La transizione dei paesi candidati

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la transizione, le transizioni• p.3
Le transizioni dei paesi candidati
INDICE
Introduzione……………………………………………………………………. pag. 3
1. Le trasformazioni nell’Europa dell’Est dopo il 1989………………………
pag. 4
1.2 I due modelli di transizione…………………………….…………… pag. 5
1.3 La recessione economica nei paesi dell’Est………………………… pag. 6
1.4 La ripresa economica nell’Europa post- socialista………………….. pag. 8
2. I paesi dell’Europa centrale………………………………………………….. pag. 10
2.1 Il gradualismo in Ungheria………………………………………….. pag. 10
2.2 Instabilità politica e dinamismo economico in Polonia……………... pag. 13
2.3 La transizione nella Repubblica Ceca……………………………….. pag. 14
3. La fragilità delle trasformazioni post-socialiste nell’Europa
meridionale: la transizione in Bulgaria e Romania…………………………….. pag. 16
4. I paesi baltici nel passaggio dall’Unione Sovietica all’Unione Europea……. pag. 17
5. Il rapporto sullo stato dei negoziati in Polonia………………………………. pag. 18
5.1 Le relazioni tra l’Unione Europea e la Polonia……………………..
pag. 19
5.2 I criteri per l’adesione…………………….………………………... pag. 21
5.2.1 Il criterio politico………………..………………………. pag. 21
5.2.2 Criteri economici…………………………..……………. pag. 21
5.2.3 L’acquis…………………………....…………………….
pag. 25
5.3 Il capitolo sull’agricoltura…………………….…………………….. pag. 25
5.4 Politiche sociali e occupazione…………..………………………….. pag. 26
6. La Turchia e i paesi del Mediterraneo……………………………………….. pag. 27
6.1 L’adesione della Turchia e la questione cipriota…………………… pag. 27
6.2 L’adesione di Malta….…………………………….……………….. pag. 31
Appendice 1. L’Europa e i Balcani……………………………………………. pag. 32
Appendice 2. Geografia dell’allargamento……………………………………. pag. 33
Tabelle……………………………………………..…………………………… pag. 47
Note……………………………………………..……………………………… pag. xx
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la transizione, le transizioni• p.5
INTRODUZIONE
L’allargamento è la sfida più importante dell’Unione Europea alle soglie del
nuovo millennio. L’Europa potrà finalmente mettersi alle spalle il ricordo delle
due devastanti guerre mondiali e della lunga guerra fredda. Il continente europeo,
che ha messo in moto le dinamiche dell’integrazione sin dagli anni ’50, è sempre
più coeso e oggi si impegna nel comune obiettivo di riunire la sua parte
occidentale a quella orientale. Il raggio di azione dell’attuale processo di
allargamento non ha precedenti. Nel decennio che si è appena aperto alcuni tra i
tredici paesi candidati diverranno membri dell’Unione. E’ un compito enorme e
per preparare ciascun paese all’ingresso nell’Unione sarà probabilmente
necessario un tempo più lungo del previsto.
I paesi candidati possono essere suddivisi in due gruppi:
*
i paesi dell’Europa centrale ed orientale, detti PECO, che dopo la caduta
del muro di Berlino hanno iniziato un lungo e difficile processo di transizione
da un regime autoritario a uno democratico e da un sistema economico
collettivista ad un’economia aperta;
*
i piccoli paesi del Mediterraneo, Malta e Cipro, e la Turchia il cui
ingresso nell’Unione rappresenta un’importante apertura dell’Occidente verso
l’Islam e una finestra culturale ed economica verso l’Oriente;
L’integrazione dei paesi dell’Est in particolare nell’Unione Europea,
consentirà alle nuove e ancora fragili democrazie di consolidare la loro struttura
politica e di sviluppare il loro sistema economico, grazie all’intensificarsi degli
scambi commerciali, degli aiuti finanziari e dei nuovi flussi di investimenti diretti
esteri provenienti dall’Occidente. Dal punto di vista dell’Unione Europea, invece,
l’integrazione delle economie in transizione consentirà agli stati membri di
assicurarsi
nuovi mercati emergenti e con essi cento milioni di nuovi
consumatori.
