cui essa è affidata; la formazione e la manifestazione della volontà
della P.A. implicano cooperazione ai procedimenti amministrativi con cui si deliberano e/o si rendono efficaci all'esterno gli atti inerenti alle
pubbliche funzioni; i poteri autoritativi fanno riferimento ai c.d. atti d'imperio, con cui si modificano unilateralmente situazioni giuridiche di terzi; i
poteri certificativi attengono alla formazione dei documenti originariamente destinati a costituire prova dei fatti in essi rappresentati: Cass. SS.UU.
27-3-1992, Delogu; Cass. Pen., sez. VI, 4 luglio 1997, n. 7972).
3. - Sulla scorta delle osservazioni che precedono, gli appelli principali ed incidentali all’esame vanno respinti. 4. - La particolarità e novità di alcune
delle questioni trattate inducono il Collegio a disporre la totale compensazione, tra le parti tutte, delle spese ed onorarii del presente grado di
giudizio.
P.Q.M.
il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sui ricorsi indicati in epigrafe, respinge gli appelli
principali ed incidentali e, per l’effetto, conferma la sentenza impugnata.
Spese del presente grado compensate.
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CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V – Sentenza 14 luglio 2003 n. 4167 – Pres. Elefante, Est. Deodato - Ariete Fattoria Latte Sano S.p.A. (Avv.ti M.
Sanino, F. Breschi e R. Arbib) c. Comune di Roma (Avv. E. Lo Russo), Cirio S.p.A. ed altri (n.c.) - (annulla T.A.R. Lazio, Sez. II, 28 gennaio 2003,
n. 506).
1. Giurisdizione e competenza – Contratti della P.A. – Rinegoziazione delle condizioni contrattuali – Controversie – Giurisdizione esclusiva
del G.A. – Ex art. 33 D.L.vo n. 80/1998 – Sussiste.
2. Giurisdizione e competenza – Giurisdizione esclusiva – Procedimenti speciali ex art. 23 bis lett. E) della L. TAR – Per provvedimenti
relativi alle procedure di privatizzazione o di dismissione di imprese o beni pubblici – Rientrano nella giurisdizione esclusiva del G.A.
3. Giurisdizione e competenza – Beni pubblici – Procedure di dismissione – Controversie – Riguardanti gli atti ed i comportamenti
direttamente riferibili all’atto traslativo ed alla sua regolamentazione – Rientrano nella giurisdizione esclusiva del G.A.
1. Appartengono alla giurisdizione esclusiva del G.A., ai sensi dell’art. 33 comma 2, lett. d) decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80 (così
come sostituito dall’art. 7 della legge n. 205/00), le controversie relative alla rinegoziazione delle condizioni di contratti stipulati in esito ad
una procedura di selezione pubblica ed alla legittimità di pattuizioni difformi da quelle prescritte dalla stessa amministrazione negli atti di
gara (1).
2. L’art. 23 bis, lett. e), della legge n. 1034/71 (come introdotto dall’art. 4 della legge n. 205/00), nel prevedere l’applicazione di un rito
particolare ai giudizi aventi ad oggetto "i provvedimenti relativi alle procedure di privatizzazione o di dismissione di imprese o beni
pubblici, nonché quelli relativi alla costituzione, modificazione o soppressione di società, aziende ed istituzioni ai sensi dell’art. 22 della legge
8 giugno 1990, n. 142", implica necessariamente anche il riconoscimento implicito della giurisdizione amministrativa esclusiva sulle relative
controversie (2).
3. Nelle procedure di dismissioni di beni pubblici, a differenza che nelle procedure di conferimento di appalti pubblici, non è configurabile
ontologicamente alcuna possibilità di distinguere una fase esecutiva, posto che il procedimento finalizzato alla cessione del bene o
dell’impresa esaurisce i suoi effetti con la stipula del contratto di vendita (che produce i relativi e definitivi effetti traslativi della proprietà) e
che, successivamente a tale momento, non è dato ravvisare alcun ulteriore segmento del rapporto da sottrarre alla cognizione del giudice
amministrativo; le procedure in questione si perfezionano e si risolvono con la cessione della proprietà, sicché, anche sotto tale profilo, tutti
gli atti ed i comportamenti direttamente riferibili all’atto traslativo (in quanto meramente riproduttivo delle condizioni dell’aggiudicazione)
ed alla sua regolamentazione vanno ricondotti entro la sfera cognitiva della "privatizzazione o dismissione di imprese o beni pubblici"
rientranti nella giurisdizione esclusiva del G.A.
FATTO
Con la sentenza appellata veniva dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione il ricorso, proposto dalla Ariete Fattoria Latte Sano S.p.A.
(d’ora innanzi Latte Sano) dinanzi al T.A.R. del Lazio, inteso a conseguire la declaratoria dell’illegittimità del silenzio serbato dal Comune di Roma
in ordine all’atto di messa in mora notificato in data 18 luglio 2000 (e diretto ad ottenere la pronuncia da parte dell’Ente diffidato della risoluzione
del contratto dallo stesso stipulato con la Cirio S.p.A. per la cessione di parte della proprietà della Centrale del Latte S.p.A.) e la condanna
dell’Amministrazione intimata al risarcimento dei danni, anche in forma specifica, patititi dalla società ricorrente in conseguenza dell’illegittima
conclusione del predetto contratto (per come integrato dalla, altrettanto contestata, transazione).
Avverso tale pronuncia proponeva appello l’originaria ricorrente, contestando la correttezza del convincimento ivi espresso in merito
all’appartenenza della giurisdizione sulla presente controversia al giudice ordinario, ribadendo le ragioni addotte a sostegno del ricorso in primo
grado ed invocando coerentemente l’annullamento della sentenza impugnata.
Resisteva il Comune di Roma, difendendo la correttezza del proprio operato, eccependo, comunque, l’inammissibilità del ricorso in primo grado
sotto profili diversi da quelli rilevati dai primi giudici, ribadendo l’estraneità della controversia alla sfera di giurisdizione riservata al giudice
amministrativo e concludendo per la reiezione dell’appello.
Non si costituivano, invece, la Cirio, la Parmalat e la Granarolo Felsinea.
Le parti illustravano ulteriormente le loro tesi mediante memorie difensive.
Nella camera di consiglio del 10 giugno 2003 il ricorso veniva trattenuto in decisione.
DIRITTO
1.- Al fine di una compiuta comprensione delle questioni controverse (ivi compresa quella di giurisdizione) appare necessaria una preliminare,
ancorchè sintetica, ricognizione della complessa vicenda sostanziale dedotta in giudizio (in mancanza della quale risulterebbe arduo avvertire gli
esatti termini del dibattito processuale).
Dopo aver stabilito (con delibera di C.C. n.132 in data 8 luglio 1996) di procedere alla trasformazione dell’Azienda Comunale che gestiva la
Centrale del Latte in società per azioni ed alla successiva privatizzazione di quest’ultima ai sensi della legge 30 luglio 1994, n.474, il Comune di
Roma provvedeva ad indire, con avviso pubblicato il 2 ottobre 1996, la relativa procedura di dismissione, che contemplava, tra l’altro, la
sottoscrizione da parte dell’offerente di uno schema di contratto comprensivo di taluni vincoli particolarmente incisivi per l’acquirente (quale, tra
l’altro, il divieto di cedere le azioni della Centrale del Latte per un periodo di cinque anni).
Con successiva deliberazione consiliare n.145 in data 28 luglio 1997, il Comune provvedeva, all’esito della procedura concorrenziale, ad approvare,
tra l’altro, il nuovo Statuto della società, la cessione del 75% del capitale sociale alla società selezionata (la Cirio), il relativo contratto di vendita, poi
stipulato il 26 gennaio 1998, ed i connessi patti parasociali.
Sennonchè, la vicenda della privatizzazione si complicava allorchè, dopo la stipulazione del contratto, la Cirio comunicava al Comune di avere
conferito la sua divisione latte ad una società, da essa interamente controllata, denominata Eurolat S.p.A., al fine della cessione di quest’ultima alla
Parmalat e, con atto del 7 aprile 1999, proponeva (insieme alla Parmalat) al Comune la conclusione di un accordo transattivo, relativo alla
controversia insorta sulla violazione da parte dell’acquirente della clausola dell’art.8 dei patti parasociali, che vietava l’alienazione della quota
societaria per cinque anni dal suo acquisto.
Con delibera n.80 del 31 maggio 1999 il Consiglio Comunale, in esito ad un’articolata dialettica degli organi dell’Ente, approvava la transazione
proposta dalle società interessate, che comprendeva, tra l’altro, il pagamento di una penale, ed autorizzava la sottoscrizione del relativo contratto.
Allora la società Latte Sano, che aveva partecipato alla procedura di selezione, senza conseguire alcun risultato utile, finalizzata alla cessione della
suddetta quota azionaria della Centrale del Latte, avendo appreso le circostanze appena riferite, diffidava l’amministrazione comunale, con atto
notificato il 18 luglio 2000, a provvedere alla risoluzione del contratto stipulato con la Cirio, nell’esercizio dei poteri espressamente previsti
dall’art.16 dell’accordo, e ad indire una nuova gara.
Nella persistente inerzia del Comune, Latte Sano adìva il T.A.R. del Lazio, denunciando l’illegittimità del silenzio serbato dall’Ente, assumendo
l’illiceità dell’omessa risoluzione del contratto e della conseguente conclusione della transazione e domandando la declaratoria dell’obbligo
dell’amministrazione di provvedere sull’istanza rimasta inevasa e la sua condanna al risarcimento dei danni, anche in forma specifica, patiti da essa
ricorrente in conseguenza della (asseritamente invalida) cessione alla Cirio del 75% delle azioni della Centrale del Latte.
Il Tribunale capitolino declinava la giurisdizione amministrativa, in favore di quella ordinaria, nella controversia così introdotta, ritenendo, in
particolare estranee alla propria sfera di cognizione le questioni relative a vicende, di tipo privatistico e negoziale, successive alla stipulazione del
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contratto (ancorchè in esito ad una pubblica gara) ed improponibile la pretesa risarcitoria nell’ambito del procedimento di cui all’art.21 bis legge 6
dicembre 1971, n.1034, e dichiarava conseguentemente inammissibile il ricorso.
2.- La società appellante critica la correttezza di tale giudizio, sostenendo, in particolare, che nelle controversie (quali la presente) relative alla
dismissione di imprese o beni pubblici, di cui all’art.23 bis lett. e) legge n.1034/71, non è dato distinguere l’aggiudicazione del contratto dalla sua
esecuzione (come, invece, nelle procedure relative a contratti d’appalto) ed assumendo, quindi, la riconducibilità delle questioni dedotte in giudizio
entro l’ambito della giurisdizione esclusiva amministrativa, ed invoca, di conseguenza, l’annullamento della sentenza impugnata.
Il Comune difende, di contro, la correttezza della valutazione compiuta dai primi giudici, afferma l’inidoneità della posizione soggettiva azionata da
Latte Sano a fondare il valido esercizio dello strumento di tutela previsto dall’art. 21 bis legge n.1034/71, ribadisce, comunque, nel merito, la validità
della transazione con Cirio e Parmalat e conclude per la reiezione dell’appello.
3.- Deve preliminarmente chiarirsi che l’oggetto dell’appello in esame è circoscritto alla disamina della sola questione di giurisdizione.
Ove, infatti, venga riconosciuta la sussistenza della giurisdizione negata con la decisione appellata, dovrà procedersi all’annullamento di quest’ultima
con rinvio al T.A.R., in ossequio al disposto dell’art.35 legge n.1034/71, mentre, nel caso di conferma della statuizione gravata, l’esame delle residue
questioni resta precluso dalla declaratoria dell’inammissibilità del ricorso originario.
In entrambi i casi, come si vede, resta impedito al giudice d’appello qualsiasi esame di tutte le questioni logicamente successive alla pregiudiziale di
giurisdizione.
4.- Così chiarito l’ambito cognitivo riservato a questo Giudice, si reputa opportuno, al fine di procedere ad uno scrutinio consapevole della questione
controversa, procedere ad una preliminare qualificazione della domanda proposta da Latte Sano in primo grado, onde rilevare prospettazione e
contenuto difensivi, sotto il duplice profilo dell’individuazione della causa pretendi e del petitum, dell’azione effettivamente esercitata (ed in
relazione alla quale si deve compiere la verifica della sussistenza della potestà cognitiva del giudice adìto).
Dall’esame del testo del ricorso in primo grado e dei motivi aggiunti nonché dall’analisi delle conclusioni ivi formulate può, in particolare, evincersi
che la società ricorrente, nonostante la formale qualificazione dell’atto introduttivo come proposto ai sensi dell’art.21 bis legge n.1034/71, ha inteso
non solo, o, meglio, non tanto, conseguire una pronuncia declaratoria dell’obbligo del Comune di provvedere sulla propria istanza rimasta inevasa,
quanto denunciare l’illegittimità (o, meglio, l’illiceità) della condotta, non solo omissiva, dell’Ente nell’aver prestato il proprio consenso ad
un’operazione fraudolenta e nell’essersi astenuto dall’esercitare i poteri-doveri assegnatigli dal contratto nell’ipotesi di violazione di una clausola
essenziale dell’aggiudicazione; e ciò al fine di ottenere l’accertamento dell’antigiuridicità del complesso di atti e comportamenti ascrivibili al
Comune nella vicenda controversa e la sua condanna al risarcimento dei danni, anche in forma specifica (mediante l’indizione di una nuova gara,
previa risoluzione del contratto con la Cirio) ovvero, ove impossibile, per equivalente, sopportati dalla ricorrente in conseguenza dell’invalida
cessione delle quote della Centrale del Latte.
La ricorrente aziona a, tale fine, la propria posizione giuridica soggettiva di concorrente nella procedura indetta dal Comune per l’alienazione del
pacchetto azionario in questione e si duole della sua lesione, per effetto dell’alterazione delle regole che presiedono alla trasparenza ed
all’imparzialità del confronto concorrenziale, a sua volta conseguìta alla transazione, consentita dall’Ente, di una controversia che avrebbe, invece,
dovuto indurre l’amministrazione a risolvere il contratto e ad indire una nuova gara.
Se tale ricostruzione si rivela esatta (e non potrebbe dubitarsene se si considera la prospettazione ricavabile dall’esame del complesso degli atti
difensivi di Latte Sano), si deve, allora, scrutinare la questione della sussistenza della giurisdizione amministrativa non tanto con riferimento alla
verifica dell’azionabilità della posizione soggettiva di Latte Sano con il peculiare strumento di tutela del ricorso per la declaratoria dell’illegittimità
del silenzio-rifiuto (che assolve una funzione solo strumentale e marginale nell’economia dell’iniziativa giudiziaria in esame), quanto con specifico
riguardo alla riconducibilità del rapporto controverso e dell’azione amministrativa denunciata dalla ricorrente (negoziabilità delle condizioni di
vendita anche dopo la stipula del contratto di dismissione di un bene pubblico) al novero delle controversie riservate alla giurisdizione esclusiva
amministrativa.
5.- Come già rilevato, la ricorrente assume, in sostanza, l’illegittimità dell’esercizio della funzione amministrativa relativa alla contrattazione con
un’impresa privata e deduce, a sostegno dell’intrapresa iniziativa giudiziaria, l’invalidità della modifica pattizia delle condizioni di cessione della
proprietà azionaria, già cristallizzate negli atti di gara, siccome contraria alle regole della concorrenza e del rispetto della par condicio dei
partecipanti ad un confronto concorrenziale nonché invalidamente deliberata nonostante la sottrazione della relativa potestà alla capacità d’agire
dell’Ente e, quindi, nell’assoluta impossibilità di ricorrere ad un istituto di tipo privatistico quale la transazione.
La questione appena illustrata, riassumibile nel duplice problema della sussistenza della giurisdizione amministrativa nelle controversie relative alla
rinegoziazione delle condizioni di contratti stipulati in esito ad una procedura di selezione pubblica ed alla legittimità di pattuizioni difformi da
quelle prescritte dalla stessa amministrazione negli atti di gara, è stata già esaminata e definita da questo giudice (cfr. C.S., Sez. V, 13 novembre
2002, n.6281; Comm. Spec., 12 ottobre 2001, n.1084/00) nel senso della appartenenza di tale tipo di liti alla sfera cognitiva attribuita al giudice
amministrativo, in quanto riferite alla verifica della correttezza dell’esercizio della funzione amministrativa relativa alla contrattazione con i privati, e
dell’invalidità, per difetto di capacità d’agire dell’amministrazione, di accordi con il contraente privato che contemplino diritti od obblighi diversi da
quelli sanciti con l’aggiudicazione e la conseguente stipula del contratto.
E’ stato, al riguardo, rilevato che le controversie aventi ad oggetto l’accertamento della legittimità della rinegoziazione delle condizioni contrattuali,
anche dopo la stipula del contratto, appartengono senz’altro alla giurisdizione amministrativa esclusiva ai sensi dell’art.33 comma 2, lett.d) decreto
legislativo 31 marzo 1998, n.80 (così come sostituito dall’art. 7 della legge n.205/00) in quanto pertinenti alla verifica della regolarità
dell’aggiudicazione dell’appalto (o di un’impresa pubblica, come nel caso di specie, posto che la mera differenza dell’oggetto del contratto non vale
a giustificare un diverso riparto della giurisdizione).
Tale orientamento va senz’altro condiviso e confermato in quanto correttamente formatosi in esito ad un’analisi compiuta e coerente delle regole che
presiedono alla selezione del contraente privato delle pubbliche amministrazioni ed ai vincoli legali dell’azione di queste ultime in ordine alla
stipulazione del contratto ed alla ammissibilità di una successiva ridefinizione convenzionale dei suoi elementi essenziali.
6.- L’analogia della presente fattispecie con quelle scrutinate dai precedenti citati ed il segnalato carattere uniforme del relativo orientamento assunto
in materia dal Consiglio di Stato esimono il Collegio da una disamina diffusa dei problemi sottesi alla questione principale e degli argomenti addotti
a sostegno della tesi contraria a quella preferita dalla Sezione e consentono di ribadire sinteticamente le ragioni assunte a fondamento del
convincimento qui confermato.
6.1- Reputa il Collegio che sia, in particolare, condivisibile e decisivo il rilievo che con la cristallizzazione negli atti di gara delle condizioni del
contratto (sia se imposte dalla legge, sia se discrezionalmente determinate dalla stessa amministrazione aggiudicatrice) alla cui stipulazione risulta
preordinata una procedura selettiva e con la conseguente e coerente conclusione dell’accordo con l’impresa selezionata, l’Ente procedente perde la
disponibilità del contenuto del rapporto contrattuale già instaurato (che resta inderogabilmente regolato dallo schema approvato con l’indizione della
gara) e, quindi, la capacità di convenire con la controparte condizioni diverse da quelle conosciute dai partecipanti al confronto concorrenziale (con
conseguente invalidità di accordi di tal fatta).
Tale conclusione, imposta dalla valenza correttamente riconosciuta alle esigenze di salvaguardia dell’interesse generale alla certezza ed alla stabilità
dei rapporti giuridici in cui sono parti amministrazioni pubbliche e di quello (non solo) privato, speculare, all’affidabilità dei sistemi di gara ed al
rispetto della concorrenza e della par condicio dei partecipanti, implica, inoltre, che ogni determinazione idonea ad incidere sulle condizioni di
contratto, modulando assetti di interessi difformi da quelli consacrati negli atti di gara, va riferita alla medesima funzione amministrativa (la cui
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disponibilità è, tuttavia, nel frattempo venuta meno) nel cui esercizio si è proceduto alla selezione del contraente e non anche, come erroneamente
ritenuto nella fattispecie dal Tribunale capitolino, a quella che presiede all’esecuzione del contratto.
Mentre, infatti, quest’ultima fase attiene all’esecuzione della prestazione dovuta dal contraente privato ed all’esercizio di tutti i diritti direttamente
connessi all’adempimento dell’obbligazione principalmente dedotta nella convenzione, la revisione pattizia delle condizioni di contratto (che
prescinda da qualsiasi difetto di funzionamento del sinallagma) si rivela estranea alla fase esecutiva del rapporto (in quanto ad essa logicamente
antecedente) e, piuttosto, pertinente a quella dell’aggiudicazione e, in definitiva, della contrattazione (intesa come definizione unilaterale e
pubblicistica del contenuto dell’accordo).
Ne consegue che la controversia nella quale si discute della validità di una transazione con la quale sono state modificate talune (rilevanti) condizioni
dell’aggiudicazione (prima che del contratto), della illiceità del presupposto, omesso esercizio da parte dell’amministrazione dei poteri assegnatile da
una clausola risolutiva espressa e del conseguente pregiudizio patito da un’impresa concorrente (che ha formulato l’offerta confidando nella stabilità
delle clausole del contratto ed impegnandosi al loro rispetto) va senz’altro ricondotta al novero delle liti attribuite in via esclusiva alla giurisdizione
amministrativa, siccome relative alla procedura di affidamento nella sostanza contestata (nella riferita lettura del complesso fenomeno
dell’aggiudicazione del contratto).
6.2- Nè tale conclusione risulta inficiata dall’argomento con cui si obietta che nel caso di specie non si verte in tema di procedure di affidamento di
appalti, ma sulla diversa questione della cessione di un’impresa pubblica, con la duplice conseguenza che non sarebbero applicabili sia i principi
affermati dalla giurisprudenza citata (in quanto espressamente riferita ad ipotesi di aggiudicazione di appalti pubblici), sia, per le medesime ragioni,
l’art.33 comma 2, lett.d) decreto legislativo 31 marzo 1998, n.80.
E’ sufficiente, al riguardo, rilevare che, se può escludersi l’applicabilità diretta (ma non in via analogica) alla fattispecie controversa della
disposizione appena citata, non può, di contro, dubitarsi della riconducibilità del caso in discussione entro l’ambito applicativo dell’art.23 bis lett.e)
legge n.1034/71 (come introdotto dall’art.4 della legge n.205/00).
Nonostante, infatti, tale norma si occupi precipuamente di prevedere e disciplinare un procedimento speciale in talune materie, senza dettare
esplicitamente regole innovative in tema di giurisdizione, ed ancorchè non risulti coordinata con la regolamentazione positiva della giurisdizione
amministrativa esclusiva (e segnatamente con il decreto legislativo 31 marzo 1998, n.80), non può, invero, seriamente dubitarsi che l’espressa
previsione dell’applicazione di un rito particolare ai giudizi aventi ad oggetto "i provvedimenti relativi alle procedure di privatizzazione o di
dismissione di imprese o beni pubblici, nonché quelli relativi alla costituzione, modificazione o soppressione di società, aziende ed istituzioni ai
sensi dell’art.22 della legge 8 giugno 1990, n.142" implichi necessariamente il riconoscimento implicito della giurisdizione amministrativa esclusiva
sulle relative controversie.
Ogni diversa interpretazione andrebbe, in particolare, rifiutata, in quanto contraria al canone ermeneutico che impone di assegnare ad una norma un
significato che le consenta di produrre effetti e che impedisce, al contempo, ogni lettura che precluda alla disposizione qualsiasi utilità e che la privi
di senso.
Resterebbe, infatti, inammissibilmente sprovvista di alcun significato e dell’idoneità a produrre qualsiasi effetto una disposizione (quale quella in
esame) che, regolando l’applicazione di un rito speciale ad un tipo di controversie, non venisse letta come contestualmente attributiva al giudice
amministrativo della capacità e del potere di conoscere di quel giudizio, nella più ampia latitudine della possibile configurazione del suo contenuto.
6.3- Né varrebbe, ancora, obiettare che l’art.23 bis legge n.1034/71, siccome disposizione regolatrice del solo rito, riveste valore meramente
ricognitivo della (già esistente) giurisdizione generale di legittimità in materia di privatizzazioni di imprese o beni pubblici, senza alcuna valenza
costitutiva di nuove potestà giurisdizionali nelle controversie ivi elencate.
Quand’anche, infatti, si intendesse accedere a tale lettura della norma, si dovrebbe, comunque, confermare la sussistenza della giurisdizione
amministrativa (ut supra riconosciuta in esito a diverso percorso ermeneutico), in quanto radicata dalla diretta pertinenza della lite all’esercizio di
una funzione pubblicistica incidente sull’interesse legittimo (nella specie azionato) al rispetto delle regole poste a presidio della concorrenza ed alla
correttezza nella contrattazione delle pubbliche amministrazioni (secondo l’accezione prima descritta); senza necessità, dunque, di ricorrere alla
diversa ipotesi della giurisdizione esclusiva (pure, tuttavia, esistente).
Ma, in ogni caso, risulta difficilmente contestabile che la previsione del rito speciale di cui all’art.23 bis legge n.1034/71 postula una cognizione
piena del giudice amministrativo di tutti i rapporti giuridici direttamente interessati dalle tipologie di attività amministrative ivi catalogate, sicchè una
lettura che limitasse, per la sola fattispecie di cui alla lett.e), la sfera cognitiva del giudice amministrativa alla sola legittimità degli atti e che negasse,
al contempo, l’estensione della giurisdizione alla conoscenza di tutte le posizioni soggettive direttamente coinvolte nel complesso fenomeno della
privatizzazione di beni o imprese pubblici (anche se diritti, ove configurabili) si rivelerebbe inammissibilmente contraria alla (palese) finalità di
assegnare ad un unico giudice un sistema processuale di protezione rapida ed efficace di tutti gli interessi (perlopiù pubblici) a qualunque titolo
coinvolti nelle materie sensibili lì contestualmente classificate e ritenuti dal Legislatore del 2000, per ciò solo, meritevoli di forme differenziate e più
pregnanti di tutela e determinerebbe una vistosa disarmonia nel sistema di riparto della giurisdizione delineato (seppur imprecisamente e
lacunosamente) dalla normativa di riferimento.
Può, quindi, concludersi che la controversia in esame risulta soggetta all’art.23 bis legge n.1034/71 (da valersi quale disposizione attributiva anche
della giurisdizione esclusiva amministrativa) e che, quand’anche dovesse rifiutarsi tale ultima conclusione, la lite resterebbe validamente radicata
davanti al giudice adìto in quanto riferita alla giurisdizione generale di legittimità agevolmente riconoscibile nell’esercizio della funzione della
contrattazione della pubblica amministrazione con i privati (dalla quale esulano i soli atti o comportamenti relativi alla fase propriamente esecutiva
del rapporto costituito dalla stipula del contratto).
6.4- Non solo, ma se possono formularsi rilievi critici (alle conclusioni sopra raggiunte) fondati sulla distinzione tra fase della contrattazione e fase
dell’esecuzione del contratto nei procedimenti relativi all’affidamento di appalti pubblici, le medesime obiezioni non rivestono alcun pregio nella
materia delle dismissioni di beni pubblici.
In quest’ultima fattispecie, infatti, a differenza che negli appalti, non è configurabile ontologicamente alcuna possibilità di distinguere una fase
esecutiva, posto che il procedimento finalizzato alla cessione del bene o dell’impresa esaurisce i suoi effetti con la stipula del contratto di vendita
(che produce i relativi e definitivi effetti traslativi della proprietà) e che, successivamente a tale momento, non è dato ravvisare alcun ulteriore
segmento del rapporto da sottrarre alla cognizione del giudice amministrativo.
Il procedimento controverso, in definitiva, si perfeziona e si risolve con la cessione della proprietà, sicchè, anche sotto tale peculiare profilo, deve
ribadirsi che tutti gli atti ed i comportamenti direttamente riferibili all’atto traslativo (in quanto meramente riproduttivo delle condizioni
dell’aggiudicazione) ed alla sua regolamentazione vanno ricondotti entro la sfera cognitiva della "privatizzazione o dismissione di imprese o beni
pubblici" e deve, al contempo, escludersi la stessa astratta configurabilità in tali procedimenti di provvedimenti o condotte che si riferiscano
all’esecuzione in senso stretto del contratto.
7.- Alle considerazioni che precedono conseguono, in definitiva, l’accertamento della sussistenza della giurisdizione amministrativa nel presente
giudizio, l’annullamento della sentenza appellata ed il rinvio della controversia ad altra Sezione del T.A.R. del Lazio.
8.- La statuizione sulle spese processuali va rinviata alla decisione definitiva del ricorso.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quinta, accoglie il ricorso indicato in epigrafe e, per l’effetto, annulla la sentenza appellata con
rinvio della controversia a diversa sezione del T.A.R. del Lazio;
59
Depositata in segreteria il 14 luglio 2003.
60
10) GIURISDIZIONE SU CONCESSIONE E REVOCA DI CONTRIBUTI
CORTE DI CASSAZIONE SEZ. UNITE CIVILI - Sentenza 25 maggio 2001 n. 225 - Pres. ff. Vessia, Est. Vitrone - P.M. Lo Cascio (diff.) Regione Lazio (Avv. R. Frascaroli), c. S.p.A. Nuovo Marchione (Avv.ti A. Fontanelli e F. Tedeschini) Giurisdizione e competenza - Contributi e provvidenze - Sovvenzioni della P.A. per la promozione di determinate attività economiche - Fase
di concessione - Giurisdizione amministrativa - Fase successiva - Rientra di regola nella giurisdizione dell’A.G.O., tranne il caso in cui la
P.A. ritiri il provvedimento concessorio o sospenda l'erogazione delle somme.
Giurisdizione e competenza - In genere - Principio della perpetuatio jurisdictionis - Ex art. 5 c.p.c. - Ambito di applicazione - Limiti.
Nelle controversie relative a sovvenzioni da parte della Pubblica Amministrazione per la promozione di determinate attività economiche il
discrimine fondamentale per la individuazione del giudice fornito di giurisdizione va rapportato alle posizione soggettive dell'interessato
prima e dopo la concessione del beneficio previsto dalla legge, dato che:
a) nella fase procedimentale che precede l'emanazione del provvedimento concessorio è ravvisabile unicamente una posizione di interesse
legittimo, e quindi la giurisdizione spetta al Giudice amministrativo;
b) nella fase successiva, il privato può assumere una duplice configurazione giuridica in quanto egli è titolare di diritti soggettivi sia nei
riguardi della concreta erogazione del beneficio, sia della susseguente conservazione della disponibilità delle somme erogate di fronte alla
posizione assunta dalla Pubblica Amministrazione con provvedimenti variamente definiti (revoca, decadenza, risoluzione) emanati in
funzione dell'asserito inadempimento da parte del beneficiario per l'inosservanza della disciplina che regola il rapporto. Il privato
destinatario di contributi conserva, tuttavia, una posizione di interesse legittimo nei confronti del potere della Pubblica Amministrazione di
ritirare in via di autotutela il provvedimento concessorio - o anche solo di sospendere l'erogazione delle provvidenze concesse al beneficiario
- per vizi di legittimità o per contrasto sin dall'origine con il pubblico interesse (1).
Il principio espresso dall'art. 5 cod. proc. civ. è diretto a favorire e non già ad impedire la cosiddetta perpetuatio jurisdictionis e trova perciò
applicazione solo nel caso di sopravvenuta incompetenza o carenza di giurisdizione del giudice adito, non già nel caso inverso in cui il
mutamento dello stato di fatto o di diritto comporti l'attribuzione della competenza o della giurisdizione al giudice che ne era privo al
momento della proposizione della domanda.
11) GIURISDIZIONE IN MATERIA DI RAPPORTO DI LAVORO ALLE DIPENDENZE DELLA P.A.
Cassazione civile , sez. un., 08 novembre 2005 , n. 21592
In materia di lavoro pubblico privatizzato, dal sistema di riparto di giurisdizione delineato dall'art. 63, comma 1, d.lg. n. 165 del 2001,
risulta chiaramente che le controversie concernenti (secondo il criterio del cosiddetto "petitum" sostanziale in base al quale non è sufficiente
la mera impugnazione dell'atto amministrativo) gli atti recanti le linee fondamentali di organizzazione degli uffici, adottati dalle
amministrazioni ai sensi dell'art. 2, comma 1, dello stesso decreto - quali atti presupposti , rispetto a quelli di organizzazione e gestione dei
rapporti di lavoro, nei confronti dei quali sono configurabili astrattamente situazioni di interesse legittimo derivando gli effetti
pregiudizievoli direttamente dall'atto presupposto - spettano alla giurisdizione del g.a., restando irrilevante la loro incidenza riflessa sugli
atti di gestione di diritto privato dei rapporti di lavoro, ai fini dell'attrazione alla giurisdizione del g.o., nonché l'effettiva sussistenza
dell'interesse al ricorso, atteso che le questioni della legittimazione, processuale e sostanziale, e delle condizioni dell'azione sono estranee
all'area dei limiti esterni del potere giurisdizionale e vanno risolte dal giudice munito di giurisdizione . (Sulla base del suddetto principio la
S.C. ha dichiarato la giurisdizione del g.a. a conoscere della controversia avente ad oggetto l'impugnazione, da parte di organizzazioni
sindacali, di un regolamento della regione Lazio, di attuazione della legge reg. n. 25 del 1996, in materia di inquadramento del personale, che
aveva consentito il conferimento della qualifica dirigenziale a numerosi dipendenti).
. Le associazioni sindacali sopra indicate chiedono alla Corte il regolamento della giurisdizione in pendenza del giudizio dalle stesse promosso,
unitamente a R.B. +9, dinanzi al Tribunale amministrativo regionale del Lazio (R.g. n. 12821 del 2002), nei confronti della Regione Lazio e di alcuni
dipendenti regionali, per l'annullamento del regolamento regionale 10 maggio 2001, n. 2, di attuazione dell'art. 22, comma 8, della legge regionale 1°
luglio 1996, n. 26, e degli atti conseguenziali con i quali era stata disposta, senza concorso pubblico, l'attribuzione della qualifica dirigenziale a circa
480
dipendenti
regionali.
2. Le ricorrenti associazioni sindacali riferiscono che la Regione Lazio e i controinteressati costituiti nel giudizio avevano sollevata la questione del
difetto di giurisdizione del giudice adito; sostengono l'appartenenza della controversia alla giurisdizione amministrativa per avere impugnato il
regolamento nella veste di titolari di interessi collettivi della categoria dirigenziale, introducendo così una controversia estranea a quelle di pertinenza
della giurisdizione ordinaria, anche nel sistema di cui al d.lgs. n. 165 del 2001, che, in ogni caso, assegna all'area del diritto pubblico e dei
provvedimenti amministrativi le misure di cd. "macro-organizzazione", le quali misure non venivano in considerazione come atti presupposti della
gestione
dei
rapporti
di
lavoro,
ma
formavano
oggetto
diretto
dell'impugnazione
ai
fini
dell'annullamento.
3. La Regione Lazio ha resistito con controricorso, insistendo nel sostenere l'appartenenza della controversia alla giurisdizione ordinaria, ponendo
particolarmente in evidenza che l'annullamento del regolamento avrebbe incidenza diretta sugli atti di gestione dei rapporti di lavoro, di attribuzione
della qualifica dirigenziale e di conferimento degli incarichi. Non hanno svolto attività di resistenza gli altri intimati.
4. Con nota depositata in data 2.10.2005, i sindacati ricorrenti hanno domandato che la Corte disponga, eventualmente, l'integrazione del
contraddittorio nei confronti di tutti gli altri dipendenti della Regione titolari di situazioni suscettibili di essere coinvolte dalla decisione sul
regolamento
della
giurisdizione.
5. Le parti costituite hanno anche depositato memorie ai sensi dell'art. 375 c.p.c.
Inizio documento
Diritto
1. In ordine alla richiesta di integrazione del contraddittorio, rileva la Corte che la natura di procedimento incidentale del regolamento di
giurisdizione rispetto al procedimento (principale) in seno al quale l'istanza è stata proposta, comporta che il litisconsorzio necessario cosiddetto
processuale si configuri relativamente a tutte le parti, costituite e non, del procedimento principale, mentre resta escluso il controllo di integrità del
contraddittorio nel detto processo principale, non potendo essere diverse le parti del processo incidentale. Invero, con la statuizione sulla
giurisdizione, ai sensi dell'art. 386 c.p.c., si identifica il giudice che deve conoscere del rapporto controverso, senza alcun pregiudizio, oltre che per il
merito, anche per la problematica attinente all'ammissibilità ed alla proponibilità della domanda, nella quale è incluso il quesito dell'eventuale
esigenza
di
integrazione
del
contraddittorio
(vedi
Cass.
S.u.
n.
12607
del
2004).
2. Premette la Corte che sicuramente la controversia coinvolge l'attività autoritativa delle pubbliche amministrazioni, nel cui ambito si iscrive, ai
sensi dell'art. 2, primo comma, del decreto legislativo 30 marzo 2001, la cd. "configurazione strutturale" degli uffici, e cioè l'indicazione delle linee
fondamentali dell'organizzazione, l'individuazione degli uffici di maggiore rilevanza, la precisazione dei modi di conferimento della titolarità dei
medesimi e la determinazione delle piante organiche. A tale configurazione l'amministrazione deve provvedere mediante atti organizzativi, di natura
normativa
e
non.
61
Viene, infatti, contestata la legittimità del regolamento regionale Lazio 10/5/2001 n. 2 (Regolamento di attuazione dell'art. 22, comma 8, della legge
regionale 1.7.1996, n. 25), che ha previsto la revisione degli inquadramenti del personale, anche al fine di comporre il contenzioso esistente in
materia
di
perequazione,
consentendo
il
conferimento
della
qualifica
dirigenziale
e
numerosi
dipendenti.
3 Pertanto, nessun dubbio che siano astrattamente configurabili situazioni di interesse legittimo, in presenza di atti amministrativi che, rispetto agli
atti organizzativi e di gestione dei rapporti di lavoro (conferimento della qualifica dirigenziale, attribuzione degli incarichi) assumono il ruolo di "atti
presupposti".
Del resto, nel sistema di riparto della giurisdizione disegnato dall'art. 63 d.lgs. 165/2001, risulta chiaramente, in linea con i precetti degli art. 103 e
113 Cost. che questi atti possono essere impugnati davanti al giudice amministrativo, quale giudice deputato al controllo del potere amministrativo,
tanto è vero che si contempla espressamente l'eventualità della contemporanea pendenza del giudizio amministrativo sull'atto presupposto e del
giudizio ordinario sugli atti (di diritto privato) presupponenti, giudizio ordinario che può coinvolgere l'atto presupposto ai fini della disapplicazione,
e ciò per sancire che non è necessario sospendere il processo dinanzi al giudice ordinario (comma 1).
La configurazione legislativa della relazione di presupposizione tra atti amministrativi e gestione dei rapporti di lavoro, poi, dimostra
inconfutabilmente che l'esito del giudizio amministrativo sull'atto presupposto immancabilmente produce effetti (la cui natura e portata non va
approfondita ai fini della decisione) sugli atti organizzativi e di gestione di diritto privato, cosicché non è sostenibile che, le quante volte
l'annullamento dell'atto produca diretta incidenza sull'area dell'autonomia privata, la controversia sarebbe sottratta all'ambito della giurisdizione di
legittimità
del
giudice
amministrativo.
4. Una volta affermata la configurabilità in astratto di situazioni di interesse legittimo di fronte al potere (nella specie normativo)
dell'amministrazione, non interessa il tema della giurisdizione stabilire se le organizzazioni sindacali ricorrenti possano ritenersi titolari di dette
situazioni, ovvero se sussista interesse al ricorso in sede di giurisdizione amministrativa, atteso che le questioni attinenti alla legittimazione,
processuale e sostanziale, e alle condizioni dell'azione, sono estranee all'area dei limiti esterni del potere giurisdizione e vanno risolte dal giudice
munito
di
giurisdizione
(vedi
Cass.
S.u.
n.
11091
del
2003;
n.
8882
del
2005).
5. Piuttosto, l'indagine va concentrata sul tema se sia sufficiente che si impugni un atto amministrativo e se ne chieda l'annullamento per radicare la
giurisdizione
amministrativa.
La risposta non può che essere di segno negativo siccome, da tempo risalente, le Sezioni unite della Corte enunciano il principio secondo il quale la
giurisdizione va determinata, non già in base al criterio della soggettiva prospettazione della domanda, ovvero del tipo di pronuncia richiesta al
giudice, bensì alla stregua del criterio cd. del petitum sostanziale, ossia considerando l'intrinseca consistenza della posizione soggettiva dedotta in
giudizio ed individuata dal giudice stesso con riguardo alla sostanziale protezione accordata a quest'ultima dall'ordinamento giuridico.
Nelle controversie di lavoro, l'applicazione del suddetto criterio ha portato al risultato di attrarre nella competenza del giudice ordinario tutte le
domande che, pur avendo formalmente ad oggetto l'impugnazione di atti amministrativi ai fini dell'annullamento, nella sostanza sono dirette a
conseguire utilità inerenti ai rapporti di lavoro, anche solo con riguardo all'acquisizione di una chance o alla modifica di prerogative inerenti allo
status del lavoratore, ovvero al conferimento o revoca di incarichi dirigenziali (vedi Cass. S.u. n. 1807 del 2003, n. 3508 del 2003, n. 6348 del 2003,
n.
10464
del
2003,
n.
22990
del
2004,
n.
6635
del
2005).
Emerge, quindi, una linea interpretativa delle disposizioni dettate, in particolare, dal comma 1 dell'art. 63 d.lgs. 165/2001, che non consente, nella
materia del lavoro pubblico, al titolare del diritto soggettivo che risente degli effetti di un atto amministrativo di scegliere, per la tutela del diritto, di
rivolgersi al giudice amministrativo per l'annullamento dell'atto, oppure al giudice ordinario per la tutela del rapporto di lavoro previa
disapplicazione dell'atto presupposto. In tutti i casi nei quali vengono in considerazione atti amministrativi presupposti, ove si agisca a tutela delle
posizioni di diritto soggettivo in materia di lavoro pubblico, il diritto positivo consente esclusivamente l'instaurazione del giudizio ordinario, nel
quale la tutela è pienamente assicurata dalla disapplicazione dell'atto e dagli ampi poteri riconosciuti al giudice ordinario dal secondo comma del
menzionato
art.
63.
6. Discende dalle considerazioni svolte sopra che, nell'area dei poteri autoritativi attribuiti dall'ordinamento all'amministrazione in materia di lavoro
pubblico contrattuale, si configurano (in astratto) esclusivamente situazioni di interesse legittimo in capo ai soggetti con i quali non intercorrono
rapporti giuridici (né di lavoro in senso stretto, né comunque compresi nella materia), non potendo, per essi, il pregiudizio essere arrecato da atti
conseguenziali
di
diritto
privato.
Peraltro, i già ricordati precetti costituzionali, comportando l'inesistenza di aree di sostanziale immunità dell'azione amministrativa autoritativa dal
controllo giurisdizionale, inducono all'obbligata conclusione che sono titolari di interessi legittimi anche i soggetti i quali risentono di effetti
pregiudizievoli imputabili direttamente all'atto amministrativo presupposto, e non all'atto paritetico conseguenziale o applicativo. Ciò deve ritenersi
che accada tutte le volte in cui l'utilità materiale cui si aspira può essere conseguita non con la mera rimozione degli effetti che l'atto produce sul
rapporto giuridico (che è il solo ambito riconoscibile al potere di disapplicazione del giudice ordinario), ma con l'esercizio in senso favorevole del
potere amministrativo, risultato ottenibile soltanto all'esito del controllo del giudice amministrativo. In altri termini, di fronte alla titolarità di poteri
pubblici, gli interessi di tipo pretensivo non consentono che la controversia sia ricondotta all'area del rapporto e del diritto soggettivo, non offrendo il
giudizio
ordinario
spazi
di
tutela.
7. Facendo applicazione dei principi così definiti alla controversia, la giurisdizione deve essere regolata affermando la competenza del giudice
amministrativo per le domande avanzate dalle organizzazioni sindacali, siccome, non essendo configurabili rapporti giuridici con l'amministrazione
(è appena il caso di osservare che si esula dall'ambito delle controversie collettive di cui all'art. 63, comma 3, d.lgs. 165/2001, che, appunto,
presuppone attività amministrative di tipo non autoritativo e paritetico), le situazioni giuridiche soggettive fatte valere nel giudizio hanno l'astratta
consistenza
dell'interesse
legittimo.
8. Va precisato che, unitamente alle organizzazioni sindacali, hanno agito dinanzi al giudice amministrativo anche alcuni dipendenti regionali in
situazione di litisconsorzio facoltativo (art. 103 c.p.c.), avanzando le stesse domande di annullamento del regolamento regionale e degli atti
consequenziali. Alcuni, in possesso di qualifica dirigenziale, hanno prospettato il pregiudizio in genere della posizione professionale e, in particolare,
delle aspettative concernenti il conferimento degli incarichi; altri, aspiranti alla conseguimento della qualifica dirigenziale, hanno dedotto di essere
rimasti esclusi dalla "perequazione". Ma tutti questi soggetti, sebbene il contraddittorio sia stato instaurato anche nei loro confronti, non hanno
chiesto il regolamento della giurisdizione sulle cause da ciascuno promosse. Le Sezioni unite della Corte, infatti, hanno chiarito che, nei giudizi a
litisconsorzio facoltativo, in cui più attori propongono le stesse domande, la statuizione sulla giurisdizione può riguardare le sole domande per le
quali
è
stato
chiesto
il
regolamento
preventivo
(Cass.
S.u.
14769/2002,
3948/2004).
9. Le questioni esaminate giustificano la compensazione delle spese tra le parti costituite.
RIPARTO DI GIURISDIZIONE IN MATERIA DI CONCORSI INTERNI
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. UNITE CIVILI - ordinanza 20 aprile 2006 n. 9168 - Pres. Carbone, Rel. Amoroso - Brocchi e c.ti c. Comune
di Torino
62
1. Giurisdizione e competenza - Concorso - Concorsi interni - Controversie in materia - Nel caso di concorsi che comportino il passaggio da
un’area all’altra - Giurisdizione amministrativa - Sussiste - Nel caso di concorsi interni nell’ambito della medesima area - Giurisdizione
dell’A.G.O. - Sussiste.
2. Giurisdizione e competenza - Concorso - Concorsi interni - Controversie in materia - Art. 63, comma 4, d.lgs. n. 165 del 2001 Interpretazione.
3. Giurisdizione e competenza - Concorso - Concorsi interni - Concorsi misti e concorsi interni misti - Giurisdizione amministrativa Sussiste - Ragioni - Fattispecie.
1. Sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo in materia di concorsi interni, quando questi ultimi comportino un passaggio da
un'area ad un'altra, mentre rimangono attratte alla generale giurisdizione del giudice ordinario le controversie attinenti a concorsi interni
che comportino il passaggio da una qualifica ad un'altra, ma nell'ambito della medesima area, ossia senza novazione oggettiva del rapporto
di lavoro (1).
2. Ai sensi dell’art. 63, comma 4, d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165, deve ritenersi che sussiste: a) la giurisdizione del giudice amministrativo sulle
controversie relative a concorsi per soli esterni; b) identica giurisdizione su controversie relative a concorsi misti (restando irrilevante che il
posto da coprire sia compreso o meno nell'ambito della medesima area funzionale alla quale sia riconducibile la posiziono di lavoro di
interni ammessi alla procedura selettiva, perchè, in tal caso, la circostanza che non si tratti di passaggio ad un'area diversa viene vanificata
dalla presenza di possibili vincitori esterni, secondo il criterio di riparto originario); c) ancora giurisdizione amministrativa quando si tratti
di concorsi per soli interni che comportino passaggio da un'"area" ad un'altra, spettando, poi, al giudice del merito la verifica di legittimità
delle norme che escludono l'apertura del concorso all'esterno; d) invece giurisdizione del giudice ordinario sulle controversie attinenti a
concorsi per soli interni, che comportino passaggio da una qualifica ad altra, ma nell'ambito della medesima "area" (2).
3. Così come i concorsi "misti" - tali perché aperti all'esterno - sono attratti alla giurisdizione del giudice amministrativo, analogamente i
concorsi interni "misti", che riguardano sia la progressione nell'ambito della stessa area, che tra aree diverse, sono parimenti attratti alla
giurisdizione del giudice amministrativo, in ragione di un generale principio di economicità processuale che fa escludere che delle medesime
operazioni concorsuali possano conoscere contemporaneamente sia il giudice ordinario che quello amministrativo (3).
RITENUTO IN FATTO
1. Brocchi Roberto e gli altri ricorrenti, dipendenti del Comune di Torino, appartenenti al Corpo di Polizia Municipale, con ricorsi nn. 1626/03,
1627/03, 1628/03. 8522/03 8523/03, 8524/03 (riuniti all'udienza del 16/12/03 avanti al Giudice del Lavoro del Tribunale di Torino fra di loro ed
altresì ai ricorsi n. 5876/02, 861/03, 862/03, 863/03, 864/03, 865/03), contestavano, sotto svariati profili, il concorso per la nomina ad ufficiali di
Polizia Municipale (categoria DI) bandito dal Comune di Torino con provvedimento in data 11 maggio 2001 n. 33 del Direttore Generale del
Comune medesimo, concorso riservato a sottoufficiali di categoria Dea vigili urbani di categoria C con nove anni di anzianità.
In questo giudizio, nell'instaurato contraddittorio con il Comune di Torino e numerosi controinteressati, il ricorrenti hanno proposto regolamento di
giurisdizione ai sensi dell'art. 41 c.p.c.
Espongono i ricorrenti di avere interesse a che sia individuato in via preventiva e definitiva il Giudice (ordinario o amministrativo) competente a
pronunziarsi sulle loro domande; ciò al fine di evitare pronunce contrastanti, in punto giurisdizione, di giudici diversi, nonché per fare constare - ad
ogni fine - che l'originaria scelta di adire il Giudice Ordinario era più che giustificabile, al momento in cui le azioni erano state introdotte, sulla base
dei consolidati indirizzi giurisdizionali precedenti al revirement operato da Cass., sez. un., 15 ottobre 2003, n. 15403, con conseguente applicabilità,
al caso di specie, dell'istituto dell'errore scusabile avanti al Giudice Amministrativo nell'ipotesi che a decidere la controversia de qua fosse ritenuto
competente il Giudice Amministrativo.
Richiamati i principi espressi nella citata pronuncia e dalla successiva conforme giurisprudenza delle Sezioni Unite i ricorrenti rappresentano che il
concorso interno in questione consente la progressione verticale verso il profilo di funzionario di Polizia Municipale (cat. D1). "
Consegue da tale previsione che - nel caso - per i dipendenti in categoria C la progressione si appalesava - effettivamente - come verticale in quanto
si trattava di passare da una qualifica ad altra appartenente ad una categoria superiore con conseguente giurisdizione del giudice amministrativo.
Per contro per altri concorrenti non vi era alcuna progressione verticale da una categoria ad un'altra, in quanto si trattava di progressione nell'ambito
della stessa categoria D con conseguente giurisdizione del giudice ordinario.
D'altra parte apparirebbe - quanto meno - discutibile una tesi che rimettesse al Giudice Amministrativo l'impugnativa dei concorrenti di gruppo C ed
al Giudice Ordinario quella proposta dai dipendenti di gruppo D.
2. L'intimato Comune di Torino non ha svolto alcuna difesa.
3. I ricorrenti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c.
4. Il PG ha concluso per l'affermazione della giurisdizione del giudice amministrativo rilevato che si è in presenza di una "selezione verticale" che,
almeno per parte dei concorrenti (vigili urbani in categoria C) implica il passaggio da un'area (C) a quella superiore (D).
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il regolamento è ammissibile.
Come questa Corte ha già affermato (Cass., sez. un., 6 luglio 2004, n. 12412) il regolamento preventivo di giurisdizione può essere proposto da
ciascuna parte, e quindi anche dall'attore nel giudizio di merito, in presenza di ragionevoli dubbi (nella specie, insorti a seguito della contestazione
del convenuto) sui limiti esterni della giurisdizione del giudice adito.
2.
Nel
merito
in
conformità
delle
richieste
del
P.G.
va
affermata
la
giurisdizione
del
giudice amministrativo.
La delimitazione della giurisdizione in tema di concorsi interni presso le pubbliche amministrazioni (art. 63, comma 4, d.lgs. n. 165 del 2001) è stata
oggetto di un revirement da parte delle Sezioni Unite di questa Corte (Cass., Sez. Un., 15 ottobre 2003, n. 15403), in seguito costantemente ripreso
dalla giurisprudenza successiva (Cass., Sez. Un., 10 dicembre 2003 n. 18886; Cass., Sez. Un., 26 febbraio 2004, n. 3948; Cass., Sez. Un., 26 maggio
2004, n. 10183; Cass., Sez. Un., 23 marzo 2005, 6217; Cass., Sez. Un., 20 maggio 2005, n. 10605; Cass., Sez. Un., 18 ottobre 2005, n. 20107),
quanto alle controversie aventi ad oggetto i concorsi ed. "interni", ossia quelli riguardanti la progressione di qualifica del personale già in servizio
nelle amministrazioni pubbliche, in precedenza ritenute sempre e comunque ricadenti nella giurisdizione del giudice ordinario (Cass., Sez. Un., 22
marzo 2001, n. 128; Cass., Sez. Un., 10 dicembre 2001 n. 15602; Cass., Sez. Un., 26 giugno 2002 n. 9334). Si è infatti affermato che il riferimento
all'"assunzione", contenuto nel cit. quarto comma dell'art. 63, va inteso in senso non strettamente letterale, ma - considerato che la giurisprudenza
costituzionale ha ipotizzato un'"assunzione nella qualifica" anche nel caso di concorsi interni ai quali partecipano coloro che sono già dipendenti
dell'amministrazione pubblica (segnatamente C. cost, ord., 4 gennaio 2001 n. 2) e quindi ha indicato un'interpretazione costituzionalmente orientata esso è comprensivo delle "prove selettive dirette a permettere l'accesso del personale già assunto ad una fascia o area superiore" (Cass. n. 15403/03
cit.).
Si è quindi ritenuta la giurisdizione del giudice amministrativo "quando si tratti di concorsi per soli interni che comportino passaggio da un'area ad
un'altra", mentre rimangono attratte alla generale giurisdizione del giudice ordinario le controversie attinenti a concorsi interni che comportino il
"passaggio da una qualifica ad un'altra, ma nell'ambito della medesima area" (Cass. n. 3948/04 e n. 10183/04 cit.), ossia - ha precisato Cass. n.
18886/03 cit. - "senza novazione oggettiva del rapporto di lavoro". Ricorrente è l'affermazione del seguente quadro complessivo risultante
dall'interpretazione del quarto comma dell'art. 63 cit.: a) indubbia giurisdizione del giudice amministrativo sulle controversie relative a concorsi per
63
soli esterni; b) identica giurisdizione su controversie relative a concorsi misti (restando irrilevante che il posto da coprire sia compreso o meno
nell'ambito della medesima area funzionale alla quale sia riconducibile la posiziono di lavoro di interni ammessi alla procedura selettiva, perchè, in
tal caso, la circostanza che non si tratti di passaggio ad un'area diversa viene vanificata dalla presenza di possibili vincitori esterni, secondo il criterio
di riparto originario); e) ancora giurisdizione amministrativa quando si tratti di concorsi per soli interni che comportino passaggio da un'"area" ad
un'altra, spettando, poi, al giudice del merito la verifica di legittimità delle norme che escludono l'apertura del concorso all'esterno; d) invece
giurisdizione del giudice ordinario sulle controversie attinenti a concorsi per soli interni, che comportino passaggio da una qualifica ad altra, ma
nell'ambito della medesima "area" (explurimis Cass., Sez. Un., 23 marzo 2005, n. 6217, cit.).
Più recentemente poi - in riferimento alla fattispecie eccettuata di cui al quarto comma dell'art. 63 cit. - si è precisato che, ove una tale suddivisione
in "aree" delle qualifiche in cui è ripartito il personale delle pubbliche amministrazioni sia identificabile, perché prevista dalla legge (per i dirigenti articolati anche in "fasce" -nonché - con la mediazione della contrattazione collettiva di comparto - per i vicedirigenti) o perché introdotta anche per
altre qualifiche da contratti o accordi collettivi nazionali di cui all'art. 40 d.lgs.n. 165/01, la procedura selettiva di tipo concorsuale (concorsi ed.
"interni") per l'attribuzione a dipendenti di Amministrazioni pubbliche della qualifica superiore che comporti il passaggio da un'area ad un'altra ha
una connotazione peculiare e diversa, assimilabile alle "procedure concorsuali per l'assunzione" , e vale a radicare - ed ampliare - la fattispecie
eccettuata rimessa alla giurisdizione del giudice amministrativo di cui al quarto comma del cit. art. 63.
Fuori da questa ipotesi - ossia laddove il concorso interno riguardi la progressione verso una qualifica superiore appartenente all'ambito della stessa
"area" ovvero verso una qualifica superiore tout court, per il fatto che la contrattazione collettiva nazionale non utilizzi affatto il modulo
organizzativo dell'"area" per accorpare qualifiche ritenute omogenee - non opera la fattispecie eccettuata del quarto comma dell'art. 63 cit. e
conseguentemente si riespande la regola del primo comma della medesima disposizione che predica in generale la giurisdizione del giudice ordinario
nelle controversie aventi ad oggetto il lavoro pubblico privatizzato.
4. Nel caso in esame - proprio in ragione del mutato indirizzo giurisprudenziale di questa Corte che ha innovato rispetto a quello precedente che
giustificava la proposizione del ricorso al giudice ordinario - deve ritenersi che sussista la giurisdizione del giudice amministrativo.
Si tratta infatti di un concorso interno per funzionario di polizia municipale che prevede il passaggio dall'area C all'area D; esso quindi all'evidenza
implica un mutamento di area, a nulla rilevando che al concorso suddetto possano partecipare anche sottoufficiali già inquadrati nell'area D che
concorrono per la progressione alla qualifica di funzionari.
Così come la citata giurisprudenza di questa Corte ha ritenuto che i concorsi "misti" -tali perché aperti all'esterno - sono attratti alla giurisdizione del
giudice amministrativo, analogamente i concorsi interni "misti", che riguardano sia la progressione nell'ambito della stessa area, che tra aree diverse,
sono parimenti attratti alla giurisdizione del giudice amministrativo in ragione di un generale principio di economicità processuale che fa escludere
che delle medesime operazioni concorsuali possano conoscere contemporaneamente sia il giudice ordinario che quello amministrativo.
5. Non occorre provvedere sulle spese di questo giudizio non avendo il Comune intimato svolto alcuna attività difensiva.
PER QUESTI MOTIVI
La Corte, a Sezioni Unite, dichiara la giurisdizione del giudice amministrativo; nulla per
le spese.
Così deciso in Roma il 16 marzo 2006
Depositata in Cancelleria l 20 aprile 2006
64
12) TUTELA DELL’AMBIENTE E RIPARTO DI GIURISDIZIONE
Tutela dell’ambiente.
Il codice dell’ambiente (d.lgs. n. 152/2006), nella parte sesta prevede differenziate ipotesi di giurisdizione del giudice amministrativo, in parte
esclusiva, in parte di legittimità1.
L’art. 310 del codice, nel prevedere la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, si riferisce alla sola ipotesi in cui i provvedimenti adottati
dal Ministro dell’ambiente in materia di misure di precauzione, prevenzione e ripristino ambientale siano impugnati dai soggetti portatori di un
interesse alla tutela ambientale.
Non si riferisce invece al caso in cui tali provvedimenti siano impugnati dal soggetto diretto destinatario, vale a dire l’autore dell’azione lesiva o
pericolosa per l’ambiente.
Invero, le norme relative alle misure di precauzione, prevenzione e ripristino, stabiliscono che il Ministro ordina all’operatore l’adozione di tali
misure, e in caso di inadempimento il Ministro può intervenire in via sostitutiva, con diritto di rivalsa (v. artt. 304, 305, 306).
L’art. 307 del codice dispone che i provvedimenti che impongono misure di precauzione, prevenzione, ripristino, sono adeguatamente motivate e
vanno comunicate senza indugio all’operatore interessato con indicazione dei mezzi di ricorso e dei relativi termini.
Sembrerebbe pertanto, che se ad impugnare i provvedimenti è il destinatario di essi, l’azione vada rivolta:
- al giudice amministrativo in sede di giurisdizione di legittimità, in relazione ai provvedimenti autoritativi, contenenti ordini;
- al giudice ordinario, per contestare i provvedimenti di rivalsa, che hanno contenuto patrimoniale, e in generale i provvedimenti relativi alle somme
costituenti credito dello Stato ai sensi della parte sesta del codice (art. 317).
In tal senso depone anche l’art. 1, co. 443, l. 23 dicembre 2005, n. 166, secondo cui l’ordinanza del Ministro dell'ambiente e della tutela del
territorio e del mare che ingiunge al responsabile il ripristino della situazione ambientale va impugnata innanzi al giudice amministrativo, senza
attribuzione di giurisdizione esclusiva.
Inoltre, mentre l’ordinanza che dispone il risarcimento del danno ambientale è impugnabile davanti al giudice amministrativo, si deve ritenere che
in difetto di tale ordinanza, l’azione di risarcimento del danno ambientale da parte dello Stato continua ad essere proponibile davanti al giudice
ordinario (art. 311, co. 1 e 315 del codice).
Rimane ferma l’azione davanti al giudice ordinario dei soggetti a cui il fatto produttivo di danno ambientale ha recato danno individuale alla salute
o alla proprietà (art. 313, co. 7).
E’ inoltre prevista la giurisdizione della Corte dei conti nel caso di danno provocato da soggetti sottoposti alla giurisdizione della stessa ma solo
per conseguire il risarcimento per equivalente patrimoniale (art. 313, co. 6).
Non è chiaro se sia frutto di una scelta consapevole, ovvero di un refuso e di un difetto di coordinamento l’aver previsto in relazione ai medesimi
provvedimenti ministeriali, quelli in materia di precauzione, prevenzione e ripristino, due differenti tipi di giurisdizione del giudice amministrativo,
di legittimità ed esclusiva, a seconda del soggetto che impugna.
13) RAPPORTI GIUSTIZIA SPORTIVA GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI - sentenza 25 novembre 2008 n. 5782
- Pres. Ruoppolo, Est. Giovagnoli - A.C. Arezzo S.p.A. (Avv.ti Corso e Pesce) c. F.I.G.C. – Federazione Italiana Giuoco Calcio (Avv.ti
Medugno e Gallavotti), C.O.N.I. – Comitato Olimpico Nazionale Italiano (Avv. Angeletti), Lega Nazionale Professionisti serie A e B
(Avv. Stincardini) e Camera di Conciliazione e Arbitrato per lo Sport presso il C.O.N.I. ed altri (n.c.) - (dichiara inammissibile il ricorso
di primo grado per difetto di giurisdizione ed annulla T.A.R. Lazio - Roma, Sez. III ter, 21 giugno 2007, n. 5645/2007).
1. Giurisdizione e competenza - Sport e spettacolo - Ordinamento sportivo - Disciplina prevista dall’art. 1 del D.L. n.
220 del 2003, conv. in L. n. 280 del 2003 - Controversie tecniche riguardanti il corretto svolgimento delle
competizioni sportive - Sono riservate alla giustizia sportiva - Controversie riguardanti l’ammissione e l'affiliazione
alle federazioni di società, di associazioni sportive e di singoli tesserati - Rientrano nella giurisdizione
amministrativa.
2. Giurisdizione e competenza - Sport e spettacolo - Ordinamento sportivo - Disciplina prevista dall’art. 1 del D.L. n.
220 del 2003, conv. in L. n. 280 del 2003 - Controversie c.d. disciplinari, riguardanti la irrogazione di provvedimenti
di carattere punitivo nei confronti di atleti, associazioni e società sportive - Sono riservate alla giustizia sportiva.
3. Giurisdizione e competenza - Sport e spettacolo - Ordinamento sportivo - Disciplina prevista dall’art. 1 del D.L. n.
220 del 2003, conv. in L. n. 280 del 2003 - Azioni di risarcimento dei danni subiti da una società sportiva in
conseguenza delle decisioni adottate da una Federazione sportiva o dagli organi della giustizia sportiva Giurisdizione amministrativa - Sussiste - Ragioni.
4. Sport e spettacolo - Ordinamento sportivo - Azioni di risarcimento dei danni subiti da una società in conseguenza
delle decisioni adottate da una Federazione sportiva o dagli organi della giustizia sportiva - Proponibilità innanzi al
giudice amministrativo - Ammissibilità - Condizioni - Esaurimento dei gradi della giustizia sportiva - Necessità Sussiste.
5. Sport e spettacolo - Ordinamento sportivo - Azione di risarcimento dei danni - Subiti dall’Arezzo calcio in
conseguenza del lodo della Camera arbitrale - Deduzione avverso tale lodo di censure non riconducibili ad alcuno
dei motivi previsti dall’art. 829 c.p.c. - Inammissibilità dell’azione proposta - Va dichiarata.
1. A seguito dell’art.1 del d.l. n. 220/2003, conv. in l. 19 agosto 2003 n. 280 (c.d. "salva calcio" o "blocca T.A.R.) secondo cui i rapporti tra l'ordinamento sportivo e quello statale sono regolati in base al principio di autonomia,
"salvi i casi di rilevanza per l'ordinamento giuridico della Repubblica di situazioni giuridiche soggettive connesse
con l'ordinamento sportivo" - mentre sono riservate giustizia sportiva le c.d. controversie tecniche (quelle cioè che
riguardano il corretto svolgimento della prestazione sportiva, ovvero la regolarità della competizione sportiva), in
quanto non vi è lesione né di diritti soggettivi, né di interessi legittimi, sono invece riservate alla giurisdizione
amministrativa le questioni concernenti l’ammissione e l'affiliazione alle federazioni di società, di associazioni
sportive e di singoli tesserati (1).
2. Per le controversie in materia sportiva c.d. disciplinari, le quali attengono alla irrogazione di provvedimenti di
carattere punitivo nei confronti di atleti, associazioni e società sportive, la giurisdizione statale - ai sensi del d.l. n.
220/2003, conv. in l. n. 280/2003 - è sempre esclusa, a prescindere dalle conseguenze ulteriori – anche se
1
Sulla questione v. C. VOLPE, Giudice amministrativo e codice dell’ambiente. il danno ambientale nel riparto di giurisdizione, , in Giurisdiz. amm., 2006, IV, 293 –
310.
65
patrimonialmente rilevanti o rilevantissime – che possano indirettamente derivare da atti che la legge considera
propri dell’ordinamento sportivo e a quest’ultimo puramente riservati (2).
3. Rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo la domanda volta ad ottenere il risarcimento del danno
subito da una società in conseguenza delle decisioni adottate da una Federazione sportiva o dagli organi della
giustizia sportiva, atteso che la domanda risarcitoria non è proponibile innanzi agli organi della giustizia sportiva
(ai quali si può chiedere solo l’annullamento della sanzione); l’art. 1 d.l. n. 220 del 2003, conv. in l. n. 280/2003 (il
quale sancisce il principio dell’autonomia dell’ordinamento sportivo, ma fa proprio "salvi i casi di rilevanza per
l'ordinamento giuridico della Repubblica di situazioni giuridiche soggettive connesse con l'ordinamento
sportivo"), va infatti interpretato nel senso che laddove il provvedimento adottato dalle Federazioni sportive o dal
C.O.N.I. abbia incidenza anche su situazioni giuridiche soggettive rilevanti per l’ordinamento giuridico statale, la
domanda volta ad ottenere non la caducazione dell’atto, ma il conseguente risarcimento del danno, debba essere
proposta innanzi al giudice amministrativo, in sede di giurisdizione esclusiva, non operando alcuna riserva a favore
della giustizia sportiva, innanzi alla quale la pretesa risarcitoria nemmeno può essere fatta valere.
4. Anche per le controversie risarcitorie opera il c.d. vincolo della giustizia sportiva, e quindi potranno essere
instaurate solo dopo che siano "esauriti i gradi della giustizia sportiva", così come prevede l’art. 3 d.l. n. 220 del
2003, conv. in l. n. 280/2003. L’esistenza del c.d. vincolo della giustizia sportiva, in forza del quale il ricorso
giurisdizionale è proponibile solo dopo l’esaurimento dei gradi della giustizia sportiva, fa sì che l’atto fonte del
danno debba essere individuato nella decisione che esaurisce i gradi della giustizia sportiva, ovvero nella decisione
del Collegio arbitrale istituito presso la Camera di Conciliazione ed Arbitrato per lo Sport.
5. E’ inammissibile il ricorso proposto dalla A.C. Arezzo S.p.A. tendente ad ottenere il risarcimento del danno subito
a seguito delle decisioni succedutesi dinanzi alle corti di giustizia sportiva culminate con il lodo della Camera
arbitrale, che ha sancito per la società sportiva stessa la penalizzazione di alcuni punti in classifica nel campionato
di calcio; il lodo oggetto del giudizio va infatti qualificato come lodo rituale e, quindi, soggetto ai motivi di
impugnazione tassativamente indicati nell’art. 829 c.p.c. e, nella specie, con il ricorso proposto, avverso la
pronuncia arbitrale, non sono spiegate censure riconducibili ad alcuna delle tipologie dei vizi previsti dalla citata
norma (3).
N.5782/08 Reg.Dec.
N. 5578 Reg.Ric. ANNO 2007
Disp.vo 605/2008
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato la seguente
DECISIONE
sul ricorso in appello n. 5578/2007, proposto dall’A.C. Arezzo S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e
difeso dagli avv.ti prof. Guido Corso e Giovanni Pesce, elettivamente domiciliata presso lo studio del secondo in Roma, via XX
Settembre n. 1;
contro
F.I.G.C. – Federazione Italiana Giuoco Calcio, in persona del legale rappresentante, rappresentata e difesa dagli avv.ti Luigi Medugno e
Mario Gallavotti, presso il primo elettivamente domiciliata, in Roma, via Panama n. 58;
C.O.N.I. – Comitato Olimpico Nazionale Italiano, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’avv.
Alberto Angeletti, presso il quale è elettivamente domiciliato in Roma, alla via Giuseppe Pisanelli, n. 2;
e nei confronti
della Lega Nazionale Professionisti serie A e B, rappresentata e difesa dall’avv. Ruggero Stincardini, elettivamente domiciliata in Roma,
via Varrone, n. 9, presso lo studio dell’avv. Francesco Vannicelli;
della Camera di Conciliazione e Arbitrato per lo Sport presso il C.O.N.I., in persona del legale rappresentante pro tempore, del Collegio
arbitrale, in persona del Presidente pro tempore, della A.C. Cesena S.p.a., della U.S. Triestina Calcio S.r.l., della Spezia Calcio S.r.l., in
persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, non costituiti in giudizio;
per l’annullamento e/o la riforma
della sentenza del T.a.r. Lazio, sezione III ter, n. 5645/2007, depositata il 21 giugno 2007;
Visto il ricorso con i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione della F.I.G.C., del C.O.N.I. e della Lega Nazionale professionisti;
Visto l’appello incidentale proposto dalla F.I.G.C.;
Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;
Visti gli atti tutti della causa;
Alla pubblica udienza del 21 ottobre 2008 relatore il Consigliere Roberto Giovagnoli;
Uditi gli avv.ti Pesce, Medugno e Angeletti;
Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:
FATTO
1.
Con ricorso proposto innanzi al T.a.r. del Lazio, la società sportiva A.C. Arezzo s.p.a. ha impugnato, chiedendo anche il risarcimento del
danno subito, le decisioni succedutesi dinanzi alle corti di giustizia sportiva culminate con il lodo della Camera arbitrale, che ha sancito
per l’Arezzo la penalizzazione di 6 punti in classifica nel campionato di calcio di serie B, stagione 2006/2007, penalizzazione rivelatasi
poi decisiva per la retrocessione dell’Arezzo dalla serie B alla serie C1.
La penalizzazione è stata inflitta all’Arezzo a titolo di illecito sportivo, per fatti connessi alla vicenda della c.d. "calciopoli", insorta nella
stagione calcistica 2005/2006.
2.
La vicenda è nata dall’intercettazione di una telefonata intercorsa il 16/5/05 tra il sig. Titomanlio, designato come guardalinee per la
delicata partita Arezzo - Salernitana, disputata il precedente 14/5, e terminata con il risultato di 1 - 0, ed il sig. Meani, dirigente del
Milan ed amico del primo, ove si riferisce di un incontro e di una conversazione intervenuta a Coverciano tra il medesimo Titomanlio ed
il sig. Mazzei, vicecommissario della CAN ed incaricato della formazione fisica e tecnica degli assistenti di gioco, nel corso della quale il
Mazzei avrebbe riservatamente rappresentato al proprio interlocutore di seguire con attenzione la competizione sportiva; nel corso
della telefonata, inoltre, il Titomanlio riferisce di un paio di episodi di giuoco da lui segnalati all’arbitro (che non li aveva ritenuti fallosi)
inseriti in azioni di gioco che avrebbero potuto portare al pareggio della Salernitana.
66
3.
Giova ancora evidenziare che l’Arezzo è stato sanzionato in ragione dell’applicazione della figura della c.d. responsabilità presunta
prevista dal codice della giustizia sportiva, all’art. 9, comma terzo (pure oggetto di impugnativa innanzi al T.a.r. Lazio).
4.
Il T.a.r. Lazio, con la sentenza n. 5645 del 2007, ha respinto il ricorso, dopo aver disatteso alcune eccezioni di inammissibilità sollevate
dalle parti resistenti. In particolare, ha respinto le eccezioni di inammissibilità fondate sul difetto di giurisdizione del Giudice
amministrativo, e sulla natura giuridica delle decisione emessa dal Collegio arbitrale.
5.
Avverso tale sentenza ha proposto l’A.C. Arezzo s.p.a. ha proposto appello, chiedendo, in via cautelare, la sospensione.
Si costituita in giudizio la F.I.G.C. che ha spiegato anche appello incidentale, riproponendo le eccezioni di inammissibilità (fondate sul
difetto di giurisdizione e sulla natura non provvedi mentale del lodo emesso dalla Camera di Conciliazione e arbitrato del C.O.N.I.).
Si sono costituiti in giudizio, sostenendo posizioni analoghe a quella della F.I.G.C., anche il C.O.N.I. e la Lega Nazionale Professionisti
serie A e B.
6.
Con ordinanza n. 4098/2007, emessa all’esito della camera di consiglio del 31 luglio 2007, la Sezione ha respinto l’istanza cautelare
volta alla sospensione dell’efficacia esecutiva della sentenza proposta dall’appellante principale.
7.
All’udienza del 21 ottobre 2008, la causa è stata trattenuta per la decisione.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1.
Appare opportuno premettere che il presente giudizio ha ormai ad oggetto soltanto il risarcimento del danno subito dall’A.C. Arezzo in
conseguenza della penalizzazione inflitta che ha determinato, al termine della stagione 2006/2007, la retrocessione della società in
serie C1.
L’A.C. Arezzo, infatti, ha già disputato il campionato 2007/2008 in serie C1 (anziché in serie B, come sarebbe avvenuto senza la
penalizzazione). Gli atti impugnati hanno, quindi, prodotto conseguenze irreversibili, nel senso che - come del resto evidenziato, in sede
di istanza cautelare, dallo stesso appellante principale - neanche una eventuale decisione favorevole di questo Giudice potrebbe
restituire all’Arezzo il "bene della vita" (qui coincidente con la permanenza in serie B) che la squadra avrebbe ottenuto senza la sanzione
dei 6 punti.
La legittimità degli atti impugnati viene, quindi, in rilievo, in via indiretta, al fine di decidere sulla domanda risarcitoria proposta
dall’A.C. Arezzo s.p.a.
Ciò premesso, si può ora procedere all’esame dei motivi di appello.
2.
Risulta logicamente pregiudiziale l’esame delle eccezioni di inammissibilità respinte dal T.a.r. e riproposte, mediante appello
incidentale, dalla F.I.G.C.
3.
Va, in primo luogo, esaminata l’eccezione di inammissibilità del ricorso per difetto di giurisdizione dell’adito giudice amministrativo,
eccezione riproposta dalla F.I.G.C. nell’assunto che oggetto del gravame sia una sanzione disciplinare sportiva (consistente nella
penalizzazione in classifica), destinata ad esaurire i propri effetti nell’ambito dell’ordinamento settoriale, con conseguente irrilevanza
per l’ordinamento statale, alla stregua anche di quanto disposto dall’art. 2, della legge n. 280/2003.
3.1.
Occorre, a tal fine, ricostruire brevemente il quadro normativo e il dibattito giurisprudenziale sviluppatosi in ordine ai rapporti tra
giustizia sportiva e giurisdizione amministrativa.
Il d.l. n. 220/2003, conv. in l. n. 280/2003, (c.d. "salva calcio" o "blocca T.a.r.) stabilisce, all’art. 1, che i rapporti tra l'ordinamento
sportivo e quello statale sono regolati in base al principio di autonomia, "salvi i casi di rilevanza per l'ordinamento giuridico della
Repubblica di situazioni giuridiche soggettive connesse con l'ordinamento sportivo" (art. 1, primo comma).
Dando applicazione al principio dell’autonomia dell’ordinamento sportivo, il successivo art. 2 riserva all'ordinamento sportivo la
disciplina delle questioni aventi ad oggetto: a) l'osservanza e l'applicazione delle norme regolamentari, organizzative e statutarie
dell'ordinamento sportivo nazionale e delle sue articolazioni al fine di garantire il corretto svolgimento delle attività sportive; b) i
comportamenti rilevanti sul piano disciplinare e l'irrogazione ed applicazione delle relative sanzioni disciplinari sportive.
L’art. 3 d.l. cit., infine, occupandosi specificamente della giurisdizione prevede che, "esauriti i gradi della giustizia sportiva e ferma
restando la giurisdizione del giudice ordinario sui rapporti patrimoniali tra società, associazioni e atleti, ogni altra controversia
avente ad oggetto atti del Comitato olimpico nazionale italiano o delle Federazioni sportive non riservata agli organi di giustizia
dell'ordinamento sportivo ai sensi dell'articolo 2, e' devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. In ogni caso e'
fatto salvo quanto eventualmente stabilito dalle clausole compromissorie previste dagli statuti e dai regolamenti del Comitato
olimpico nazionale italiano e delle Federazioni sportive di cui all'articolo 2, comma 2, nonché quelle inserite nei contratti di cui
all'articolo 4 della legge 23 marzo 1981, n. 91".
3.2.
Le norme appena riportate, nate con il preciso intento di arginare l’intervento della giustizia statale sull’autonomia dell’ordinamento
sportivo, hanno inteso tracciare una linea di confine netta tra i territori rispettivamente riservati all’ordinamento sportivo, e ai suoi
organi di giustizia, e quelli nei quali è possibile l’intervento della giurisdizione statale, e del giudice amministrativo in particolare
Il legislatore non è, tuttavia, pienamente riuscito nel suo scopo chiarificatore.
Anche dopo del d.l. n. 220/2003, la linea di confine tra giustizia sportiva e giurisdizione amministrativa è rimasta spesso incerta, come
dimostrano le numerose divergenze interpretative che si riscontrano anche all’interno della giurisprudenza amministrativa.
Si tratta di difficoltà ermeneutiche che riflettono, del resto, la stessa complessità che si incontra nel tentativo di conciliare due principi
che mostrano diversi momenti di potenziale conflitto: il principio dell’autonomia dell’ordinamento sportivo (che trova il suo
fondamento costituzionale negli artt. 2 e 18 della Costituzione) e il principio del diritto di azione e di difesa, espressamente qualificato
come inviolabile dall’art. 24 Cost.
3.2.
In questa indagine sui rapporti tra ordinamento sportivo e ordinamento statale si deve partire da una considerazione di fondo: quella
secondo cui la "giustizia sportiva" costituisce lo strumento di tutela per le ipotesi in cui si discute dell'applicazione delle regole sportive,
mentre la giustizia statale è chiamata a risolvere le controversie che presentano una rilevanza per l'ordinamento generale, concernendo
la violazione di diritti soggettivi o interessi legittimi.
3.3.
67
Proprio alla luce di tale principio, oggi c’è sostanziale concordia sul fatto che siano riservate giustizia sportiva le c.d. controversie
tecniche, (quelle cioè che riguardano il corretto svolgimento della prestazione sportiva, ovvero la regolarità della competizione sportiva)
in quanto non vi è lesione né di diritti soggettivi, né di interessi legittimi.
3.4.
Ugualmente, è ormai pacifico che siano riservate alla giurisdizione amministrativa le questioni concernenti l’ammissione e l'affiliazione
alle federazioni di società, di associazioni sportive e di singoli tesserati (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 9 luglio 20004, n. 3917).
Nel testo dell’originario D.L. n. 220/2003 esse rientravano tra le questioni riservate all’ordinamento sportivo (art. 2, comma 1, lett. c).
La soppressione in sede di conversione di tale categoria, costituisce chiaro indice della volontà del legislatore di non considerare
indifferenti per l’ordinamento statale controversie, quali quelle inerenti, l’affiliazione delle società alle federazioni e i provvedimenti di
ammissione ai campionati, trattandosi di provvedimenti di natura amministrativa in cui le Federazioni esercitano poteri di carattere
pubblicistico in armonia con le deliberazioni e gli indirizzi del Coni.
3.5.
La questione si fa, invece, molto più delicata per le controversie c.d. disciplinari, le quali attengono alla irrogazione di provvedimenti di
carattere punitivo nei confronti di atleti, associazioni e società sportive. In questo caso, è, infatti, frequente che il provvedimento
punitivo adottato nell’ambito dell’ordinamento sportivo incida, almeno indirettamente, per i gravi effetti anche economici che
comporta, su situazioni giuridiche soggettive connesse con l’ordinamento sportivo, ma rilevanti per l’ordinamento generale.
Il problema allora è se debba prevalere il valore dell’autonomia dell’ordinamento sportivo o quello del diritto di azione o di difesa in
giudizio.
A favore della prima soluzione sembrerebbe deporre la formulazione letterale dell’art. 2 d.l. n. 220/2003 che riserva alla giustizia
sportiva, senza alcuna ulteriore distinzione, "i comportamenti rilevanti sul piano disciplinare e l'irrogazione ed applicazione delle
relative sanzioni disciplinari sportive".
A favore della seconda lettura si può, tuttavia, invocare la parte finale dell’art. 1 d.l. n. 220/2003 che, nell’affermare solennemente il
principio dell’autonomia sportiva, fa espressamente "salvi i casi di rilevanza per l'ordinamento giuridico della Repubblica di
situazioni giuridiche soggettive connesse con l'ordinamento sportivo".
3.6.
In giurisprudenza sono state sostenute entrambe le posizioni.
3.6.1.
Alcune sentenze, soprattutto di primo grado,
proprio dando rilevanza alla rilevanza esterna (in termini di incidenza si situazioni giuridiche soggettive protette dall’ordinamento
generale) delle conseguenze derivanti dal provvedimento afflittivo irrogato dalla Federazione sportiva, hanno ritenuto sussistente la
giurisdizione amministrativa anche sui ricorsi avverso le sanzioni disciplinari irrogate avverso società o singoli tesserati.
Così, proprio con specifico riferimento alle penalizzazioni di alcuni punti in classifica, si segnala T.a.r. Lazio, sez. III, 22 agosto 2006, n.
7331 secondo cui tale sanzione, determinando l’esclusione dalla graduatoria delle società ripescabili nel campionato nazionale, e la
conseguente retrocessione della società di calcio, assumerebbe anche rilevanza esterna, incidendo sullo status del soggetto in termini
non solo economici, ma anche di onorabilità.
A tale orientamento interpretativo (che afferma o nega la giurisdizione in base alla gravità delle conseguenze che derivano dal
provvedimento punitivo) fa, del resto, esplicito riferimento la sentenza di primo grado oggetto del presente appello.
3.6.2.
In senso opposto, si è pronunciato invece il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Sicilia con la nota sentenza 8
novembre 2007 n. 1048, secondo cui in materia disciplinare la giurisdizione statale è sempre esclusa, a prescindere dalle conseguenze
ulteriori – anche se patrimonialmente rilevanti o rilevantissime – che possano indirettamente derivare da atti che la legge considera
propri dell’ordinamento sportivo e a quest’ultimo puramente riservati.
A sostegno di tale tesi si osserva che il legislatore del 2003 "ha operato una scelta netta, nell’ovvia consapevolezza che l’applicazione di
una norma regolamentare sportiva ovvero l’irrogazione di una sanzione disciplinare sportiva hanno normalmente grandissimo
rilievo patrimoniale indiretto; e tale scelta l’interprete è tenuto ad applicare, senza poter sovrapporre la propria "discrezionalità
interpretativa" a quella legislativa esercitata dal Parlamento" (C.G.A., sentenza 8 novembre 2007 n. 1048).
3.7.
Tra le due diverse opzioni ermeneutiche, la seconda appare quella più aderente alla formulazione letterale degli artt. 2 e 3 d.l. n.
220/2003.
Tali norme, infatti, demandano in via esclusiva alla giustizia tutti i "comportamenti rilevanti sul piano disciplinare e l'irrogazione ed
applicazione delle relative sanzioni disciplinari sportive". Il legislatore non fa alcuna distinzione in ordine alla conseguenze
patrimoniali che quelle sanzioni possono produrre.
Del resto, come è stato rilevato ((C.G.A., sentenza 8 novembre 2007 n. 1048), il legislatore allorché emanò il decreto legge n. 220 del
2003, non poteva certo ignorare che l’applicazione del regolamento sportivo – sia da parte dell’arbitro nella singola gara determinante
per l’esito dell’intera stagione; sia da parte del giudice sportivo di primo o di ultimo grado – e l’irrogazione delle più gravi sanzioni
disciplinari quasi sempre producono conseguenze patrimoniali indirette di rilevantissima entità.
Tuttavia a tali conseguenze non ha attribuito alcun rilievo ai fini della verifica di sussistenza della giurisdizione statuale; che, infatti, il
legislatore ha radicato solo nei casi diversi da quelli, espressamente eccettuati, di cui all’art. 2, comma 1, del decreto legge citato.
3.8.
Così inteso, tuttavia, il d.l. n. 220/2003 (conv. In l. n. 280/2003), dà luogo ad alcune perplessità in ordine alla legittimità costituzionale
della riserva a favore della "giustizia sportiva": in particolare, non risultano manifestamente infondati quei dubbi di costituzionalità,
prospettati anche dall’appellante principale, che evocano un possibile contrasto col principio della generale tutela statuale dei diritti
soggettivi e degli interessi legittimi (art. 24 Cost.), e con la previsione costituzionale che consente sempre l’impugnativa di atti e
provvedimenti amministrativi dinnanzi agli organi di giustizia amministrativa (art. 103 e 113 Cost.).
Né sembra possibile procedere ad una interpretazione correttiva e costituzionalmente orientata della norme in esame: la strada
dell’interpretazione "correttiva", che poi è quella praticata dal T.a.r. Lazio con la sentenza appellata, finisce, infatti, per tradursi, di
fronte ad una norma dalla chiara ed univoca portata precettiva, in una operazione di disapplicazione della legge incostituzionale,
senz’altro preclusa a questo Giudice.
3.9.
Tuttavia, nel caso di specie, il Collegio ritiene di poter decidere la presente controversia senza sollevare la questione di costituzionalità
delle norme contenute negli artt. 2 e 3 d.l. n. 220/2003 (conv. in l. n. 280/2003).
Ciò in quanto, come sopra si è precisato, oggetto del presente giudizio non è più l’annullamento della sanzione disciplinare irrogata
dalla Federazione all’Arezzo Calcio e delle decisioni che organi di giustizia sportiva che hanno respinto i ricorsi della società. Tali atti,
68
infatti, hanno ormai prodotto effetti irreversibili (avendo l’Arezzo già disputato, in conseguenza della sanzione subita e della
conseguente retrocessione, il campionato di serie C1, anziché quello di serie B).
Una eventuale decisione di annullamento pronunciata da questo Giudice non potrebbe comunque restituire all’A.C. Arezzo il "bene
della vita" (coincidente con la permanenza in serie B) che la squadra avrebbe ottenuto senza la sanzione dei 6 punti.
La legittimità degli atti impugnati viene, pertanto, in rilievo solo in via indiretta ed incidentale, al fine di decidere sulla domanda
risarcitoria, che a questo punto rappresenta l’oggetto esclusivo del presente giudizio.
3.10.
Rispetto alla domanda volta ad ottenere il risarcimento del danno subito da una società in conseguenza delle decisioni adottate da una
Federazione sportiva o dagli organi della giustizia sportiva non può essere sostenuto il difetto assoluto di giurisdizione, invocando gli
artt. 2 e 3 del più volte citato d.l. n. 220 del 2003.
A tale conclusione conducono le seguenti considerazioni.