A tale proposito esamineremo la transizione dei paesi dell’Est europeo
attraverso l’analisi dei più importanti cambiamenti economici e sociali negli anni
dell’apertura all’Occidente e alla democrazia. Dopo avere esaminato tutti i PECO
seguendo una suddivisione geopolitica di massima, ci soffermeremo ad
la transizione, le transizioni
esaminare lo stato dei negoziati di adesione per la Polonia, paese che ha
conosciuto forse più di qualsiasi altro gli orrori della occupazione nazista e la
durezza del regime comunista. In Polonia, il più grande e il più popoloso dei
paesi candidati, il processo di transizione è stato particolarmente difficile e
controverso, ma ha consentito a questo paese di arrivare molto vicino all’ingresso
nell’UE.
Nella parte conclusiva saranno presi in considerazione i piccoli paesi del
Mediterraneo e la Turchia che, pur essendo candidati all’adesione alla UE,
presentano caratteristiche del tutto peculiari.
1. LE TRASFORMAZIONI NELL’EUROPA DELL’EST DOPO IL 1989
Nonostante la vicinanza geografica, e l’adozione comune del modello
sovietico, i paesi dell’Europa centrale ed orientale non costituiscono un sistema
sociale, politico ed economico omogeneo. L’introduzione e ancor più
l’evoluzione del modello socialista ha avuto caratteristiche diverse in ciascun
paese, tanto che, nel 1989, anno della caduta del muro di Berlino, le condizioni
dei paesi dell’Est europeo apparivano relativamente diversificate.
In virtù del diverso approccio nell’affrontare la fase di transizione postsocialista e dell’appartenenza alla stessa area geografica, è possibile dividere i
paesi dell’Est europeo in tre gruppi principali1:
 i paesi dell’Europa centrale (Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca,
Slovacchia e Slovenia) caratterizzati da rapidi cambiamenti strutturali e da una
crescita economica sostenuta;
 i paesi dell’Europa sud orientale (Bulgaria e Romania) caratterizzati da una
transizione più difficile;
 i paesi baltici (Estonia, Lettonia e Lituania) in una posizione intermedia tra i
primi due gruppi.
E’ possibile, quindi, parlare di una transizione a più velocità per i paesi
dell’Europa post-socialista, caratterizzata da un lato da una crescita sostenuta,
resa ancora più solida dalle prospettive concrete di adesione all’Unione Europea,
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e dall’altro dalla difficoltà di attuare le riforme politico-economiche
indispensabili per l’adesione.
1.2 I due modelli di transizione
Tra il 1990 e il 1992, la gran parte dei paesi d’Europa dell’Est ha dato inizio
ad un processo di trasformazione economica, attraverso l’adozione di programmi
di stabilizzazione finanziati e concordati con il Fondo Monetario Internazionale,
la Banca Mondiale e i paesi occidentali. All’obiettivo classico di ridurre
l’inflazione e di ristabilire gli equilibri macroeconomici si affiancava la necessità
di trasformare l’economia socialista in una economia di mercato. A tal fine, tra il
1989 e il 1991, i paesi post-socialisti hanno adottato due diversi modelli di
stabilizzazione-transizione: alcuni hanno scelto la cosiddetta «terapia di choc» e
altri la strategia del «gradualismo».
Attraverso la terapia di choc vengono introdotte simultaneamente un insieme
di misure radicali destinate a provocare un cambiamento sistemico irreversibile,
allo scopo di risanare la situazione economica del paese. Il programma polacco
del 1990 ne è stata la più profonda espressione in contrapposizione con la politica
di stabilizzazione graduale adottata in Ungheria lo stesso anno (vedi infra).
Il gradualismo, invece, prevede un’attuazione più progressiva delle riforme, in
particolar modo quelle relative alla liberalizzazione dei prezzi e al commercio
estero. Questo tipo di transizione presuppone un intervento costruttivo dello
Stato, per sostenere da un lato quelle imprese potenzialmente redditizie, ma
incapaci di fronteggiare la concorrenza delle multinazionali straniere, per
garantire dall’altro una protezione sociale sufficiente. La strategia del
gradualismo presenta il vantaggio di poter essere più facilmente accettata dalla
popolazione, limitando i conflitti sociali e diluendo nel tempo i costi della
transizione, al fine di assicurare l’attuazione delle riforme e l’irreversibilità delle
trasformazioni in corso.