In primo luogo, la domanda risarcitoria non è proponibile innanzi agli organi della giustizia sportiva (ai quali si può chiedere solo
l’annullamento della sanzione).
Escludere la giurisdizione statale avrebbe, allora, la conseguenza di creare un vero proprio vuoto di tutela: i danni provocati dalle
decisioni delle Federazioni sportive (o dalla Camera di Conciliazione e di Arbitrato del CONI) diventerebbero irrisarcibili, anche quando
incidono (come spesso accade) su situazioni giuridiche soggettive meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico generale.
Non si avrebbe più soltanto una questione processuale, involgente i rapporti tra giustizia sportiva e giurisdizione statale, ma si avrebbe
una vera e propria deroga sostanziale all’applicazione dell’art. 2043 c.c., deroga priva di ogni plausibile giustificazione e sprovvista di
fondamento normativo espresso.
3.11.
In questo caso, tuttavia, l’interpretazione costituzionalmente orientata delle norme è possibile.
Da un lato, infatti, l’art. 2 d.l. cit., nel delimitare la riserva a favore dell’ordinamento sportivo, non fa alcun riferimento alle controversie
risarcitorie.
Dall’altro, l’art. 3 prevede espressamente che, "esauriti i gradi della giustizia sportiva e ferma restando la giurisdizione del giudice
ordinario sui rapporti patrimoniali tra società, associazioni e atleti, ogni altra controversia avente ad oggetto atti del Comitato
olimpico nazionale italiano o delle Federazioni sportive non riservata agli organi di giustizia dell'ordinamento sportivo ai sensi
dell'articolo 2, e' devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo".
Infine, l’art. 1 d.l. n. 220 del 2003, nel sancire il principio dell’autonomia dell’ordinamento sportivo, fa proprio "salvi i casi di rilevanza
per l'ordinamento giuridico della Repubblica di situazioni giuridiche soggettive connesse con l'ordinamento sportivo".
Ebbene, il Collegio ritiene che tali norme debbano essere interpretate, in un’ottica costituzionalmente orientata, nel senso che laddove il
provvedimento adottato dalle Federazioni sportive o dal C.O.N.I. abbia incidenza anche su situazioni giuridiche soggettive rilevanti per
l’ordinamento giuridico statale, la domanda volta ad ottenere non la caducazione dell’atto, ma il conseguente risarcimento del danno,
debba essere proposta innanzi al giudice amministrativo, in sede di giurisdizione esclusiva, non operando alcuna riserva a favore della
giustizia sportiva, innanzi alla quale la pretesa risarcitoria nemmeno può essere fatta valere.
3.12.
Anche per le controversie risarcitorie opera, tuttavia, il c.d. vincolo della giustizia sportiva, e quindi potranno essere instaurate solo
dopo che siano "esauriti i gradi della giustizia sportiva", così come prevede l’art. 3.
In definitiva, anche se, secondo la vigente normativa, la giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo prevista dall’art. 3 d.l. n.
220/2003 non include le domande volte all’annullamento delle sanzioni disciplinari, deve, tuttavia, ritenersi, in base ad una
interpretazione costituzionalmente orientata del tessuto normativo, che siano proponibili innanzi al Giudice amministrativo le
domande volte ad ottenere il risarcimento del danno che tali sanzioni disciplinari hanno provocato incidendo anche su situazioni
rilevanti per l’ordinamento generale della Repubblica.
Il Giudice amministrativo può, quindi, conoscere, nonostante la riserva a favore della "giustizia sportiva", delle sanzioni disciplinari
inflitte a società, associazioni ed atleti, in via incidentale e indiretta, al fine di pronunciarsi sulla domanda risarcitoria proposta dal
destinatario della sanzione.
Alla luce di tali considerazioni, deve, quindi, affermarsi la sussistenza della giurisdizione amministrativa sulla domanda risarcitoria
proposta dall’A.C. Arezzo, volta ad ottenere i danni subiti a causa della retrocessione in serie C1determinata dalla penalizzazione subita.
Il primo motivo dell’appello incidentale va, pertanto, respinto.
3.13
. La domanda risarcitoria, tuttavia, come prevede l’art. 3 cit., è proponibile solo dopo l’esaurimento dei gradi della giustizia sportiva.
La necessità che siano esauriti i gradi della giustizia sportiva impone di distinguere due ipotesi.
3.13.1.
La prima si verifica se gli organi della giustizia sportiva annullano la sanzione inflitta dalla Federazione: in tal caso, al Giudice
amministrativo potranno essere chiesti i danni che si sono medio tempore prodotti nonostante l’annullamento della sanzione.
Considerato che il provvedimento fonte del danno è già stato annullato nell’ambito dell’ordinamento sportivo, il giudice non dovrà
compiere alcuna valutazione incidentale sulla legittimità dello stesso, limitandosi a verificare l’an e il quantum del danno provocato.
3.13.2.
La seconda ipotesi ricorre se la sanzione inflitta viene confermata dagli organi della giustizia sportiva.
Anche in tal caso, la domanda risarcitoria potrà essere comunque proposta innanzi al Giudice amministrativo, che, però, ricorrendo tale
evenienza, dovrà procedere ad una valutazione incidentale della legittimità del provvedimento, allo scopo di decidere sulla domanda
risarcitoria.
3.14.
Si pone qui l’ulteriore problema di individuare l’atto fonte del danno che, come tale, deve essere oggetto del sindacato incidentale da
parte del Giudice amministrativo.
L’esistenza del c.d. vincolo della giustizia sportiva, in forza del quale il ricorso giurisdizionale è proponibile solo dopo l’esaurimento dei
gradi della giustizia sportiva, fa sì che l’atto fonte del danno debba essere individuato nella decisione che esaurisce i gradi della giustizia
sportiva, ovvero, come accade nel caso di specie, nella decisione del Collegio arbitrale istituito presso la Camera di Conciliazione ed
Arbitrato per lo Sport.
E’ allora necessario, per delineare i limiti del sindacato giurisdizionale esercitabile dal Giudice amministrativo, capire quale sia la
natura giuridica di tale decisione.
4.
Si tratta proprio della questione oggetto del secondo motivo di appello incidentale, con il quale la F.I.G.C. deduce l’inammissibilità del
ricorso sostenendo, appunto, che la decisione della Camera di Conciliazione e Arbitrato per lo Sport ha natura di pronuncia arbitrale
vera e propria e non di atto amministrativo.
69
4.1.
Il motivo è fondato.
4.2.
Il Collegio non ignora, ma anzi condivide, l’orientamento giurisprudenziale proprio di questa Sezione, secondo cui la decisione della
camera di conciliazione e arbitrato per lo sport del C.O.N.I. non costituisce un vero e proprio lodo arbitrale, ma rappresenta la decisione
di ultimo grado della giustizia sportiva, avente quindi il carattere sostanziale di provvedimento amministrativo, benché emesso con le
forme e le garanzie tratte dal giudizio arbitrale.
Si tratta, come specificato da Cons. Stato, sez. VI, 9 luglio 2004, n. 3917, di una decisione emessa dal supremo organo della giustizia
sportiva sulla base di principi e garanzie tipiche del giudizio arbitrale, ma che resta soggetta agli ordinari strumenti di tutela
giurisdizionale per le fattispecie non riservate all’ordinamento sportivo.
4.3.
Tale qualificazione del lodo in termini di atto amministrativo non può essere, tuttavia, applicata alla presente fattispecie.
Nel caso in esame, infatti, la sanzione inflitta all’A.C. Arezzo, consistendo in una penalizzazione di classifica (da scontare nel
campionato di serie B 2006/2007) non era arbitrabile ai sensi dell’art. 27.3 dello Statuto federale all’epoca vigente.
Come correttamente deduce l’appellante incidentale, la controversia, quindi, è stata portata all’esame della Camera di Conciliazione ed
Arbitrato dello Sport solo a seguito di un apposito accordo compromissorio, di cui, del resto si dà atto sia nelle premesse del lodo
("all’udienza arbitrale del 24 novembre 2006, le parti accettando il regolamento della Camera senza alcuna riserva in ordine ai
poteri del Collegio arbitrale, accettando altresì la designazione del Collegio arbitrale […]"), sia nel verbale del della prima riunione del
Collegio arbitrale ("preliminarmente le parti dichiarano di accettare, per quanto possa occorrere, la designazione dell’odierno
collegio arbitrale, ogni eccezione rimossa").
4.4.
Dalla qualificazione della decisione della Camera di Conciliazione in termini di vero e proprio lodo arbitrale (e non di atto
amministrativo, come è, invece, per il lodo pronunciato su controversie arbitrabili ai sensi dello Statuto federale), discende che tale atto
può formare oggetto di impugnazione nei soli limiti consentiti dal codice di procedura civile.
In particolare, il lodo rituale è soggetto al regime di impugnazione per le cause di nullità, tassativamente indicare nell’art. 829 c.p.c.; il
lodo irrituale, invece, se avente origine da convenzioni arbitrali stipulate, come nella fattispecie, successivamente al 3.3.2006, è
sottoposto ai motivi di impugnazione previsti dall’art. 808 ter c.p.c. (norma introdotta dal d.lgs. n. 40/2006), ai quali, secondo la tesi
prevalente, si aggiungono, comunque, le ordinarie impugnative negoziali (incapacità, errore, violenza, dolo, eccesso di mandato,
violazione di norme imperative).
Il dubbio circa la natura rituale o irrituale dell’arbitrato oggi deve essere risolto, in base a quanto previsto dall’art. 808 ter c.p.c., a
favore della natura rituale del lodo. Con tale norma, infatti, il legislatore ha chiarito che la scelta in favore di un arbitrato che abbia esito
in un lodo irrituale (come tale non destinato agli effetti di cui all’art. 824 bis c.p.c.), oltre a richiedere una forma scritta, deve essere
espressa: in caso contrario, ogni dubbio sulla qualificazione come rituale o irrituale dell’arbitrato prescelto dalle parti deve sciogliersi a
favore della natura riturale e della conseguente integrale applicabilità della disciplina legale, anche per quel che riguarda il regime di
impugnazione di cui all’art. 827 c.p.c.
E’ stato così superato per tabulas il precedente maggioritario orientamento giurisprudenziale che, invece, in caso incertezza sulla
individuazione della species di arbitrato, optava per la natura irrituale in considerazione del favor della competenza giurisdizionale, a
cui le parti eccezionalmente derogherebbero con il deferimento ad arbitri rituali del potere di decidere la controversia.
4.5.
Da quanto detto deriva che il lodo oggetto del presente giudizio debba essere qualificato come lodo rituale e, quindi, soggetto ai motivi
di impugnazione tassativamente indicati nell’art. 829 c.p.c.
Emerge allora l’inammissibilità sotto questo profilo del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado (e della relativa domanda
risarcitoria), non essendo state con esso spiegate censure riconducibili ad alcuna delle tipologie dei vizi a critica vincolata ammesse
avverso la pronuncia arbitrale.
L’unico motivo che potrebbe essere ricondotto alla cause di nullità previste dall’art. 829 c.p.c. è, soltanto, quello con cui si fa valere la
inesistenza del lodo per difetto di rituale sottoscrizione. L’appellante principale sostiene che il lodo è stato deliberato in Roma in data
24/11/2006, ma poi è stato sottoscritto dai vari arbitri in diversi luoghi e differenti date.
Anche tale motivo non è, tuttavia, suscettibile di accoglimento: esso, infatti, è stato proposto muovendo dal dichiarato presupposto che
nel caso di specie venga in considerazione o un provvedimento amministrativo collegiale (per il quale sarebbe necessaria la
contestualità tra deliberazione e sottoscrizione) o un lodo irrituale (perché, deduce l’appellante, anche i negozi giuridici dovrebbero
essere sottoscritti appena deliberati nel contenuto).
La censura è invece inammissibile con riferimento al lodo rituale, dato che non rientra in nessuno dei motivi di nullità tassativamente
indicati nell’art. 829 c.p.c. E non potrebbe essere diversamente, dato che per il lodo rituale, la possibilità di una sottoscrizione non
contestuale da parte degli arbitri è espressamente prevista dall’art. 816, u.c. c.p.c. Tale possibilità è ulteriormente confermata dall’art.
823 n. 8) c.p.c.: tale norma, richiedendo, come requisito del lodo, l’indicazione della data delle sottoscrizioni, ammette implicitamente
l’eventualità di una sottoscrizione con date diverse.
E’ appena il caso di aggiungere, peraltro, che anche qualificando la decisione impugnata come atto amministrativo collegiale o come
lodo irrituale, il motivo andrebbe respinto in quanto nessuna norma impone la contestualità della sottoscrizione da parte di coloro che
hanno preso parte all’atto.
4.6.
Alla luce delle considerazioni che precedono, deve essere accolto l’appello incidentale proposto dalla F.I.G.C. e, per l’effetto, il ricorso di
primo grado va dichiarato inammissibile.
5.
Le spese del giudizio devono essere integralmente compensate fra le parti ricorrendo giusti motivi, in considerazione della complessità
e della novità delle questioni esaminate.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione VI, accoglie l’appello incidentale e, per l’effetto, dichiara inammissibile il ricorso di
primo grado.
Compensa le spese di giudizio.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella Camera di Consiglio del 21 ottobre 2008 con l’intervento dei Sigg.ri:
Giovanni Ruoppolo Presidente
Paolo Buonvino Consigliere
Domenico Cafini Consigliere
70
Roberto Giovagnoli Consigliere Est. e Rel.
Manfedo Atzeni Consigliere
Cassazione civile , sez. un., 23 marzo 2004 , n. 5775
In base ai criteri di riparto di giurisdizione stabiliti dall'art. 3 d.l. 19 agosto 2003 n. 220, conv. nella l. 17 ottobre 2003 n. 280, contenente
disposizioni urgenti in materia di giustizia sportiva, mentre spettano alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (una volta
esaurito il rispetto di eventuali clausole compromissorie) le controversie che hanno per oggetto l'impugnativa di atti del Coni o delle
Federazioni sportive nazionali, che si configurano come decisioni amministrative aventi rilevanza per l'ordinamento statale, sono invece
devolute alla giurisdizione del giudice ordinario (sempre previo il rispetto delle clausole compromissorie) le controversie concernenti i
rapporti patrimoniali fra società, associazioni ed atleti aderenti alle singole Federazioni.
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI - sentenza 9 luglio 2004 n. 3917 – Pres. Varrone, Est. Chieppa - Federazione Italiana Giuoco Calcio - F.I.G.C.
(Avv.ti Medugno e Gallavotti) c. Cosenza Calcio 1914 s.p.a. (Avv.ti E. e F. Lubrano e Carratelli), C.O.N.I. Comitato Olimpico Nazionale Italiano
(Avv. Angeletti), Lega Nazionale Professionisti di Serie C (Avv.ti Biscotto e Scognamiglio), Codacons (Avv.ti Rienzi e Tabano) ed altri (n.c.) –
(annulla in parte T.A.R. Lazio, Sez. III ter, 1° aprile 2004, n. 2987).
1. Giustizia amministrativa - Legittimazione attiva e passiva - Custode giudiziario di beni sequestrati - Legittimazione rispetto alle azioni
relative alla medesima funzione - Sussiste - Fattispecie.
2. Giurisdizione e competenza - Sport - Controversie relative a provvedimenti di non ammissione di una società di calcio ad un determinato
campionato - Giurisdizione del G.A. - Sussiste.
3. Enti pubblici e privati - Federazioni sportive - Attività dalle stesse svolte - Distinzione tra una attività privatistica ed una attività
pubblicistica - Atti emessi nell’esercizio di quest’ultima attività - Giurisdizione del G.A. - Sussiste.
4. Giurisdizione e competenza - Controversie riguardanti diritti soggettivi - Possibilità di risolverle mediante arbitrato rituale di diritto - Ex
art. 6 della legge n. 205/2000 - Interpretazione.
5. Giurisdizione e competenza - Sport - Decisione della camera di conciliazione e arbitrato per lo sport del CONI - Ha natura
amministrativa - Possibilità di impugnarla innanzi al G.A. - Sussiste.
6. Giustizia amministrativa - Appello - Appello incidentale - Termine di 30 giorni per la proposizione - Ex art. 37 r.d. 26 giugno 1924 n.
1054, richiamato dall'art. 29 l. Tar - Riguarda la proposizione dell’appello "proprio" - Applicabilità negli altri casi del termine ordinario di
impugnazione.
7. Sport - Calcio - Iscrizione al campionato - Termine fissato dalla Lega Calcio per la regolarizzazione degli adempimenti economici da
parte delle società sportive - Ha natura perentoria - Ragioni.
8. Sport - Calcio - Iscrizione al campionato - Provvedimenti di affiliazione di società sportive e di revoca dell'affiliazione - Hanno natura di
provvedimenti amministrativi - Revoca dall’affiliazione - Preventiva comunicazione dell'avvio del procedimento di cui all'art. 7 della legge
n. 241 del 1990 - Necessità - Mancanza - Illegittimità.
1. Il custode ed amministratore di beni sottoposti a sequestro, pur avendo una funzione limitata alla conservazione e all'amministrazione di
tali beni, ha legittimazione processuale attiva e passiva, come rappresentante di ufficio di un patrimonio separato, anche se esclusivamente
rispetto alle azioni relative alla medesima funzione (1) (alla stregua del principio nella specie è stata ritenuta sussistente la legittimazione dei
custodi – amministratori giudiziari del Cosenza Calcio per contestare la mancata ammissione della società ai campionati di serie C/1 e di
serie B, atteso che l’azione era stata promossa proprio al fine di evitare la cessazione dell’attività della società sequestrata ed il conseguente
svincolo dei calciatori, che costituiscono parte rilevante del patrimonio della stessa società di calcio).
2. Sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo in ordine alle controversie aventi ad oggetto i provvedimenti di non ammissione di una
società di calcio ad un determinato campionato, in quanto adottati in applicazione di norme che perseguono finalità di interesse pubblico,
quali il controllo sulla gestione economico-finanziaria delle leghe e delle società professionistiche delegato dal CONI alla Federazione (2).
3. Le Federazioni sportive, pur essendo soggetti privati (associazioni non riconosciute), in presenza di determinati presupposti assumono la
qualifica di "organi del C.O.N.I." e partecipano alla natura pubblica di questo (3). L’elemento discriminante per individuare il limite tra le
due funzioni svolte dalle Federazioni (da cui derivava il criterio di riparto di giurisdizione) è quello della natura dell’attività svolta: a) in
caso di applicazione di norme che attengono alla vita interna della federazione ed ai rapporti tra società sportive e tra le società stesse e gli
sportivi professionisti, le Federazioni operano come associazioni di diritto privato; b) quando invece l’attività è finalizzata alla realizzazione
di interessi fondamentali ed istituzionali dell'attività sportiva, devono essere considerate organi del CONI; solo gli atti di quest'ultimo tipo
posti in essere dalle federazioni in qualità di organi del CONI sono esplicazione di poteri pubblici, partecipano della natura pubblicistica e
sono soggetti alla giurisdizione del giudice amministrativo allorché incidano su posizioni di interesse legittimo (4).
4. L’art. 6 della legge n. 205/2000, nel prevedere che "le controversie concernenti diritti soggettivi devolute alla giurisdizione del giudice
amministrativo possono essere risolte mediante arbitrato rituale di diritto", ha definitivamente superato quell’orientamento della
Cassazione, che fondava il criterio circa l’ammissibilità dell’arbitrato non sulla natura della situazione giuridica fatta valere, ma sulla
natura del giudice cui la controversia era attribuita, escludendo la possibilità di arbitrato nel caso di controversie rientrante nella
giurisdizione del giudice amministrativo (Cass. n. 7643/1995). Lo stesso art. 6 non ha però fatto venir meno il principio, secondo cui non è
ammessa la devoluzione ad arbitri di controversie aventi ad oggetto interessi legittimi (anzi sembra aver dato una base normativa a tale
principio, affermando espressamente la possibilità di devolvere ad arbitri le controversie concernenti diritti soggettivi devolute alla
giurisdizione del giudice amministrativo).
5. La decisione della camera di conciliazione e arbitrato per lo sport del CONI non costituisce un vero e proprio lodo arbitrale, ma
rappresenta la decisione di ultimo grado della giustizia sportiva, avente quindi il carattere sostanziale di provvedimento amministrativo,
benché emesso con le forme e le garanzie tratte dal giudizio arbitrale. Si tratta di una decisione emessa dal supremo organo della giustizia
sportiva sulla base di principi e garanzie tipiche del giudizio arbitrale, ma che resta soggetta agli ordinari strumenti di tutela giurisdizionale
per le fattispecie non riservate all’ordinamento sportivo.
6. Il regime processuale dell'appello incidentale stabilito dall'art. 37 r.d. 26 giugno 1924 n. 1054, richiamato dall'art. 29 l. Tar - che impone
la notificazione entro il termine di trenta giorni successivo a quello assegnato per il deposito dell'appello principale - è applicabile alle sole
ipotesi di appello incidentale "proprio" (intendendosi per tale quello sorretto da un interesse avvinto da un nesso sostanziale di
pregiudizialità a quello sotteso all'appello principale); mentre devono essere osservati gli ordinari termini di cui all'art. 28 comma 2 della
citata l. Tar nell'ipotesi di appello che, ancorché qualificato incidentale, sia volto contro un capo autonomo della sentenza già appellata
ovvero a far valere un interesse autonomo (5).
7. E’ da ritenere perentorio il termine fissato dalla Lega Calcio per la regolarizzazione degli adempimenti economici da parte delle società
sportive; la natura perentoria dei limiti temporali fissati a tal fine, pur se non sancita dal dato testuale delle disposizioni federali vigenti
71
all’epoca, è ricavabile dalla natura e della finalità del termine in rilievo, in quanto la funzione, assolta da tali termini, di individuare gli
aventi titolo alla partecipazione al campionato, implica la necessità di uno sbarramento temporale netto e sufficientemente anticipato al fine
di garantire l'espletamento di tutti gli incombenti organizzativi funzionali all'avvio del campionato (6).
8. Ha natura amministrativa non solo il provvedimento di affiliazione delle società sportive (il quale va inquadrato nell'ambito delle
"ammissioni" amministrative), ma anche la revoca dell'affiliazione, che si concreta nella espulsione delle società affiliate dall'ordinamento
sportivo, quando si verifichino circostanze che ne rendano la sopravvivenza inconciliabile con le finalità dell'ordinamento sportivo; il
provvedimento di revoca dall’affiliazione deve conseguentemente essere preceduto dalla comunicazione dell'avvio del procedimento di cui
all'art. 7 della legge n. 241 del 1990, al fine di consentire di realizzare il contraddittorio partecipativo (7).
CGA, SEZ. GIURISDIZIONALE - sentenza 8 novembre 2007 n. 1048 - Pres. ff. Zucchelli, Est. De Francisco - Federazione Italiana Giuoco
Calcio (Avv.ti Mazzarelli, Medugno, Gallavotti e Raimondi) c. Pennisi e altri (Avv.Vitale) e Calvino e altro (Avv.ti Vitale e Esterni) e Arena e altri
(n.c.) e Provincia Regionale di Catania (Avv.ti Mineo e D’Alessandro) e Comune di Catania (n.c.) e Confederazione Nazionale Nuovi Consumatori
Europei (Avv.ti Gitto e Pappalardo) e Comitato Olimpico Nazionale, C.O.N.I. (Avv. ti Angeletti e Pensabene Lionti) e Lega Nazionale
Professionisti, L.N.P. (Avv. Stincardini) e Società Catania Calcio (n.c.) e Società Messina Calcio (n.c.) - (annulla senza rinvio T.A.R. per la Sicilia Sezione staccata di Catania, sez. IV, sentenza n. 679 del 19 aprile 2007, in questa Rivista pag.: http://www.lexitalia.it/p/71/tarsiciliact4_2007-0419.htm e dichiara inammissibile il ricorso di primo grado).
Giurisdizione e competenza - Sport e spettacolo - Sanzioni sportive - Provvedimento della FIGC di squalifica del campo di calcio di Catania
- Controversie - Giurisdizione amministrativa - Non sussiste - Difetto di giurisdizione - Va dichiarato - Ragioni.
Nel caso di impugnazione, innanzi al G.A., di un provvedimento della Federazione Italiana Giuoco Calcio (FIGC) di squalifica di un campo
di calcio, va dichiarato il difetto assoluto di giurisdizione; infatti, il chiaro disposto dell’art. 2 del D.L. 19 agosto 2003, n. 220, convertito in
legge, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 17 ottobre 2003, n. 280, esclude in radice la giurisdizione di ogni giudice statale negli ambiti
ivi indicati riservati all’ordinamento sportivo, tra cui rientra l’irrogazione e l’applicazione delle sanzioni disciplinari sportive (alla stregua
del principio nella specie il CGA ha annullato senza rinvio la sentenza del T.A.R. Catania che aveva ritenuto sussistente la propria
giurisdizione per la impugnativa della sanzione disciplinare della squalifica del campo inflitta dalla FIGC nei confronti della società sportiva
Catania Calcio s.p.a.) (1).
FATTO
Viene in decisione l’appello avverso la sentenza indicata in epigrafe che ha accolto il ricorso proposto in prime cure dal Sig. Pennisi Michele e dagli
altri 81 suoi litisconsorti attivi indicati in epigrafe, tutti titolari di abbonamenti per assistere alle partite casalinghe della società sportiva Catania
Calcio s.p.a., per l’effetto annullando il provvedimento del Giudice sportivo della F.I.G.C. n. 67 del 14 febbraio 2007 e gli atti connessi (tra cui i
provvedimenti confermativi della Commissione disciplinare e della Corte di appello federale), nonché gli artt. 9, commi 1 e 2, e 11, del "Codice di
giustizia sportiva" della stessa F.I.G.C., e condannando altresì la F.I.G.C. al parziale rimborso del costo dell’abbonamento sottoscritto dagli stessi
ricorrenti (calcolato in relazione agli incontri cui essi non poterono assistere a causa dei provvedimenti impugnati), nonché al risarcimento del danno
morale, liquidato in complessivi € 1.000 in favore di ciascuno dei ricorrenti (di cui € 500 "a titolo di risarcimento del danno esistenziale" ed € 500 "a
titolo di risarcimento del danno all’onore e alla reputazione"); spese del primo grado compensate.
DIRITTO
1. – Lo svolgimento che la causa ha avuto in primo grado deve essere ricapitolato più in dettaglio, anche per comprendere al meglio il thema
decidendum devoluto a questo giudice di appello.
Dopo i gravi turbamenti dell’ordine pubblico verificatisi in occasione della partita di calcio Catania–Palermo del 2 febbraio 2007 (culminati con la
morte di un Ispettore di Polizia), il giudice sportivo, col provvedimento disciplinare sportivo qui impugnato, ha inflitto alla società sportiva Catania
Calcio s.p.a. la sanzione disciplinare della squalifica del campo fino al 30 giugno 2007, altresì con l’obbligo di disputare a porte chiuse le rimanenti
partite da giocare in casa, oltre all’ammenda di € 50.000, poi ridotta a € 20.000.
Tale sanzione disciplinare (tranne la parte relativa all’am-menda) è stata impugnata davanti al T.A.R. della Sicilia, Sezione staccata di Catania, da 82
abbonati del Catania Calcio, odierni appellati, che hanno formulato altresì un’istanza cautelare.
Accogliendo tale istanza, il Presidente della IV Sezione interna del T.A.R. di Catania con proprio decreto 4 aprile 2007, n. 401, ha sospeso l’efficacia
degli atti impugnati, ordinando "di consentire a quanti ne facciano regolare richiesta, l’accesso agli impianti sportivi su tutto il territorio nazionale
ove si svolgeranno le partite casalinghe del Catania Calcio".
Con lo stesso decreto, il Presidente di detta IV Sezione interna ha fissato al 13 aprile 2007 la camera di consiglio, per l’esame collegiale.
Reagendo a ciò, la F.I.G.C. ha presentato un proprio ricorso – senza impugnare alcun atto amministrativo, ma in asserita "riassunzione del ricorso"
già pendente davanti alla IV Sezione di Catania – "dinanzi al T.A.R. del Lazio, funzionalmente competente ex lege n. 280/2003".
Il T.A.R. del Lazio, Sezione Terza-Ter, con ordinanza 12 aprile 2007, n. 1664, ha ritenuto di pronunciarsi nel senso di accogliere il ricordato atto
processuale qualificato "istanza di riassunzione" e, per l’effetto, ha "revocato" il decreto del presidente della IV Sezione del T.A.R. di Catania n. 401
del 4 aprile 2007 e ha respinto l’istanza cautelare proposta dai Signori Pennisi ed altri; in tale ordinanza si afferma altresì che il T.AR. del Lazio
"manda alla Segreteria della IV Sezione del T.A.R. di Catania di trasmettere alla Sezione Terza-Ter del T.A.R. del Lazio il fascicolo di causa".
Il 13 aprile 2007 la IV Sezione del T.A.R. di Catania, nella camera di consiglio fissata per l’esame dell’istanza cautelare, ha trattenuto la causa in
decisione, definendola con sentenza succintamente motivata (ai sensi del combinato disposto degli artt. 21, X comma, e 26, V comma, della legge 6
dicembre 1971, n. 1034, e 3, comma 3, del decreto legge 19 agosto 2003, n. 220), la quale è stata qui appellata.
Va anche aggiunto che il 19 aprile 2007, sotto la stessa data di pubblicazione di detta sentenza, il Presidente della IV Sezione del T.A.R. Catania ha
ritenuto di poter accogliere, con proprio decreto monocratico n. 5 del 19 aprile 2007, il ricorso contestualmente proposto per l’esecuzione della
sentenza qui appellata, per l’effetto nominando tre commissari ad acta (in persona di due magistrati amministrativi di primo grado e di un ufficiale
dei Carabinieri) e dando istruzioni agli stessi e agli organi della F.I.G.C. su come ottemperare al proprio dictum giurisdizionale, nonché ordinando ai
prefetti e ai questori di Roma, Milano, Modena e Catania, ai comandanti provinciali dei Carabinieri delle stesse città e a quelli della Guardia di
Finanza (tranne, per questi, quello di Modena), "di disporre a semplice richiesta verbale di ogni commissario il necessario intervento della forza
pubblica per rendere possibile il regolare svolgimento dell’incarico giudiziario affidato a ciascuno dei commissari, superando eventuali resistenze
ed opposizioni materiali alla concreta, integrale e definitiva esecuzione della sentenza di cui sopra e del presente decreto"; tale atto, altresì, "fissa
l’udienza in camera di consiglio per il prossimo 9 maggio 2007 per la sottoposizione del presente decreto al Collegio".
Con successivo proprio decreto n. 6 datato 21 aprile 2007, ma depositato il 23 aprile 2007 (lunedì), lo stesso Presidente della IV Sezione del T.A.R.
Catania ha ritenuto di poter accogliere un ricorso per l’ulteriore esecuzione alla sentenza qui appellata, per l’effetto nominando "ad integrazione dei
precedenti Commissari ad acta di cui al Decreto presidenziale n. 5/2007, il Dr. Filippo Barboso, Dirigente superiore della Polizia di Stato di
Catania", disponendo che tale quarto Commissario ad acta "fissi lo svolgimento della partita Catania–Ascoli per il prossimo giorno festivo
disponibile e comunque non oltre il 25 aprile p.v." ed "adotti tutte le misure necessarie per il concreto soddisfacimento dei diritti dei ricorrenti,
previa la rigida predisposizione di tutti i mezzi atti a salvaguardare la sicurezza di tutti, se del caso anche attraverso uno spiegamento
particolarmente copioso delle Forze dell’Ordine", nuovamente fissando "l’udienza in camera di consiglio per il prossimo 9 maggio 2007 per la
sottoposizione del presente decreto al Collegio".
72
Tutta la vicenda ha visto la sua fine il 24 aprile 2007, allorché è stato depositato il presente appello, con l’istanza cautelare urgente di decreto
monocratico inibitorio.
Il Presidente di questo Consiglio di giustizia amministrativa, con proprio decreto n. 402 dello stesso 24 aprile 2007, ha infatti sospeso l’efficacia
esecutiva della sentenza appellata, fissando la camera di consiglio del 10 maggio 2007 per la trattazione cautelare dell’appello.
In tale circostanza, questo Collegio ha ritenuto di decidere la causa con sentenza succintamente motivata ai sensi del cit. art. 3, comma 3, del D.L. n.
220 del 2003, altresì depositando il dispositivo della presente decisione ai sensi dei commi 2 e ss. dell’art. 23-bis della cit. legge n. 1034/1971,
applicabili in forza dell’art. 3, comma 3, D.L. n. 220/2003.
2. – Questo Consiglio ritiene che sulla domanda proposta vi sia difetto assoluto di giurisdizione.
2.1. – Si premette che il presente giudizio di appello concerne esclusivamente la sentenza del T.A.R. di Catania n. 679/2007, ma non anche la cit.
ordinanza del T.A.R. del Lazio n. 1664/2007, la quale ultima: "revoca" un provvedimento di un altro giudice di pari grado; "manda" (e nemmeno
"ordina") alla segreteria di quello di trasmettere il fascicolo di un giudizio ivi pendente; si veste, in sostanza, degli abiti di giudice di appello sul
T.A.R. di Catania, dichiarando di far ciò in base all’art. 3, comma 4, del D.L. n. 220/2003 che, viceversa, disciplina solo "i processi in corso" alla
data del 20 agosto 2003, per i quali era stata prevista (ma a fronte della sospensione ope legis in tale data dell’efficacia delle misure cautelari
concesse anteriormente ad essa da ogni altro T.A.R.) la possibilità della "parte interessata" a ripristinare l’efficacia delle misure cautelari, in quanto
rese inefficaci per legge, di "riproporre … l’istanza cautelare" al T.A.R. del Lazio, purché entro il termine di 15 giorni decorrente dalla data del 20
agosto 2003 e, dunque, solamente fino al 4 settembre 2003.
Premesso che nessuna competenza questo Consiglio ritiene di avere quale giudice di appello sui provvedimenti giurisdizionali, di qualunque
contenuto, resi dal T.A.R. del Lazio – giova infatti sempre, ma vieppiù in questo caso, ribadire e rispettare i limiti delle attribuzioni di ciascun organo
giurisdizionale – sembra comunque evidente che l’odierna declaratoria di (assoluto) difetto di giurisdizione, travolgendo ab imis il ricorso originario,
renda priva di oggetto, e perciò anche di effetto, ogni statuizione che su di esso sia stata resa, ovvero che da esso abbia comunque tratto origine.
2.2. – Circa il potere di rilevare, in questa sede d’appello, il difetto di giurisdizione, basti osservare che la questione di giurisdizione è stata
espressamente proposta nel secondo motivo di appello; sicché – a prescindere dall’angolo prospettico con cui la parte appellante ha ivi trattato la
questione – ciò esclude in radice che sulla susssistenza della giurisdizione si sia formata qualsivoglia preclusione processuale che renda non più
esaminabile il punto nel presente grado del giudizio.
2.3. – Quanto al carattere preliminare da riconoscere a quella di giurisdizione rispetto a ogni altra questione (salvo quelle riguardanti la regolare
costituzione del processo, ma comprese quelle di competenza) – che in dottrina è stato contestato sull’assunto che sulla questione di giurisdizione,
come su ogni altra, possa pronunciare solo il giudice competente per la concreta controversia nella quale la questione stessa è sollevata; assunto
peraltro non condiviso dall’orientamento giurisprudenziale tracciato da Cass., S.U., 4 ottobre 1974, n. 2594 – si evidenzia che, identificandosi la
competenza con la porzione di giurisdizione spettante a ciascun giudice di uno stesso plesso giurisdizionale, in capo a nessun giudice può ritenersi
radicata la competenza a conoscere di una domanda per cui il plesso cui egli appartiene difetta in radice di giurisdizione; peraltro l’elemento di
chiusura del sistema – atto a elidere ogni rischio di erronee declinatorie – è costituito dalle Sezioni unite della Corte regolatrice, che verificano
l’esattezza delle pronunce sulla giurisdizione mediante la formazione del c.d. giudicato panprocessuale su di essa.
Pertanto, questo Consiglio ritiene di dover esaminare per prima la questione di giurisdizione, oggetto del secondo motivo di appello, rispetto a quella
di competenza, la quale – trattandosi di competenza funzionale, per la quale non necessita il ricorso all’ordinario strumento del regolamento ex art.
31 della legge n. 1034 del 1971 – è stata riproposta invece con il primo motivo dell’odierno gravame.
3. – L’insussistenza della giurisdizione amministrativa, e al contempo di ogni altra giurisdizione, deriva dalla corretta esegesi degli artt. 1, 2 e 3 del
D.L. 19 agosto 2003, n. 220, convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 17 ottobre 2003, n. 280.
Tale fonte primaria, nel pieno rispetto dei principi costituzionali, "riconosce e favorisce l’autonomia dell’ordinamento sportivo nazionale, quale
articolazione dell’ordinamento sportivo internazionale facente capo al Comitato Olimpico Internazionale".
Conseguentemente, ispira al "principio di autonomia" "i rapporti tra l’ordinamento sportivo" e il diritto statuale, con l’unica eccezione dei "casi di
rilevanza per l’ordinamento giuridico della Repubblica di situazioni giuridiche soggettive connesse con l'ordinamento sportivo".
L’art. 2 del decreto in esame fissa positivamente alcuni casi in cui tale rilevanza, per definizione dello stesso legislatore, senz’altro non ricorre.
È dunque riservata all’ordinamento sportivo, in forza di tale norma di legge (con il corollario che ogni giudice statuale difetta in radice di
giurisdizione in proposito), ogni questione avente ad oggetto:
"a) l’osservanza e l’applicazione delle norme regolamentari, organizzative e statutarie dell’ordinamento sportivo nazionale e delle sue articolazioni
al fine di garantire il corretto svolgimento delle attività sportive;
b) i comportamenti rilevanti sul piano disciplinare e l'irrogazione ed applicazione delle relative sanzioni disciplinari sportive".
Lo Stato, dunque, ha dichiarato apertamente il proprio disinteresse per ogni questione concernente "l’osservanza e l’applicazione delle norme
regolamentari, organizzative e statutarie dell’ordinamen-to sportivo nazionale" in ogni sua articolazione; ed altrettanto è a dirsi per ogni questione
che concerna "i comportamenti rilevanti sul piano disciplinare e l'irrogazione ed applicazione delle relative sanzioni disciplinari sportive".
Il corollario è che nessuna violazione di tali norme sportive potrà considerarsi di alcun rilievo per l’ordinamento giuridico dello Stato.
Infatti, l’art. 3 del decreto in esame conferma che – "ferma restando la giurisdizione del giudice ordinario sui rapporti patrimoniali tra società,
associazioni e atleti" (in quanto si tratta non già di norme interne dell’ordinamento sportivo, ma della disciplina di rapporti di lavoro subordinato o
autonomo, o comunque ad essi assimilati) – tra "ogni altra controversia avente ad oggetto atti del Comitato olimpico nazionale italiano o delle
Federazioni sportive" soltanto quelle "non riservat[e] agli organi di giustizia dell'ordinamento sportivo ai sensi dell'articolo 2, [sono] devolut[e] alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo".
Solo per queste ultime, perciò, l’art. 3 del decreto stabilisce, al comma 2, la competenza funzionale del T.A.R. del Lazio con sede in Roma.
È dunque giocoforza concludere che "ogni altra controversia avente ad oggetto atti del Comitato olimpico nazionale italiano o delle Federazioni
sportive … riservata agli organi di giustizia dell'ordinamento sportivo ai sensi dell'articolo 2" resta, viceversa, esclusa tanto dalla giurisdizione del
giudice ordinario, quanto da quella del giudice ammistrativo; sicché non vi è competenza di alcun ufficio giudiziario, né dell’uno, né dell’altro plesso
giurisdizionale.
In quanto restano riservate all’ordimento sportivo, per definizione di legge tali controversie sono infatti prive di ogni rilievo per il diritto statuale.
Il Collegio ritiene che questa sia l’unica interpretazione del dato normativo coerente e compatibile con esso.
4. – Da quanto esposto deriva la necessità di verificare soltanto, al fine di radicare o meno la giurisdizione statuale, se la controversia in esame
riguardi, o meno, rapporti per i quali, ai sensi del cit. art. 2, è esclusa la rilevanza per l’ordinamento statuale, perché riservati a quello sportivo (a
siffatta verifica di specie, si procederà più avanti).
Nessun rilievo, viceversa, va attribuito a tali fini alle conseguenze ulteriori – anche se patrimonialmente rilevanti o rilevantissime – che possano
indirettamente derivare da atti che la legge considera propri dell’ordinamento sportivo e a quest’ultimo puramente riservati.
Il legislatore ha operato una scelta netta, nell’ovvia consapevolezza che l’applicazione di una norma regolamentare sportiva ovvero l’irrogazione di
una sanzione disciplinare sportiva hanno normalmente grandissimo rilievo patrimoniale indiretto; e tale scelta l’interprete è tenuto ad applicare,
senza poter sovrapporre la propria "discrezionalità interpretativa" a quella legislativa esercitata dal Parlamento.
È palese che l’erronea applicazione del regolamento può comportare l’ammissione o l’esclusione di una società sportiva (né ha rilievo,
contrariamente a ciò che è stato talora affermato per radicare contra legem la giurisdizione statuale, il fatto, meramente estrinseco, che essa sia, o
73
meno, quotata in borsa) rispetto a una determinata competizione nazionale o internazionale, con le ovvie ricadute economiche; né che identiche
conseguenze sempre più spesso derivino dall’applicazione di sanzioni disciplinari (quali, nel caso di specie, una lunga squalifica del campo e
l’obbligo di giocare a porte chiuse; ovvero, in altri casi notori e recenti, l’esclusione dal campionato quale sanzione disciplinare per l’illecito sportivo
commesso, con iscrizione a uno di rango inferiore).
Non ignora certo il Collegio, né poteva ignorararlo il legislatore allorché emanò il decreto legge n. 220 del 2003, che l’applicazione del regolamento
– sia da parte dell’arbitro nella singola gara determinante per l’esito dell’intera stagione; sia da parte del giudice sportivo di primo o di ultimo grado
– e l’irrogazione delle più gravi sanzioni disciplinari (tra cui le penalizzazioni in classifica e le retrocessioni in campionati inferiori: si pensi ai notori
esempi verificatisi nell’estate del 2006, in relazione ai quali in altre sedi è stata ammessa, ma erroneamente ad avviso di questo Collegio, la
sussistenza della giurisdizione amministrativa) quasi sempre producono conseguenze patrimoniali indirette di rilevantissima entità.
Tuttavia tali conseguenze, quand’anche in ipotesi possano essere la remota causa di una dichiarazione di fallimento, normativamente non dispiegano
alcun rilievo ai fini della verifica di sussistenza della giurisdizione statuale; che infatti il legislatore ha radicato solo nei casi diversi da quelli,
espressamente eccettuati, di cui all’art. 2, comma 1, del decreto legge citato, e di cui si è già detto.
Se una tale opzione normativa si fosse svolta a livello secondario, sarebbe stata passibile di censure per indiretto contrasto col principio della
generale tutela statuale sui diritti soggettivi patrimoniali.
Viceversa, essendo stata operata a livello primario, non è soggetta ad altro vaglio che a quello costituzionale; che, da un lato, non sembra in alcun
modo interferire con le scelte sopra ricordate del legislatore (almeno per quali riduttivamente risultanti dalla conversione in legge del decreto) e che,
dall’altro, nel disciplinare l’iniziativa economica privata ne afferma, all’art. 41 Cost., la mera libertà.
In tale contesto risulta legittima la scelta del legislatore ordinario di stabilire che, quando un imprenditore decida di operare nel settore dello sport,
resti interamente ed esclusivamente assoggettato alla disciplina interna dell’ordinamento sportivo (cui la legge ha voluto riconoscere la più ampia
autonomia), ma limitatamente ai due soli profili di cui alle ricordate lettere a) e b) del cit. art. 2, comma 1, del decreto legge n. 220/2003.
Il Collegio, in sintesi, ritiene da un lato che il chiaro disposto normativo primario testé citato non sia passibile di alcuna diversa interpretazione, se
non che dandosi adito a una sua inammissibile disapplicazione da parte del giudice; nonché, dall’altro lato, che esso neppure presenti profili di
sospetta illegittimità costituzionale, sicché palesemente non v’è luogo a sollevare alcuna questione in proposito.