Coloro che si dichiarano contrari a questo tipo di approccio sottolineano il
rischio di un rafforzamento progressivo dei gruppi di interesse che sono in grado
la transizione, le transizioni
di resistere attivamente alle trasformazioni economiche e sociali. Viceversa
nonostante la terapia di choc implichi una caduta del reddito reale procapite e dei
risparmi e dunque un forte malcontento sociale, prevede teoricamente un
capovolgimento rapido della situazione economica.
La differenza di fondo tra i due approcci teorici dipende principalmente dalla
diversità delle scelte politiche. Infatti, né il gradualismo né la terapia di choc
rispondono unicamente ad una logica economica, ma dipendono fortemente
anche da fattori storici e politici. L’attuazione di misure radicali, riguarda quei
paesi che sono interessati da gravi squilibri economici e sociali, come
l’accelerazione del tasso di inflazione e la diffusa povertà. E’ il caso della
Polonia del 1989, della Bulgaria e della Russia del 1991. Al contrario, per
l’Ungheria, che ha attuato un’importante riforma dopo il 1968 e si trovava in una
situazione economica generalmente equilibrata, non è stato necessario adottare la
terapia di choc. La scelta di una terapia di choc si è imposta inoltre in
Cecoslovacchia nel 1991 e in Estonia nel 19922. Tuttavia, se in un primo
momento l’applicazione di questo modello ha prodotto risultati positivi per il
paese in transizione, successivamente ha provocato forti squilibri sociali e
finanziari. A tal proposito è opportuno sottolineare che il Fondo Monetario
Internazionale, le cui considerazioni sono determinanti per gli investitori
stranieri, è nettamente favorevole ai paesi nei quali è stata attuata una terapia di
choc e si è verificata una rottura radicale con il vecchio sistema economico e
politico.
1.3 La recessione economica nei paesi dell’Est
I programmi di stabilizzazione, nella forma del gradualismo o della terapia di
choc, hanno determinato una recessione economica di ampiezza e di durata tali
da superare ogni tipo di previsione. Tale recessione legata al processo di
trasformazione politico-economica che ha caratterizzato la transizione dei paesi
dell’Est, più che inattesa è stata inevitabile. Se, infatti, i programmi di
stabilizzazione possono avere avuto un successo relativo dal punto di vista
la transizione, le transizioni• p.9
monetario, hanno prodotto effetti catastrofici sull’economia reale (produzione,
consumi, investimenti).
La terapia di choc ha permesso di arginare la forte inflazione iniziale. Infatti,
dopo il brusco aumento legato alla liberalizzazione dei prezzi, l’inflazione è
nettamente diminuita, pur restando elevata nella gran parte dei paesi dell’Est
principalmente per cause strutturali. La liberalizzazione dei prezzi e degli scambi,
associata ad una politica di restrizione della domanda, hanno consentito
l’estinzione della penuria endemica, e delle famose file per l’acquisto dei beni di
consumo. Tuttavia hanno provocato, nello stesso tempo, il crollo della
produzione, degli investimenti e dei consumi delle famiglie. Il crollo della
produzione è stato di tale portata che la recessione dei paesi dell’Est è stata
paragonata alla Grande Depressione degli anni ’30.
In queste condizioni la disoccupazione è cresciuta ad un ritmo sostenuto,
anche se con ritardo rispetto alla contrazione della produzione. La diminuzione
dei redditi reali, associata al controllo dei salari, all’inflazione e alla
disoccupazione, ha interessato la gran parte della popolazione.
Tra il 1990 e il 1991, una serie di choc esterni, e in particolare la guerra del
Golfo, la dissoluzione del CAEM ( Consiglio di aiuti economici reciproci), e la
disgregazione dell’URSS, hanno contribuito ad amplificare la recessione nei
paesi post-socialisti. Il CAEM organizzava gli scambi tra i paesi dell’Est
Europeo nel quadro della «divisione socialista del lavoro». La sua scomparsa ha
determinato il passaggio agli scambi commerciali in valuta a prezzi mondiali.