Non ignora, il Collegio, che in altre sedi (ma, a quanto consta, solo di primo grado; o, in ultimo grado, solo cautelari) siano state compiute ben
diverse "interpretazioni correttive" delle norme che qui vengono in rilievo, in sostanza al fine di affermare pressoché sempre – con il sin troppo
facile grimaldello esegetico delle conseguenze patrimoniali che sempre, ma indirettamente, derivano dall’applicazione dei regolamenti sportivi o
dalle relative sanzioni disciplinari; ma che possono altresì derivare da ogni altra attività sociale giuridicamente indifferente – la sussistenza della
giurisdizione amministrativa; tuttavia ritiene che esse travalichino il limite, per ogni giudice sempre insuperabile, della mera disapplicazione della
legge.
È infatti insostenibile la tesi che il cit. D.L. n. 220/2003 trovi applicazione solo per le questioni bagatellari, o per gli sport economicamente minori,
ovvero infine per i soli campionati giovanili o dilettantistici; esso, viceversa, concerne indiscutibilmente – come risulta dal suo stesso tenore – in
primo luogo gli sport professionistici, e tra essi senz’altro e soprattutto anche il giuoco del calcio.
Va piuttosto ribadito che, ex art. 101, II comma, Cost. il giudice è soggetto alla legge dello Stato, che egli è sempre tenuto ad applicare per quale essa
è – ove non ritenga di sollevare questioni circa la sua legittimità costituzionale – e comunque del tutto a prescindere da ogni soggettiva condivisione,
o meno, delle scelte compiute dal legislatore.
Tra le più recenti espressioni di una contraria tendenza, invero non isolata, vanno tuttavia ricordate le sentenze di T.A.R. Lazio, Sez. III-Ter, 21
giugno 2007, n. 5645, e 8 giugno 2007, n. 5280.
Esse, richiamandosi a precedenti resi in "in fattispecie similari … (anche connesse alla vicenda di "calciopoli") da parte di società sportive", hanno
"riconosciuto", ma questa volta in modo del tutto esplicito, "la propria giurisdizione, pure in fattispecie similari concernenti l’impugnativa di
sanzioni disciplinari".
Il fatto è che non costituisce altro che una mera petizione di principio (cioè, in altri termini, una sovrapposizione delle scelte dell’interprete a quelle
espressamente compiute in senso diverso dal legislatore) l’asserzione che la sussistenza della giurisdizione debba derivare dalla considerazione –
fattualmente esatta, ma giuridicamente inconferente – "che non può negarsi, come dimostra, del resto, proprio la vicenda dell’Arezzo, che, per
effetto della penalizzazione, è incorso nella retrocessione nella serie inferiore, una rilevanza per l’ordinamento giuridico statale di situazioni
giuridiche soggettive geneticamente connesse con la penalizzazione irrogata dall’ordinamen-to sportivo".
Nella legge, infatti, non vi è alcuna affermazione che gli atti, giusti o sbagliati, di applicazione delle norme regolamentari sportive o delle sanzioni
disciplinari debbano avere rilievo, o meno, nell’ordina-mento giuridico dello Stato, secondo che derivino conseguenze patrimoniali (più o meno
gravi) dalla decisione sportiva; in essa, viceversa, è espressamente stabilita l’irrilevanza per l’ordinamento statuale di ogni applicazione di norme
regolamentari o di sanzioni disciplinari sportive, quali che ne siano le relative conseguenze indirette.
Sicché, secondo il Collegio, la contraria asserzione non costituisce affatto la conseguenza di "un’interpretazione estensiva del combinato disposto
dell’art. 1, II comma, e dell’art. 2, I comma, lett. b), della legge n. 280/03", ma solo di un sua aperta ed eclatatante violazione.
Della conformità ai principi costituzionali del dato normativo in esame si è già detto; giova adesso aggiungere che la tutela degli associati nei
confronti delle associazioni esiste in quanto è positivamente prevista dagli artt. 23 e 24 cod. civ. che, riconoscendo come diritti gli interessi che essi
hanno internamente all’associazione, aprono la via della tutela giurisdizionale.
In proposito, va altresì ricordato che tale tutela è riconosciuta direttamente dall’ordinamento giuridico solo per le situazioni giuridiche soggettive
disciplinate espressamente da una norma di legge ("Le deliberazioni dell'assemblea contrarie alla legge […] possono essere annullate": art. 23 c.c.);
mentre nella mancanza di una norma diretta che elevi un interesse di fatto a interesse giuridicamente protetto, il parametro della tutela giurisdizionale
è espresso solo dal negozio associativo e dal suo contenuto ("[…] contrarie […] all’atto costitutivo o allo statuto […]": art. 23 c.c.), come
applicazione di specie del generalissimo principio di cui all’art. 1372, I comma, c.c., secondo cui "Il contratto ha forza di legge tra le parti". Ove,
cioè, la legge non disciplini direttamente i comportamenti degli associati e le conseguenze di essi, la norma di riferimento è quella stessa posta dal
negozio associativo, e quindi, a maggior ragione, solo al negozio associativo ci si deve riferire nel caso in cui l’ordinamento giuridico statuale
espressamente riconosca di essere indifferente rispetto a una disciplina destinata a regolare rapporti che nascono e si sviluppano solo a causa e in
funzione del negozio associativo, influendo in via diretta solo sui meccanismi interni dell’associazione stessa.
Esattamente in questa ottica, e facendo applicazione di questi elementari principi liberali (di libertà negoziale o, meglio, di libertà tout court), l’art. 2
del D.L n. 220/2003, nei ristretti limiti di cui alle ricordate lett. a) e b) del comma 1, ha sostanzialmente qualificato quali meri interessi (non tutelati,
cioè, né in sede giurisdizionale né in sede amministrativa) tutti quelli concernenti "l’osservanza e l’applica-zione delle norme regolamentari,
organizzative e statutarie dell’ordi-namento sportivo nazionale", nonché l’esatta valutazione dei "comportamenti rilevanti sul piano disciplinare e
l’irrogazione delle relative sanzioni disciplinari sportive".
Tale opzione senz’altro rientra nell’esercizio, costituzionalmente legittimo, della discrezionalità del legislatore, che è tenuto bensì ad assicurare piena
tutela ai diritti soggettivi e agli interessi legittimi, ma senza che gli sia in radice preclusa la scelta di quali tra le molteplici situazioni di interesse di
fatto – che in sé non afferiscano direttamente a beni costituzionalmente intangibili, tra i quali non si ascrivono certo le conseguenze patrimoniali
indirette delle attività sportive di qualsiasi livello – meritino di essere qualificate come diritti soggettivi o interessi legittimi.
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Poiché il decreto legge n. 220 del 2003 non ha operato tale scelta in modo criptico né opinabile (giacché in tal caso assai ampio sarebbe stato lo
spazio esegetico dell’interprete), bensì in modo espresso e inequivoco, ritiene il Collegio che al giudice che voglia applicare la legge non resti altra
possibile alternativa, in tutti i già ricordati casi, che rendere la declaratoria di difetto assoluto di giurisdizione.
5. – Conformemente a quanto opinato dal Collegio, anche in un autorevole contributo dottrinale è stata affermata la non condivisibilità delle
conclusioni cui, in punto di giurisdizione, è pervenuto il T.A.R. Lazio, Sez. III-ter, in sede cautelare, con l’ord. 22 agosto 2006, n. 46 (a proposito del
ricorso ivi proposto da un noto ex direttore generale della Juventus, avverso una sanzione disciplinare di cinque anni di squalifica e € 50.000 di
ammenda comminatagli dalla F.I.G.C.).
Invero, tutte le sanzioni sportive (ma lo stesso sarebbe a dirsi nei casi di mancata irrogazione di esse a fronte di evidenti illeciti sportivi) producono
in via immediata i loro effetti all’interno dell’ordinamento di settore, mentre solo indiretti ed eventuali sono gli effetti che da esse riverberano
nell’ordinamento generale; sicché dalle citate disposizioni del D.L. n. 220/2003 è corretto trarre la conclusione che sono giustiziabili per
l’ordinamento statale solo le posizioni soggettive riconosciute da quest’ultimo, ancorché connesse con l’ordinamento sportivo, e non invece il
contrario (come vorrebbero le cit. ordinanze).
6 – Altresì conforme all’esegesi qui sostenuta risulta l’orien-tamento espresso dalla Corte regolatrice che, con la sentenza resa a Sezioni unite del 23
marzo 2004, n. 5775, ha così ricostruito – per quanto viene ora in rilievo – il sistema normativo introdotto dal cit. "decreto legge 19 agosto 2003, n.
220, contenente disposizioni urgenti in materia di giustizia sportiva, convertito nella legge 17 ottobre 2003, n. 280".
"Il decreto, prendendo implicitamente atto della complessità organizzativa e strutturale dell'ordinamento sportivo, stabilisce che i rapporti tra
questo e l'ordinamento dello Stato sono regolati in base al principio di autonomia, "salvi i casi di rilevanza per l'ordinamento giuridico della
Repubblica di situazioni giuridiche soggettive connesse con l'ordinamento sportivo" (art. 1 primo comma)".
"La "giustizia sportiva" si riferisce, così, alle ipotesi in cui si discute dell'applicazione delle regole sportive; quella statale è chiamata, invece, a
risolvere le controversie che presentano una rilevanza per l'ordinamento generale, concernendo la violazione di diritti soggettivi o interessi
legittimi".
"Per individuare i casi in cui si applicano le sole regole tecnico - sportive, con conseguente riserva agli organi della giustizia sportiva della
risoluzione delle corrispondenti controversie, è stabilito che all'ordinamento sportivo nazionale è riservata la disciplina delle questioni aventi ad
oggetto: a) l'osservanza e l'applicazione delle norme regolamentari, organizzative e statutarie di quell'ordinamento e delle sue articolazioni, al fine
di garantire il corretto svolgimento delle attività sportive; b) i comportamenti rilevanti sul piano disciplinare e l'irrogazione ed applicazione delle
sanzioni disciplinari sportive (art. 2, primo comma)".
"In queste materie vige il sistema del cd. "vincolo sportivo". Le società, le associazioni, gli affiliati ed i tesserati, infatti, hanno l'onere di adire,
secondo le previsioni degli statuti e regolamenti del Coni e delle federazioni sportive indicate negli articoli 15 e 16 del decreto legislativo n. 242 del
1999, gli organi di giustizia dell'ordinamento sportivo" (art. 2, secondo comma)".
"I casi di rilevanza per l'ordinamento dello Stato delle situazioni giuridiche soggettive, connesse con l'ordinamento sportivo, sono attribuiti alla
giurisdizione del giudice ordinario ed a quella esclusiva del giudice amministrativo".
"Il primo comma dell'art. 3 del decreto legge, in particolare, devolve al giudice ordinario le controversie aventi ad oggetto i rapporti patrimoniali
tra società, associazioni ed atleti. Alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, invece, è devoluta "ogni altra controversia avente ad
oggetto atti del Comitato olimpico nazionale italiano o dalle Federazioni sportive non riservata agli organi di giustizia dell'ordinamento sportivo ai
sensi dell'art. 2" ".
"Il sistema, per quanto riguarda le questioni per le quali è stabilita autonomia dell'ordinamento sportivo, continua ad essere imperniato sull'onere
di adire gli organi di giustizia dell'ordinamento sportivo (art. 2, secondo comma) e sulla salvezza incondizionata delle clausole compromissorie
previste dagli statuti e dai regolamenti del Coni, delle Federazioni sportive e di quelle inserite nei contratti di cui alla legge istitutiva del Coni (art.
3, ultima parte)".
"Se ne ricava che, secondo il decreto legge n. 202 del 2003, la tutela fa riferimento alle seguenti quattro situazioni".
"Nella prima stanno le questioni che hanno per oggetto l'osservanza di norme regolamentari, organizzative e statutarie da parte di associazioni che,
per dirla con l'art. 15 del decreto legislativo n. 242 del 1999, hanno personalità giuridica di diritto privato. Le regole che sono emanate in questo
ambito sono espressione dell'autonomia normativa interna delle federazioni, non hanno rilevanza nell'ordinamento giuridico generale e le decisioni
adottate in base ad esse sono collocate in un'area di non rilevanza (o d'indifferenza) per l'ordinamento statale, senza che possano essere considerate
come espressione di potestà pubbliche ed essere considerate alla stregua di decisioni amministrative. La generale irrilevanza per l'ordinamento
statale di tali norme e della loro violazione conduce all'assenza di una tutela giurisdizionale statale; ciò non significa assenza totale di tutela, ma
garanzia di una giustizia di tipo associativo che funziona secondo gli schemi del diritto privato, come questa Corte ha avuto già modo di rilevare
(sent. n. 4399 del 1989)".
"Nella seconda situazione stanno le questioni che nascono da comportamenti rilevanti sul piano disciplinare, derivanti dalla violazione da parte
degli associati di norme anch'esse interne all'ordinamento sportivo. Pure per queste situazioni v'è la stessa condizione di non rilevanza per
l'ordinamento statale, prima indicata. Queste prime due situazioni, in definitiva, restano all'interno del sistema dell'ordinamento sportivo
propriamente detto e le possibili controversie che in esso sorgono non possono formare mai oggetto della giurisdizione statale".
"La terza situazione comprende l'attività che le federazioni sportive nazionali debbono svolgere in armonia con le deliberazioni e gli indirizzi del
Coni e del Cio, come dispone la prima parte del già citato art. 15".
"Nel testo del decreto legge n. 220 del 2003 anteriore alla legge di conversione, in essa figuravano l'ammissione e l'affiliazione alle federazioni di
società, di associazioni sportive e di singoli tesserati e l'organizzazione e lo svolgimento delle attività agonistiche non programmate ed a
programma limitato e l'ammissione alle stesse delle squadre e degli atleti".
"Indipendentemente dalla soppressione delle due categorie, l'indicazione vale ancora come esemplificazione delle corrispondenti controversie,
l'oggetto delle quali è costituito dall'attività provvedimentale delle federazioni, la quale, esaurito l'obbligo del rispetto di eventuali clausole
compromissorie, è sottoposta alla giurisdizione amministrativa esclusiva".
"Infine, stanno le questioni concernenti i rapporti patrimoniali tra società, associazioni ed atleti".
"Esaurito, anche in questo caso, l'obbligo del rispetto di eventuali clausole compromissorie, le relative controversie sono devolute alla giurisdizione
del giudice ordinario".
La constatazione che anche le Sezioni unite abbiano ricostruito il sistema in termini strettamente aderenti a quelli posti dal legislatore ordinario,
conforta il Collegio nel ritenere che è questa l’unica corretta esegesi del decreto legge n. 220/2003, in esame.
D’altra parte, non v’è dubbio che gli interessi fatti valere con il ricorso di primo grado vadano inquadrati, nella quadripartizione prospettata dalle
Sezioni unite, nell’ambito delle prime due situazioni (e, segnatamente, nella seconda): sicché – per dirla con le già riferite parole della Corte – essi,
"in definitiva, restano all'interno del sistema dell'ordinamento sportivo propriamente detto e le possibili controversie che in esso sorgono non
possono formare mai oggetto della giurisdizione statale".
7 – Passando, quindi, alla verifica della concreta riferibilità della specifica controversia in esame alle questioni, di cui si è ampiamente detto, per le
quali il cit. art. 2 del D.L. n. 220/2003 esclude la rilevanza nell’ordinamento statuale – e, perciò, la sussistenza della giurisdizione – si ricorda che
con il ricorso di prime cure è stato richiesto l’annullamento "del provvedimento n. 67 del Giudice sportivo della F.I.G.C. di cui al comunicato
75
ufficiale n. 227 del 14 febbraio 2007", degli atti connessi "e, per quanto occorrer possa, degli articoli 9, 11 e 14 del vigente "codice di Giustizia
Sportiva" della F.I.G.C."; nonché "il rimborso e il risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale subito dai ricorrenti".
Si è già visto che l’impugnato provvedimento n. 67 del 14 febbraio 2007 aveva disposto la squalifica dello stadio Massimino di Catania sino al 30
giugno 2007, nonché lo svolgimento a porte chiuse (cioè in assenza di pubblico) di tutte le partite casalinghe del Catania Calcio s.p.a. fino a detta
data, ovunque disputate.
7.1. – S’era fatta riserva (al superiore punto 4), di verificare, ai fini del radicamento o meno della giurisdizione statuale, che la controversia in esame
effettivamente riguardasse in via esclusiva rapporti dei quali, per espressa previsione del cit. art. 2 del D.L. n. 220/2003, è escluso ogni rilievo per
l’ordinamento statuale, restando riservati a quello sportivo.
Alla stregua di quanto si è sin qui detto ed essendosi testé ricordato l’oggetto dell’impugnativa, tale verifica risulta assai agevole.
Non si può infatti dubitare del fatto che l’impugnato provvedimento n. 67 del Giudice sportivo in data 14 febbraio 2007, tanto nella parte in cui
dispone la squalifica del campo del Catania Calcio fino al 30 giugno 2007, quanto in quella in cui obbliga tale squadra a giocare a porte chiuse tutte
le partite casalinghe ovunque disputate fino alla stessa data, costituisce irrogazione e applicazione di sanzioni disciplinari sportive, ai sensi e per gli
effetti – di cui si è già detto – dell’art. 2, comma 1, lett. b) del cit. D.L. n. 220 del 2003.
Neppure si può dubitare che l’ulteriore impugnativa, parimenti proposta in via di eventuale estensione ("per quanto occorrer possa") del petitum, che
concerne gli articoli 9, 11 e 14 del vigente "codice di Giustizia Sportiva" della F.I.G.C., integri comunque una questione avente a oggetto "i
comportamenti rilevanti sul piano disciplinare", ai sensi del già cit. art. 2, comma 1, lett. b) del cit. D.L. n. 220 del 2003.
Per quanto infine attiene all’ulteriore domanda di condanna delle controparti intimate in primo grado al "rimborso e risarcimento del danno
patrimoniale e non patrimoniale subito dai ricorrenti", si vedrà fra breve che anch’essa, per come in questa sede proposta, esula dalla giurisdizione,
al pari delle domande principali di annullamento cui tale richiesta di condanna dichiaratamente accede.
7.2. – L’unica peculiarità del caso in esame, rispetto ai vari altri consimili che negli ultimi anni sono stati più volti portati all’esame della giustizia
amministrativa, consiste nel fatto che la domanda di annullamento della sanzione disciplinare sportiva è stata proposta non dalla squadra di calcio
disciplinarmente sanzionata dalla F.I.G.C., ma da alcuni suoi abbonati, titolari in quanto tali del diritto contrattuale di assistere alle partite in casa
della predetta squadra di calcio.
Il Collegio non ritiene di dover approfondire il tema della legittimazione ad agire dei ricorrenti, perché il chiaro disposto del cit. art. 2 del D.L. n.
220/2003 esclude in radice la giurisdizione di ogni giudice statale negli ambiti ivi indicati riservati all’ordinamento sportivo, tra cui come si è
ampiamente già detto rientra l’irrogazione e l’appli-cazione delle sanzioni disciplinari sportive, sicché appare certo che tale difetto assoluto di
giurisdizione – vieppiù in quanto concerne la materia e non il profilo soggettivo del ricorrente – va dichiarato a prescindere da chi sia il soggetto che,
ritenendosi leso, devolva la controversia alla giurisdizione statuale.
Sicchè – pur essendo quantomeno "inusuale" che il creditore ex contractu del destinatario di un provvedimento amministrativo sfavorevole impugni
quest’ultimo, la situazione risultando in effetti analoga a quella del locatario di un ombrellone che volesse impugnare la revoca della concessione
demaniale marittima del titolare dello stabilimento balneare – si tralascia il profilo della legittimazione ad agire, in quanto lo si reputa assorbito, erga
omnes, dal difetto assoluto di giurisdizione.
7.3. – Quest’ultimo parimenti assorbe, ovviamente, tutti gli ulteriori profili – primo fra tutti quello della competenza territoriale, come si è già
ampiamente visto supra – sia di rito, sia, a fortiori, di merito.
Di essi, dunque, non deve conoscere alcun giudice dello Stato.
7.4. – Va infine ribadita, per completezza, l’inammissibilità in questa sede altresì della domanda di tutela risarcitoria, che i ricorrenti hanno proposto
in prime cure per asserita lesione di loro diritti assoluti (danno all’onore e alla reputazione, nonché c.d. danno esistenziale) e relativi (lesione dei
diritti contrattuali acquistati con gli abbonamenti).
Si tratta, invero, di diritti che non interferiscono in alcun modo con le vicende interne dell’ordinamento sportivo (le quali, per legge, sono riservate a
quest’ultimo).
Sotto un primo profilo, la circostanza che gli odierni ricorrenti possano agire contrattualmente, in altre sedi, verso il Catania Calcio s.p.a., non li
abilita tuttavia ad agire per l’annullamento (né per la disapplicazione) di atti dell’ordinamento sportivo rispetto ai quali la legge dello Stato ha
espressamente affermato il proprio disinteresse, avendoli qualificati a ogni effetto come irrilevanti per l’ordinamento giuridico statuale. Infatti il
diritto di credito dell’abbonato – tutelato verso la società debitrice, ovvero anche erga omnes – non legittima quest’ultimo a esercitare, in via
sostanzialmente surrogatoria, azioni giurisdizionali che, ai sensi del cit. D.L. n. 220/2003 e alla stregua di quanto si è sopra osservato, sono
radicalmente precluse a chiunque.
D’altronde, né i diritti contrattuali verso il Catania Calcio s.p.a. radicano nei creditori alcun interesse legittimo rispetto a vicende sportive di cui è la
stessa legge a escludere ogni rilievo per l’ordinamento giuridico, e con esso la sussistenza di ogni giurisdizione pubblica; né, ai fini in discorso,
assume alcun rilievo il fatto che – a partire da Cass., S.U., 26 gennaio 1971, n. 174 – la giurisprudenza civile ammetta la tutela erga omnes del
credito attribuendo al creditore l’azione aquiliana verso il terzo che ha reso impossibile la prestazione.
Sotto ulteriore profilo, l’inammissibilità, per la ragione già esposta, delle esaminate domande risarcitorie consegue, altresì, al fatto che le stesse sono
state in questa sede concretamente formulate come conseguenziali e complementari rispetto all’illegittimità degli atti impugnati, pretesamente
amministrativi, e dei quali era stato richiesto l’annullamento: sicché il difetto di giurisdizione sugli atti interni all’ordinamento sportivo, che si
dichiara con la presente decisione, preclude la cognizione anche sulle formulate domande risarcitorie.
8. – In conclusione, in accoglimento nei sensi predetti del secondo motivo di appello, va dichiarato il difetto assoluto di giurisdizione su tutte le
domande proposte con il ricorso di prime cure – ogni ulteriore profilo restando assorbito in tale declaratoria – con annullamento senza rinvio della
sentenza gravata; è, per l’effetto, inammissibile il ricorso di primo grado.
Le spese del doppio grado del giudizio, liquidate nella misura di cui in dispositivo, sono poste a carico solidale dei soggetti ivi indicati, con riparto
paritario di tali oneri, nei rapporti interni, tra tutte le persone fisiche o giuridiche solidalmente obbligate a concorrervi.
P. Q. M.
Il Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione siciliana, in sede giurisdizionale, accoglie l’appello, nei sensi di cui in motivazione, e per
l’effetto annulla senza rinvio la sentenza gravata e dichiara inammissibile il ricorso di primo grado.
Condanna, in solido, le parti private appellate costituite nonché la Provincia regionale di Catania e la Confederazione Nazionale Nuovi Consumatori
Europei a rifondere alla Federazione Italiana Giuoco Calcio, al Comitato Olimpico Nazionale Italiano ed alla Lega Nazionale Professionisti,
parimenti con solidarietà attiva, le spese del doppio grado del giudizio, che liquida in complessivi € 5.000,00 (Cinquemila/00) oltre accessori di
legge.
Nulla per le spese nei confronti dei soggetti intimati e non costituitisi.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità amministrativa.
Così deciso in Palermo il 10 maggio 2007 dal Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione siciliana, in sede giurisdizionale, in camera di
consiglio, con l’intervento dei signori: Claudio Zucchelli, Presidente f.f., Pietro Falcone, Ermanno de Francisco, estensore, Antonino Corsaro,
Filippo Salvia, Componenti.
F.to: Claudio Zucchelli, Presidente f.f.
F.to: Ermanno de Francisco, Estensore
76
F.to: Maria Assunta Tistera, Segretario
Depositata in segreteria il 8 novembre 2007.
77
TAR LAZIO - ROMA, SEZ. III TER - sentenza 5 novembre 2007 n. 10911 - Pres. Riggio, Est. Ferrari - Mazzoleni (Avv. Chiacchio, Cozzone,
Lubrano) c. Federazione Italiana Giuoco Calcio (Avv.ti Medugno e Mazzarelli) e Comitato Olimpico Nazionale Italiano (Avv. Persichelli) e
Associazione Italiana Arbitri (n.c.) e Camera di conciliazione e di arbitrati per lo sport del C.O.N.I. (n.c.) e nei confronti di Zanzi e altri (n.c.) (dichiara il ricorso inammissibile per difetto di giurisdizione del G.A.).
Giurisdizione e competenza - Sport - Arbitri di calcio - Non ammissione tra gli arbitri effettivi, e contestuale inserimento nella categoria
degli arbitri fuori quadro - Controversie in materia - Giurisdizione del G.A. - Non sussiste - Giurisdizione degli Organi di giustizia sportiva Sussiste - Ragioni.
Esula dalla giurisdizione del Giudice amministrativo, per rientrare nella competenza degli Organi di giustizia sportiva, una controversia
avente ad oggetto l’impugnazione, da parte di un arbitro di calcio, del provvedimento con il quale si dispone contestualmente la non
ammissione dello stesso tra gli arbitri effettivi, e l’inserimento nella categoria degli arbitri fuori quadro; tale controversia, infatti, attiene
alla contestazione di un giudizio tecnico espresso dalla Commissione Arbitri Nazionali, e, poiché, ai sensi del D.L. 19 agosto 2003 n. 220,
convertito dalla L. 17 ottobre 2003 n. 280, i rapporti tra l'ordinamento sportivo e quello statale sono regolati in base al principio di
autonomia, consegue la sottrazione al controllo giurisdizionale del G.A. degli atti a contenuto tecnico-sportivo.
FATTO
1. Con ricorso notificato in date 14 - 23 maggio 2007, e depositato il 15 maggio, il sig. Mario Mazzoleni impugna gli atti in epigrafe indicati e ne
chiede l’annullamento.
Espone, in fatto, di essere stato, prima dell’adozione del provvedimento impugnato, arbitro di calcio inserito nei ruoli effettivi della Commissione
Arbitri Nazionale per la Serie A e B (CAN) dell’Associazione Italiana Arbitri (A.I.A.).
Ricorda che i passaggi tra i livelli gerarchici dell’A.I.A. (id est, CAN, CAN C e CAN D) avvengono per promozione, che si conquista qualora si
occupi, nella graduatoria finale della stagione, uno dei primi cinque posti. Aggiunge di aver fatto parte della CAN e di aver guadagnato circa 120.000
euro a stagione, a titolo di gettone di presenza (gettone pari a circa 6.000 euro a partita).
Al termine della stagione 2005-2006, con il provvedimento impugnato è stato collocato al 37° posto della graduatoria finale degli arbitri tesserati per
la CAN e, quindi, collocato fuori ruolo e, per l’effetto, è ritornato ad arbitrare le partite dilettantistiche (con un gettone di presenza pari a circa 31
euro a partita).
2. Avverso i predetti provvedimenti il ricorrente, dopo aver esperito tutti i gradi di giustizia sportiva, è insorto deducendo:
a) Questioni di merito - Violazione artt. 3 e 97 Cost. - Violazione artt. 3 L. n. 241 del 1990, 24 Cost., 3 L. n. 280 del 2003 - Violazione della
normativa federale dell’A.I.A. e, in particolare, dell’art. 16 del Regolamento dell’A.I.A. nonché della prassi consolidata in sede di applicazione di
tale norma - Eccesso di potere per manifesta ingiustizia e illogicità, per contraddittorietà, per errore sui presupposti di fatto e di diritto e per
sviamento di potere. Sono illegittimi sia il provvedimento della Camera di conciliazione che quello dell’A.I.A.
Illegittimamente il lodo della Camera di conciliazione ha dichiarato inammissibile l’istanza di arbitrato sul rilievo che il Collegio arbitrale non può
svolgere alcun sindacato di merito ma solo di legittimità, avendo il ricorrente chiesto proprio un sindacato di legittimità del provvedimento che lo
aveva posto fuori ruolo.
Né rileva la circostanza che l’art. 47, primo comma, del Regolamento dell’A.I.A. ha disposto che le decisioni con le quali gli Arbitri sono posti fuori
ruolo non sono soggette a ricorso, dovendo tale prescrizione ritenersi indicativa del fatto che, in relazione a tali provvedimenti, sono esclusi i ricorsi
in ambito endo-federale ma non anche eso-federale, e cioé all’interno dell’ordinamento sportivo generale facente capo al C.O.N.I.. Un ordinamento
settoriale non può, infatti, precludere i ricorsi all’ordinamento superiore, quale è quello del C.O.N.I. nel quale l’A.I.A. rientra. Pertanto tale norma
non preclude il successivo ricorso alla Camera di conciliazione prima e alla giustizia amministrativa poi. In caso contrario tale norma sarebbe
chiaramente illegittima per violazione dell’art. 24 Cost e della L. n. 280 del 2003.
b) Illegittimità dei provvedimenti dell’A.I.A. impugnati alla Camera di conciliazione. I provvedimenti impugnati sono illegittimi perché il ricorrente
non avrebbe dovuto essere inserito tra gli arbitri fuori quadro, ad arbitrare partite dei campionati dilettantistici e del settore giovanile, ma al più
essere retrocesso tra gli arbitri della CAN C.
3. Con atto di motivi aggiunti, notificato il 12 giugno 2007 e depositato il successivo 13 giugno, il ricorrente, oltre a censurare, per profili diversi, i
provvedimenti già gravati con l’atto introduttivo dei giudizio, impugna la proposta CAN riguardante la sua posizione, depositata agli atti di causa
dalla Federazione Italiana Giuoco Calcio.
Il ricorrente afferma in primo luogo che il giudizio tecnico reso nei suoi confronti è un atto giuridico inesistente perché privo di sottoscrizione e di
data. Detto giudizio tecnico è inoltre illegittimo per contraddittorietà atteso che ha valutato negativamente il ricorrente che, al termine della stagione,
aveva riportato un media di giudizio (8,40) che si colloca tra il buono (8,30) e il molto buono (8,60) senza peraltro aver mai avuto, in alcuna delle
partite arbitrate (circa 20), un giudizio inferiore alla sufficienza (8,00).
Infine, illegittimamente sono stati promossi alla CAN arbitri che nella CAN C hanno ottenuto un punteggio inferiore a quello conseguito dal
ricorrente nella CAN.
4. Si è costituita in giudizio la Federazione Italiana Giuoco Calcio, che ha preliminarmente eccepito il difetto di giurisdizione del giudice adito,
nonché l’inammissibilità del ricorso sotto diversi profili mentre nel merito ne ha sostenuto l’infondatezza.
5. Si è costituito in giudizio il Comitato Olimpico Nazionale Italiano, che ha preliminarmente eccepito il proprio difetto di legittimazione passiva
nonché il difetto di giurisdizione del giudice adito mentre nel merito ha sostenuto l’infondatezza del ricorso.
6. Con memorie depositate alla vigilia dell’udienza di discussione le parti costituite hanno ribadito le rispettive tesi difensive.
7. Nella camera di consiglio del 7 giugno 2007, nell’accordo delle parti, l’esame dell’istanza di sospensione proposta dal ricorrente è stato abbinato
al merito.
8. All’udienza del 25 ottobre 2007 la causa è stata trattenuta per la decisione.
DIRITTO
1. Nell’esame delle diverse eccezioni dedotte dalle parti resistenti il Collegio ritiene di dover dare la priorità a quella relativa al proprio difetto di
giurisdizione, sollevata sul rilievo che l’art. 2, primo comma, lett. b), D.L. 19 agosto 2003 n. 220, convertito dall’art. 1 L. 17 ottobre 2003 n. 280,
riserverebbe la competenza a decidere sui comportamenti rilevanti sul piano disciplinare e sull’irrogazione delle relative sanzioni sportive agli organi
di giustizia sportiva.
La questione relativa alla sussistenza della giurisdizione del giudice adito va infatti esaminata prioritariamente, a prescindere dall’ordine delle
eccezioni dato dalla parte, e ciò in quanto la carenza di giurisdizione inibisce al giudice anche di verificare la legittimazione attiva dei ricorrenti o
passiva delle parti evocate in giudizio, così come la tempestività o ammissibilità dei vizi dedotti. Infatti, le statuizioni sul rito costituiscono
manifestazione di potere giurisdizionale, di pertinenza esclusiva del giudice dichiarato competente a conoscere della controversia (Cons.Stato, IV
Sez., 22 maggio 2006 n. 3026; T.A.R. Lazio, Sez. III ter, 20 luglio 2006 n. 6180).
L’eccezione è fondata.
Ai sensi del D.L. 19 agosto 2003 n. 220, convertito dalla L. 17 ottobre 2003 n. 280, i rapporti tra l'ordinamento sportivo e quello statale sono regolati
in base al principio di autonomia, con conseguente sottrazione al controllo giurisdizionale degli atti a contenuto tecnico sportivo. Tale criterio trova
una deroga solo nel caso di rilevanza per l'ordinamento giuridico della Repubblica di situazioni giuridiche soggettive connesse con l'ordinamento
sportivo; in tale ipotesi, le relative controversie sono attribuite alla giurisdizione dell'Autorità giudiziaria ordinaria ove abbiano per oggetto i rapporti
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patrimoniali tra Società, Associazioni ed atleti, mentre ogni altra controversia avente per oggetto atti del C.O.N.I. o delle Federazioni sportive
nazionali è devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
In altri termini, la giustizia sportiva costituisce lo strumento di tutela per le ipotesi in cui si discute dell'applicazione delle regole sportive, mentre
quella statale è chiamata a risolvere le controversie che presentano una rilevanza per l'ordinamento generale, concernendo la violazione di diritti
soggettivi o interessi legittimi (Cons.Stato, VI Sez., 9 luglio 2004 n. 5025).
Con precipuo riferimento al principio, introdotto dal cit. art. 2, di autonomia dell’ordinamento sportivo da quello statale, che riserva al primo la
disciplina delle questioni aventi ad oggetto "i comportamenti rilevanti sul piano disciplinare e l’irrogazione ed applicazione delle relative sanzioni
disciplinari sportive", questo Tribunale ha già più volte chiarito che esso, letto unitamente all’art. 1, secondo comma, dello stesso decreto legge, non
appare operante nel caso in cui la sanzione non esaurisce la sua incidenza nell’ambito strettamente sportivo, ma rifluisce nell’ordinamento generale
dello Stato (T.A.R. Lazio, Sez. III ter, 21 giugno 2007 n. 5645; 22 agosto 2006 n. 7331; 18 aprile 2005 n. 2801 e 14 dicembre 2005 n. 13616).
Nella vicenda in esame il sig. Mazzoleni, arbitro di calcio inserito nei ruoli effettivi della Commissione Arbitri Nazionale per la Serie A e B (CAN)
dell’Associazione Italiana Arbitri (A.I.A.), impugna, nella sostanza, i provvedimenti con i quali è stato inserito nel ruolo degli Arbitri fuori quadro a
seguito di un giudizio tecnico espresso dalla Commissione Arbitri Nazionali, secondo il quale, sebbene "al terzo anno di appartenenza all’Organo
tecnico, [il sig. Mazzoleni] ha palesato intrinseche carenze sia tecniche che caratteriali, accentuatesi maggiormente visto anche l’iter di crescita non
più suscettibile di miglioramenti. Il rendimento è stato quasi sempre al di sotto delle aspettative".
Si tratta dunque di un giudizio basato esclusivamente sulle qualità tecniche espresse dall’arbitro.
Manca nella specie il connotato della rilevanza esterna all’ordinamento sportivo degli effetti dei provvedimento impugnati, che si esauriscono
all’interno del predetto ordinamento non avendo alcun riflesso, né diretto né indiretto, nell’ordinamento generale il giudizio di scarsa capacità tecnica
resa nei confronti dell’arbitro.
Occorre infatti considerare che gli arbitri non sono dipendenti del C.O.N.I. e della F.I.G.C. e non percepiscono, quindi, una retribuzione ma una mera
indennità, a nulla rilevando che questa, in una stagione, possa raggiungere i 120.000 euro e che, proprio in considerazione del suo rilevante
ammontare, il ricorrente possa aver deciso di fare dell’attività arbitrale l’unica fonte di guadagno.
Aggiungasi che l’impugnata determinazione di inserimento nei ruoli degli Arbitri fuori quadro non incide neanche sullo status di tesserato,
permanendo in capo al ricorrente il rapporto associativo.
Il ricorso deve pertanto essere dichiarato inammissibile per carenza di giurisdizione.
Quanto alle spese di giudizio, può disporsene l'integrale compensazione fra le parti costituite in giudizio.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio – Sezione III Ter,
definitivamente pronunciando sul ricorso proposto, come in epigrafe, dal sig. Mario Mazzoleni lo dichiara inammissibile.
Compensa integralmente tra le parti in causa le spese e gli onorari del giudizio.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'Autorità amministrativa.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio del 25 ottobre 2007.
Italo Riggio Presidente
Giulia Ferrari Componente - Estensore
Depositata in Segreteria in data 5 nov. 2007.
79
TAR LAZIO - ROMA, SEZ. III TER - sentenza 22 agosto 2006 n. 7331 - Pres. Corsaro, Est. Fantini - Asd Trapani Calcio (Avv.ti Di Giugno e
Petrella) c. F.I.G.C. - Federazione Italiana Gioco Calcio (Avv.ti Medugno e Mazzarelli) e Lega Nazionale Dilettanti, Comitato Interregionale (n.c.) (respinge).
1. Sport - Giustizia sportiva - Principio dell'autonomia dell’ordinamento sportivo da quello statuale - Ex art. 2 della L. n. 280 del 2003 Ambito di operatività - Individuazione.
2. Giurisdizione e competenza - Sport - Decisioni della C.A.F. presso la F.I.G.C. (Federazione Italiana Gioco Calcio) - Irrogazione di
sanzioni disciplinari nei confronti di una squadra di calcio - Nel caso di penalizzazione di punti in classifica da scontarsi in una stagione
sportiva - Controversie in materia - Giurisdizione del G.A. - Sussiste - Ragioni.
3. Sport - Giustizia sportiva - Responsabilità oggettiva di una società di calcio - Nel caso di illecito sportivo commesso da un soggetto che,
nonostante si sia dimesso da ogni carica associativa, abbia continuato a fornire il proprio contributo ed i propri servigi alla società stessa - Si
configura - Riferimento all’art. 9 del Codice di giustizia sportiva.
4. Sport - Giustizia sportiva - Decisioni della C.A.F. presso la presso la F.I.G.C. (Federazione Italiana Gioco Calcio) - Irrogazione di sanzioni
disciplinari nei confronti di una società di calcio - Sindacabilità in sede giurisdizionale - Limiti - Valutazione circa la congruità della
sanzione disciplinare - Impossibilità - Vizio di eccesso di potere per disparità di trattamento - Nel caso di decisioni non raffrontabili Inconfigurabilità.
1. L’art. 2, lett. b), della legge 17 ottobre 2003, n. 280, in applicazione del principio di autonomia dell’ordinamento sportivo da quello
statuale, riserva al primo “i comportamenti rilevanti sul piano disciplinare e l’irrogazione ed applicazione delle relative sanzioni disciplinari
sportive”; tale norma tuttavia opera nei limiti dei casi di rilevanza per l’ordinamento giuridico della Repubblica di situazioni giuridiche
soggettive connesse con l’ordinamento sportivo. La norma stessa, viceversa, non opera nel caso di sanzioni disciplinari aventi rilevanza
esterna, che incidono sullo status del soggetto in termini non solo economici, ma anche di onorabilità.
2. Rientra nella giurisdizione amministrativa una controversia avente ad oggetto l’impugnazione di una sanzione disciplinare irrogata nei
confronti di una società di calcio dal C.A.F. presso la Federazione Italiana Gioco Calcio (F.I.G.C.), comportante la penalizzazione di alcuni
punti in classifica (nella specie, si trattava di punti dodici in classifica da scontarsi nella stagione sportiva 2006 - 2007), atteso che tale
sanzione, determinando l’esclusione dalla graduatoria delle società ripescabili nel campionato nazionale, e la conseguente retrocessione della
società di calcio, sembra assumere anche rilevanza esterna, incidendo sullo status del soggetto in termini non solo economici, ma anche di
onorabilità (1).
3. Si configura la responsabilità di una società di calcio nel caso di illecito sportivo commesso da un ex dirigente che, nonostante si sia
dimesso da ogni carica associativa, abbia continuato a fornire il proprio contributo ed i propri servigi alla società medesima - così
ricoprendo un ruolo di primaria importanza - idonei a qualificarlo come persona addetta ai servizi della società medesima; infatti, l’art. 9
del Codice di Giustizia Sportiva, al primo comma, non limita l'illecito sportivo all’illecito commesso da un "intraneus" (nel senso penalistico
del termine, che rileva, ad esempio, per l’enucleazione del reato proprio), ma prevede, sotto la rubrica "ulteriori ipotesi di responsabilità
delle società", che "le società sono responsabili, a titolo di responsabilità oggettiva, dell’operato e del comportamento delle persone
comunque addette a servizi della società e dei propri sostenitori, sia nel proprio campo, … che su quello delle società avversarie" (2).
4. In materia di sanzioni disciplinari irrogate dagli organi sportivi nei confronti di una società di calcio, al giudice amministrativo è precluso
effettuare una valutazione astratta sulla congruità della sanzione disciplinare; in ordine a tali sanzioni è inoltre inconfigurabile il vizio di
eccesso di potere per disparità di trattamento nel caso in cui si faccia riferimento a precedenti che non costituiscono utile termine di
paragone, non essendo caratterizzati da situazioni oggettivamente e soggettivamente identiche, sì da escludere la ravvisabilità della figura
sintomatica della disparità di trattamento (3).
Breve commento di
GIOVANNI VIRGA
L’orientamento del T.A.R. Lazio e le speranze della Juventus
Nella prima pagina del Corriere della Sera di oggi (23 agosto 2006) è stato pubblicato un articolo (intitolato “Il Tar riaccende le speranze della
Juventus”), col quale si dà notizia del fatto che il collegio di difesa della società di calcio Juventus avrebbe tratto “qualche motivo di speranza”
dall’ordinanza emessa nella giornata di ieri dal T.A.R. Lazio sui ricorsi proposti da Moggi e da Giraudo; tale ordinanza (clicca qui per consultarla)
infatti, pur avendo respinto le domande preliminari di sospensione avanzate in seno a detti ricorsi (per mancanza del danno grave ed irreparabile), ha
anche respinto la eccezione di inammissibilità - per difetto di giurisdizione - proposta dalla difesa avversaria.
I motivi di speranza sono tuttavia destinati ad affievolirsi se si leggono attentamente le motivazioni della sentenza in rassegna (depositata sempre ieri
dal T.A.R. Lazio) relativa ad alcune sanzioni disciplinari irrogate dalla C.A.F. presso la F.I.G.C. nei confronti della società Asd Trapani Calcio.
Con la sentenza in parola infatti il T.A.R. Lazio - pur dichiarando (con qualche dubbio, come diremo meglio in seguito) la propria giurisdizione in
materia di sanzioni disciplinari irrogate dagli organi sportivi nei confronti della società di calcio, nel caso in cui tali sanzioni abbiano “anche
rilevanza esterna, incidendo sullo status del soggetto in termini non solo economici, ma anche di onorabilità” (non si tratta tuttavia di una novità
assoluta: v. in tal senso in prec. T.A.R. Lazio, Sez. III ter, 19 aprile 2005, n. 2801; id., 14 dicembre 2005, n. 13616; v. in materia anche T.A.R. Lazio,
Sez. III ter, 23 dicembre 2005, n. 14813, in questa Rivista, pag. http://www.lexitalia.it/p/61/tarlazio3ter_2005-12-23.htm e Cons. Stato, Sez. VI, 9
luglio 2004, n. 3917, ivi, pag. http://www.lexitalia.it/p/cds/cds6_2004-06-09.htm e da ult. F. NOSCHESE, I provvedimenti disciplinari della
giustizia sportiva, loro effetti riflessi sul mercato. Disciplina statuale e comunitaria) - tuttavia ha affermato:
1) che al giudice amministrativo è precluso effettuare una valutazione astratta sulla congruità della sanzione disciplinare;
2) che, conformemente ai principi generali espressi da tempo dalla giurisprudenza (v. per tutte la sentenza del Cons. Stato, Sez. IV, 29 aprile 1980, n.