Questo ha provocato un aumento dei prezzi dell’energia e delle materie prime
importate, tendenza rafforzata dalla Guerra nel Golfo, nonché la sparizione di
alcuni importanti sbocchi economici per i prodotti degli Stati ex socialisti. In
modo particolare, la disgregazione dell’Unione Sovietica, principale partner
commerciale per le esportazioni dell’Europa dell’Est, ha colpito duramente le
economie di questi paesi. Le esportazioni dall’Europa dell’Est verso l’URSS
hanno perso dal 35 al 40% del loro volume nel 1991. I paesi maggiormente
colpiti sono stati quelli commercialmente e tecnicamente dipendenti dall'URSS,
in particolare la Bulgaria e le ex repubbliche sovietiche. Al contrario i paesi
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dell’Europa centrale
sono stati relativamente meno interessati dalla caduta
dell’Unione Sovietica.
1.4 La ripresa economica nell’Europa post- socialista
I paesi dell’Europa centrale hanno conosciuto per primi, tra il 1992 e il 1993,
gli effetti della ripresa economica grazie all’efficacia della ristrutturazione
industriale.
I paesi socialisti avevano conosciuto uno sviluppo industriale eccessivo,
specialmente nel campo dell’industria pesante legata agli armamenti. Dunque
l’industria tradizionale è quella che maggiormente ha sofferto a causa della
recessione connessa al fenomeno della trasformazione economica e sociale nei
paesi dell’Est. Ma è ancora l’industria ad aver favorito le condizioni della ripresa,
ancor più del settore terziario che è rimasto poco sviluppato malgrado una rapida
crescita.
I progressi della produttività del lavoro, che dopo essere fortemente diminuita
ha conosciuto un incremento con la ripresa, testimoniano l’effettivo adeguamento
delle imprese, basato anzitutto sull’arresto delle attività non redditizie, eredità del
regime socialista.
La ristrutturazione della produzione industriale ha stimolato la performance
dei più importanti settori dell’industria pesante, come quello della metallurgia,
dell’industria chimica e del settore meccanico ed elettrico. Questi settori hanno
utilizzato le capacità produttive esistenti per rispondere alla domanda dei paesi
occidentali. La ripresa non sarebbe stata possibile senza l’aggiustamento
dell’offerta, né d’altra parte senza il dinamismo della domanda estera proveniente
dai paesi dell’Europa occidentale. L’Unione Europea, primo partner commerciale
per i paesi dell’Est, ha rappresentato probabilmente il principale motore della
crescita particolarmente per le materie prime e i prodotti intermedi. Di
conseguenza i paesi dell’Est sono divenuti sempre più dipendenti dall’evoluzione
della crescita nei paesi dell’Europa Occidentale.
la transizione, le transizioni• p.11
Il ritorno della crescita si spiega inoltre con la ripresa degli investimenti in
alcuni paesi dell’Europa Centrale e in Estonia, in contrasto con il crollo degli
investimenti nella gran parte dei paesi CSI (Confederazione degli Stati
Indipendenti dell’ex URSS).
Il processo di trasformazione sistemica aveva prodotto inizialmente una
riduzione del livello degli investimenti, che l’economia pianificata rendeva
troppo elevati. Le imprese che producevano beni di produzione sono state in
questo modo duramente colpite dalla modifica della struttura della domanda
globale. Affinché i paesi in transizione possano raggiungere un livello di crescita
stabile è necessario proseguire il processo di ristrutturazione delle imprese e
favorire gli investimenti che rappresentano il fattore maggiormente determinante
nel conferire alla crescita un carattere durevole.
In questo ambito il maggior ostacolo alla crescita degli investimenti è
costituito dalla scarsità di risorse finanziarie. L’elevato numero di crediti non
garantiti ha portato le banche, principalmente nell’Europa centrale, ad adottare
una politica prudente nel concedere crediti alle imprese. Ciò si è tradotto in una
preferenza per i crediti a breve termine e per un’eccessiva esigenza di garanzie.
L’instaurazione di un clima propizio per gli investimenti è un altro elemento
fondamentale. Per le decisioni di investimento è necessario, infatti, un livello
elevato di certezza, sulla base della stabilità politica, economica ed istituzionale. I
paesi dell’est nei quali le trasformazioni in atto sono più rapide, come la
Repubblica Ceca, la Polonia e l’Estonia, possono compensare in parte la scarsità
di risorse finanziarie nazionali, con l’afflusso di investimenti diretti esteri, e in
alcuni casi, con l’accesso ai mercati finanziari internazionali. Al contrario i paesi
dell’Ex URSS soffrono dell’assenza di un ambiente sufficientemente stabile in
grado di favorire gli investimenti e tutte le attività produttive in genere.
Infine l’incremento delle ineguaglianze di reddito nel corso del processo di
trasformazione è suscettibile di minacciare la crescita economica in ragione della
resistenza alle riforme e dell’instabilità sociale che genera. Una distinzione in
termine di differenziazione dei redditi è osservabile tra i paesi dell’Europa
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centrale, e i paesi dell’Europa Sudorientale e dell’ex URSS. In questi ultimi le
disuguaglianze in termini di redditi sono molto accentuate.
2. I
PAESI DELL’EUROPA CENTRALE:
UNGHERIA, POLONIA
E
REPUBBLICA
CECA
I paesi dell’Europa centrale sono generalmente considerati i più avanzati, tra i
PECO, nel percorso verso il
raggiungimento di un’economia di mercato.
Tuttavia, malgrado qualche caratteristica comune, i processi nazionali di
trasformazione politica ed economica appaiono relativamente differenziati. Si
analizzeranno di seguito i paesi più importanti – per estensione territoriale,
dimensione demografica – di questo secondo ‘gruppo’, del quale fanno parte
anche la piccola e progredita Slovenia e la Slovacchia.
2.1 Il gradualismo in Ungheria
Al momento della caduta della cortina di ferro, l’Ungheria disponeva della
gran parte delle istituzioni necessarie al funzionamento di un’economia di
mercato. Infatti, a partire dagli anni ’60, il paese si è progressivamente
allontanato dal modello sovietico di economia pianificata grazie ad un processo
di riforme che ha conosciuto fasi di accelerazione (alla fine degli anni ’60 e poi
negli anni ’80) e di rallentamento (negli anni ’70). L’Ungheria si è a poco a poco
dotata di un embrionale mercato di capitali, di una legge sul fallimento e di un
sistema bancario a due velocità3. Ha inoltre ristabilito la libertà d’impresa, la
parziale liberalizzazione dei prezzi e il loro progressivo adeguamento a quelli
mondiali. Il settore privato è più sviluppato rispetto agli altri paesi dell’Europa
dell’Est e il mercato dei beni di consumo è ampiamente fornito.
Venti anni di riforme e una situazione macroeconomica
relativamente
favorevole hanno permesso all’Ungheria di attuare una trasformazione graduale
del suo sistema socio-economico nel corso della prima metà degli anni ’90. Il
la transizione, le transizioni• p.13
programma di stabilizzazione adottato in accordo con il Fondo Monetario
Internazionale, è notevolmente più graduale della strategia di transizione polacca.
L’inflazione, cresciuta fino al 35% nel 1991, è successivamente diminuita, ma
rimane ancora ad un livello elevato. Nel 1991 la recessione economica ha
raggiunto il suo acme: il PIL è diminuito del 12% e la produzione industriale del
17%. Il crollo della produzione è stato accompagnato dalla crescita del tasso di
disoccupazione, che ha raggiunto il 12% nel 1993. La recessione innescata dal
processo di trasformazione economica è proseguita ad un ritmo più lento fino al
1993, anno in cui ha avuto inizio la ripresa.
La strategia del gradualismo ha utilizzato le privatizzazioni come strumento
principale per favorire il processo di transizione in Ungheria. Alla fine degli anni
’80 l’Ungheria ha conosciuto un processo di privatizzazione spontanea, grazie
all’iniziativa di alcuni dirigenti che hanno assunto il controllo delle loro stesse
imprese.
Nel corso degli anni ’90, il processo di privatizzazione è proseguito sotto il
controllo di un organismo statale, l’Agenzia per la Proprietà di Stato. Questo
processo ha portato alla creazione di società di holdings, le cui azioni sono state
distribuite tra partner pubblici (organismi statali, banche e imprese) e privati
(investitori stranieri, membri dell’equipe manageriale e dipendenti). In seguito, è
stata privilegiata la vendita delle attività ad investitori strategici, in modo
particolare stranieri. Questa politica si è rivelata particolarmente proficua, poiché
un importante flusso d’investimenti stranieri è giunto in Ungheria dopo il 1990.