459), è inconfigurabile il vizio di eccesso di potere per disparità di trattamento nel caso in cui si faccia riferimento a precedenti che non
costituiscono utile termine di paragone, non essendo caratterizzati da situazioni oggettivamente e soggettivamente identiche.
Il ricorso proposto dalla Juventus avverso la decisione della Corte federale della F.I.G.C. 4 agosto 2006 (pubblicata in questa Rivista, pag.
http://www.lexitalia.it/vari/figc_2006-08-04.htm), a quanto è dato di sapere, si basa proprio sulla denuncia di tale preteso vizio di eccesso di potere e
comunque sulla contestazione della particolare gravità della sanzione disciplinare inflitta, essendo stato lamentato che per fattispecie analoghe
esaminate contestualmente dalla C.F. (riguardanti, com’è noto, le società di calcio della Lazio, della Fiorentina e del Milan) sono state irrogate
sanzioni meno severe.
L’affermazione del principio secondo cui al G.A. è precluso effettuare una valutazione astratta sulla congruità della sanzione disciplinare e di quello
secondo cui è inconfigurabile il vizio di eccesso di potere nel caso di situazioni non comparabili, finisce per costituire un serio ostacolo alle speranze
della Juventus.
Rimangono, è vero, i consueti canoni della “ragionevolezza” e della “proporzionalità”, applicabili anche in sede di giurisdizione di legittimità, ma
tali canoni sembrano nel caso della Juventus ridotti a fronte dell’orientamento di chiusura espresso dal T.A.R. Lazio con la sentenza in rassegna.
L’orientamento restrittivo del T.A.R. Lazio forse deriva anche da qualche dubbio che residua in ordine alla sussistenza in materia della giurisdizione
amministrativa.
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Con la sentenza in rassegna, infatti, il T.A.R. Lazio, pur affermando in generale che sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo in materia di
sanzioni disciplinari irrogate dagli organi sportivi nei confronti della società di calcio, nel caso in cui tali sanzioni finiscano per assumere “anche
rilevanza esterna, incidendo sullo status del soggetto in termini non solo economici, ma anche di onorabilità”, ha tuttavia dovuto ammettere
lealmente la "difficoltà della individuazione di un sicuro discrimine tra atti a rilevanza meramente interna ed atti incidenti su posizioni giuridiche
rilevanti nell’ordinamento generale".
Altro motivo di interesse della sentenza in rassegna (sempre con riferimento alla vicenda Juventus) si rinviene nell'affermazione dell'esistenza - ai
sensi dell'art. 13 del Codice di giustizia sportiva - di una responsabilità oggettiva delle società di calcio per i comportamenti non solo dei loro
dirigenti, ma anche per quelli degli ex dirigenti che, pur dopo le dimissioni dalle cariche sociali, hanno finito per operare sempre per conto della
società.
Si tratta di una non lieve diversione dal noto principio (esistente soprattutto in campo penale, ma anche in quello civilistico) secondo cui, di regola, la
responsabilità è personale e non può riguardare la società alla quale appartiene il soggetto responsabile (ricordato dal vecchio broccardo secondo cui
societas delinquere non potest).
Nell'ordinamento sportivo invece, le società calcistiche - per una forma di responsabilità oggettiva - sono chiamate a rispondere dei comportamenti
addirittura di ex dirigenti che, pur essendosi dimessi, hanno continuato ad agire per conto e nell'interesse della società. A fortiori il principio sembra
applicabile ai casi (come quelli di Moggi e Giraudo) in cui i comportamenti siano riferibili a soggetti che rivestivano - al tempo dei fatti contestati la qualità di dirigenti della società calcistica.
Va in ultimo rilevato che la coeva ordinanza con la quale il TAR Lazio, Sez. III ter ha esaminato la domanda di sospensione proposta da Moggi
suscita qualche perplessità nella parte in cui ha ritenuto implicitamente ammissibile la domanda stessa, nonostante che non fossero stati esperiti tutti i
rimedi previsti dall'ordinamento sportivo.
Invero la stessa Sezione del T.A.R. Lazio aveva avuto modo di affermare in precedenza (con la già richiamata sentenza 23 dicembre 2005 n. 14813,
in questa Rivista, pag. http://www.lexitalia.it/p/61/tarlazio3ter_2005-12-23.htm) che "l’art. 3 della legge 17 ottobre 2003, n. 280, nel prevedere la
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sulle controversie (diverse da quelle concernenti i rapporti patrimoniali tra società, associazioni ed
atleti) aventi ad oggetto atti del C.O.N.I. o delle Federazioni sportive, incidenti su situazioni giuridiche soggettive aventi rilevanza per l’ordinamento
statale, pone come condizione di procedibilità del ricorso giurisdizionale - a tutela dell’autonomia dell’ordinamento sportivo (e della soluzione
endoassociativa delle controversie ivi insorte) - il previo esaurimento dei gradi di giustizia sportiva".
In applicazione di tale principio in quel caso era stato pertanto ritenuto "inammissibile il ricorso proposto da una società calcistica avverso i
provvedimenti di mancata iscrizione della società stessa nel campionato di serie C ove non risulti esperito alcun rimedio interno all’ordinamento
sportivo (nella specie, in particolare, non era stata adita la Camera di Conciliazione e di arbitrato per lo Sport presso il C.O.N.I., operante in forza
della clausola compromissoria contenuta nell’art. 27 dello Statuto della F.I.G.C., e la cui decisione costituisce l’ultimo grado della giustizia
sportiva)".
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio - Sezione Terza Ter
Composto dai Magistrati:
Francesco CORSARO Presidente
Stefania SANTOLERI Componente
Stefano FANTINI Componente relatore
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso n. 7844 del 2006 Reg. Gen. proposto da ASD Trapani Calcio, in persona del Presidente Vittorio Morace, rappresentato e difeso dagli
Avv.ti Marco Di Giugno e Veronica Petrella, ed elettivamente domiciliato in Roma, alla Via Beccaria n. 84, presso lo studio legale Valsecchi;
CONTRO
- F.I.G.C. - Federazione Italiana Giuoco Calcio, in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa dagli Avv.ti Luigi Medugno e Letizia
Mazzarelli, presso i quali è elettivamente domiciliata in Roma, alla Via Panama n.58;
- Lega Nazionale Dilettanti - Comitato Interregionale, in persona del legale rappresentante pro tempore, non costituita in giudizio;
per l’annullamento
- della decisione della C.A.F. presso la F.I.G.C. del 26/5/2006 le cui motivazioni sono state comunicate, a mezzo telefax, in data 26/6/2006;
- della decisione della Commissione Disciplinare presso il Comitato Interregionale della Lega Nazionale Dilettanti, pubblicata sul C.U. n. 167 del
16/5/2006;
Visto il ricorso con i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio della F.I.G.C.;
Vista la memoria prodotta dalla F.I.G.C. a sostegno delle proprie difese;
Visti gli atti tutti della causa;
Relatore, nella camera di consiglio del 22.8.2006, il Primo Ref. Stefano Fantini;
Uditi i procuratori delle parti come da verbale di udienza;
Ritenuto che nella fattispecie in esame sussistono i presupposti per fare ricorso alla sentenza in forma semplificata, in virtù del rinvio effettuato
dall’art. 3, III comma, della legge 17/10/2003, n. 280 all’art. 26 della legge 6/12/1971, n. 1034;
Ritenuto che deve essere disattesa la preliminare eccezione, sollevata dalla F.I.G.C., di difetto assoluto di giurisdizione, in quanto, seppure l’art. 2,
lett. b), della legge 17/10/2003, n. 280, in applicazione del principio di autonomia dell’ordinamento sportivo da quello statuale, riserva al primo “i
comportamenti rilevanti sul piano disciplinare e l’irrogazione ed applicazione delle relative sanzioni disciplinari sportive”, deve peraltro considerarsi
che il predetto principio opera nei limiti dei casi di rilevanza per l’ordinamento giuridico della Repubblica di situazioni giuridiche soggettive
connesse con l’ordinamento sportivo;
Ritenuto che nella vicenda in esame è impugnata la sanzione disciplinare della penalizzazione di punti dodici in classifica da scontarsi nella stagione
sportiva 2006 - 2007, che, determinando l’esclusione dalla graduatoria delle società ripescabili nel campionato nazionale di serie D, e la conseguente
retrocessione dell’associazione ricorrente nel campionato regionale di eccellenza, sembra assumere anche rilevanza esterna, incidendo sullo status
del soggetto in termini non solo economici, ma anche di onorabilità (in termini, T.A.R. Lazio, Sez. III ter, 19/4/2005, n. 2801, nonché 14/12/2005, n.
13616);
Ritenuto che, pur nella difficoltà della individuazione di un sicuro discrimine tra atti a rilevanza meramente interna ed atti incidenti su posizioni
giuridiche rilevanti nell’ordinamento generale, l’esclusione della giurisdizione nella fattispecie in esame esporrebbe a dubbi di illegittimità
costituzionale la legge n. 280/03;
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Ritenuto che, anche a prescindere dall’eccezione di inammissibilità per mancata impugnativa del C.U. 27/7/06 che ha respinto la domanda di
ripescaggio, dall’eccezione di irricevibilità, nonché dall’ulteriore eccezione di improcedibilità, nel merito non appare meritevole di positiva
valutazione la prima censura con cui si deduce l’erronea configurazione di un’ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto l’art. 9 del Codice di
Giustizia Sportiva, al primo comma, non limita una siffatta fattispecie all’illecito commesso da un “intraneus” (nel senso penalistico del termine, che
rileva, ad esempio, per l’enucleazione del reato proprio), ma prevede, sotto la rubrica “ulteriori ipotesi di responsabilità delle società”, che “le società
sono responsabili, a titolo di responsabilità oggettiva, dell’operato e del comportamento delle persone comunque addette a servizi della società e dei
propri sostenitori, sia nel proprio campo, …, che su quello delle società avversarie”;
Considerato che risulta acclarato come il sig. Giacalone, pur dimessosi da ogni carica associativa dal dicembre 2005, abbia continuato “in modo
costante e diffuso a fornire il proprio contributo ed i propri servigi alla società ricoprendo un ruolo di primaria importanza”, sì che può qualificarsi
come “persona addetta ai servizi della società”;
Ritenuto che deve essere disatteso anche il secondo motivo con cui si allega la carenza di motivazione in ordine alla prova dell’illecito sportivo, in
quanto, come condivisibilmente statuito dalla C.A.F., le risultanze emerse all’esito delle indagini risultano idonee a supportare una pronuncia di
responsabilità e la conseguente sanzione; rilevano in tale senso le registrazioni delle telefonate intercorse tra il sig. Capozzo ed il portiere della
Rossanese, Piazza, nonché il successivo contegno del Giacalone, che ha eseguito il gesto convenzionale, “non riconducibile a diverse ipotesi solo che
si consideri che lo stesso Giacalone ha affermato, nell’interrogatorio reso subito dopo la gara …, di non conoscere il Piazza”;
Considerato altresì che infondato è il terzo motivo, con cui si esclude, in via argomentativa, la ravvisabilità di una responsabilità presunta dell’ASD
Trapani, peraltro già ritenuta non sussistente dalla CAF, in ragione dell’unicità del fatto illecito commesso in concorso dal Giacalone e dal Capozzo;
Ritenuto infine non meritevole di positiva valutazione la quarta ed ultima censura, con cui si deduce l’eccessività della pena anche sotto il profilo
della disparità di trattamento; ciò tanto in assoluto, e cioè con riguardo alla tipologia delle sanzioni irrogabili a norma dell’art. 13 del Codice di
Giustizia Sportiva (sotto tale profilo va peraltro precisato che al giudice amministrativo è precluso effettuare una valutazione astratta sulla congruità
della pena), quanto con riferimento ai precedenti, invero genericamente richiamati, che non costituiscono peraltro utile termine di paragone, non
essendo caratterizzati da situazioni oggettivamente e soggettivamente identiche, sì da escludersi la ravvisabilità della figura sintomatica della
disparità di trattamento (ex multis Cons. Stato, Sez. IV, 29/4/1980, n. 459);
Ritenuto, ancora, che le spese di giudizio seguono, come di regola, la soccombenza, e sono liquidate nell’importo indicato nel dispositivo;
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio - Sezione III Ter, definitivamente pronunciando, respinge il ricorso.
Condanna la ricorrente alla rifusione, in favore della resistente F.I.G.C., delle spese di giudizio, che si liquidano in complessivi euro 1.000,00
(mille/00).
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'Autorità amministrativa.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 22.8.2006.
Francesco
Corsaro
Presidente
Stefano
Fantini
Componente, Est.
Depositata in Segreteria in data 22 agosto 2006.
82
14) TRANSLATIO IUDICII
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. UNITE CIVILI - sentenza 22 febbraio 2007 n. 4109 - Pres. Carbone, Red. Trifone - Golf Vacanze s.p.a. c.
Comune di Opera - P.M. Martone (conforme).
1. Giurisdizione e competenza - Sentenza declaratoria del difetto di giurisdizione - Mancata impugnativa sul punto - Determina la
formazione del giudicato interno sulla giurisdizione.
2. Giurisdizione e competenza - Translatio iudicii - Applicabilità anche alle questioni di giurisdizione - Sussiste.
3. Giurisdizione e competenza - Translatio iudicii - Presupposti - Necessità di una pronuncia sulla giurisdizione da parte delle SS.UU. della
Corte di Cassazione - Non sussiste - Applicabilità anche nel caso di sentenza declinatoria della giurisdizione da parte del giudice di merito Sussiste.
1. Dal coordinamento dei principi sulla rilevabilità d'ufficio del difetto di giurisdizione con quelli che disciplinano il sistema delle
impugnazioni, deriva che, ove il giudice di primo grado abbia espressamente statuito sulla giurisdizione, il riesame della questione da parte
del giudice di secondo grado postula che essa sia stata riproposta con il mezzo di gravame, ostandovi, altrimenti, la formazione del giudicato
interno (1). Deve pertanto ritenersi che, qualora il tribunale amministrativo regionale abbia espressamente e positivamente statuito sulla
propria giurisdizione, provvedendo poi sul ricorso, la mancata riproposizione, in sede di appello davanti al Consiglio di Stato, della relativa
questione determina la formazione del giudicato interno sulla giurisdizione (2).
2. Sia nel caso di ricorso ordinario ex art. 360 c.p.c., n. 1 - previsto per il solo giudizio ordinario e poi esteso ex art. 111 Cost. a tutte le
decisioni, assumendo la veste di ricorso per contestare innanzi alle Sezioni Unite la giurisdizione del giudice che ha emesso la sentenza
impugnata - sia nel caso di regolamento preventivo di giurisdizione proponibile innanzi al giudice ordinario, ma anche innanzi al giudice
amministrativo, contabile o tributario, deve poter operare la translatio iudicii. In tal modo si consente al processo, iniziato erroneamente
davanti ad un giudice che non ha la giurisdizione indicata, di poter continuare - così come è iniziata - davanti al giudice effettivamente
dotato di giurisdizione, onde dar luogo ad una pronuncia di merito che conclude la controversia processuale, comunque iniziata, realizzando
in modo più sollecito ed efficiente quel servizio giustizia, costituzionalmente rilevante (3).
3. La traslatio iudicii di una controversia dal giudice ordinario al giudice speciale e viceversa, non richiede necessariamente la pronuncia
delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione sulla questione di giurisdizione, ma è possibile anche nel caso di sentenza del giudice di merito,
che abbia declinato la giurisdizione.
FATTO
Il comune di Opera, proprietario di un campo da golf con annessa club house, con deliberazione consiliare all'esito di gara pubblica ne assegnava la
gestione per nove anni alla società S. Inter-Sviluppo Internazionale s.r.l..
La concessione alla scadenza era rinnovata per uguale durata e la società Golf Vacanze s.p.a., nella quale si era trasformata la società concessionaria,
con ricorso notificato il giorno 11 marzo 1997 adiva il Tribunale Amministrativo Regionale della Lombardia, cui chiedeva che il Comune fosse
condannato al rimborso delle spese sostenute per la manutenzione straordinaria dell'impianto sportivo, cui l'ente proprietario non aveva provveduto,
al risarcimento di danni nonchè alla rimozione di un'insegna abusiva installata sull'edificio adibito a club house.
Il tribunale amministrativo, ritenuta la giurisdizione del giudice amministrativo, accoglieva il ricorso quanto alla domanda di rimborso delle spese di
manutenzione straordinaria e lo rigettava per le pretese relative al risarcimento dei danni ed alla rimozione dell'insegna.
Il Consiglio di Stato, sull'appello del Comune soccombente, con sentenza pubblicata il 16 dicembre 2004 annullava senza rinvio la decisione di
primo grado, ritenendo che la controversia, nella parte relativa al rimborso delle spese effettuate dal concessionario per la manutenzione
straordinaria, comprese quelle relative all'edificio della club house, rientrava nella giurisdizione del giudice ordinario.
Il giudice d'appello, premesso che d'ufficio avrebbe potuto riesaminare la questione di giurisdizione, considerava che si trattava di controversia
riguardante l'esistenza e l'adempimento di obbligazione pecuniaria, avente ad oggetto il corrispettivo dei lavori di straordinaria manutenzione eseguiti
dalla società concessionaria, per cui, in applicazione della disciplina che in tema di concessione-contratto riserva al giudice ordinario la cognizione
delle questioni relative a "canoni, indennità ed altri corrispettivi", riteneva che essa rientrasse nella giurisdizione del medesimo giudice ordinario.
Rilevava, inoltre, che non poteva essere condivisa la conclusione del giudice di primo grado - secondo cui l'esame della questione controversa,
comportando lo scrutinio del provvedimento concessorio al fine di desumerne i rispettivi obblighi, spettava al giudice amministrativo - poichè anche
nelle liti attinenti a "canoni, indennità ed altri corrispettivi" deve, comunque, procedersi all'interpretazione dell'atto di concessione e dell'eventuale
disciplinare.
Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la società Golf Vacanze s.p.a., che ha affidato l'accoglimento dell'impugnazione ad un unico
motivo. Non ha svolto difese l'intimato Comune di Opera.
DIRITTO
Con l'unico mezzo d'impugnazione - deducendo la violazione e la falsa applicazione della norma di cui alla L. 6 dicembre 1971, n. 1034, art. 5 e
l'erronea dichiarazione del difetto di giurisdizione del giudice amministrativo in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 1 e art. 362 c.p.c., comma 1 - la
società ricorrente premette che avverso la sentenza di primo grado dei Tribunale Amministrativo Regionale della Lombardia, sul punto relativo alla
questione di giurisdizione, il comune di Opera non aveva proposto impugnazione, per cui in ordine alla ritenuta g
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iurisdizione del giudice amministrativo si era formato il giudicato.
Denuncia, comunque, che la decisione del Consiglio di Stato sulla giurisdizione sarebbe errata, in quanto, facendo parte gli impianti sportivi del
patrimonio indisponibile del Comune e potendosene trasferire la disponibilità ai privati solo mediante concessione amministrativa (che assume la
configurazione dell'atto complesso della concessione-contratto e non quella della locazione), tutte le controversie insorgenti da tale rapporto
sarebbero devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo, ai sensi della L. n. 1034 del 1971, art. 5, comma 5, pur quando la domanda sia
diretta a conseguire la condanna della pubblica amministrazione concedente al risarcimento dei danni derivati dal mancato adempimento di
determinati obblighi imposti dalla convenzione.
Il motivo è fondato.
E' pacifica nella giurisprudenza di queste Sezioni Unite (da ultimo; Cass., sez. un., n. 7039/2006; Cass., sez. un., n. 1327/2000; Cass., sez. un., n.
36/99; Cass., sez. un., n. 850/98) la regola di diritto secondo lei quale, dal coordinamento dei principi sulla rilevabilità d'ufficio del difetto di
giurisdizione con quelli che disciplinano il sistema delle impugnazioni, deriva che, ove il giudice di primo grado abbia espressamente statuito sulla
giurisdizione, il riesame della questione da parte del giudice di secondo grado postula che essa sia stata riproposta con il mezzo di gravame,
ostandovi, altrimenti, la formazione del giudicato interno.
E' stato, pertanto, espressamente stabilito (Cass., sez. un., n. 411/87) che qualora il tribunale amministrativo regionale abbia espressamente e
positivamente statuito sulla propria giurisdizione, provvedendo poi sul ricorso, la mancata riproposizione, in sede di appello davanti al Consiglio di
Stato, della relativa questione determina la formazione del giudicato interno sulla giurisdizione.
L'inosservanza di tale preclusione da parte del Consiglio di Stato, che ha dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo pur in
assenza d'impugnazione sulla statuizione del Tribunale Amministrativo Regionale della Lombardia espressamente affermativa della sua
giurisdizione, comporta che, vertendosi in tema di violazione attinente ai limiti esterni della potestas decidendi (nella specie oggetto di specifico
mezzo d'impugnazione per cassazione, ma, comunque, rilevabile ex officio in questa sede) e ritenuto che sulla giurisdizione del giudice
amministrativo sussiste;
il giudicato interno, la impugnata sentenza deve essere cassata con rinvio per nuovo esame al Consiglio di Stato.
La pronuncia di cassazione con rinvio al giudice amministrativo costituisce statuizione con la quale queste Sezioni Unite ritengono di dovere
modificare il precedente risalente orientamento, secondo cui la decisione del giudice ordinario o del giudice speciale, con la quale viene dichiarato il
difetto di giurisdizione, non consente che il processo possa continuare dinanzi al giudice fornito di giurisdizione.
L'ius receptum (ex plurimis: Cass., sez. un., n. 7039/2006; Cass., sez. un., n. 19218/2003; Cass., sez. un., n. 17934/2003; Cass., sez. un., n.
8089/2002; Cass., sez. un., n. 7099/2002; Cass., sez. un., n. 6041/2002; Cass., sez. un., n. 2091/2002; Cass., sez. un., n. 14266/2001; Cass., sez. un.,
n. 1146/2000; Cass., sez. un., n. 1166/94; Cass., sez. un., n. 10998/93) sul tema considera che la translatio iudicii dal giudice ordinario al giudice
speciale (e viceversa) presuppone necessariamente l'unicità della giurisdizione, nel cui ambito il rapporto processuale viene considerato regolarmente
costituito sia pure innanzi al giudice incompetente, con la conseguenza che, una volta riassunta la causa davanti a quello competente, risultano salvi
tutti gli atti in precedenza proposti.
Nel caso, invece, di domanda proposta innanzi ad un giudice privo di giurisdizione, non è possibile la riassunzione dinanzi al giudice amministrativo o speciale - fornito di tale giurisdizione, mentre lo è se il giudice fornito di giurisdizione è il giudice ordinario.
La giustificazione di tale orientamento ha continuato ad essere tratta essenzialmente dalla considerazione che, nel caso di difetto di giurisdizione, non
trova applicazione la norma dell'art. 50 cod. proc. civ., riferibile solo alla materia della competenza, e di siffatta conclusione si sostiene che la
ulteriore conferma sarebbe data dalla regola, stabilita dall'articolo 367 c.p.c., che consente la riassunzione del processo, a seguito del regolamento di
giurisdizione, solo quando la Corte di cassazione dichiari la giurisdizione del giudice ordinario.
Rispetto al suddetto consolidato indirizzo, ostativo alla translatio ed alla conservazione degli effetti degli atti compiuti innanzi al giudice sfornito di
giurisdizione, non erano mancate, tuttavia, decisioni di segno contrario.
Questo giudice di legittimità, infatti, cassando la sentenza di una commissione tributaria regionale, che aveva escluso la giurisdizione del giudice
tributario affermata, invece, dalla decisione della commissione provinciale in primo grado, aveva pronunciato sentenza di rinvio al giudice tributario
di secondo grado perchè avesse dato "luogo al giudizio di merito" ed avesse provveduto inoltre "alla liquidazione delle spese" del giudizio di
cassazione (Cass., n. 88/2001; Cass., n. 1496/2002). In proposito non va però trascurata l'istituzione della sezione tributaria presso la Corte di
Cassazione, dopo l'abrogazione della Commissione tributaria centrale, che è divenuta in sede di legittimità giudice naturale del processo tributario.
In altra precedente statuizione (Cass., n. 5357/87), aveva, altresì, ritenuto, in applicazione analogica dell'art. 50 cod. proc. civ., che, in tema di
responsabilità del vettore relativamente alle merci trasportate, non si verifica la prevista decadenza per il mancato esercizio dell'azione entro il
termine dell'anno quando la domanda, proposta tempestivamente innanzi al giudice straniero privo di competenza giurisdizionale, sia
tempestivamente riassunta innanzi al giudice nazionale nel termine di sei mesi dalla pronuncia declinatoria sulla giurisdizione del giudice straniero
medesimo.
Si era trattato, tuttavia, di decisioni isolate - o peculiari alla giurisdizione tributaria o basate più sull'evitata decadenza che sulla translatio - che non
solo non avevano avuto successiva ed argomentata conferma, ma che neppure avevano affrontato il problema in consapevole contrasto con l'esistente
consolidata giurisprudenza, per cui ad esse non può essere assegnata la qualifica di veri e propri precedenti difformi di un indirizzo esegetico
tralaticio, di cui sarebbe stato opportuno verificare l'attuale sua validità anche a seguito del mutato panorama legislativo, nel quale la questione
veniva inevitabilmente a riproporsi.
La dottrina, in prevalenza, a sua volta affermava che ciò che valeva per la competenza non poteva valere anche per la giurisdizione in mancanza di
una norma specifica, parallela a quella posta dall'art. 50 cod. proc. civ., e ribadiva che l'effetto impeditivo della decadenza (da collegare ad un evento
a tal fine idoneo, non già alla espressione di semplice volontà sostanziale del soggetto agente) non poteva derivare, in modo ritualmente recettizio,
dalla domanda giudiziale a qualsiasi giudice rivolta, ma supponeva la valida instaurazione del processo davanti al giudice fornito di giurisdizione, sì
che ne fosse stato possibile in prosieguo un esito tale da definire il merito della controversia.
Con allargato riferimento al tema del difetto di giurisdizione del giudice nazionale nei confronti del giudice straniero, la dottrina, inoltre, decisamente
rifiutava la statuizione di Cass., n. 5357/87.
Analogamente considerava che neppure nella Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968 (concernente la competenza giurisdizionale e
l'esecuzione delle decisioni in materia civile, resa esecutiva in Italia con la L. 21 giugno 1971, n. 804) esisteva una norma che consentisse la
prosecuzione del giudizio avanti al giudice straniero relativamente ad un'azione instaurata avanti al giudice nazionale dichiaratosi privo di
competenza giurisdizionale ed escludeva che, nel caso suddetto, potesse farsi luogo alla translatio iudicii per effetto della disciplina dettata dalla
Convenzione medesima al fine di distribuire la competenza giurisdizionale fra i giudici degli Stati membri nei casi previsti di connessione di cause e
di contemporanea pendenza della medesima causa innanzi a giudici di Stati diversi, giacchè la disciplina sulla connessione e sulla litispendenza
riguardava pur sempre ipotesi in cui sussisteva la competenza giurisdizionale in capo ai diversi giudici nazionali.
In tale generale contesto non erano mancate, tuttavia, autorevoli opinioni contrarie, che, procedendo dal principio fondamentale dei nostri Autori
classici seconde cui il processo deve tendere ad una sentenza di merito, avevano posto in risalto come - anche con riguardo ai rapporti tra giudice
ordinario e giudice speciale, nell'evidente interesse del litigante di evitare gli ostacoli inutili ed i danni non necessari della lite e dello Stato di
spendere nel migliore dei modi l'opera dei suoi organi - dovesse essere assicurata, unitamente alla conservazione degli effetti della domanda proposta
al giudice privo di giurisdizione, la trasmigrabilità della causa al giudice che ne sia fornito.
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Anche il Giudice delle leggi, del resto, aveva avvertito (Corte Cost., 16 ottobre 1986, n. 220) che il giusto processo è diretto non allo scopo di
sfociare in una decisione purchessia, ma di rendere pronuncia di merito stabilendo chi ha ragione e chi ha torto, onde esso deve avere per oggetto la
verifica della sussistenza dell'azione in senso sostanziale e, nei limiti del possibile, non esaurirsi nella discettazione sui presupposti processuali.
Più di recente il tema della translatio iudicii nel rapporto tra giudice ordinario e giudice speciale ha costituito argomento di rinnovato dibattito da
parte della dottrina, che, rimproverando l'acritica adesione del giudice di legittimità ai suoi precedenti, non rivisitati in forza delle sopravvenute
modifiche legislative e del generale principio del giusto processo, ha evidenziato come l'orientamento circa la possibilità di ricongiungere segmenti
processuali diversi solo quando il giudice preventivamente adito sia titolare della potestas iudicandi interna al medesimo ordine giudiziario,
dovrebbe essere abbandonato, perchè esso non realizza esigenze meritevoli di tutela e produce un indubbio spreco di attività processuale.
Le ragioni prospettate a sostegno dell'auspicata introduzione del principio della translatio iudicii vengono ravvisate, anzitutto, nell'esteso criterio di
ripartizione della giurisdizione tra giudice ordinario e giudice speciale sulla base non della diversa situazione di diritto soggettivo o di interesse
legittimo dedotta in giudizio, ma in relazione alla materia, il che, comportando una indubbia situazione di incertezza in ordine al riparto, rende oggi
più difficile stabilire a quale giudice (ordinario o speciale) la parte debba rivolgersi, specie dopo che sul riparto di giurisdizione per blocchi di
materia è intervenuta la sentenza, in parte modificativa, della Corte Costituzionale n. 204 del 2004 e successivamente la 191 del 2006.
Altra ragione viene indicata nella esigenza di evitare che la declaratoria di difetto di giurisdizione del giudice ordinario possa dare luogo, essendo
intanto maturato il termine perentorio per la proposizione del ricorso davanti al giudice speciale, alla definitiva stabilità dell'atto impugnato.
Inoltre, si rappresenta che sulle iniziative dei vari disegni di legge de iure condendo, diretti a stabilire espressamente la regola della translatio, vi è
stata, nelle diverse sedi in cui il problema è stato dibattuto, la concorde opinione sull'opportunità della introduzione della regola della trasmigrazione
del processo in subiecta materia.
Al dibattito dottrinale in corso non è rimasta estranea neppure la giurisprudenza di merito, la quale, sul presupposto che in base al diritto vivente
(quale risulta dall'interpretazione data da questo giudice di legittimità) non possa giungersi a sostenere l'ammissibilità della translatio, ha sollecitato
l'intervento del giudice costituzionale, cui ha rimesso la decisione sulla verifica di corrispondenza ai parametri primari degli articoli 24, 111 e 113
Cost. della norma di cui alla L. 6 dicembre 1971, n. 1034, art. 30, nella parte in cui non consentirebbe al giudice amministrativo, che declini la
giurisdizione, di disporre la continuazione del processo con salvezza degli effetti sostanziali e processuali della domanda.
In tale generale contesto anche queste Sezioni Unite - nella loro funzione di Corte regolatrice della giurisdizione in sostituzione dell'originario
Tribunale dei Conflitti - ritengono che, in base ad una lettura costituzionalmente orientata della disciplina della materia, che tenga conto delle
argomentazioni emergenti dalle intervenute modifiche legislative e delle prospettazioni in parte nuove svolte di recente dalla dottrina sul tema,
sussistano le condizioni per potere affermare che è stato dato ingresso nell'ordinamento processuale al principio della translatio iudicii dal giudice
ordinario al giudice speciale, e viceversa, in caso di pronuncia sulla giurisdizione.
Premessa indispensabile è la considerazione di carattere generale che, seppure in tema di giurisdizione non è espressamente stabilita una disciplina
improntata a quella prevista per la competenza (articoli 44, 45 e 50 c.p.c.), ammissiva della riassunzione della causa dal giudice incompetente a
quello competente, neppure sussiste la previsione di un espresso divieto della translatio iudicii nei rapporti tra giudice ordinario e giudice speciale.
Occorre, di conseguenza, indagare da quali elementi della normativa vigente si trae la giustificazione che il principio della trasmigrazione della causa
assiste anche le pronunce sulla questione di giurisdizione.
A tal fine, decisivo argomento è quello rinvenibile dalla disposizione dell'art. 382 cod. proc. civ., concernente la decisione da parte della Cassazione
delle questioni di giurisdizione.
La norma - che, al primo comma, stabilisce che la Corte, qualora decide una questione di giurisdizione, statuisce su questa, determinando, quando
occorre, il giudice competente e che precisa, al secondo comma, che quando cassa per violazione delle norme sulla competenza, statuisce su questa prevede, nella prima parte del suo terzo comma, che se riconosce che il giudice del quale si impugna il provvedimento e ogni altro giudice difettano
di giurisdizione, cassa senza rinvio, aggiungendo, nella seconda parte, che ugualmente provvede in ogni altro caso in cui ritiene che la causa non
poteva essere proposta o il processo proseguito.
Orbene - ritenuto che il ricorso per Cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione può essere proposto non solo contro le sentenze del giudice
ordinario, ma anche avverso le sentenze del giudice speciale - sulla scorta della chiara enunciazione della norma dell'art. 382 c.p.c., comma 3,
secondo quel che già la dottrina da tempo ha evidenziato, deve univocamente ricavarsi che la pronuncia di cassazione senza rinvio non deve avvenire
in tutte le ipotesi in cui questo giudice di legittimità stabilisce che la sentenza impugnata è stata emessa da un giudice sfornito di giurisdizione, ma
solo in quei casi in cui, affermando che nè il giudice che detta sentenza ha emesso nè alcun altro giudice è fornito di giurisdizione, ritiene, perciò, che
ricorre, in relazione alla pretesa avanzata dalla parte, l'ipotesi di improponibilità assoluta della domanda sia innanzi al giudice ordinario che al
giudice speciale.
E' stato, infatti, osservato che il riferimento della norma ad "ogni altro giudice", e non invece soltanto al giudice ordinario, assume significato solo se,
di riflesso, si possa ritenere che questa Corte, affermata la giurisdizione di un giudice speciale invece che quella del giudice ordinario o viceversa,
non debba esaurire il suo compito con la semplice pronuncia di cassazione senza rinvio, ma sia tenuta anche ad indicare innanzi a quale altro giudice
fornito di giurisdizione la causa sia da riassumere.
Il che, del resto, serve anche a dare un più chiaro significato all'espressione del medesimo articolo 382, comma 1 (nella parte in cui la norma
stabilisce che, con la statuizione sulla giurisdizione, la Cassazione determina, quando occorre, il giudice competente), nel senso che in caso di
pronuncia di cassazione della impugnata sentenza per difetto di giurisdizione questo giudice di legittimità deve individuare pure l'ufficio giudiziario
competente, nell'ambito della giurisdizione ordinaria, innanzi al quale il processo deve essere riassunto.
E ciò vale non solo nel caso in cui venga cassata per difetto di giurisdizione la sentenza di un giudice speciale, perchè sussiste la giurisdizione del
giudice ordinario; ma anche nel caso inverso, in cui sia cassata la sentenza del giudice ordinario sul diverso presupposto della giurisdizione del
giudice speciale.
In sostanza, se la pronuncia dovesse essere sempre di cassazione senza rinvio, non avrebbe senso la indicazione anche del giudice competente, la
quale assume, perciò, rilievo essenziale proprio in vista della possibilità di prosecuzione del giudizio al fine di pervenire ad una decisione della
controversia nel merito ad opera del giudice fornito di giurisdizione.
Alla suddetta conclusione, a maggior ragione, deve pervenirsi quando (ed è il caso che nella specie viene all'esame) il giudice speciale in sede di
appello abbia dichiarato il difetto di giurisdizione, affermata dal giudice speciale in primo grado, e questa Corte, invece, stabilisca che la
giurisdizione sia del giudice speciale:
alla cassazione della sentenza impugnata non può che seguire la pronuncia di rinvio davanti al giudice speciale, perchè altrimenti si verificherebbe
l'inaccettabile conseguenza di un processo, che si debba concludere con una sentenza che confermi soltanto la giurisdizione del giudice adito senza
decidere sull'esistenza o meno della pretesa.
A fronte degli argomenti suddetti, elementi in contrario non provengono dalla disposizione dell'art. 386 cod. proc. civ., che prevede che la decisione
sulla giurisdizione è determinata dall'oggetto della domanda e, quando prosegue il giudizio, non pregiudica le questioni sulla pertinenza del diritto e
sulla proponibilità della domanda.
La norma, che stabilisce quale sia la valenza della statuizione sulla giurisdizione qualora il giudizio prosegua, addirittura può essere utilizzata quale
conferma del fatto che la prosecuzione è ammissibile sia innanzi al giudice ordinario che a quello speciale, una volta che si ritenga che l'inciso
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"quando prosegue il giudizio" sia da intendere "quando il giudizio debba proseguire" per il fatto che non si verte in tema di improponibilità assoluta
della domanda.
Nè deve indurre a conclusione contraria alla possibilità della traslatio iudicii la previsione di apparente esclusione dell'art. 367 c.p.c., comma 2,
secondo cui "se la Corte di cassazione dichiara, la giurisdizione del giudice ordinario, le parti debbono riassumere il processo entro il termine
perentorio di sei mesi dalla comunicazione della sentenza".
Della norma in questione, infatti, non può continuarsi a dare una lettura restrittiva, che - se consentita quando il regolamento di giurisdizione, in base
al sistema del codice del 1940, era disciplinato come proponibile unicamente nei giudizi innanzi al giudice ordinario, sicchè la continuazione del
processo era ammessa solo quando la Cassazione dichiarava la giurisdizione del giudice ordinario - deve, allo stato attuale anche della legislazione,
tener conto che il regolamento di giurisdizione è proponibile anche nel processo innanzi al tribunale amministrativo regionale (L. n. 1034 del 1971,
art. 30) ed avanti al giudice tributario in primo grado (D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 3).
Il che significa, anzitutto, che, proposto il regolamento nel giudizio innanzi al giudice amministrativo o a quello tributario e ritenuta dalla Cassazione
la giurisdizione del giudice ordinario, diventa, perciò, ammissibile, proprio in applicazione dell'art. 367 c.p.c., comma 2, disporre la riassunzione del
processo al giudice ordinario.
Allo stesso modo, inoltre, a seguito di regolamento di giurisdizione proposto innanzi al giudice ordinario, del quale venga affermata la giurisdizione,
occorre ritenere che la Cassazione deve disporre la riassunzione della causa innanzi allo stesso giudice speciale: la diversa soluzione, che per
l'adozione di tale pronuncia ravvisasse l'ostacolo derivante dal tenore letterale della norma del predetto articolo 367 c.p.c., comma 2, oltre ad
introdurre una grave anomalia nel sistema, finirebbe per premiare iniziative pretestuose in danno della parte che, pur avendo adito il giudice fornito
di giurisdizione, non potrebbe innanzi ad esso continuare ad esporre le sue ragioni di merito.
In conclusione, sia nel caso di ricorso ordinario ex art. 360 c.p.c., n. 1 - previsto per il solo giudizio ordinario e poi esteso ex art. 111 Cost. a tutte le
decisioni, assumendo la veste di ricorso per contestare innanzi alle Sezioni Unite la giurisdizione del giudice che ha emesso la sentenza impugnata sia nel caso di regolamento preventivo di giurisdizione proponibile innanzi al giudice ordinario, ma anche innanzi al giudice amministrativo,
contabile o tributario, deve poter operare la translatio iudicii. In tal modo si consente al processo, iniziato erroneamente davanti ad un giudice che
non ha la giurisdizione indicata, di poter continuare - così come è iniziata - davanti al giudice effettivamente dotato di giurisdizione, onde dar luogo
ad una pronuncia di merito che conclude la controversia processuale, comunque iniziata, realizzando in modo più sollecito ed efficiente quel servizio
giustizia, costituzionalmente rilevante.
Una volta ritenuto che dopo l'intervento della Cassazione, affinchè sia realizzato il principio che il processo deve avere per oggetto la verifica della
sussistenza dell'azione in senso sostanziale, deve farsi luogo alla translatio iudicii, è il caso di aggiungere, per ragioni di completezza sistematica, che
la trasmigrabilità della causa dal giudice ordinario al giudice speciale, e viceversa, non richiede necessariamente la pronuncia di queste Sezioni Unite
sulla questione di giurisdizione, ma è resa possibile anche nel caso di sentenza del giudice di merito, che abbia declinato la giurisdizione.
Si è sostenuto in dottrina che, seppure la translatio iudicii è consentita quando sulla giurisdizione sia intervenuta la pronuncia della Cassazione,
perchè ad essa possa farsi luogo anche a seguito di pronuncia declinatoria del giudice di merito sulla giurisdizione occorrerebbe l'intervento della
Corte costituzionale diretto ad eliminare l'attuale disciplina impeditiva, che contrasta con gli articoli 3, 24 e 111 Cost..
Ma non è necessario sollecitare sul punto l'intervento del Giudice delle leggi (cfr. T.A.R. Liguria 21.11.2005, n. 148), potendosi a tale conclusione
pervenire ancora in sede interpretativa.
Seppure la sentenza del giudice di merito - sia esso ordinario che amministrativo, tributario o contabile declinatoria della giurisdizione, a differenza
di quella delle Sezioni Unite della Cassazione, non imponga, al giudice del quale è stata affermata la giurisdizione, di adeguarsi a tale pronuncia,
onde il giudice ad quem, innanzi al quale la causa fosse riassunta, potrebbe a sua volta dichiarare il proprio difetto di giurisdizione, occorre
considerare che, in tal caso, alle parti, per la soluzione del conflitto negativo di giurisdizione, è dato il ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 362
c.p.c., comma 2, sicchè il previsto meccanismo correttivo della denunciata situazione di stallo, nel rispetto del principio che ogni giudice è giudice
della propria giurisdizione, consente, nella soluzione del conflitto, di pervenire alla decisione della questione di giurisdizione con effetti vincolanti
nei confronti del giudice dichiarato fornito di giurisdizione, innanzi al quale è resa praticabile la translatio iudicii. Il problema giuridico che esula
dalla presente controversia merita di essere ulteriormente approfondito.
Qui giova precisare che l'apparente antinomia della suddetta conclusione con la disposizione della L. 6 dicembre 1971, n. 1034, art. 34, comma 1,
laddove si prevede l'annullamento senza rinvio della decisione del tribunale amministrativo regionale da parte del Consiglio di Stato quando l'organo
di secondo grado riconosca il difetto di giurisdizione del giudice di primo grado, si compone nel rilievo che il difetto di giurisdizione considerato
dalla norma concerne anch'esso le sole ipotesi in cui non è configurabile una prosecuzione del processo né innanzi al giudice speciale, né innanzi al
giudice ordinario, in parallelo alla disposizione dell'art. 382 c.p.c., comma 3.
Per la particolarità della fattispecie esaminata sussistono giusti motivi (art. 92 cod. proc. civ.) per compensare interamente tra le parti le spese del
presente giudizio di Cassazione.
P.Q.M.
La Corte di Cassazione a Sezioni Unite accoglie il ricorso; dichiara la giurisdizione del giudice amministrativo; annulla la sentenza impugnata e
rimette le parti innanzi al Consiglio di Stato perchè dia luogo al giudizio di merito. Compensa interamente tra le parti le spese del presente giudizio
di Cassazione.
Così deciso in Roma, il 8 giugno 2006.
Depositato in Cancelleria il 22 febbraio 2007.
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CORTE COSTITUZIONALE - sentenza 12 marzo 2007 n. 77 - Pres. Bile, Red. Vaccarella - (giudizio promosso con ordinanza del 21 novembre
2005 dal T.A.R. Liguria sul ricorso promosso da Totò Pizzeria s.r.l. ed altro contro Comune di Genova ed altri iscritta al n. 148 del registro
ordinanze 2006 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 21, prima serie speciale, dell’anno 2006).
Giurisdizione e competenza - Giurisdizione del giudice amministrativo - Sentenza declinatoria della giurisdizione - Disciplina prevista
dall’art. 30 della L. T.A.R. - Omessa previsione che gli effetti, sostanziali e processuali, prodotti dalla domanda proposta a giudice privo di
giurisdizione si conservino, a seguito di declinatoria di giurisdizione, nel processo proseguito davanti al giudice munito di giurisdizione Illegittimità costituzionale in parte qua - Va dichiarata.
Va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 30 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034 (Istituzione dei tribunali amministrativi
regionali), nella parte in cui non prevede che gli effetti, sostanziali e processuali, prodotti dalla domanda proposta a giudice privo di
giurisdizione si conservino, a seguito di declinatoria di giurisdizione, nel processo proseguito davanti al giudice munito di giurisdizione (1).
Considerato in diritto
1.– Il Tribunale amministrativo regionale della Liguria dubita, in riferimento agli artt. 24, 111 e 113 della Costituzione, della legittimità
costituzionale dell’art. 30 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034 (Istituzione dei tribunali amministrativi regionali), nella parte in cui non consente al
giudice amministrativo che declini la giurisdizione di disporre la continuazione del processo con salvezza degli effetti sostanziali e processuali della
domanda.
2.– La questione è fondata nei sensi di seguito precisati.
3.– Il Tribunale rimettente pone, in termini di legittimità costituzionale, il problema – in ordine al quale la dottrina ha da tempo e ripetutamente preso
posizione – dell’estensione al difetto di giurisdizione del principio della conservazione degli effetti della domanda che, con il codice di procedura
civile del 1942, è stato introdotto limitatamente al caso del difetto di competenza; estensione che, nei più organici progetti di riforma del processo
civile, era prevista in puntuali disposizioni dei relativi disegni di legge delega.
3.1.– Sollevando la questione in esame, il giudice rimettente si fa interprete del diffuso disagio, per i gravi (e, non di rado, irreparabili) inconvenienti
provocati da una disciplina che, in sostanza, parte dal presupposto che l’atto introduttivo del giudizio rivolto ad un giudice privo di giurisdizione sia
affetto da un vizio che lo rende radicalmente inidoneo a produrre gli effetti, sia sostanziali che processuali, che la legge collega ad un atto
introduttivo che violi le regole sul riparto di competenza.
Tale disagio è accresciuto, in primo luogo, dalla circostanza che una così rigorosa disciplina concerne un vizio dell’atto introduttivo che scaturisce da
una estremamente articolata e complessa regolamentazione del riparto di giurisdizione: sicché non solo è tutt’altro che agevole il compito della parte
attrice, ma altrettanto disagevole è quello del giudice il cui eventuale errore, tuttavia, ricade interamente sulla parte (si pensi al caso del giudice che
erroneamente declini la propria giurisdizione con nuova proposizione della domanda al giudice indicato come munito di giurisdizione, il quale, a sua
volta, la declini: la domanda riproposta al primo giudice non potrebbe "ancorarsi" alla prima e far risalire ad essa gli effetti sostanziali e processuali).
Questa Corte è consapevole che il fenomeno appena illustrato ha assunto proporzioni ancor più vistose a seguito di una propria recente pronuncia
dichiarativa dell’illegittimità costituzionale di talune norme che, secondo il criterio dei «blocchi di materie», ripartivano la giurisdizione tra autorità
giudiziaria ordinaria e giudice amministrativo: l’inapplicabilità, secondo la giurisprudenza assolutamente dominante, all’ipotesi di sopravvenuta
dichiarazione di illegittimità costituzionale del principio della perpetuatio iurisdictionis codificato nell’art. 5 cod. proc. civ. ha certamente acuito la
diffusa sensazione della sostanziale ingiustizia della disciplina vigente in quanto, nonostante la domanda fosse stata rivolta al giudice munito di
giurisdizione secondo la legge vigente al momento della sua proposizione, la sopravvenuta carenza di giurisdizione ne impediva o pregiudicava la
tutela giurisdizionale.
Peraltro, l’orientamento del Consiglio di Stato, di gran lunga prevalente, fondato sul potere di rilevare d’ufficio il difetto di giurisdizione anche
quando, essendosi su di essa esplicitamente pronunciato il TAR, contro tale capo della pronuncia non sia stata proposta impugnazione, fa sì (ed ha
fatto sì in numerosi casi interessati dalla citata sentenza di questa Corte) che il giudizio debba essere proposto ex novo davanti al giudice ordinario
perfino dopo che sulla sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo si sia formato il giudicato.
3.2.– La dottrina, a sua volta, è pressoché unanime nel sollecitare una riforma legislativa che preveda meccanismi idonei – come accade per l’ipotesi
di difetto di competenza – ad assicurare, con la trasmigrazione del giudizio davanti al giudice munito di giurisdizione, la conservazione degli effetti
che la legge collega alla proposizione della domanda giudiziale.
Una parte della dottrina, poi, ha sostenuto che alle pronunzie emesse dalla Corte di cassazione in tema di giurisdizione potrebbe conseguire – in base
al combinato disposto degli artt. 50, 367 e 382 cod. proc. civ. – la translatio iudicii con conservazione degli effetti della domanda giungendo,
recentemente, a desumere da tale conclusione che – non potendosi imporre alle parti, affinché operi il meccanismo della translatio iudicii, di adire
necessariamente la Suprema Corte a sezioni unite – analogo risultato sarebbe conseguibile, de iure condito, nel caso di declinatoria di giurisdizione
da parte di un giudice di merito.
3.3.– Recentemente, nel tentativo di risolvere con strumenti ermeneutici l’annoso e grave problema, la Corte di cassazione (Sezioni unite 22 febbraio
2007, n. 4109) ha affermato - nel rinviare al Consiglio di Stato, per violazione del giudicato interno,una controversia definita dal medesimo
Consiglio con una pronuncia declinatoria della giurisdizione - che tale rinvio costituiva modifica del proprio «precedente, risalente orientamento,
secondo cui la decisione del giudice ordinario o del giudice speciale, con la quale viene dichiarato il difetto di giurisdizione, non consente che il
processo possa continuare dinanzi al giudice fornito di giurisdizione».
Ricordato che tale tralaticio orientamento si fondava sulla circostanza che l’art. 50 cod. proc. civ. prevede la riassunzione del processo solo nel caso
di difetto di competenza, e non anche di giurisdizione, e che l’art. 367 prevede la riassunzione, a seguito di regolamento di giurisdizione, solo davanti
al giudice ordinario, e fatto proprio il «principio fondamentale dei nostri Autori classici secondo cui il processo deve tendere ad una sentenza di
merito», le Sezioni unite «ritengono che, in base ad una lettura costituzionalmente orientata della disciplina della materia, che tenga conto delle
argomentazioni emergenti dalle intervenute modifiche legislative e delle prospettazioni in parte nuove svolte di recente dalla dottrina sul tema,
sussistono le condizioni per potere affermare che è stato dato ingresso nell’ordinamento processuale al principio della translatio iudicii dal giudice
ordinario al giudice speciale, e viceversa, in caso di pronuncia sulla giurisdizione».
«Premessa indispensabile è la considerazione di carattere generale» che, se è assente per la giurisdizione la disciplina prevista per la competenza,
«neppure sussiste la previsione di un espresso divieto della translatio iudicii nei rapporti tra giudice ordinario e giudice speciale». Rilevato, poi, che
la cassazione senza rinvio è possibile, a norma dell’art. 382, comma terzo, cod. proc. civ., in caso di difetto assoluto di giurisdizione, dovendosi in
ogni altro caso cassare con rinvio al giudice munito di giurisdizione, la Corte di cassazione osserva, da un lato, che la norma che esclude l’incidenza
sul merito della pronuncia sulla giurisdizione (art. 386) è indice della "proseguibilità" del giudizio e, dall’altro lato, che l’estensione legislativa del
regolamento di giurisdizione al processo amministrativo e a quello tributario impone di interpretare estensivamente l’art. 367, comma secondo, cod.
proc. civ., ammettendo la riassunzione anche davanti al giudice speciale.
Ne consegue che, a seguito sia di ricorso ordinario ex art. 360, n. 1, cod. proc. civ., sia di regolamento di giurisdizione, sarebbe sempre ammessa la
riassunzione del processo davanti al giudice (ordinario o speciale) munito di giurisdizione e tale riassunzione sarebbe possibile – aggiunge la Corte
«per ragioni di completezza sistematica» – «anche nel caso di sentenza del giudice di merito, che abbia declinato la giurisdizione».
Respinta la tesi secondo la quale tale risultato richiederebbe l’intervento della Corte costituzionale (sollecitato, ricorda la Corte di cassazione,
dall’ordinanza di rimessione qui in esame), le Sezioni unite osservano che il giudice indicato, come munito di giurisdizione, dalla pronuncia
declinatoria può, «a sua volta, dichiarare il proprio difetto di giurisdizione» ma che in tal caso, «nel rispetto del principio che ogni giudice è giudice
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della propria giurisdizione», il ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 362, secondo comma, cod. proc. civ. risolve, con il conflitto negativo, la
«situazione di stallo»; anche se – conclude la Corte – «il problema giuridico che esula dalla presente controversia merita di essere ulteriormente
approfondito».
4.– La circostanza che la Corte di cassazione abbia diffusamente trattato la questione – più volte ricordandola – oggetto del presente giudizio di
legittimità costituzionale impone a questa Corte, per l’autorevolezza delle Sezioni unite, di dedicare attenta considerazione alle argomentazioni che si
sono appena riferite benché le Sezioni unite – decidendo su un error in procedendo, sia pure avente ad oggetto la giurisdizione – abbiano affrontato
la questione risolvendo un caso di conferma della giurisdizione del giudice a quo e si siano occupate della declinatoria di giurisdizione da parte del
giudice di merito solo «per ragioni di completezza sistematica».
Malgrado ciò, questa Corte non può non considerare attentamente quanto sostengono le Sezioni unite nel pervenire alla conclusione che, essendo la
questione oggetto del presente giudizio risolvibile de iure condito, «non è necessario sollecitare sul punto l’intervento del Giudice delle leggi». E’
evidente, infatti, che, ove fossero condivisibili gli argomenti che hanno indotto le Sezioni unite ad esprimere tale opinione, questa Corte dovrebbe
dichiarare inammissibile la questione in esame per non avere il giudice a quo nemmeno tentato di dare una lettura costituzionalmente orientata della
norma censurata.
4.1.– Pur nella consapevolezza dell’intento ispiratore della sentenza n. 4109 del 2007, si deve anzitutto escludere che – come le Sezioni unite
affermano a «premessa indispensabile» del loro argomentare – manchi nell’ordinamento «un espresso divieto della translatio iudicii nei rapporti tra
giudice ordinario e giudice speciale».
E’ sufficiente rilevare, in proposito, che l’espressa previsione della translatio con esplicito ed esclusivo riferimento alla «competenza» – ciò che
costituiva una novità del codice del 1942, auspicata (ma limitatamente alla incompetenza) fin dal cosiddetto progetto Chiovenda, non a caso resa
possibile da una articolata disciplina (artt. 42-50) totalmente assente per la «giurisdizione» – non altro può significare se non divieto di applicare alla
giurisdizione quanto previsto, esplicitamente ed esclusivamente, per la competenza; il che avrebbe reso superfluo, nell’asciutta essenzialità delle
norme codicistiche, l’«espresso divieto» di applicare alla giurisdizione le molte norme esplicitamente dedicate (sia nelle rubriche che nel testo) alla
sola competenza.
In secondo luogo, riguardo all’argomento che le Sezioni unite desumono dal ricorso per cassazione ex art. 362, comma secondo, cod. proc. civ.,
occorre considerare che – a differenza di quanto l’art. 362, comma primo, prevede (richiamando il termine di cui all’art. 325, comma secondo) per
l’impugnazione di sentenze di giudici speciali «per motivi attinenti alla giurisdizione» – la «denuncia» di conflitti negativi di giurisdizione è
possibile «in ogni tempo»: ed ai fini qui rilevanti è sufficiente osservare che la funzione di «rendere praticabile la translatio», con la conservazione
degli effetti della domanda proposta al giudice (che risulta essere) privo di giurisdizione, non può ritenersi affidata ad un ricorso proponibile «in ogni
tempo» (e, quindi, anche anni dopo il manifestarsi del conflitto).
4.2.– Ciò detto dei due argomenti in base ai quali le Sezioni unite ritengono risolvibile de iure condito la questione pendente dinanzi a questa Corte –
questione della quale non può, conseguentemente, dichiararsi l’inammissibilità per non aver il giudice rimettente valutato la praticabilità di una
interpretazione costituzionalmente corretta – va rilevato che il giudice a quo sollecita l’intervento di questa Corte non già lamentando l’assenza di un
meccanismo processuale che consenta la trasmigrazione del processo ad altro giudice fornito di giurisdizione, bensì l’impossibilità che, a seguito
della declinatoria della giurisdizione, siano conservati gli effetti prodotti dalla domanda proposta davanti ad un giudice privo di giurisdizione.
Tale modo di impostare la questione è corretto, essendo evidente che l’esistenza nel codice di procedura civile di una norma che disciplina in
generale l’istituto della riassunzione della causa (art. 125 disp. att.) non risolve affatto il problema sollevato dal giudice a quo: la possibilità –
esplicitamente prevista dalla legge ovvero desumibile attraverso una sistematica «ricucitura» delle norme – di riassumere il processo non implica di
per sé che la domanda proposta in riassunzione conservi gli effetti prodotti da quella originaria.
La trasmigrabilità del processo è strumento necessario, ma non sufficiente perché il giudice ad quem possa giudicare della domanda dinanzi a lui
riassunta come se essa fosse stata proposta davanti a lui nel momento in cui lo fu al giudice privo di giurisdizione.
5.– Il principio della incomunicabilità dei giudici appartenenti ad ordini diversi – comprensibile in altri momenti storici quale retaggio della
concezione cosiddetta patrimoniale del potere giurisdizionale e quale frutto della progressiva vanificazione dell’aspirazione del neo-costituito Stato
unitario (legge sull’abolizione del contenzioso amministrativo) all’unità della giurisdizione, determinata dall’emergere di organi che si
conquistavano competenze giurisdizionali – è certamente incompatibile, nel momento attuale, con fondamentali valori costituzionali.
Se è vero, infatti, che la Carta costituzionale ha recepito, quanto alla pluralità dei giudici, la situazione all’epoca esistente, è anche vero che la
medesima Carta ha, fin dalle origini, assegnato con l’art. 24 (ribadendolo con l’art. 111) all’intero sistema giurisdizionale la funzione di assicurare la
tutela, attraverso il giudizio, dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi.
Questa essendo la essenziale ragion d’essere dei giudici, ordinari e speciali, la loro pluralità non può risolversi in una minore effettività, o addirittura
in una vanificazione della tutela giurisdizionale: ciò che indubbiamente avviene quando la disciplina dei loro rapporti – per giunta innervantesi su un
riparto delle loro competenze complesso ed articolato – è tale per cui l’erronea individuazione del giudice munito di giurisdizione (o l’errore del
giudice in tema di giurisdizione) può risolversi in un pregiudizio irreparabile della possibilità stessa di un esame nel merito della domanda di tutela
giurisdizionale.
Una disciplina siffatta, in quanto potenzialmente lesiva del diritto alla tutela giurisdizionale e comunque tale da incidere sulla sua effettività, è
incompatibile con un principio fondamentale dell’ordinamento, il quale riconosce bensì la esistenza di una pluralità di giudici, ma la riconosce
affinché venga assicurata, sulla base di distinte competenze, una più adeguata risposta alla domanda di giustizia, e non già affinché sia compromessa
la possibilità stessa che a tale domanda venga data risposta.
Al principio per cui le disposizioni processuali non sono fine a se stesse, ma funzionali alla miglior qualità della decisione di merito, si ispira
pressoché costantemente – nel regolare questioni di rito – il vigente codice di procedura civile, ed in particolare vi si ispira la disciplina che
all’individuazione del giudice competente – volta ad assicurare, da un lato, il rispetto della garanzia costituzionale del giudice naturale e, dall’altro
lato, l’idoneità (nella valutazione del legislatore) a rendere la migliore decisione di merito – non sacrifica il diritto delle parti ad ottenere una risposta,
affermativa o negativa, in ordine al "bene della vita" oggetto della loro contesa.
Al medesimo principio gli artt. 24 e 111 Cost. impongono che si ispiri la disciplina dei rapporti tra giudici appartenenti ad ordini diversi allorché una
causa, instaurata presso un giudice, debba essere decisa, a seguito di declinatoria della giurisdizione, da altro giudice.
6.– Il rispetto dei confini del proprio ruolo nell’ordinamento impone a questa Corte di limitarsi a dichiarare l’illegittimità costituzionale della norma
censurata nella parte in cui non prevede la conservazione degli effetti della domanda nel processo proseguito, a seguito di declinatoria di
giurisdizione, davanti al giudice munito di giurisdizione, ispirandosi essa, viceversa, al principio per cui la declinatoria della giurisdizione comporta
l’esigenza di instaurare ex novo il giudizio senza che gli effetti sostanziali e processuali prodotti dalla domanda originariamente proposta si
conservino nel nuovo giudizio; principio questo che, non formulato espressamente in una o più disposizioni di legge ma presupposto dall’intero
sistema dei rapporti tra giudice ordinario e giudici speciali e tra i giudici speciali, deve essere espunto, come tale, dall’ordinamento.
7.– La disciplina legislativa che, con l’urgenza richiesta dall’esigenza di colmare una lacuna dell’ordinamento processuale, verrà emanata, sarà
vincolata solo nel senso che essa dovrà dare attuazione al principio della conservazione degli effetti, sostanziali e processuali, prodotti dalla domanda
proposta a giudice privo di giurisdizione nel giudizio ritualmente riattivato – a seguito di declinatoria di giurisdizione – davanti al giudice che ne è
munito.
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Ciò posto, è evidente che – contrariamente a quanto sembra sostenere l’ordinanza di rimessione – la conservazione degli effetti prodotti dalla
domanda originaria discende non già da una dichiarazione del giudice che declina la propria giurisdizione, ma direttamente dall’ordinamento,
interpretato alla luce della Costituzione; ed anzi deve escludersi che la decisione sulla giurisdizione, da qualsiasi giudice emessa, possa interferire
con il merito (al quale appartengono anche gli effetti della domanda) demandato al giudice munito di giurisdizione.
La conferma di ciò è nella circostanza che perfino il supremo organo regolatore della giurisdizione, la Corte di cassazione, con la sua pronuncia può
soltanto, a norma dell’art. 111, comma ottavo, Cost., vincolare il Consiglio di Stato e la Corte dei conti a ritenersi legittimati a decidere la
controversia, ma certamente non può vincolarli sotto alcun profilo quanto al contenuto (di merito o di rito) di tale decisione; e ad analogo principio,
conforme a Costituzione, si ispira l’art. 386 cod. proc. civ. (applicabile anche ai ricorsi proposti a norma dell’art. 362, comma primo, cod. proc. civ.)
disponendo che «la decisione sulla giurisdizione è determinata dall’oggetto della domanda e, quando prosegue il giudizio, non pregiudica le
questioni sulla pertinenza del diritto e sulla proponibilità della domanda».
8.– Nel rispetto di tali limiti costituzionali, il legislatore ordinario – ferma l’esigenza di disporre che ogni giudice, nel declinare la propria
giurisdizione, deve indicare quello che, a suo avviso, ne è munito – è libero di disciplinare nel modo ritenuto più opportuno il meccanismo della
riassunzione (forma dell’atto, termine di decadenza, modalità di notifica e/o di deposito, eventuale integrazione del contributo unificato, ecc.) sulla
base di una scelta di fondo a lui soltanto demandata: stabilire, cioè, se mantenere in vita il principio per cui ogni giudice è giudice della propria
giurisdizione ovvero adottare l’opposto principio seguito dal codice di procedura civile (art. 44) per la competenza.
9.– E’ superfluo sottolineare che, laddove possibile utilizzando gli strumenti ermeneutici (come, nel caso oggetto del giudizio a quo, dopo la
declinatoria di giurisdizione), i giudici ben potranno dare attuazione al principio della conservazione degli effetti della domanda nel processo
riassunto.
Per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 30 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034 (Istituzione dei tribunali amministrativi regionali), nella parte
in cui non prevede che gli effetti, sostanziali e processuali, prodotti dalla domanda proposta a giudice privo di giurisdizione si conservino, a seguito
di declinatoria di giurisdizione, nel processo proseguito davanti al giudice munito di giurisdizione.
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI - sentenza 13 marzo 2008 n. 1059
- Pres. Varrone, Est. Giovagnoli - Bottiglieri (Avv.ti Guzzo e Martino) c. Comune di Salerno (Avv. Iorio) - (annulla per difetto di
giurisdizione T.A.R. Campania - Salerno, n. 1438 del 2001).
1. Giustizia amministrativa - Appello - Questione circa la giurisdizione competente - Rilevabilità di ufficio da parte
del giudice d’appello - Nel caso di espressa statuizione del giudice di primo grado non impugnata - Impossibilità Nel caso di pronuncia implicita del giudice di primo grado - Possibilità anche in assenza di apposita impugnazione.
2. Giurisdizione e competenza - Edilizia ed urbanistica - Giurisdizione esclusiva del G.A. - Dopo le sentenze della
Corte cost. n. 204/2004 e n. 196/2006 - Limiti - Individuazione - Azione con la quale si lamenta la lesione del diritto
di proprietà in conseguenza di un comportamento meramente materiale posto in essere in carenza assoluta di
potere dalla P.A. e in via subordinata, si chiede il riconoscimento del diritto soggettivo all’indennizzo ex art. 46 L. n.
2359/1865 - Giurisdizione dell’A.G.O. - Sussiste.
3. Giurisdizione e competenza - Generalità - Principio della translatio iudicii - Applicabilità anche nel processo
amministrativo.
4. Giurisdizione e competenza - Generalità - Principio della translatio iudicii - Fissazione di un termine per la
prosecuzione del giudizio innanzi al giudice ritenuto competente - Applicazione in via analogica dell’art. 50 c.p.c. Possibilità - Sussiste - Fattispecie.
1. Da una lettura coordinata dei primi due commi dell’art. 30 della legge n. 1034 del 1971 (per i quali «il difetto di
giurisdizione deve essere rilevato di ufficio» e «avverso le sentenze che affermano o negano la giurisdizione è
ammesso ricorso al Consiglio di Stato»), si desume che: a) nelle ipotesi in cui il TAR abbia espressamente
pronunciato sulla giurisdizione, la relativa statuizione può essere conosciuta dal giudice di appello solo in presenza
di apposito gravame di parte; b) il giudice d’appello resta, invece, legittimato ad intervenire quando il giudice di
primo grado ha statuito, solo in forma implicita, sulla giurisdizione attraverso l’adozione di una pronuncia di merito
o di carattere processuale che non avrebbe, però, potuto essere adottata se non da un organo provvisto di potestà
giurisdizionale (1).
2. Esula dalla giurisdizione del giudice amministrativo un ricorso con il quale è stata lamentata in via principale la
lesione del diritto di proprietà in conseguenza di un comportamento meramente materiale posto in essere in
carenza assoluta di potere dalla P.A. e, in via subordinata, si è chiesto il riconoscimento del diritto soggettivo
all’indennizzo ex art. 46 L. n. 2359/1865. Dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 204/2004, deve infatti
ritenersi che la giurisdizione esclusiva in materia di urbanistica ed edilizia (di cui agli artt. 34 del d.lgs. n. 80/1998 e
53 del d.P.R. n. 327/2001) non ricomprenda comunque le controversie aventi ad oggetto il risarcimento di danni
derivanti da comportamenti meramente materiali della P.A., cioè comportamenti non riconducibili nemmeno in via
indiretta e mediata all’esercizio del potere (2).
3. Anche al processo amministrativo è applicabile il principio della c.d. translatio iudicii affermato - sia pure sulla
base di percorsi argomentativi in parte divergenti - tanto dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (3) che dalla
Corte costituzionale (4), secondo il quale, allorquando un giudice declini al propria giurisdizione affermando quella
di un altro giudice, il processo può proseguire innanzi al giudice fornito di giurisdizione e rimangono salvi gli effetti
sostanziali e processuali della domanda proposta davanti al giudice giurisdizionalmente incompetente.
4. In attesa dell’intervento legislativo auspicato dalla Corte costituzionale (con sentenza 12 marzo 2007, n. 77), per
dare attuazione al principio della translatio iudicii è necessario: a) rimettere le parti davanti al giudice ritenuto
competente affinché dia luogo al processo di merito; b) precisare, comunque, che sono salvi gli effetti sostanziali e
processuali della domanda; c) infine, onde evitare l’inconveniente, evidenziato in dottrina, di una azione sospesa
sine die, e come tale sine die nella disponibilità assoluta di una delle parti, insieme alla precisazione della salvezza
degli effetti, fissare un termine entro cui tale salvezza opera.
5. Ai fini dell’individuazione del termine da fissare in una sentenza declinatoria della giurisdizione per la
prosecuzione del giudizio può essere applicato analogicamente l’art. 50 c.p.c. previsto per il difetto di competenza,
anche perché, con l’affermazione del principio della translatio iudicii anche tra diverse giurisdizioni (e non solo tra
diversi giudici appartenenti allo stresso plesso giurisdizionale), il difetto di giurisdizione diventa per molti aspetti
analogo al difetto di competenza del giudice adito. L’art. 50 c.p.c. prevede che sia lo stesso giudice che si dichiara
incompetente a fissare il termine per la riassunzione davanti al giudice ritenuto competente; in mancanza di tale
89
indicazione, il termine per la riassunzione è di sei mesi dalla comunicazione della sentenza (in applicazione del
principio nella specie la Sez. VI del CdS, nel declinare la giurisdizione, ha fissato il termine per la riassunzione
davanti al giudice ordinario – termine fino alla scadenza del quale saranno salvi gli effetti sostanziali e processuali
della domanda – in sei mesi decorrenti dalla comunicazione o, se anteriore, dalla notificazione della decisione).
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato la seguente
DECISIONE
sul ricorso in appello n. 696/2003, proposto da Romilda Bottiglieri, rappresentata e difesa dagli avv.ti Arcangelo Guzzo e Claudio
Martino, con domicilio eletto presso lo studio di questi ultimi in Roma, via Isonzo, n. 50;
contro
il Comune di Salerno, in persona del Sindaco legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’avv. Valerio Iorio, con
domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Francesco Antonio Santini in Roma, alla via Lungotevere della Vittoria, n. 10;
e nei confronti
del Ministero dell’Ambiente, in persona del Ministro pro tempore, dell’arc. Antonio Catena, della Comer s.a.s., in persona del legale
rappresentante pro tempore; del dott. Alfio Barbato, non costituiti in giudizio;
per la riforma
della sentenza del T.a.r. per la Campania, Sezione staccata di Salerno, n. 1438/2001, resa inter partes;
Visto il ricorso con i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Salerno;
Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;
Visti gli atti tutti della causa;
Relatore alla pubblica udienza dell’11 gennaio 2008 il Consigliere Roberto Giovagnoli;
Uditi gli avv.ti Falorni per delega di Martino, e Iorio;
Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:
FATTO
1.
Il presente contenzioso nasce a seguito della realizzazione, da parte del Comune di Salerno, di un impianto di scala mobile in adiacenza
al muro esterno dell’appartamento, di proprietà dei fratelli Bottiglieri, sito in Salerno, via Indipendenza n. 48, II piano.
La sig.ra Romilda Bottiglieri, comproprietaria (unitamente ai propri fratelli) dell’appartamento in questione, ha proposto ricorso al
T.a.r. per la Campania, sezione staccata di Salerno, lamentando che tutte le finestre dell’appartamento confinanti con la gradinata De
Santis venivano occluse, pressoché totalmente, dalla scala mobile in corso di realizzazione.
In particolare, la sig.ra Bottiglieri ha formalmente impugnato, chiedendone l’annullamento, la delibera con cui la Giunta Municipale ha
conferito l’incarico di redazione del progetto definitivo ed esecutivo di realizzazione dell’impianto di scala mobile e la delibera con cui la
stessa Giunta Municipale ha approvato il progetto definitivo relativo alla realizzazione dell’impianto. Ha inoltre chiesto la riduzione in
pristino dei luoghi ed il risarcimento dei danni.
2.
Il T.a.r. ha dichiarato il ricorso in parte irricevibile in parte infondato. Segnatamente, il Giudice di primo grado ha dichiarato irricevibile
per tardività la domanda volta all’annullamento degli atti impugnati e infondata la domanda risarcitoria.
3.
Avverso detta sentenza la sig.ra Bottiglieri ha proposto appello.
4.
Si è costituito in giudizio il Comune di Salerno chiedendo il rigetto del gravame.
5.
All’udienza dell’11 gennaio 2008 la causa è stata trattenuta per la decisione.
MOTIVIDELLADECISIONE
1.
Preliminarmente il Collegio deve esaminare d’ufficio la questione relativa alla sussistenza della giurisdizione amministrava in ordine
alla presente controversia.
2.
Come, infatti, affermato dall’Adunanza Plenaria nella decisione n. 4/2005, da una lettura coordinata dei primi due commi dell’art. 30
della legge n. 1034 del 1971 (per i quali «il difetto di giurisdizione deve essere rilevato di ufficio» e «avverso le sentenze che affermano
o negano la giurisdizione è ammesso ricorso al Consiglio di Stato»), si desume che: nelle ipotesi in cui il TAR abbia espressamente
pronunciato sulla giurisdizione, la relativa statuizione può essere conosciuta dal giudice di appello solo in presenza di apposito gravame
di parte; il giudice d’appello resta, invece, legittimato ad intervenire quando il giudice di primo grado ha statuito, solo in forma
implicita, sulla giurisdizione attraverso l’adozione di una pronuncia di merito o di carattere processuale che non avrebbe, però, potuto
essere adottata se non da un organo provvisto di potestà giurisdizionale.
In applicazione di tale principio, nella specie si deve ritenere che - mancando nella sentenza di primo grado qualunque espressa
statuizione in tema di giurisdizione - non sussiste per il giudice di appello la preclusione a conoscere ex officio di questioni relative alla
giurisdizione.
3.
Tanto premesso in ordine alla rilevabilità d’ufficio della questione di giurisdizione, la Sezione ritiene che la presente controversia rientri
nella giurisdizione del Giudice ordinario.
3.1.
Ed invero, anche se formalmente la sig.ra Bottiglieri impugna alcuni atti amministrativi di cui chiede l’annullamento, tutto il ricorso
risulta in realtà diretto a lamentare la violazione di un diritto soggettivo come conseguenza di un comportamento meramente materiale
posto in essere dal Comune di Salerno in assenza di qualsiasi titolo che potesse legittimarlo.
3.2.
La ricorrente in particolare lamenta che:
- il Comune di Salerno ha attuato un comportamento sostanzialmente espropriativo in carenza assoluta di potere, perché ha leso il suo
diritto di proprietà senza aver previamente posto in essere alcun atto amministrativo in grado di affievolirne il diritto di proprietà;
- il comportamento comunale si presenta "come una mera attività materiale, quindi soggetta al regime civilistico delle distanze legali e
quindi, in concreto, distintamente illegittima per violazione degli artt. 873 ss. c.c. (violazione, comportante, come è noto l’obbligo di
90
riduzione in pristino dello stato dei luoghi, a norma dell’art. 872 c.c.)" (cfr. pag. 17 del ricorso in appello che richiama sul punto il
ricorso di primo grado).
La ricorrente, in via subordinata, nell’ipotesi in cui l’attività del Comune fosse ritenuta lecita, invoca, inoltre, il diritto all’indennizzo per
il pregiudizio sofferto ex art. 46 L. n. 2359/1865.
3.3.
E’ evidente pertanto che, nonostante la formale impugnazione di alcune delibere della Giunta Municipale (e, in particolare, delle
delibere con cui è stato dato l’incarico di redigere il progetto definitivo ed esecutivo dell’impianto in questione e della delibera con cui
l’impianto è stato approvato), il vero oggetto della lite è rappresentato: in via principale, dalla lesione del diritto di proprietà in
conseguenza di un comportamento meramente materiale posto in essere in carenza assoluta di potere dal Comune di Salerno; in via
subordinata, dal diritto soggettivo all’indennizzo ex art. 46 L. n. 2359/1865.
Sia la domanda principale, sia quella subordinata fuoriescono, quindi, dalla giurisdizione amministrativa.
3.3.1.
La prima in quanto, dopo le sentenze della Corte costituzionale n. 204/2004 e n. 196/2006, deve ritenersi che la giurisdizione esclusiva
in materia di urbanistica ed edilizia (di cui all’art. 34 del d.lgs. n. 80/1998 e 53 del D.P.R. n. 327/2001) non ricomprenda comunque le
controversie aventi ad oggetto il risarcimento di danni derivanti da comportamenti meramente materiali della p.a., cioè
comportamenti, come quelli imputati al Comune nel caso di specie, non riconducibili nemmeno in via indiretta e mediata all’esercizio
del potere.
3.3.2.
La seconda in quanto, come precisato anche dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (Sez. un., 21 aprile 2006, n. 9342), la
situazione giuridica del proprietario che chiede l'indennizzo ex art. 46 L. n. 2359/1865 è riconducibile ad una posizione astrattamente
tutelata dall'ordinamento come diritto soggettivo nei confronti della amministrazione, e, quindi, è proponibile davanti al giudice
ordinario, a prescindere da ogni questione sul suo fondamento nel merito.
Tale conclusione in tema di giurisdizione resta ferma anche dopo l’entrata in vigore dell’art. 34, D.Lgs. 31 marzo 1998, e dell’art. 53
D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, in quanto, soprattutto alla luce dei citati arresti della Corte costituzionale n. 204/2004 e n. 196/2006,
deve escludersi che le controversie aventi per oggetto l'indennità dovuta dalla P.A. ai sensi della L. n. 2359 del 1865, art. 46, per i danni
derivanti dall'esecuzione di opere di pubblica utilità al terzo proprietario di un immobile confinante, estraneo ad un procedimento
espropriativo, possano rientrare nella giurisdizione esclusiva in materia di urbanistica, atteso che nei confronti del soggetto cui spetta
l'indennità in questione - il cui fondamento poggia sul principio di giustizia distributiva, per cui non è consentito di soddisfare
l'interesse generale attraverso il sacrificio del singolo senza che quest'ultimo ne sia indennizzato (Cass. Sez. Un. 26 giugno 2003 n.
10163, Cass. Sez., Un. 11 giugno 2003 n. 9341) - non è configurabile un rapporto diretto con la pubblica amministrazione-autorità
nell'ambito del quale egli sia titolare (anche) di interessi legittimi, la cui cognizione possa essere soggetta alla giurisdizione generale di
legittimità del giudice amministrativo.
La giurisdizione del Giudice ordinario trova ulteriore conferma nell'ampiezza della formula usata dal legislatore nell'art. 34 d.lgs. n.
80/1998, comma 3, lett. b), e nell’art. 53, comma 3, D.P.R. n. 327/2001, i quale stabiliscono che nulla è innovato in ordine alla
giurisdizione del giudice ordinario per le controversie riguardanti la determinazione e la corresponsione delle indennità in conseguenza
dell'adozione di atti di natura espropriativa o ablativa. Tali norme inducono comunque a ritenere assoggettate alla giurisdizione del
giudice ordinario anche le indennità in questione, le quali, pur se non entrano a far parte del procedimento espropriativo, si pongono
pur sempre come una conseguenza della esecuzione dei lavori oggetto dell'espropriazione.
Né la giurisdizione del Giudice amministrativo può essere affermata valorizzando la circostanza che la ricorrente, oltre alla riduzione in
pristino, al risarcimento del danno e alla indennità ex art. 46 citato, chiede anche, come si detto, l’annullamento di alcuni atti
amministrativi. Al di là della loro formale impugnazione, invero, non sono tali atti la fonte della lesione lamentata dalla ricorrente,
lesione che invece discende, come si evince dall’esame dei singoli motivi di censura, dal comportamento materiale tenuto dal Comune.
3.4.
Alla luce delle considerazioni che precedono, deve, pertanto, ritenersi sussistente la giurisdizione del giudice ordinario.
4.
Occorre a questo punto verificare quali provvedimenti la Sezione debba adottare per dare attuazione al principio - affermato, sia pure
sulla base di percorsi argomentativi in parte divergenti, tanto dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (22 febbraio 2007, n. 4109)
tanto dalla Corte costituzionale (12 marzo 2007, n. 77) – secondo il quale, allorquando un giudice declini al propria giurisdizione
affermando quella di un altro giudice, il processo può proseguire innanzi al giudice fornito di giurisdizione e rimangono salvi gli effetti
sostanziali e processuali della domanda proposta davanti al giudice giurisdizionalmente incompetente.
4.1.
In attesa dell’intervento legislativo auspicato dalla Corte costituzionale, il Collegio ritiene che per dare attuazione al principio enunciato
dalle sopra indicate sentenze sia necessario:
a
) rimettere le parti davanti al Giudice ordinario affinché dia luogo al processo di merito: tale rimessione, invero, da un lato, evita
"l'inaccettabile conseguenza di un processo, che si debba concludere con una sentenza che confermi soltanto la giurisdizione del giudice
adito senza decidere sull'esistenza o meno della pretesa" (Cass. sez. un. n. 4109/2007), e, dall’altro, è funzionale alla riconosciuta
esigenza di far salvi gli effetti processuali e sostanziali della domanda;
b
) precisare, comunque, che sono salvi gli effetti sostanziali e processuali della domanda: a tale precisazione da parte di questo Giudice
non osta, infatti, la circostanza che sarà poi il Giudice ad quem a dover fare applicazione del principio della salvezza degli effetti. Del
resto, è la stessa sentenza della Corte costituzionale n. 77/2007, a confermare implicitamente che la dichiarazione della salvezza degli
effetti non è prerogativa esclusiva del Giudice ad quem, perché, altrimenti, la questione di costituzionalità dell’art. 30 L. n. 1034/1971 (e
cioè di una norma che trova applicazione nel processo amministrativo) avrebbe dovuto essere dichiarata inammissibile per difetto di
rilevanza. La Corte costituzionale, invece, ha dichiarato illegittima tale norma nella parte in cui non prevede che "gli effetti, sostanziali e
processuali, prodotti dalla domanda proposta a giudice privo di giurisdizione si conservino, a seguito di declinatoria di giurisdizione,
nel processo proseguito davanti al giudice munito di giurisdizione". In tal modo la Corte sembra riconoscere che quella relativa alla
conservazione degli effetti della domanda è una questione che rileva, in primo luogo, davanti al Giudice che declina la giurisdizione;
c
) infine, onde, evitare l’inconveniente, evidenziato in dottrina, di una azione sospesa sine die, e come tale sine die nella disponibilità
assoluta di una delle parti, insieme alla precisazione della salvezza degli effetti, fissare un termine entro cui tale salvezza opera (il che
conferma ulteriormente che la sentenza che declina la giurisdizione debba contenere la dichiarazione della salvezza degli effetti, anche
al fine di delimitarne la durata),
4.2.
91
Ai fini dell’individuazione di tale termine può essere applicato analogicamente, come hanno già affermato alcune sentenze di primo
grado - seguendo le indicazioni fornite da autorevole dottrina - l’art. 50 c.p.c., anche perché, con l’affermazione del principio della
translatio anche tra diverse giurisdizioni (e non sono tra diversi giudici appartenenti allo stresso plesso giurisdizionale), il difetto di
giurisdizione diventa per molti aspetti analogo al difetto di competenza del giudice adito.
L’art. 50 c.p.c. prevede che sia lo stesso giudice che si dichiara incompetente a fissare il termine per la riassunzione davanti al giudice
ritenuto competente; in mancanza di tale indicazione, il termine per la riassunzione è di sei mesi dalla comunicazione della sentenza.
Il Collegio, applicando tale norma, fissa il termine per la riassunzione davanti al giudice ordinario – termine fino alla scadenza del quale
saranno salvi gli effetti sostanziali e processuali della domanda – in sei mesi decorrenti dalla comunicazione o, se anteriore, dalla
notificazione della presente decisione.
5.
Alla luce delle considerazioni che precedono, la sentenza di primo grado deve essere annullata per difetto di giurisdizione, con rinvio
davanti al giudice ordinario perché dia luogo al giudizio di merito.
Sono dichiarati salvi gli effetti sostanziali e processuali della domanda e si fissa il termine di sei mesi dalla comunicazione o, se
anteriore, dalla notificazione della presente decisione, per la riassunzione davanti al giudice ordinario.
6.
Le spese del giudizio possono essere compensate, sussistendo giusti motivi, anche in considerazione del fatto che il difetto di
giurisdizione è stato rilevato d’ufficio dal Collegio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione VI, annulla per difetto di giurisdizione la sentenza di primo grado. Rimette le parti
davanti al giudice ordinario perché dia vita al giudizio di merito, fissando per la riassunzione il termine di mesi sei dalla comunicazione
o, se anteriore, dalla notificazione della presente decisione.
Spese del giudizio compensate.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’autorità amministrativa.
CONSIGLIO DI STATO - SEZIONE V - Sentenza 28 novembre 2008 n. 5901
Ai fini della conservazione degli effetti sostanziali e processuali di una domanda proposta innanzi al giudice privo di giurisdizione,
occorre che il processo sia riassunto dinanzi al giudice munito di giurisdizione entro un termine adeguato, decorrente dalla conoscenza
legale della sentenza che declina la giurisdizione; pertanto, attesa la mancanza nel giudizio amministrativo di una norma esplicita che
disciplini le modalità di prosecuzione del giudizio dinanzi al giudice munito di giurisdizione, vanno applicate, analogicamente, le
disposizioni riguardanti la riassunzione del giudizio in seguito alla pronuncia di incompetenza di cui all’art. 50 c.p.c.
15) GIURISDIZIONE IN MATERIA DI PROCEDIMENTI ESPROPRIATIVi: VERSO IL SUPERAMENTO DELLA
CARENZA DI POTERE IN CONCRETO
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. UNITE CIVILI - ordinanza 6 febbraio 2008 n. 2765 - Pres. Carbone, Rel. Salvago Interporto Sud Europa s.p.a. c. Regione Campania, Comune di Marcianise e Amministrazione provinciale di Caserta - (dichiara la
giurisdizione del giudice amministrativo).
1. Giurisdizione e competenza - Espropriazione per p.u. - Controversie in materia - Nel caso in cui riguardino
l’illegittimo uso del potere - Rientrano nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo - Giurisdizione
dell’A.G.O. - Riguarda le sole controversie nelle quali la P.A. abbia agito nell'assoluto difetto di una potestà ablativa.
2. Giurisdizione e competenza - Espropriazione per p.u. - Controversie in materia - Nel caso in cui sia stata
lamentata la mancata od incompleta indicazione dei termini previsti dall’art. 3 della L. n. 2359 del 1865 - Rientrano
nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo - Ragioni.
1. Per effetto dell’art. 7 della L. n. 205 del 2000, che recependo e modificando le disposizioni dell’art. 34 del D.Lgs. n.
80 del 1998, ha devoluto in via esclusiva al giudice amministrativo "le controversie aventi per oggetto gli atti, i
provvedimenti e i comportamenti delle amministrazioni pubbliche e dei soggetti alle stesse equiparati in materia
urbanistica ed edilizia", rientrano nella giurisdizione del suddetto giudice le controversie riguardanti i
procedimenti espropriativi diretti alla esecuzione dei lavori per la realizzazione o la modifica di un'opera pubblica
ed in particolare i provvedimenti che, diretti all'esecuzione di un'opera pubblica mediante trasformazione del
territorio, si risolvono nell'occupazione, permanente o temporanea, di fondi privati, i quali costituiscono atti
strumentali alla realizzazione della suddetta finalità pubblica (1). La giurisdizione ordinaria è invece invocabile
soltanto quando l'amministrazione espropriante abbia agito nell'assoluto difetto di una potestà ablativa, intesa
come mancanza di qualunque facultas agendi vincolata o discrezionale di elidere o comprimere detto diritto.
2. La giurisdizione amministrativa in materia di procedimenti amministrativi non può venire meno per il fatto che
uno dei vizi attribuiti alla dichiarazione di p.u., necessario presupposto dei provvedimenti impugnati, sia ravvisato
nella mancanza o incompleta indicazione dei termini previsti dall’art. 13 della L. n. 2359 del 1865, comportante (ove
accertata) la nullità assoluta dell'atto e la decadenza per essere inutilmente scaduto il termine concesso
all'amministrazione per l'inizio delle opere, atteso che tali situazioni sono dedotte per dimostrare (nel merito)
alcune delle ragioni della prospettata invalidità di ciascuno di detti atti ed ottenerne l'annullamento. Per cui, anche
con riguardo a questo profilo, la posizione giuridica dedotta in giudizio deriva dall'esercizio illegittimo del potere da
parte della P.A., con la conseguenza che in tal caso spetta al giudice amministrativo disporre le diverse forme di
92
tutela che l'ordinamento appresta per le situazioni soggettive sacrificate dall'esercizio illegittimo del potere ablativo
(2).
FATTO
Con ricorso del 2 gennaio 2007, il (omissis), proprietario di un fondo ubicato nel comune di Marcianise (in catasto al fg. (omissis))
espose al TAR per la Campania che il comune di Maddaloni, aveva emesso decreto di esproprio n. 3 del 24 agosto 2006 di detto terreno
per i lavori di costruzione delle strutture interportuali Marcianise-Maddaloni in favore della s.p.a.
Interporto Sud Europa. Chiese l'annullamento di questo provvedimento, e, per quanto potesse occorrere del decreto di occupazione
temporanea n. 12400 del 25 maggio 2001, degli atti presupposti, individuati nell'accordo di programma sottoscritto il 3 aprile 1996
dagli enti pubblici interessati alla realizzazione delle strutture interportuali del polo Marcianise-Maddaloni, nonché dei provvedimenti
che lo avevano approvato e ratificato, oltre al risarcimento dei danni subiti per l'illegittima occupazione dell'immobile e per la sua
irreversibile trasformazione nell'opera pubblica programmata. Dedusse a sostegno delle denunciate illegittimità violazioni compiute nel
corso della procedura comportanti la omessa partecipazione dei soggetti interessati; nonché vizi della dichiarazione di p.u., priva della
indicazione o della completa indicazione dei termini di cui alla L. n. 2359 del 1865, art. 13, nonché la sua avvenuta decadenza per
l'inutile spirare del termine triennale di decadenza per l'inizio dei lavori; ed infine l'adozione intempestiva del decreto ablativo dopo la
scadenza di quello di occupazione temporanea.
La società Interporto, ivi convenuta, con ricorso del 17 e 18 gennaio 2007 ha proposto regolamento di giurisdizione osservando che la
pretesa di controparte era sostanzialmente diretta a far valere la nullità - inesistenza della dichiarazione di p.u. anche perchè priva dei
termini per l'inizio ed il compimento delle espropriazioni e dei lavori, nonchè la conseguente illecita occupazione dell'immobile in
violazione del diritto pieno di proprietà. La società ha depositato memoria.
Il P.G. ha invece chiesto che venga dichiarata la giurisdizione del giudice amministrativo.
DIRITTO
Il ricorso è infondato.
Come risulta dal ricorso al TAR Campania del (omissis), riportato dalla stessa soc. Interporto, l'espropriato, dopo aver riferito di aver
subito la procedura espropriativa esposta in narrativa, aveva chiesto l'annullamento del decreto di esproprio emesso dal comune di
Marcianise il 24 agosto 2006, nonchè per quanto potesse occorrere del decreto di occupazione d'urgenza adottato dalla stessa
amministrazione il 25 maggio 2001; ed ancora l'annullamento degli atti presupposti, quali l'Accordo di programma del 3 aprile 1996, ed
il provvedimento del Presid. Giunta. reg. che lo aveva approvato in data 3 aprile 1996, e degli atti consequenziali.
A sostegno dell'impugnazione aveva denunciato a) asseriti errori commessi nel corso dell'istruttoria, quali l'omessa comunicazione
dell'avvio del procedimento e degli atti idonei a consentire la partecipazione degli espropriandi; b) vizi degli atti presupposti,quali la
dichiarazione di p.u. perchè carente dei termini di cui alla L. n. 2359 del 1865, art. 13, comunque apposti in modo incompleto.
Orbene la competenza giurisdizionale a conoscere delle domande che investano la legittimità degli atti del procedimento di
espropriazione in generale, nonché del sub-procedimento attraverso cui è consentita l'adozione del provvedimento di occupazione
d'urgenza, apparteneva già prima della legge 205 del 2000 al giudice amministrativo, deputato a verificare la lesione dell'interesse
legittimo della parte alla regolarità dell'azione amministrativa:
con esse deducendosi scorrettezze commesse dall'espropriante nell'esercizio del potere ablativo, di cui non viene in discussione la
spettanza alla P.A.. Come accade appunto nella fattispecie, nonché in tutte le ipotesi in cui il proprietario faccia valere i possibili vizi del
decreto di esproprio o di quello di occupazione, ovvero l'incompetenza dell'organo amministrativo che li ha emessi, o ancora
l'illegittimità dell'attività esecutiva di ciascuno di essi;
e comunque denunci l'illegittimità di atti e comportamenti dell'amministrazione attuati in esecuzione di poteri pubblicistici che abbiano
sacrificato o compresso il suo diritto dominicale.
Laddove la giurisdizione ordinaria era invocabile soltanto quando l'amministrazione espropriante avesse agito nell'assoluto difetto di
una potestà ablativa, intesa come mancanza di qualunque facultas agendi vincolata o discrezionale di elidere o comprimere detto
diritto.
A maggior ragione la controversia - introdotta con ricorso del 2 gennaio 2007 - rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo
per effetto della L. n. 205 del 2000, art. 7, che recependo e modificando le disposizioni del D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 34 ha devoluto in
via esclusiva al suddetto giudice "le controversie aventi per oggetto gli atti, i provvedimenti e i comportamenti delle amministrazioni
pubbliche e dei soggetti alle stesse equiparati in materia urbanistica ed edilizia". La quale secondo la giurisprudenza di questa Corte
abbraccia, in considerazione della sua espressa onnicomprensivita, la totalità degli aspetti dell'uso del territorio, nessuno escluso;e
quindi riserva alla nuova categoria di giurisdizione esclusiva anche i procedimenti espropriativi diretti alla esecuzione dei lavori per la
realizzazione o la modifica di un'opera pubblica: in quanto il concreto modo di realizzarla a seguito della dichiarazione di pubblica
utilità ed approvazione del relativo progetto costituisce estrinsecazione di una potestà della P.A.. nell'ambito di una funzione relativa
all'urbanistica. E perchè i provvedimenti che, diretti all'esecuzione di un'opera pubblica mediante trasformazione del territorio, si
risolvono nell'occupazione, permanente o temporanea, di fondi privati, costituiscono atti strumentali alla realizzazione della suddetta
finalità pubblica (Cass. sez. un. 22890/2004; 21710/2004; 107/2001).
Non giova, pertanto, alla soc. Interporto che uno dei vizi attribuiti alla dichiarazione di p.u., necessario presupposto di entrambi i
provvedimenti impugnati, sia ravvisato nella mancanza o incompleta indicazione dei termini previsti dalla L. n. 2359 del 1865, art. 13,
comportante (ove accertata) la nullità assoluta dell'atto;e che se ne deduce ancora la decadenza per essere inutilmente scaduto il
termine concesso all'amministrazione per l'inizio delle opere:in quanto tali situazioni sono dedotte per dimostrare (nel merito) alcune
delle ragioni della prospettata invalidità di ciascuno di detti atti ed ottenerne l'annullamento. Per cui, anche con riguardo a questo
profilo, la posizione giuridica dedotta in giudizio deriva dall'esercizio illegittimo del potere da parte del comune di Marcianise; e più in
particolare da provvedimenti illegittimi che hanno esplicato, ciò nonostante tutti i loro effetti, in quanto espressione sia pure illegittima
di un precedente esercizio del potere,riconoscibile come tale perchè deliberato nei modi ed in presenza dei requisiti richiesti dalla legge
e non come mera via di fatto. Con la conseguenza che in tal caso spetta al giudice amministrativo disporre le diverse forme di tutela che
l'ordinamento appresta per le situazioni soggettive sacrificate dall'esercizio illegittimo del potere ablativo.
La Corte deve, conclusivamente dichiarare la giurisdizione del giudice amministrativo, mentre non va provveduto sulle spese di questo
grado del giudizio perchè nessuno degli intimati ha spiegato difese.
P.Q.M.
La Corte di Cassazione a Sezioni Unite, dichiara la giurisdizione del giudice amministrativo.
Così deciso in Roma, il 18 dicembre 2007.
Depositata in Cancelleria il 6 febbraio 2008.
93
16) GIURISDIZIONE IN MATERIA DI CONCESSIONE DI BENI DEMANIALI
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. UNITE CIVILI - sentenza 5 febbraio 2008 n. 2653 - Pres. ff. Vittoria, Rel. Luccioli G.P. c.
Comune di Terni - (risolve il conflitto negativo di giurisdizione avverso la sentenza del T.A.R. Umbria 28 novembre 2005 n. 517 e la
sentenza Tribunale di Terni 10 gennaio 2003, n. 21, affermando la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo).
1. Demanio e patrimonio - Concessione beni demaniali o patrimoniali indisponibili - Natura del rapporto Individuazione.
2. Giurisdizione e competenza - Demanio e patrimonio - Controversie riguardanti il rapporto concessorio Giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo - Sussiste anche se non sia stato impugnato il provvedimento
amministrativo di concessione - Fattispecie in materia di idoneità del bene concesso.
1. L'attribuzione a privati dell'utilizzazione di beni del demanio o del patrimonio indisponibile dello Stato o dei
Comuni, ancorché la relativa convenzione presenti profili privatistici, è sempre riconducibile, ove non risulti
diversamente, alla concessione-contratto, atteso che il godimento di beni pubblici, stante la loro destinazione alla
diretta realizzazione di interessi pubblici, può essere legittimamente attribuito ad un soggetto diverso dall'ente
titolare del bene - entro certi limiti e per determinate attività - solo mediante concessione amministrativa, per sua
natura revocabile e quindi incompatibile con la disciplina propria delle locazioni degli immobili urbani. Il rapporto
che da tale atto deriva, in ragione della natura pubblicistica del bene che ne costituisce l'oggetto, non ha natura
privatistica, mantenendo l'amministrazione una posizione di supremazia e difettando quindi il requisito della
posizione paritetica delle parti (1).
2. Una volta accertata l'esistenza di una concessione di bene demaniale, la giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo va riconosciuta sia quando si contesti la validità o l'efficacia di essa, sia ove la controversia involga le
pattuizioni inerenti al rapporto sinallagmatico generato dalla concessione, ed anche se manchi l'impugnativa di un
atto o provvedimento, sempre che la controversia coinvolga il contenuto dell'atto e salve beninteso le ipotesi
residuali di controversie riservate alla giurisdizione ordinaria (2) (in applicazione del principio è stata ritenuta
sussistente la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, atteso che la controversia atteneva direttamente al
rapporto concessorio, in quanto involgeva l'accertamento della inidoneità ab origine alla funzione e delle
caratteristiche del bene dato in concessione).
FATTO
Con atto di citazione notificato il 15 gennaio 2001 G.P. conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Terni il Comune di Terni
esponendo che l'ente territoriale aveva assegnato ad essa attrice, già titolare di autorizzazione amministrativa per l'esercizio del
commercio al dettaglio su aree pubbliche di bevande e alimenti ed assegnataria di uno spazio per la vendita nel piazzale antistante la
Cascata delle Marmore, un box - negozio all'interno di un centro commerciale di nuova realizzazione denominato Tourist Shop, sempre
nei pressi della Cascata delle Marmore, con un canone di concessione di L. 363.450, e che detto locale le era stato consegnato in
pessimo stato a causa delle infiltrazioni di umidità, così da rendere impossibile lo svolgimento dell'attività commerciale.
Chiedeva pertanto la condanna del Comune al risarcimento del danno per le perdite ed il mancato guadagno subiti, nonchè al ristoro
del danno fisico e psicofisico derivato alla sua persona.
Costituitosi il Comune, il quale eccepiva il difetto di giurisdizione del giudice ordinario, con sentenza del 22 ottobre 2002 - 10 gennaio
2003 il Tribunale dichiarava il proprio difetto di giurisdizione, ritenendo trattarsi di controversia in materia di pubblici servizi devoluta
alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
La G. adiva quindi il Tribunale Amministrativo Regionale dell'Umbria, che con sentenza del 23 - 28 novembre 2005 dichiarava a sua
volta il proprio difetto di giurisdizione, riconducendo la materia del contendere ad un rapporto di concessione di bene pubblico ed
osservando che era stata dedotta dalla G. una pretesa patrimoniale che nel rapporto concessorio trovava non già la propria fonte, ma
una mera occasione. Aggiungeva che, anche a voler ritenere che la controversia inerisse alla materia dei servizi pubblici, la domanda
proposta postulava non già il sindacato sulla legittimità dell'esercizio di poteri autoritativi, ma l'accertamento della liceità di meri
comportamenti dell'amministrazione comunale posti in essere uti privatus.
Con ricorso notificato il 4 aprile 2006 la G. ha denunciato il conflitto negativo di giurisdizione.
Il Comune di Terni ha resistito con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memorie.
DIRITTO
Come risulta dalla esposizione in fatto che precede, il presente giudizio è stato promosso con citazione notificata il 15 gennaio 2001:
trovano pertanto applicazione i nuovi criteri di riparto della giurisdizione dettati dal D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 80 e dalla L. 21 luglio
2000, n. 205.
L'individuazione del giudice cui spetta la cognizione della controversia richiede l'esatta qualificazione del rapporto instauratosi tra le
parti e della pretesa fatta valere in giudizio.
La G. ha proposto nei confronti del Comune di Terni un' azione risarcitoria, diretta ad ottenere il risarcimento del danno subito per aver
avuto in concessione un locale box assolutamente inidoneo all'uso cui era destinato, da liquidare con riferimento sia al mancato
guadagno per la riduzione dell'attività di vendita al pubblico ed alla perdita derivante dal deterioramento di attrezzature e di merci, sia
al danno fisico e psichico alla medesima derivato da tale situazione. La controversia così individuata non riguarda la concessione di un
pubblico servizio, ma la concessione ai fini dell'esercizio del commercio di un locale box - realizzato dal Comune di Terni nell'ambito di
un programma di riqualificazione ambientale della zona della Cascata delle Marmore e di risistemazione dell'area destinata a mercato
ivi esistente - che ai sensi dell'art. 824 c.c., ult. comma, va ricondotto alla categoria dei beni dei comuni soggetti al regime dei beni
demaniali.
Costituisce consolidato orientamento di questa Suprema Corte, al quale il Collegio intende dare continuità, che l'attribuzione a privati
dell'utilizzazione di beni del demanio o del patrimonio indisponibile dello Stato o dei Comuni, ancorché la relativa convenzione presenti
profili privatistici, è sempre riconducibile, ove non risulti diversamente, alla concessione - contratto, atteso che il godimento di beni
pubblici, stante la loro destinazione alla diretta realizzazione di interessi pubblici, può essere legittimamente attribuito ad un soggetto
diverso dall'ente titolare del bene - entro certi limiti e per determinate attività - solo mediante concessione amministrativa, per sua
natura revocabile e quindi incompatibile con la disciplina propria delle locazioni degli immobili urbani. Il rapporto che da tale atto
deriva, in ragione della natura pubblicistica del bene che ne costituisce l'oggetto, non ha natura privatistica, mantenendo
l'amministrazione una posizione di supremazia e difettando quindi il requisito della posizione paritetica delle parti (v., ex plurimis, S.U.
2007 n. 12065; 2003 n. 10157; 2002 n. 8227; 2002 n. 6687; 2002 n. 1764; 1999 n. 50).
E pertanto, una volta accertata l'esistenza di una concessione di bene demaniale, la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo
va riconosciuta sia quando si contesti la validità o l'efficacia di essa, sia ove la controversia involga le pattuizioni inerenti al rapporto
sinallagmatico generato dalla concessione, ed anche se manchi l'impugnativa di un atto o provvedimento, sempre che la controversia
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coinvolga il contenuto dell'atto e salve beninteso le ipotesi residuali di controversie riservate alla giurisdizione ordinaria (S.U. 2002 n.
3533; 2000 n. 364).
Tanto ritenuto in diritto, ed atteso che la controversia in esame attiene direttamente al rapporto concessorio, in quanto involge
l'accertamento della inidoneità ab origine alla funzione e delle caratteristiche del bene dato in concessione, deve essere dichiarata la
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, con conseguente cassazione della sentenza del TAR dell'Umbria, dinanzi al quale il
giudizio dovrà proseguire.
Detto giudice provvederà alla regolamentazione delle spese dell'intero giudizio.
P.Q.M.
La Corte di Cassazione, a sezioni unite, pronunciando sul ricorso, dichiara la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, cassa la
sentenza del TAR dell'Umbria e dispone che il giudizio prosegua dinanzi al giudice dichiarato competente.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite Civili, il 15 gennaio 2008.
Depositata in Cancelleria il 5 febbraio 2008.
95
17) GIURISDIZIONE ESCLUSIVA E DIRITTI FONDAMENTALI
CORTE COSTITUZIONALE - sentenza 27 aprile 2007 n. 140 - Pres. Bile, Red. Mazzella - (giudizio promosso con
ordinanza del 16 marzo 2005 dal Tribunale di Civitavecchia sul ricorso proposto dal Comune di Ladispoli c. l’ENEL
s.p.a., iscritta al n. 363 del registro ordinanze 2005 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 34, prima
serie speciale, dell’anno 2005).
Giurisdizione e competenza - Giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo - Ex art. 1, comma 552,
della L. n. 311 del 2004 (legge finanziaria 2005) - Per controversie relative a procedure e provvedimenti
in materia di impianti di generazione d'energia elettrica - Questione di legittimità costituzionale Sollevata con riferimento agli artt. 25 e 103 Cost. - Per ingiustificata deroga alla giurisdizione ordinaria in
materia di tutela di diritti soggettivi (nella specie diritto alla salute e alla salubrità ambientale) Inammissibilità ed infondatezza - Riferimento alle sentenze della Corte cost. n. 204 del 2004 e 191 del
2006.
E’ in parte inammissibile ed in parte infondata la questione di legittimità costituzionale - sollevata in
riferimento agli artt. 25 e 103 Cost. - dell’art. 1, comma 552, della legge 30 dicembre 2004, n. 311
(Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2005),
nella parte in cui devolve alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie aventi ad
oggetto le procedure ed i provvedimenti in materia di impianti di energia elettrica di cui al decreto-legge
7 febbraio 2002, n. 7 (Misure urgenti per garantire la sicurezza del sistema elettrico nazionale),
convertito, con modificazioni, dalla legge 9 aprile 2002, n. 55, e le relative questioni risarcitorie (1).
SENTENZA N. 140
ANNO 2007
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:….
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 552, della legge 30 dicembre 2004, n. 311 (Disposizioni per
la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2005), promosso con ordinanza del 16
marzo 2005 dal Tribunale di Civitavecchia sul ricorso proposto dal Comune di Ladispoli c/ l’ENEL s.p.a., iscritta al n.
363 del registro ordinanze 2005 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 34, prima serie speciale,
dell’anno 2005.
Visti gli atti di costituzione dell’ENEL s.p.a. e ENEL Produzione s.p.a., del CODACONS, della Provincia di Roma, del
Comune di Ladispoli, fuori termine, nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 20 marzo 2007 il Giudice relatore Luigi Mazzella;
uditi gli avvocati Carlo Rienzi e Enrico Verenuso per il CODACONS, Massimiliano Sieni per la Provincia di Roma,
Giuseppe De Vergottini e Pietro Guerra per l’ENEL s.p.a. e ENEL Produzione s.p.a. e l’avvocato dello Stato Antonio
Palatiello per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Considerato in diritto
1. – Il Tribunale di Civitavecchia dubita, in riferimento agli articoli 103 e 25 della Costituzione, della legittimità
costituzionale dell’art. 1, comma 552, della legge 30 dicembre 2004, n. 311 (Disposizioni per la formazione del
bilancio annuale e pluriennale dello Stato  legge finanziaria 2005), nella parte in cui devolve alla giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo le controversie aventi ad oggetto le procedure ed i provvedimenti in materia di
impianti di energia elettrica di cui al decreto-legge 7 febbraio 2002, n. 7 (Misure urgenti per garantire la sicurezza del
sistema elettrico nazionale), convertito, con modificazioni, dalla legge 9 aprile 2002, n. 55 e le relative questioni
risarcitorie.
2. – Sulle eccezioni di carattere preliminare sollevate da più parti si osserva quanto segue.
Una prima eccezione – di cui si fa carico il giudice a quo – attiene al fatto che la disposizione censurata, in quanto
entrata in vigore nel corso del procedimento cautelare a quo, non sarebbe in questo applicabile, in quanto il
rimettente, in base all’art. 5 del codice di procedura civile, avrebbe conservato la giurisdizione attribuitagli dalla
normativa vigente al momento della proposizione della domanda.
Sul punto, il rimettente sostiene – non implausibilmente  che la norma denunciata, modificativa della giurisdizione,
sarebbe comunque rilevante nel giudizio cautelare a quo, in quanto il provvedimento cautelare eventualmente
concesso sarebbe inevitabilmente destinato alla inefficacia per l’impossibilità di promuovere (art. 669-novies, primo
comma, cod. proc. civ.) il giudizio di merito.
Infondata è l’eccezione, sollevata dalle società resistenti, di carenza di legittimazione del Comune ricorrente: una
consolidata giurisprudenza del giudice di legittimità afferma che «deve riconoscersi al Comune che deduca un danno o
pericolo di danno alla salute dei cittadini la facoltà di agire davanti al giudice ordinario».
Altrettanto infondata è l’eccezione del CODACONS in ordine alla rilevanza. Secondo tale associazione, l’azione
cautelare del comune di Ladispoli, in quanto rivolta nei confronti di società avente natura privatistica, sarebbe
sufficiente ad escludere ogni ipotesi di giurisdizione amministrativa.
La Corte osserva che la controversia riguarda un’attività svolta da società concessionarie di un pubblico servizio, in
esecuzione di provvedimenti amministrativi ai quali direttamente si imputano i danni temuti dai ricorrenti.
Inammissibili, in quanto concernenti aspetti di merito, sono le ulteriori eccezioni formulate dalle società Enel ed Enel
produzione in ordine sia all’asserita impossibilità di accertare la consistenza della situazione di pericolo alla salute
dipendente dalla messa in esercizio della centrale elettrica de qua; sia alla sussistenza di effettive ragioni di urgenza
giustificative del ricorso alla procedura promossa dal Comune di Ladispoli davanti al Tribunale rimettente.
96
2.1.– Fondata è, invece, l’eccezione – sollevata da due delle parti private - di difetto di motivazione dell’ordinanza di
rimessione, in ordine alla dedotta violazione all’articolo 25 Cost. Su tale parametro, infatti, l’ordinanza non si sofferma
affatto, limitandosi ad enunciarlo.
Sotto questo profilo la questione è, pertanto, inammissibile.
3. – Con riferimento all’altro parametro, costituito dall’art. 103, primo comma, Cost., il rimettente ricorda che l’art. 1,
comma 552 della legge n. 311 del 2004 – nella parte in cui dispone che «Le controversie aventi ad oggetto le
procedure ed i provvedimenti in materia di impianti di generazione di energia elettrica di cui al decreto-legge 7
febbraio 2002, n. 7, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 aprile 2003 [recte: 2002], n. 55, e le relative
questioni risarcitorie sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo» – consente di
ricomprendere la fattispecie in esame, pur in considerazione delle peculiarità degli interessi fatti valere con il ricorso
introduttivo del giudizio cautelare. Ciò, sia perché la norma censurata include espressamente le azioni risarcitorie
(rispetto alle quali l’azione inibitoria promossa dal Comune ricorrente si colloca in posizione anticipatoria), sia perché
l’ambito delle controversie riservate alla giurisdizione esclusiva del TAR risulta definito da una «endiadi (procedure e
provvedimenti in materia di impianti) non agevolmente delimitabile». In tal modo – a giudizio del rimettente  la
norma finisce con l’includere, in modo del tutto indipendente dalla natura degli interessi lesi, qualsiasi controversia
interferente con la progettazione, la realizzazione, l’esistenza e il funzionamento di un impianto di energia elettrica. E
ciò, in violazione dell’art. 103, primo comma Cost.
La questione non è fondata.
Il progetto di riconversione della centrale in questione prevedeva la realizzazione di un impianto di potenza superiore
a 300 MW termici, per la cui approvazione si era fatto ricorso al procedimento di autorizzazione unica previsto dall’art.
1 del decreto- legge n. 7 del 2002, convertito dalla legge n. 55 del 2002.
Secondo l’art. 1, comma 1, del citato decreto-legge, emanato in conformità con la direttiva n. 96/92/CE del
Parlamento europeo e del Consiglio del 19 dicembre 1996, (concernente norme comuni per il mercato interno
dell’energia elettrica), attuata con il decreto legislativo 16 marzo 1999, n. 79, «la costruzione e l’esercizio degli
impianti di energia elettrica di potenza superiore a 300 MW termici, gli interventi di modifica o ripotenziamento,
nonché le opere connesse e le infrastrutture indispensabili all’esercizio degli stessi, sono dichiarati opere di pubblica
utilità e soggetti ad una autorizzazione unica rilasciata dal Ministero delle attività produttive, la quale sostituisce
autorizzazioni, concessioni ed atti di assenso comunque denominati, previsti dalle norme vigenti [….] costituendo
titolo a costruire e ad esercitare l’impianto in conformità al progetto approvato»
Per effetto del comma 2 l’autorizzazione di cui al comma 1 è rilasciata «a seguito di un procedimento unico, al quale
partecipano le Amministrazioni statali e locali interessate, svolto nel rispetto dei princípi di semplificazione e con le
modalità di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241 e successive modificazioni, d’intesa con la regione interessata».
Il procedimento seguito nel caso di specie s’inquadra perfettamente nella formulazione della norma denunciata che
parla di «procedure e […] provvedimenti in materia di impianti di generazione di energia elettrica», proprio per
indicare quel procedimento complesso, in ragione del coinvolgimento di più soggetti pubblici, il quale si conclude con i
provvedimenti specifici riguardanti le singole modalità attuative degli interventi inerenti gli impianti in questione.
La norma censurata, d’altronde, è conforme all’orientamento espresso nelle sentenze n. 204 del 2004 e, soprattutto,
n. 191 del 2006 di questa Corte. Secondo tali pronunce, l’art. 103 Cost., pur non avendo conferito al legislatore
ordinario una assoluta ed incondizionata discrezionalità nell’attribuzione al giudice amministrativo di materie devolute
alla sua giurisdizione esclusiva, gli ha riconosciuto il potere di indicare «particolari materie» nelle quali la tutela nei
confronti della pubblica amministrazione investe «anche» diritti soggettivi. Deve trattarsi tuttavia, di materie
determinate nelle quali la pubblica amministrazione agisce nell’esercizio del suo potere.
La richiamata giurisprudenza di questa Corte esclude, poi, che la giurisdizione possa competere al giudice ordinario
per il solo fatto che la domanda abbia ad oggetto esclusivo il risarcimento del danno (sentenza n. 191 del 2006). Il
giudizio amministrativo, infatti, in questi casi assicura la tutela di ogni diritto: e ciò non soltanto per effetto
dell’esigenza, coerente con i princípi costituzionali di cui agli artt. 24 e 111 Cost., di concentrare davanti ad un unico
giudice l’intera protezione del cittadino avverso le modalità di esercizio della funzione pubblica, ma anche perché quel
giudice è idoneo ad offrire piena tutela ai diritti soggettivi, anche costituzionalmente garantiti, coinvolti nell’esercizio
della funzione amministrativa.
Nella fattispecie disciplinata dal censurato comma 552 dell’art. 1 della legge n. 311 del 2004 ricorrono tutti i
presupposti che questa Corte ha ritenuto sufficienti a legittimare il riconoscimento di una giurisdizione esclusiva al
giudice amministrativo. L’oggetto delle controversie è rigorosamente circoscritto alle particolari «procedure e
provvedimenti», tipizzati dalla legge (decreto-legge n. 7 del 2002), e concernenti una materia specifica (gli impianti di
generazione di energia elettrica).
Né osta  va ribadito  alla validità costituzionale del «sistema» in esame la natura «fondamentale» dei diritti
soggettivi coinvolti nelle controversie de quibus, su cui pure insiste il rimettente, non essendovi alcun principio o
norma nel nostro ordinamento che riservi esclusivamente al giudice ordinario  escludendone il giudice amministrativo
 la tutela dei diritti costituzionalmente protetti. Peraltro, l’orientamento – espresso dalle Sezioni unite della Corte di
cassazione – circa la sussistenza della giurisdizione del giudice ordinario in presenza di alcuni diritti assolutamente
prioritari (tra cui quello alla salute) risulta enunciato in ipotesi in cui venivano in considerazione meri comportamenti
della pubblica amministrazione, e pertanto esso è coerente con la sentenza n. 191 del 2006, con la quale questa
Corte ha escluso dalla giurisdizione esclusiva la cognizione del risarcimento del danno conseguente a meri
comportamenti della pubblica amministrazione. Nel caso in esame, invece, si tratta di specifici provvedimenti o
procedimenti «tipizzati» normativamente.
Deve, dunque, concludersi che legittimamente la norma censurata ha riconosciuto esclusivamente al giudice naturale
della legittimità dell’esercizio della funzione pubblica poteri idonei ad assicurare piena tutela, e quindi anche una
tutela risarcitoria, per equivalente o in forma specifica, per il danno asseritamente sofferto anche in violazione di
diritti fondamentali in dipendenza dell’illegittimo esercizio del potere pubblico da parte della pubblica amministrazione.
Per questi motivi
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la Corte Costituzionale
Dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 552, della legge 30 dicembre 2004,
n. 311 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2005),
sollevata, in riferimento all’art. 25 della Costituzione, dal Tribunale di Civitavecchia, con l’ordinanza indicata in
epigrafe;
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dello stesso articolo 1, comma 552, della legge n. 311
del 2004 sollevata, in riferimento all’art. 103 della Costituzione, dal Tribunale di Civitavecchia, con l’ordinanza indicata
in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18 aprile 2007.
F.to:
Franco BILE, Presidente
Luigi MAZZELLA, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 27 aprile 2007.
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18) RILEVABILITÀ D’UFFICIO DELLA GIURISDIZIONE E GIUDICATO IMPLICITO
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. UNITE CIVILI - sentenza 9 ottobre 2008 n. 24883
- Pres. Carbone, Rel. Merone - Ministero Economia e Finanze ed Agenzia delle Entrate (Avv.ra Stato) c. F.O.D.B. Onlus (Avv.ti Pettinato
e Canessa) - (dichiara inammissibile il ricorso del Ministero dell'Economia e delle Finanze, rigetta il ricorso dell'Agenzia delle Entrate).
Giurisdizione e competenza - Generalità - Difetto di giurisdizione - Proposizione della questione mediante giudizio
di appello - Ammissibilità - Proposizione della questione mediante ricorso in Cassazione - Ammissibilità Condizione che non si sia formato un giudicato implicito - Necessità.
Mentre la sentenza di primo grado di merito può essere sempre impugnata per difetto di giurisdizione, le sentenze
di appello invece sono ricorribili in Cassazione per difetto di giurisdizione solo se sul punto non si è formato il
giudicato implicito o esplicito. In ogni caso, il giudice può rilevare anche d’ufficio il difetto di giurisdizione, fino a
quando sul punto non si sia formato il giudicato implicito o esplicito (1).
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO E MOTIVI DEL RICORSO
1.1. La Fondazione Opera (omissis) ha impugnato, dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Bologna, il provvedimento con il
quale l'Agenzia delle Entrate (nonostante il parere contrario espresso dall'Agenzia delle ONLUS) ha disposto la cancellazione della
fondazione stessa dall'Anagrafe Unica, di cui al D.Lgs. n. 460 del 1997, art. 11, essendo emerso, a seguito di verifica, che l'attività svolta
non era diretta a favore di soggetti anziani in condizioni di assoluto e grave disagio e che mancava la condizione del perseguimento
esclusivo delle finalità di solidarietà sociale di cui al citato D.Lgs. n. 460 del 1997, art. 10, comma 1, lett. b).
A sostegno dell'originario ricorso, la Fondazione eccepiva:
a) che ai sensi del D.Lgs. n. 460 del 1997, art. 10, comma 1, lett. a, nn. 1, 2 e 4, le ONLUS sono tali se svolgono attività di assistenza
sociale e socio-sanitaria, a prescindere dalle condizioni di svantaggio dei destinatari delle stesse, purchè sussista il fine solidaristico;
b) che l'attività svolta dalla Fondazione è rivolta a persone anziane, le quali per condizioni psicologiche, familiari e sociali o per
particolari esigenze di assistenza hanno difficoltà a rimanere nel proprio nucleo familiare e che le prestazioni sono erogate da strutture
che operano in regime di convenzione con l'Azienda USL di (OMISSIS), consentito soltanto per "attività di assistenza sociale e sociosanitaria";
c) che, comunque l'Agenzia delle Entrate non aveva tenuto conto del parere contrario alla cancellazione, espresso dall'Agenzia per le
ONLUS. La CTP ha accolto il ricorso e la Commissione tributaria regionale dell'Emilia Romagna ha rigettato l'appello proposto
dall'Agenzia delle Entrate.
2. Avverso quest'ultima decisione propongono ricorso per cassazione il Ministero dell'Economia e delle Finanze e l'Agenzia delle
Entrate, i quali denunciano:
a) il difetto di giurisdizione del giudice tributario, adito in violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 2 e 19, in quanto il provvedimento
di cancellazione della Fondazione dall'albo delle ONLUS non rientra tra quelli espressamente indicati dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19,
e non attiene ad un rapporto tributario, ma incide sullo status giuridico complessivo dell'ente, al quale sono collegati anche, ma non
solo, effetti fiscali che, comunque, nella specie non sono in discussione;
b) la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 460 del 1997, artt. 10 e 11, anche sotto il profilo del vizio di motivazione, in quanto
erroneamente la CTR ha ritenuto che la solidarietà sociale può manifestarsi anche nei confronti di persone benestanti, che hanno
bisogno di assistenza per le più disparate situazioni personali di disagio (che non siano perciò necessariamente di natura economica),
considerando irrilevanti le circostanze;
- che gli ospiti delle strutture gestite dalla fondazione erano tenuti a pagare una cospicua retta per il loro mantenimento, senza alcun
ausilio pubblico;
- che gli utili realizzati non venivano utilizzati per abbattere il costo delle rette;
- che la fondazione aveva partecipato alla costituzione di una società commerciale (s.r.l.).
La Fondazione resiste con controricorso con il quale eccepisce il difetto di legittimazione attiva del Ministero dell'Economia e delle
Finanze, la tardività della eccezione di difetto di giurisdizione del giudice adito e la inammissibilità del secondo motivo, inteso ad
ottenere una diversa valutazione dei fatti già esaminati con congrua motivazione dai giudici di appello. Nel merito deduce che la
circostanza che l'attività veniva svolta con criteri di economicità e che da essa derivassero avanzi di gestione era irrilevante, perchè il
fine di lucro non si identifica con l'economicità della gestione.
Con ordinanza del 27 luglio 2007, la quinta sezione civile di questa Corte, alla quale il ricorso è stato originariamente assegnato, rilevata
la sussistenza di una questione di giurisdizione, ha trasmesso gli atti al Primo Presidente, per l'assegnazione a queste SS.UU..
Entrambe le parti hanno depositato memorie ai sensi dell'art. 378 c.p.c..
DIRITTO E MOTIVI DELLA DECISIONE
2.1. Preliminarmente, va dichiarato inammissibile il ricorso del Ministero dell'Economia e delle Finanze, che non era parte nel giudizio
di appello (Cass. SS.UU. 3116/2008, 3118/2008).
2.2. Ancora in via preliminare, bisogna esaminare la questione di giurisdizione, sulla quale la giurisprudenza di merito, in assenza di
pronunce di questa Corte, appare oscillante (propendono per la giurisdizione del giudice amministrativo: TAR Emilia Romagna, sez.
Parma, 22.3.2004; idem 13.12.2005, nn. 577 e 552, TAR Lazio, sez. 2^, 16.11.2004, n. 13087; propendono per la giurisdizione del
giudice tributario: TAR Sicilia Palermo, sez. 1^, 9.7.2007, n. 1772, TAR Marche 14.4.2004, n. 169, CTP Ancona, sez. 3^, 27.9.2004, n.
106, CTR Lombardia, sez. 19^ 28.2.2007, n. 13).
Ancor prima, però occorre pronunciarsi sulla ammissibilità della eccezione di difetto di giurisdizione del giudice tributario, sollevata da
una parte (l'Agenzia delle Entrate) la quale, soccombente in primo grado, ha appellato la sentenza di merito senza nulla eccepire circa la
potestas iudicandi del giudice che l'ha pronunciata, essendosi limitata a contestare la sussistenza dei requisiti necessari per l'iscrizione
della fondazione nell'albo delle ONLUS.
E' noto, però, che l'art. 329 c.p.c., comma 2, dispone che "L'impugnazione parziale importa acquiescenza alle parti della sentenza non
impugnate". Se i giudici tributari avessero espressamente affermato la propria giurisdizione (su istanza di parte o di ufficio)
contestualmente alla decisione di merito, la mancata impugnazione della relativa statuizione, avrebbe determinato l'effetto
dell'accettazione della stessa da parte dell'appellante e/o del passaggio in giudicato (esplicito) del relativo capo della sentenza con
l'effetto preclusivo di cui all'art. 324 c.p.c., nonostante il disposto dell'art. 37 c.p.c., comma 1, in forza del quale "Il difetto di
giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della pubblica amministrazione o dei giudici speciali è rilevato, anche d'ufficio, in
qualunque stato e grado del processo".
Infatti, a partire da Cass. SS.UU. 28.4.1976 n. 1506, (anticipata da Cass. sez. 1^, 8.9.1970 n. 1298, sulle orme di Cass. SS.UU. 22.7.1960
n. 2084) si è consolidato il principio secondo cui, qualora il giudice decida espressamente sia sulla giurisdizione sia sul merito e la parte
impugni solo sul merito, è precluso al giudice di appello e alla Cassazione il rilievo d'ufficio della questione di giurisdizione e alla parte
interessata non è consentito introdurla in sede di legittimità se non l'abbia proposta anche in appello, essendosi formato il giudicato
interno sulla questione (tra le tante: Cass. SS.UU. 28.3.2006 n. 7039, Sez. L. 8.8.2003 n. 12002, SS.UU. 9.7.1997 n. 6229). Tale
99
giudicato interno, secondo numerose pronunce (v. Cass. sez. un. 8.8.2001 n. 10961, Sez. L. 12.4.1984 n. 2377, SS.UU. 24.2.1982. n. 1151,
SS.UU. 17.11.1978 n. 5330, SS.UU. 1506/1976), si forma per effetto di un fenomeno di acquiescenza, ai sensi dell'art. 329 c.p.c., comma
2; altre pronunce, invece, pur giungendo alla medesima conclusione, non fanno leva sull'art. art. 329 c.p.c., comma 2, ma sulla
preclusione derivante dal giudicato (Cass. SS.UU. 23.6.1983 n. 4295).
2.3. Nella specie i giudici di merito non hanno dedicato un capo della sentenza alla questione della giurisdizione. Ma non per questo si
può ritenere che la questione non sia stata affrontata e decisa.
Qualsiasi decisione di merito implica la preventiva verifica della potestas iudicandi; tale verifica, in assenza di formale eccezione o
questione sollevata di ufficio, avviene comunque de plano (implicitamente) e acquista "visibilità" soltanto nel caso in cui la giurisdizione
del giudice adito venga negata. In linea di principio, se la questione della giurisdizione non viene sollevata in alcun modo, significa che
non vi è nessuna necessità che il giudice "mostri le proprie credenziali". Ma, il fatto che la decisione non sia "visibile", non significa che
sia inesistente. Il giudice che decide il merito ha anche già deciso di poter decidere. La progressione logica che porta al giudizio di
merito presuppone la soluzione delle questioni di giurisdizione e di competenza, anche quando la decisione sulla potestas iudicandi
implica la preventiva ricostruzione del rapporto sostanziale dedotto in giudizio e del quadro normativo di riferimento. La dottrina meno
recente riteneva che in materia di giurisdizione non sussistesse un ordine logico precostituito, posto che gli elementi della fattispecie
influiscono sulla identificazione del giudice competente. Quella stessa dottrina riteneva che il giudicato sulla giurisdizione si formava
soltanto se sul punto fosse stata sollevata una autonoma questione pregiudiziale, oggetto di specifico contraddittorio tra le parti
(pregiudiziale tecnica e non soltanto logica). La tesi era che, se la questione non veniva espressamente sollevata, la stessa non poteva
considerarsi risolta (come se la mancata formalizzazione della questione annullasse l'ordine logico della formulazione del giudizio). E'
sbagliato, osservava ancora quella dottrina, ritenere che i dubbi non sollevati siano stati risolti in modo implicito: il giudice che non
dubita non decide, ovvero decide senza riflettere e, quindi, è inaffidabile.
Può anche accadere che un giudice privo di giurisdizione si ritenga competente senza porsi per nulla il problema, ma si tratta di casi
certamente marginali ai quali può porre rimedio la "vigilanza" delle parti. Eventuali accordi illeciti tra le parti (intesi a radicare la
giurisdizione per ragioni di comodo presso un giudice incompetente e non particolarmente solerte) non possono essere contrastati
negando valore al giudicato implicito: non basterebbe neanche il giudicato esplicito. Di regola, però, se nessuno pone la questione di
giurisdizione e il giudice pronuncia la sentenza di merito, significa che la potestas iudicandi è pacifica, nessuno la contesta e perciò non
merita un apposito dibattito. La tesi secondo la quale soltanto in caso di dubbio espresso possa riconoscersi la forza certificatrice del
giudicato appare illogica, perchè esclude tale vis proprio quando la questione non presenta alcun margine di incertezza e viene decisa de
plano. Sarebbe come dire che la verità di un fatto evidente è meno certa di un fatto originariamente dubbio, o come affermare che il
giudicato sul merito si forma soltanto in relazione alle circostanze di fatto che abbiano formato oggetto di prova e non invece in
relazione ai fatti notori o non contestati.
L'assunto secondo il quale soltanto le decisioni che scaturiscono da un apposito dibattito partecipano degli effetti previsti dall'art. 324
c.p.c., oltre ad offrire il fianco alla incongruenza logica sopra evidenziata (per cui soltanto la certezza che sia figlia del dubbio merita il
sigillo del giudicato e non invece le "certezze" di cui nessuno abbia mai dubitato) si pone anche in evidente contrasto con le regole
dell'economia processuale, perchè ciascuna parte, quand'anche nessuno dubitasse della potestas iudicandi del giudice adito, se volesse
proseguire il giudizio senza il rischio di imprevedibili regressioni successive, sarebbe costretta a provocare un contraddittorio sul punto.
Senza considerare che, in linea di principio, la certezza del giudicato talora deriva non dall'accertamento dei fatti ma soltanto dalla
impossibilità di accertarli, in quanto sopperisce la regola di giudizio dell'onere della prova: il dubbio resta nonostante la decisione. Ne
deriva che, sul piano del valore di verità, appare più affidabile la decisione che non sia passata attraverso il travaglio del dubbio, che non
quella che sia frutto del contraddittorio risolto iuxta alligata et probata e non in base al principio di verità materiale.
In realtà, non bisogna confondere la successione cronologica delle attività di cognizione del giudice, con il quadro logico della decisione
complessiva adottata in esito alle attività cognitive, all'interno del quale si collocano i passaggi impliciti o espliciti che portano alla
decisione finale (una sorta di stratificazione da assestamento). Questi passaggi, che nel giudizio monocratico non sono scanditi da un
apposito rituale, sono plasticamente raffigurati nella prescrizione dell'art. 276 c.p.c., comma 2, in forza del quale il collegio, sotto la
direzione del presidente, "decide gradatamente le questioni pregiudiziali proposte dalle parti o rilevabili d'ufficio e quindi il merito della
causa" (la disposizione, richiamata dagli artt. 131 e 141 disp. att. c.p.c., riguarda anche i giudizi di appello e di cassazione). Vi è dunque
un preciso obbligo di legge di decidere prima ("gradatamente") le questioni pregiudiziali (logiche o tecniche) e poi ("quindi") il merito.
Pertanto, non si può affermare che, in mancanza di una specifica statuizione, la questione di giurisdizione (presente in ogni causa) non
sia stata affrontata. Se il giudice ha deciso il merito, in forza del combinato disposto dell'art. 276 c.p.c., comma 2, e art. 37 c.p.c. (che
impone la verifica di ufficio della potestas iudicandi), si deve ritenere che abbia già deciso, in senso positivo, la questione pregiudiziale
della giurisdizione. La regola della decisione per gradi appartiene alla natura stessa del processo e la si ritrova espressamente sancita
anche nella disciplina del processo penale. L'art. 527 c.p.p., comma 1, dispone infatti, analogamente all'art. 276 c.p.c., che il collegio,
sotto la direzione del presidente, decide separatamente le questioni preliminari e ogni altra questione relativa al processo;
soltanto se l'esame del merito non risulti precluso sono poste in decisione le questioni di fatto e di diritto concernenti l'imputazione.
Anche l'art. 279 c.p.c., comma 2, e art. 187 c.p.c., commi 2 e 3, indicano quale sia la progressione naturale che il giudice deve seguire nel
decidere le questioni, nella quale quelle di merito vengono sempre dopo quelle attinenti alla giurisdizione.
In definitiva, la decisione sul merito implica la decisione sulla giurisdizione e, quindi, se le parti non impugnano la sentenza o la
impugnano ma non eccepiscono il difetto di giurisdizione, pongono in essere un comportamento incompatibile con la volontà di
eccepire tale difetto e, quindi, si verifica il fenomeno della acquiescenza per incompatibilità con le conseguenti preclusioni sancite
dall'art. 329 c.p.c., comma 2, e dall'art. 324 c.p.c.. Naturalmente, queste considerazioni valgono anche in relazione al processo
tributario, al quale si applicano le norme del codice di procedura civile, per quanto non previsto dal D.Lgs. n. 546 del 1992 (art. 1,
comma 2, e art. 49): "Anche al processo tributario - caratterizzato, al pari di quello civile, dalla necessità della difesa tecnica e da un
sistema di preclusioni, nonchè dal rinvio alle norme del codice di procedura civile, in quanto compatibili - è applicabile il principio
generale di non contestazione che informa il sistema processuale civile (con il relativo corollario del dovere del giudice di ritenere non
abbisognevoli di prova i fatti non espressamente contestati), il quale trova fondamento non solo negli artt. 167 e 416 cod. proc. civ., ma
anche nel carattere dispositivo del processo, che comporta una struttura dialettica a catena, nella generale organizzazione per
preclusioni successive, che caratterizza in misura maggiore o minore ogni sistema processuale, nel dovere di lealtà e di probità previsto
dall'art. 88 cod. proc. civ., il quale impone alle parti di collaborare fin dall'inizio a circoscrivere la materia effettivamente controversa, e
nel generale principio di economia che deve sempre informare il processo, soprattutto alla luce del novellato art. 111 Cost.. Nè
assumono alcun rilievo, in contrario, le peculiarità del processo tributario, quali il carattere eminentemente documentale dell'istruttoria
e l'inapplicabilità della disciplina dell'equa riparazione per violazione del termine di ragionevole durata del processo" (Cass.
1540/2007).
Ne deriva che in ogni processo vanno individuati "due distinti e non confondibili oggetti del giudizio, l'uno (processuale) concernente la
sussistenza o meno del potere-dovere del giudice di risolvere il merito della causa e l'altro (sostanziale) relativo alla fondatezza o no
della domanda" (Cass. 2002/6737). Stante l'obbligo del giudice di accertare l'esistenza della propria giurisdizione prima di passare
100
all'esame del merito o di altra questione ad essa successiva, può legittimamente presumersi che ogni statuizione al riguardo contenga
implicitamente quella sull'antecedente logico da cui è condizionata e, cioè, sull'esistenza della giurisdizione, in difetto della quale non
avrebbe potuto essere adottata.
Anche la giurisprudenza più recente ha, d'altronde, concordato sul punto, pur precisando che la impugnazione della statuizione sul
merito riaprirebbe il dibattito pure sulla questione di giurisdizione, sia perchè la rimetterebbe comunque in discussione e sia perchè
non sarebbe ipotizzabile il passaggio in giudicato di una pronuncia implicita quando è ancora sub iudice quella espressa che la contiene.
Nessuna delle due anzidette ragioni risulta realmente decisiva.
Non la prima, perchè colui che si limita a chiedere la riforma della decisione di merito non rimette affatto in discussione anche la
giurisdizione ma, al contrario, con il suo comportamento la riconosce, aderendo e/o prestando acquiescenza alla pronuncia implicita su
di essa.
E nemmeno la seconda, perchè l'accertamento della giurisdizione non rappresenta un mero passaggio interno della statuizione di
merito, ma costituisce un capo autonomo che è pienamente capace di passare in giudicato anche nel caso in cui il giudice si sia
pronunciato solo implicitamente sul punto: "Una volta che il giudice di primo grado abbia in modo espresso pronunciato sulla
giurisdizione, tale questione non può più formare oggetto di rilievo d'ufficio nell'ulteriore corso del processo, ma solo di motivo di
impugnazione;
sicchè analogamente, ove il giudice d'appello, pur ancora dalle parti investito della questione di giurisdizione, abbia omesso di
pronunciarsi in via pregiudiziale, rendendo direttamente (ed unicamente) la decisione di merito, è precluso nel giudizio di cassazione
l'esame d'ufficio della questione medesima ove nessuna delle parti abbia più censurato tale pronuncia con specifico motivo di ricorso
per Cassazione, con conseguente passaggio in giudicato della stessa nella parte in cui il giudice d'appello ha ritenuto la sua
giurisdizione" (Cass. 34/1999).
2.4. Resta ora da verificare se, e come, l'assunto del giudicato implicito sulla giurisdizione possa conciliarsi con il la regola secondo la
quale il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della pubblica amministrazione o dei giudici speciali è rilevato, anche
d'ufficio, in qualunque stato e grado del processo (art. 37 c.p.c., comma 1).
Intanto, sul piano metodologico, va precisato che, trattandosi di norma che appare ictu oculi in contrasto con il generale principio di
economia processuale, come meglio si vedrà, deve essere interpretata in senso restrittivo e residuale. In mancanza dell'art. 37 c.p.c., i
soggetti processuali sarebbero stati maggiormente responsabilizzati nella verifica della questione di giurisdizione, non potendola poi
sollevare successivamente. Le parti che consapevolmente non sollevano l'eccezione di difetto di giurisdizione hanno evidentemente la
riserva mentale di formularla successivamente in base ad un calcolo di convenienza (secundum eventum litis), quindi la loro inerzia ha
un fine palesemente dilatorio e non meritevole di tutela. Le parti che, invece, non ritengono che sussista un problema di giurisdizione,
per ben due gradi di giudizio, ma lo sollevano poi soltanto in sede di giudizio di legittimità, o non hanno svolto il loro compito in
maniera diligente o "tentano" la carta estrema della "distruzione processuale": in entrambi i casi non meritano tutela.
Quanto alla rilevabilità di ufficio del difetto di giurisdizione direttamente nel giudizio di Cassazione, vi osta un elemento letterale ed
uno sistematico. L'art. 37 c.p.c., prevede la rilevabilità in ogni "stato e grado del processo", con terminologia che non si attaglia al
giudizio di legittimità, che non può essere definito un grado del processo, ma semmai un momento di verifica della legittimità
dell'intero giudizio di merito, nei limiti dei motivi dedotti. Sul piano sistematico va rilevato che il giudizio di cassazione è
tendenzialmente limitato alle sole questioni prospettate dalle parti (oggi nei ristretti limiti del quesito di diritto), con la sola eccezione
dei casi in cui la Corte intenda esercitare di ufficio la funzione di nomofilachia e delle questioni rilevabili di ufficio ma relative al ricorso.
In altri termini la Corte conosce le nullità in quanto dedotte con il ricorso.
L'avvento del principio della ragionevole durata del processo comporta l'obbligo di verificare la razionalità delle norme che non
prevedono termini per la formulazione di eccezioni processuali per vizi che non si risolvono in una totale carenza della tutela
giurisdizionale, come ad esempio i vizi attinenti al principio del contraddittorio. Questa Corte "ritiene che la costituzionalizzazione del
principio della ragionevole durata del processo imponga all'interprete una nuova sensibilità ed un nuovo approccio interpretativo, per
cui ogni soluzione che si adotti nella risoluzione di questioni attinenti a norme sullo svolgimento del processo deve essere verificata non
solo sul piano tradizionale della sua coerenza logico concettuale, ma anche e soprattutto, per il suo impatto operativo sulla realizzazione
del detto obiettivo costituzionale" (Cass. 4 4636/2007).
L'art. 37 c.p.c., dunque, va letto ed interpretato nel contesto delle altre regole processuali e della "sostenibilità" degli effetti cronologici.
In particolare, occorre tenere conto:
a) della regola della coerenza dei comportamenti delle parti (art. 329 c.p.c.), per cui l'acquiescenza alla pronuncia sulla giurisdizione
comporta la impossibilità di sollevare successivamente l'eccezione di difetto di giurisdizione;
b) del dovere di responsabile collaborazione delle parti per contenere i tempi processuali: il principio costituzionale di ragionevole
durata del processo si rivolge non soltanto al giudice quale soggetto processuale, in funzione acceleratoria, ma anche e soprattutto al
legislatore ordinario ed al giudice quale interprete della norma processuale, rappresentando un canone ermeneutico imprescindibile
per una lettura costituzionalmente orientata delle norme che regolano il processo, nonchè a tutti i protagonisti del giudizio, ivi
comprese le parti, le quali, soprattutto nei processi caratterizzati dalla difesa tecnica, debbono responsabilmente collaborare a
circoscrivere tempestivamente i fatti effettivamente controversi (Cass. 1540/2007);
c) della preclusione derivante dal giudicato, che opera, come si è detto, anche nei confronti del giudice di legittimità (Cass. 34/1999).
L'evoluzione giurisprudenziale, nel quadro della interpretazione sistematica, porta alla conclusione che la portata precettiva dell'art. 37
c.p.c., deve essere contenuta in limiti più ristretti di quelli autorizzati dalla lettera della legge (lex plus dixit quam voluit).
Occorre ora chiedersi se, tenuto conto del mutato quadro normativo- sistematico, delle esigenze di coerenza del sistema e di
tempestività delle decisioni, non sia legittimo ritenere che la norma non operi anche in presenza di un giudicato implicito sulla
giurisdizione.
Sul piano della coerenza del sistema, sarebbe del tutto ingiustificato ritenere che il giudicato implicito non abbia lo stesso effetto
preclusivo del giudicato esplicito, posto che incombe su tutti i soggetti del rapporto processuale l'obbligo di controllare il corretto
esercizio della potestas iudicandi, fin dalle prime battute processuali, proprio in forza dell'art. 37 c.p.c., anche quando la questione non
venga espressamente sollevata. In altri termini, il giudice deve innanzitutto "autolegittimarsi" (art. 276 c.p.c., comma 2) ed
eventualmente rilevare subito il difetto di giurisdizione (art. 37 c.p.c.) e, quindi, il suo silenzio equivale ad una pronuncia positiva, così
come il silenzio delle parti vale acquiescenza (art. 329 c.p.c.): una sorta di trilaterale "silenzio assenso" giurisdizionale.
L'evoluzione del quadro legislativo, ordinario e costituzionale, mostra l'affievolimento della centralità del principio di giurisdizione
intesa come espressione della sovranità statale, accompagnata dalla simmetrica emersione della esigenza di sburocratizzare la giustizia,
non più espressione esclusiva del potere statale, ma servizio per la collettività, che abbia come parametro di riferimento l'efficienza delle
soluzioni e la tempestività del prodotto-sentenza, in un mutato contesto globale in cui anche la giustizia deve adeguarsi alle regole della
concorrenza (si parla infatti di concorrenza degli ordinamenti giuridici).
Ritiene il Collegio che la norma abbia subito una profonda e progressiva erosione ad opera del legislatore ordinario e delle nuove
indicazioni ermeneutiche venute dal legislatore costituzionale (oltre che della ricordata giurisprudenza).
101
Ne deriva che la portata dell'art. 37 c.p.c., riacquista la sua massima espansione soltanto quando il tenore della decisione (che attenga al
rito o al merito) sia tale da escludere qualsiasi forma di implicita delibazione sulla giurisdizione. Ciò in quanto, se c'è una decisione
(implicita o esplicita) errata sulla giurisdizione, questa non può e non deve (posto che i tempi morti del processo non possono premiare
chi ne è causa) sfuggire al triplice (attore- convenuto-giudice) costante controllo imposto dall'art. 37 c.p.c..
Questa disposizione, infatti, non si limita ad attribuire una facoltà ai soggetti processuali, ma impone loro un vero e proprio obbligo
(investendo anche le parti di una funzione pubblica di vigilanza processuale) che sorge in qualunque stato e grado del processo la
questione affiori: "il difetto di giurisdizione ... è rilevato" (art. 37 c.p.c., comma 1). In altri termini, il riferimento ad ogni "stato" del
processo sta a significare che la questione, una volta che sia affiorata, non può essere sollevata poi ad libitum, ma deve essere affrontata
appena emersa. Altrimenti sarebbe stato sufficiente il riferimento al solo "grado" del processo. Invece, il legislatore facendo riferimento
anche allo stato del processo ha inteso chiarire che la questione deve essere subito affrontata, quale che sia appunto lo stato del
processo. In mancanza, con la pronuncia di merito, se l'eccezione non viene nemmeno sollevata con i motivi di impugnazione, la stessa
non può più essere sollevata. Infatti, non può considerarsi ragionevole il tempo perduto perchè una eccezione non venga
tempestivamente sollevata; nè la parte che non adempia a tale obbligo/onere può ritenersi penalizzata per le conseguenze che ne
derivano, posto che avrebbe potuto porvi rimedio tempestivamente.
2.5. Il sistema originario consentiva la massima espansione semantica all'art. 37 c.p.c., comma 1, essendo inserito in un contesto
caratterizzato dal principio di inderogabilità delle regole sulla potestas iudicandi, sia con riferimento alla giurisdizione che con
riferimento alla competenza per materia, per valore e territoriale inderogabile (quella cioè ripartita sulla base di criteri di ordine
pubblico).
La disposizione in esame, nella sua connotazione originaria, costituiva il fulcro di un sistema, di cui era anche norma di chiusura, in
quanto individuava nell'esercizio della giurisdizione e nel suo riparto una tipica espressione della sovranità statale e del suo monopolio
legislativo, insensibile ai comportamenti e alla volontà degli utenti della giustizia (salvo particolarissime eccezioni). Infatti, l'art. 2 c.p.c.,
stabiliva il principio della inderogabilità convenzionale della giurisdizione, che non affievoliva neanche in caso di litispendenza
internazionale: "La giurisdizione italiana non è esclusa dalla pendenza davanti a un giudice straniero della medesima causa o di altra
con questa connessa" (art. 3 c.p.c.). L'art. 37 c.p.c., comma 2, poi, estendeva la regola della rilevabilità di ufficio in ogni stato e grado del
procedimento anche al difetto di giurisdizione del giudice italiano anche nei confronti dello straniero.
Già nell'assetto originario, comunque, nonostante le rigidità del sistema (che sacrificava al mito della inderogabilià della giurisdizione
ogni principio di economia processuale), il legislatore riteneva auspicabile che la questione pregiudiziale sulla giurisdizione venisse
decisa immediatamente, per evitarne la riproposizione in ogni stato e grado del giudizio, con il rischio di vanificare poi il lavoro svolto,
proprio perchè la cultura del tempo (e l'art. 2 c.p.c.) non consentiva di derogare alle regole sulla giurisdizione, in considerazione
dell'interesse pubblico sotteso al corretto esercizio della potestas iudicandi (testimoniata anche dalla inderogabilità prevalente delle
regole sulla competenza). A tal fine il legislatore ha previsto il regolamento preventivo di giurisdizione disciplinato dall'art. 41 c.p.c., in
forza del quale, finchè la causa non sia decisa nel merito in primo grado, ciascuna parte può chiedere alle sezioni unite della Corte di
cassazione che risolvano le questioni di giurisdizione di cui all'art. 37 c.p.c.. Si tratta di un istituto che, in regime di inderogabilità delle
norme sulla giurisdizione (art. 2 c.p.c.), tendeva già ad evitare che i tempi del processo si protraessero nella sola ricerca del giudice
competente.
Con il tempo, i vari ordini dei giudici esistenti in Italia hanno visto sempre più sfumare il loro iniziale carattere di mondi autonomi e
separati, non comunicanti fra loro ed ispirati a meccanismi su cui le parti non potevano influire.
Basta ricordare l'abrogazione dell'art. 2 c.p.c. (in tema di inderogabilità delle norme sulla giurisdizione), avvenuta in forza della L. 31
maggio 1995, n. 218, art. 73. La stessa legge ha anche abrogato l'art. 3 c.p.c. e art. 37 c.p.c., comma 2 (art. 73) ed ha introdotto il
principio secondo cui la sussistenza della giurisdizione del giudice italiano può dipendere anche dall'accordo delle parti o dal
comportamento del convenuto, che comparendo nel processo, non sollevi alcuna obiezione al riguardo (art. 4). Una sorta di
"portabilità" della giurisdizione che ha dato luogo al fenomeno del c.d. "forum shopping" (per cui, in taluni casi, colui che debba far
valere una pretesa in sede giudiziaria, può scegliere di rivolgersi al tribunale che applica la legge a lui più favorevole). Il fenomeno, che
testimonia della evoluzione in senso dispositivo della giurisdizione intesa come oggetto del processo, ha assunto notevoli dimensioni, al
punto che il legislatore comunitario è intervenuto più volte per arginarlo e per fissare criteri di collegamento per la individuazione della
legge da applicarsi di volta in volta, nell'ambito del progetto volto a creare uno spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia (v.
regolamento 44/2001, che disciplina la competenza internazionale dei giudici e il riconoscimento e l'esecuzione delle decisioni emesse
in un altro Stato membro, regolamento 864/2007/CE sulle norme applicabili alle obbligazioni extracontrattuali di tipo civile e
commerciale, e da ultimo il regolamento 593/2008, in tema di obbligazioni contrattuali transfrontaliere). Il fenomeno del forum
shopping testimonia, dunque, il superamento del monopolio statale della disciplina della giurisdizione e delle rigidità connesse, che
appaiono incompatibili con l'avvento della "concorrenza internazionale e sopranazionale degli ordinamenti giuridici". Questa premia la
bontà e la celerità del servizio giustizia (attraendo investimenti e shoppers), quando venga affrancata dai viziosi meccanismi
processuali, in cui talora resta intrappolata la giurisdizione (per riportare il pensiero di una recente dottrina). I regolamenti comunitari,
lungi dal voler ripristinare i monopoli statali della giurisdizione sono stati adottati per esigenze di certezza del diritto e per evitare
"abusi di giurisdizione".
Per meglio testimoniare questa perdita di anelasticità ed impermeabilità della giurisdizione, giova ricordare ancora, sul piano interno,
che in forza della L. 21 luglio 2000, n. 205, art. 6, le controversie sui diritti devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo si possono deferire ad arbitri e, attraverso l'impugnazione del lodo, possono approdare dinanzi al giudice ordinario.
La Corte costituzionale, poi, nella sentenza n. 77 del 12.3.2007, ha affermato che "Il principio della incomunicabilità dei giudici
appartenenti ad ordini diversi - comprensibile in altri momenti storici ... - è certamente incompatibile, nel momento attuale, con
fondamentali valori costituzionali. Se è vero, infatti, che la Carta costituzionale ha recepito, quanto alla pluralità dei giudici, la
situazione all'epoca esistente, è anche vero che la medesima Carta ha, fin dalle origini, assegnato con l'art. 24 (ribadendolo con l'art. 111)
all'intero sistema giurisdizionale la funzione di assicurare la tutela, attraverso il giudizio, dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi.
Questa essendo la essenziale ragion d'essere dei giudici, ordinari e speciali, la loro pluralità non può risolversi in una minore effettività,
o addirittura in una vanificazione della tutela giurisdizionale: ciò che indubbiamente avviene quando la disciplina dei loro rapporti - per
giunta innervantesi su un riparto delle loro competenze complesso ed articolato - è tale per cui l'erronea individuazione del giudice
munito di giurisdizione (o l'errore del giudice in tema di giurisdizione) può risolversi in un pregiudizio irreparabile della possibilità
stessa di un esame nel merito della domanda di tutela giurisdizionale. Una disciplina siffatta, in quanto potenzialmente lesiva del diritto
alla tutela giurisdizionale e comunque tale da incidere sulla sua effettività, è incompatibile con un principio fondamentale
dell'ordinamento, il quale riconosce bensì la esistenza di una pluralità di giudici, ma la riconosce affinchè venga assicurata, sulla base di
distinte competenze, una più adeguata risposta alla domanda di giustizia, e non già affinchè sia compromessa la possibilità stessa che a
tale domanda venga data risposta. Al principio per cui le disposizioni processuali non sono fine a se stesse, ma funzionali alla miglior
qualità della decisione di merito, si ispira pressochè costantemente - nel regolare questioni di rito - il vigente codice di procedura civile,
ed in particolare vi si ispira la disciplina che all'individuazione del giudice competente - volta ad assicurare, da un lato, il rispetto della
102
garanzia costituzionale del giudice naturale e, dall'altro lato, l'idoneità (nella valutazione del legislatore) a rendere la migliore decisione
di merito - non sacrifica il diritto delle parti ad ottenere una risposta, affermativa o negativa, in ordine al bene della vita oggetto della
loro contesa".
Queste affermazioni della Corte costituzionale, anticipate dalle Sezioni Unite nella sentenza del 22.2.2007 n. 4109, rv. 595428, seppur
riferite al diverso tema della "translatio iudicii", sembrano idonee a giustificare un'interpretazione adeguatrice dell'art. 37 c.p.c., comma
1, tenuto conto che l'ordine costituzionale (dei criteri di riparto) delle giurisdizioni non è affatto messo in discussione da una
interpretazione della predetta norma che impedisca una regressione del processo allo stato iniziale, con conseguente vanificazione di
due pronunce di merito e allontanamento sine die di una valida pronuncia sul merito. Come acutamente ha rilevato il Consiglio di Stato
(Sez. 4^, 2008/1059), l'affermazione del principio della translatio iudici davanti a un giudice di un diverso ordine, ha fortemente
assimilato il difetto di giurisdizione a quello di competenza.
Per completare l'illustrazione della evoluzione del quadro legislativo verso una meno rigida disciplina delle regole sulla potestas
iudicandi, occorre ricordare che l'art. 38 c.p.c., sostituito dalla L. n. 353 del 1990, art. 4, stabilisce ora che l'incompetenza per materia,
quella per valore e quella territoriale inderogabile non sono rilevabili oltre la prima udienza di trattazione. In origine, invece, la norma
ricalcava, almeno in parte, il testo dell'art. 37 c.p.c.: l'incompetenza per materia e quella per territorio inderogabile (trattandosi di
criteri di attribuzione della cognizione dettati da ragioni di ordine pubblico, al pari di quelli relativi alla giurisdizione) era rilevabile
anche di ufficio in ogni stato e grado del processo (l'incompetenza per valore soltanto in ogni momento del giudizio dì primo grado).
La riforma ha una doppia valenza. Il segnale dato dal legislatore è nel senso che i criteri di ripartizione della competenza, anche quando
siano dettati da ragioni di ordine pubblico, devono essere conciliati con le esigenze di celerità del processo. Pertanto, il diritto delle parti
interessate ed il dovere del giudice di rilevare l'eventuale incompetenza è stato assoggettato ad un termine di decadenza. Il legislatore
del 1990 non è andato oltre e non ha riformato simmetricamente l'art. 37 c.p.c., perchè soltanto successivamente, con la L. n. 218 del
1995, è stato abrogato il principio della inderogabilità convenzionale della giurisdizione.
Oggi, nel mutato quadro normativo (interno ed internazionale) in tema di giurisdizione (non più inderogabile) e con l'avvento della
costituzionalizzazione del principio della ragionevole durata del processo, il principio di economia processuale non può non produrre i
suoi effetti anche in relazione ai tempi concessi per il consolidamento della giurisdizione. Non ha senso giocare una partita in un campo
di cui solo successivamente possa essere verificata la praticabilità. Quindi, l'art. 37 c.p.c., ha subito certamente una erosione di
principio, nel senso che il contenuto letterale della norma deve cedere il passo alla odierna intenzione del legislatore (voluntas legis)
frutto della evoluzione storica del sistema (art. 12 preleggi, comma 1) che impone termini perentori per la verifica della potestas
iudicandi. La riduzione degli spazi applicativi dell'art. 37 c.p.c., è simmetrica alla "portata espansiva del nuovo dettato costituzionale",
che fornisce ai giudici "uno strumento per verificare la tenuta e la portata delle singole norme del codice di rito e per garantirne una
interpretazione costituzionalmente orientata" (Cass. 20604/2008).
Inoltre, la riforma dell'art. 38 c.p.c., incide sulla portata dell'art. 37 c.p.c., non soltanto in termini di principio, ma anche in termini di
diretta riduzione degli spazi interpretativi di quest'ultima disposizione. Se fosse legittima, ma non lo è, l'eccezione secondo la quale il
giudizio di merito non implica un giudizio sulla giurisdizione, alla quale le parti ed il giudice potrebbero "non aver pensato", la stessa
eccezione non sarebbe comunque proponibile quando una sentenza si pronunci expressis verbis sulla potestas iudicandi. Competenza e
giurisdizione stanno tra loro in termini di continenza e, quindi, il giudice che si pronunci affermando la propria competenza, non può
non aver verificato il presupposto della giurisdizione. Infatti, secondo la giurisprudenza di questa Corte, anche la pronuncia che declina
la competenza implica l'affermazione della giurisdizione: "la pronuncia declinatoria della competenza presuppone, come antecedente
logico giuridico, la positiva affermazione, ancorchè implicita, della giurisdizione, avendo ad oggetto un accertamento subordinato,
rispetto al quesito pregiudiziale relativo all'esistenza della "potestas iudicandi" del giudice adito" (Cass. 26483/2007).
Conseguentemente, se la competenza del giudice adito (che implica la sussistenza della giurisdizione) non può più essere messa in
discussione dopo il termine fissato dall'art. 38 c.p.c., non si vede poi come la giurisdizione possa essere rimessa in discussione sine die.
In altri termini, se le esigenze di economia processuale impongono la verifica immediata della potestas iudicandi entro termini rigorosi,
non si spiega una radicale diversità di disciplina, quando i criteri di riparto siano analoghi. Si deve propendere perciò per una
interpretazione restrittiva dell'art. 37 c.p.c., per ragioni di coerenza del sistema e di lettura adeguatrice della norma alle innovazioni
costituzionali. Nè si potrebbe osservare che, se il legislatore ha modificato l'art. 38 c.p.c., senza intervenire anche sull'art. 37 c.p.c.,
significa che ha inteso mantenere una differente disciplina. Il rilievo non avrebbe pregio, perchè, come già accennato, il legislatore del
1990 è intervenuto in un sistema in cui era ancora vigente la inderogabilità convenzionale della giurisdizione (art. 2 c.p.c.). Nel mutato
quadro normativo, gli effetti dell'art. 38 c.p.c., riformato, si proiettano necessariamente sulla portata dell'art. 37 c.p.c., nel senso che se
la verifica della competenza implica la verifica della giurisdizione, quando i tempi per la verifica della competenza sono esauriti
coerenza vuole che siano esauriti anche quelli per la verifica della giurisdizione; ovvero, coerenza vuole che almeno questi ultimi non
siano dilatati fino al punto da essere incompatibili con la ragionevole durata del processo.
La differenza tra quanto dispone l'art. 38 c.p.c., e quanto dispone l'art. 37 c.p.c., è che questo consente di eccepire il difetto di
giurisdizione anche dopo la scadenza dei termini previsti dall'art. 38 c.p.c. (non oltre la prima udienza di trattazione), e comunque
mediante impugnazione della sentenza che, decidendo nel merito, abbia anche deciso (implicitamente o esplicitamente) sulla
giurisdizione.
Inoltre, l'eccezione può sempre essere proposta (senza preclusioni) in tutti i casi in cui la sentenza non contenga statuizioni che
implicano l'affermazione della giurisdizione, come, ad esempio, quando l'unico tema dibattuto sia stato quello relativo alla
ammissibilità della domanda o quando dalla motivazione della sentenza impugnata risulti che l'evidenza di una soluzione abbia
assorbito ogni altra valutazione, (es. manifesta infondatezza della pretesa) ed abbia indotto il giudice a decidere il merito per saltum,
superando la progressione stabilita dal legislatore, per ragioni, anche in questo caso, di economia processuale. Entro questi limiti, il
tenore letterale dell'art. 37 c.p.c., resta integro, salvo verifica di legittimità costituzionale, che in questa sede sarebbe irrilevante. Nè il
carattere marginale delle applicazioni residuali dell'art. 37 c.p.c., è argomento che possa indebolire la bontà della interpretazione
recepita dal collegio: un rilievo del genere, se fosse fondato, delegittimerebbe tutte le norme previste per disciplinare fattispecie poco
ricorrenti, ma necessarie per la chiusura del sistema. Inoltre, sarebbe un rilievo "tardivo":
l'erosione dell'area semantica dell'art. 37 c.p.c., deriva dal riconoscimento, oramai consolidato in giurisprudenza, della efficacia del
giudicato interno sulla giurisdizione; riconoscimento che solo accidentalmente si è avuto prima in relazione al giudicato espresso e solo
oggi in relazione al giudicato implicito. In altri termini, se, in linea di principio, il giudicato interno sulla giurisdizione è idoneo a
sterilizzare il contenuto precettivo dell'art. 37 c.p.c., non rileva poi che tecnicamente si tratti di giudicato espresso o implicito,
trattandosi di qualificazione che attiene alla fenomenologia del giudicato e non ai suoi effetti.
Pertanto:
a) fino a quando la causa non sia decisa nel merito in primo grado, il difetto di giurisdizione può essere eccepito dalle parti, anche dopo
la scadenza dei termini previsti dall'art. 38 c.p.c. (anche se sarebbe opportuno un intervento legislativo di coordinamento);
b) entro lo stesso termine le parti possono chiedere il regolamento preventivo di giurisdizione ai sensi dell'art. 41 c.p.c.;
c) la sentenza di primo grado di merito può sempre essere impugnata per difetto di giurisdizione;
103
d) le sentenze di appello sono impugnabili per difetto di giurisdizione soltanto se sul punto non si è formato il giudicato implicito o
esplicito;
e) il giudice può rilevare anche di ufficio il difetto di giurisdizione, fino a quando sul punto non si sia formato il giudicato implicito o
esplicito.
2.6. Occorre ora verificare la compatibilità della soluzione prospettata con i parametri costituzionali, nel senso che la riduzione degli
spazi processuali per eccepire il difetto di giurisdizione potrebbe confliggere con il principio del giudice naturale precostituito per legge
cui nessuno può essere sottratto (art. 25 Cost., comma 1) o con le altre norme costituzionali sulla giurisdizione (artt. 111 e 113 Cost.).
Quanto al rispetto principio del giudice naturale, in forza del quale nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per
legge, la Corte Costituzionale è già stata investita della questione proprio in relazione allo sbarramento previsto dell'art. 38 c.p.c.,
riconoscendone la legittimità (ord. 128/1999). Il giudice delle leggi ha escluso che l'art. 38 c.p.c., ponendo un limite temporale alla
rilevabilità dell'incompetenza e consentendo la trattazione della causa da parte di un giudice carente del potere giurisdizionale, nei casi
in cui l'incompetenza non sia tempestivamente rilevata, si ponga in contrasto con il principio della precostituzione del giudice, in
quanto permette la sostituzione del giudice naturale con altro giudice, il quale verrebbe ad acquisire il potere giurisdizionale non in
forza di una previsione normativa, ma per una mera omissione delle parti le quali potrebbero anche accordarsi per scegliere un giudice
incompetente. La Corte ribadisce che, come più volte ha avuto modo di affermare, al legislatore deve riconoscersi la più ampia
discrezionalità nella conformazione degli istituti processuali e nell'articolazione del processo, fermo il limite della ragionevolezza e,
quindi, il legislatore può legittimamente introdurre limitazioni alla possibilità di rilevare i vizi di competenza a vantaggio dell'interesse
all'ordine ed alla speditezza del processo. Nè rileva che le parti possano scegliere un giudice incompetente, rinunciando a sollevare la
relativa eccezione, posto che comunque il giudice ha l'obbligo di procedere alla verifica preliminare della potestas iudicandi.
Mutatis mutandis, il ragionamento della Corte vale anche in relazione alla possibilità di limitare nel tempo la rilevabilità del difetto di
giurisdizione.
Quanto alle norme sulla giurisdizione, l'art. 111 Cost., comma 8, prevedendo l'impugnabilità delle sentenze del Consiglio di Stato e della
Corte dei Conti con ricorso in Cassazione, stabilisce i limiti esterni del ricorso, ma non riguarda la disciplina delle preclusioni interne.
Così pure, l'art. 113 Cost., comma 3, nello stabilire che la legge determina quali organi di giurisdizione possano annullare gli atti della
pubblica amministrazione, fa salvo il rispetto dei limiti sostanziali e procedurali previsti dalla legge (se così non fosse, neanche il
giudicato esplicito parziale sulla giurisdizione metterebbe al riparo dalla riproposizione della questione). Comunque, alla luce della
citata giurisprudenza della Corte Costituzionale, il principio del giusto processo e della sua ragionevole durata assume valore prevalente
rispetto ad altre prescrizioni costituzionali, nei limiti in cui gli altri principi di garanzia siano comunque assicurati.
Il principio della ragionevole durata del processo, invece, diventa l'asse portante della nuova lettura dell'art. 37 c.p.c., la quale, peraltro,
trova conforto, come già osservato, anche sul piano della comparazione sistematica con l'art. 38 c.p.c..
In altri termini, il principio di ragionevole durata del processo, per quanto rivolto al legislatore, ben può fungere da parametro di
costituzionalità con riguardo a quelle norme processuali le quali - rispetto al fine primario del processo che consiste nella realizzazione
del "diritto delle parti ad ottenere una risposta, affermativa o negativa, in ordine al bene della vita oggetto della loro contesa" (v. Corte
Cost. n. 77 del 2007 cit.) - prevedano rallentamenti o tempi lunghi, inutili passaggi di atti da un organo all'altro, formalità superflue non
giustificate da garanzie difensive nè da esigenze repressive o di altro genere. E' vero che il principio della ragionevole durata "dev'essere
contemperato con le esigenze di tutela di altri diritti e interessi costituzionalmente garantiti rilevanti nel processo ..., la cui attuazione
positiva, ove sia frutto di scelte assistite ... da valide giustificazioni, non è sindacabile sul terreno costituzionale" (in tal senso, Corte
Cost.
11.12.2001 n. 399), ed è anche vero che le disposizioni processuali concernenti l'individuazione del giudice competente sono volte ad
assicurare il rispetto della garanzia costituzionale del giudice naturale, ma pur sempre a condizione di non sacrificare il diritto della
parte ad una valida decisione di merito in tempi ragionevoli (in tal senso Corte cost. n. 77/2007 cit.). Nel bilanciamento tra i valori
costituzionali della precostituzione per legge del giudice naturale (artt. 25 e 103 Cost.) e della ragionevole durata del processo, si deve
tenere conto che una piena ed efficace realizzazione del primo ben può (e deve) ottenersi evitando che il difetto di giurisdizione del
giudice adito possa emergere dopo che la causa sia stata decisa nel merito in due gradi di giudizio. L'art. 37 c.p.c., comma 1,
nell'interpretazione tradizionale, basata sulla sola lettera della legge, non realizza un corretto bilanciamento dei valori costituzionali in
gioco e produce una ingiustificata violazione del principio della ragionevole durata del processo e dell'effettività della tutela (artt. 24 e
111 Cost.), in quanto comporta la regressione del processo allo stato iniziale, la vanificazione di due pronunce di merito e
l'allontanamento sine die di una valida pronuncia sul merito.
In definitiva, la norma il cui tenore letterale sembra consentire che un vizio procedurale immediatamente rilevabile possa essere fatto
valere per saltum soltanto dopo che il processo abbia esaurito i gradi di merito, con l'effetto di riportare a zero tutta l'attività svolta, non
può essere ascritta tra quelle che assicurano la ragionevole durata del processo e, quindi, va interpretata utilizzando i riferimenti
sistematici e costituzionali che consentano di contenerne la portata nei limiti dei parametri di ragionevolezza utilizzati dal legislatore
per istituti analoghi.
2.7. Nel merito, il ricorso non può trovare accoglimento.
Denunciando la violazione del D.Lgs. n. 460 del 1997, artt. 10 e 11, e vizi di motivazione, l'Agenzia delle Entrate formula diverse censure
nei confronti della sentenza impugnata.
Innanzitutto, la ricorrente sostiene che la CTR abbia errato nel considerare che il fine di solidarietà sociale non possa essere perseguito
se non nei confronti di soggetti che versino in condizioni di svantaggio economico e, quindi, contrariamente a quanto afferma la CTR, il
fatto che gli ospiti della Casa per anziani, facente parte della struttura assistenziale, pagassero delle rette, talora anche cospicue, doveva
essere considerato un chiaro segnale della assenza del fine solidaristico. La tesi è in contrasto con il chiaro dettato legislativo, in forza
del quale si intende che vengono perseguite finalità di solidarietà sociale quando le cessioni di beni e le prestazioni di servizi siano
dirette ad arrecare benefici a persone svantaggiate in ragione di condizioni fisiche, psichiche, economiche, sociali o familiari (D.Lgs. n.
460 del 1997, art. 10, comma 2, lett. a), recante norme sul Riordino della disciplina tributaria degli enti non commerciali e delle
organizzazioni non lucrative di utilità sociale). Quindi, le attività possono essere considerate rientranti tra quelle aventi finalità di
solidarietà sociale anche a prescindere dalla sussistenza di una situazione di svantaggio economico del beneficiario. Tale situazione di
svantaggio è soltanto una tra quelle previste dal legislatore in via alternativa e la ricorrente non contesta che i destinatari delle
prestazioni potessero versare in condizioni di svantaggio di altro tipo.
Evidentemente, l'Agenzia delle Entrate collega, erroneamente, il requisito che deve sussistere nei confronti dei beneficiari delle
prestazioni, con il divieto di distribuzione di utili che grava sul soggetto erogante (art. 10 cit., comma 1, lett. d). Il fatto che le prestazioni
vengano fornite dietro corrispettivo non fa venir meno il fine solidaristico, sempre che venga rispettato il citato divieto (unitamente a
tutte le altre prescrizioni previste dal citato art. 10) e che i destinatari versino in una delle indicata condizioni di svantaggio.
Si possono condividere, perciò, le considerazioni della CTR, secondo la quale la solidarietà non si manifesta soltanto con il sostegno
economico, in quanto ben può manifestarsi nei confronti di persone anziane che "per condizioni psicologiche, familiari, sociali o per
particolari necessità assistenziali risultino impossibilitate a permanere nel nucleo familiare di origine". Pertanto "non appare
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incompatibile con il fine solidaristico di una Onlus lo svolgimento di attività dietro pagamento". Sempre che, occorre aggiungere,
attraverso il pagamento non si realizzi, accanto all'intento solidaristico, anche un fine di lucro (stante il precetto che impone l'esclusività
del fine solidaristico: art. 10 cit., comma 1, lett. b). L'accertamento del perseguimento di finalità estranee alla solidarietà e/o della
realizzazione di utili impiegati in attività istituzionali o connesse (art. 10 cit., comma 1, lett. e), attiene al merito della causa. Nella specie
la CTR rileva che "L'elemento sostanziale che è alla base della controversia di cui è causa, va ricercato nella effettiva attività svolta, se,
cioè, l'attività della Fondazione Opera (OMISSIS) sia riconducibile o meno all'attività di assistenza sociale e socio-sanitaria. Risulta in
atti che le competenti autorità hanno riconosciuto espressamente che l'attività svolta dalla fondazione sia di carattere socioassistenziale a favore di persone anziane, che gli adempimenti contabili che devono rigorosamente essere rispettati dalle Onlus sono
stati correttamente attuati e che la Fondazione non ha provveduto, nemmeno indirettamente alla distribuzione di utili o di avanzi di
gestione".
In fatto, la CTR ritiene che sulla base della documentazione acquisita siano stati rispettati tutti i parametri e le condizioni di legge per
beneficiare dello speciale regime giuridico previsto per le Onlus.
L'Agenzia delle Entrate, denuncia che la CTR non ha tenuto conto della documentazione prodotta, dalla quale risultava che la
Fondazione ha realizzato cospicui utili che non ha mai impiegato per contenere i prezzi delle rette, rimasti sempre al livello di quelli di
mercato.
La ricorrente afferma genericamente che tale documentazione sarebbe stata indicata nell'atto di appello e consisterebbe nei bilanci e
nelle dichiarazioni fiscali, dei quali non si dice altro. La censura è inammissibile per carenza di autosufficienza (v., ex multis, Cass.
15952/2007, 15808/2008). E' pur vero che la CTR ha ricostruito i fatti sulla base di una motivazione molto sintetica, ma la
inammissibilità della censura non consente di entrare nel merito della stessa.
Parte ricorrente censura la motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui la CTR afferma che la circostanza che la Fondazione
abbia partecipato alla costituzione di una srl non sarebbe inconciliabile con il fine esclusivamente solidaristico, non potendosi escludere
che gli utili realizzati venissero poi utilizzati "nel rispetto delle disposizioni statutarie e delle normative Onlus".
La censura non è condivisibile perchè, come si evince dal D.Lgs. n. 460 del 1997, art. 10, comma 1, lett. d) ed e), la realizzazione di utili
non esclude il fine solidaristico dell'attività; occorre, però, che gli utili stessi vengano impiegati per la realizzazione di attività
istituzionali o connesse (cit. D.Lgs. n. 460, art. 10, comma 1, lett. e)) o che, comunque, non vengano distribuiti (cit.
D.Lgs. n. 460, art. 10, comma 1, lett. d)).
La prove dell'indebito utilizzo degli utili, nella specie, doveva essere fornita dall'Agenzia delle Entrate (attrice in senso sostanziale) che
ha proceduto alla cancellazione della Fondazione dall'albo delle Onlus, assumendo che a seguito di verifica era stato accertato che non
sussistevano più i presupposti che ne legittimavano l'iscrizione. L'Agenzia delle Entrate doveva provare i fatti in base ai quali ha
ritenuto che fossero venuti meno i presupposti per mantenere l'iscrizione della Fondazione nell'albo delle Onlus (nella specie, la
indebita distribuzione di utili).
Legittimamente, quindi, la CTR rileva che in mancanza della prova di un indebito utilizzo degli utili, il solo perseguimento di questi non
è sufficiente a determinare la perdita dello status di Onlus.
Infine, la ricorrente denuncia che erroneamente la CTR ha utilizzato, come indizio del perseguimento del fine di solidarietà socioassistenziale e socio-sanitaria, la circostanza che la fondazione operava in regime di convenzione con la locale USL, posto che le USL si
occupano soltanto di attività sanitaria. A parte la considerazione che non sempre risulta chiaro il confine tra attività meramente
sanitarie ed attività socio-sanitarie (per cui non è escluso che queste ultime possano rientrare nel raggio di azione delle USL) va rilevato
che non si tratta di un elemento utilizzato in maniera non determinante (altra è la ratio decidendi) che, comunque, implica valutazioni
che attengono al merito della convenzione.
2.8. Conseguentemente, il ricorso va respinto. Sussistono giuste ragioni per compensare le spese del giudizio di legittimità, per la novità
delle questioni prospettate, sia sul piano processuale che sul piano sostanziale.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso del Ministero dell'Economia e delle Finanze, rigetta il ricorso dell'Agenzia delle Entrate e
compensa tra le parti le spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, il 23 settembre 2008.
Depositata in Cancelleria il 9 ottobre 2008
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