La grande apertura del paese verso l’Occidente, acquisita nel corso di venti
anni di riforme, ha contribuito a rafforzare la fiducia degli investitori. Inoltre, la
volontà di onorare un debito estero molto elevato (pari al 72% del PIL nel 1995),
debito che gli investimenti stranieri hanno contribuito a rimborsare, ha
confermato la credibilità del paese a livello internazionale. Il flusso di capitali
stranieri ha contribuito a modernizzare il sistema produttivo in alcuni settori, in
particolare dell’industria farmaceutica, chimica e dell’energia, e a dinamicizzare
le esportazioni.
la transizione, le transizioni
Nonostante il gradualismo avesse prodotto dei risultati positivi a livello
economico e sociale, all’interno del modo politico ed economico ungherese
vennero sollevate numerose critiche sull’effettiva validità di questo modello.
Secondo l’eminente economista ungherese Kornai4 la ricerca di un compromesso
socioeconomico stabile si era tradotta in un alto grado di paternalismo statale, in
particolare verso imprese e famiglie. Nei confronti delle prime il paternalismo ha
preso la forma di aiuti finanziari e di interventi presso le banche per facilitare
l’accesso al credito, per le famiglie, invece, si è tradotto in una copertura sociale
estesa. Tuttavia, il sostegno continuo dello stato ha contribuito ad accrescere il
deficit di bilancio, pari al 8,4% del PIL nel 1994, e a frenare la ristrutturazione
delle imprese e il miglioramento della loro competitività5.
Il nuovo governo ungherese, arrivato al potere nel 1994, aveva davanti una
situazione economica preoccupante: deficit commerciale e di bilancio, crescita
debole, inflazione e disoccupazione elevate. Nel 1995 il governo adottò un nuovo
programma di stabilizzazione, che ha decretato la fine del gradualismo
ungherese. Il programma si basava su tre pilastri: la diminuzione della
dipendenza pubblica, l’abbassamento dei salari reali, svalutazione monetaria
accompagnata da una sovratassa sulle importazioni. Inoltre, il nuovo governo ha
iniziato una difficile riforma della protezione sociale, decidendo di accelerare il
processo di privatizzazione. Da allora diverse decine di grandi imprese sono
state vendute ad investitori stranieri, così come i principali istituti bancari, che tra
il 1994 e il 1997 sono diventati più appetibili per gli investitori grazie al processo
di risanamento dei loro bilanci. Nel 1998 il settore privato rappresentava l’80%
del PIL.
Oggi si può dire che l’Ungheria possiede una situazione macroeconomica
positiva: l’inflazione, la disoccupazione, il deficit di bilancio e il disavanzo
commerciale sono diminuiti e il tasso di crescita continua a salire, sostenuto
principalmente dalle imprese a capitale straniero. Tuttavia, per quanto riguarda il
dialogo sociale, sebbene l’Ungheria sia stato uno dei primi paesi a ristabilire, nel
’98, la negoziazione tripartita (Stato-Impresae-Sindacati), molti accordi collettivi
non sono stati sottoscritti e i sindacati non sono riconosciuti a livello di impresa. 6
la transizione, le transizioni• p.15
Il governo ungherese, in linea con i partenariati di adesione, ha recentemente
lanciato un programma per adeguare la contrattazione sociale a quella che si
svolge a livello europeo.
2.2 Instabilità politica e dinamismo economico in Polonia
Come in Ungheria, anche in Polonia i due decenni che hanno preceduto la
caduta del muro di Berlino sono stati caratterizzati da un lungo processo di
riforma, allo scopo di avvicinare le istituzioni polacche a quelle dei paesi con
economie di mercato. Tuttavia, a differenza di quanto è accaduto in Ungheria, le
riforme polacche sono state accompagnate da violenti conflitti sociali, guidati da
un sindacato indipendente, chiamato Solidarnosc. Le riforme economiche e i
conflitti sociali ricorrenti hanno progressivamente destabilizzato il sistema
politico ed economico polacco. L’ultimo governo comunista, giunto al potere nel
1988, perse completamente il controllo del deficit pubblico e nello stesso anno
l’inflazione crebbe fino al 244%.
Seguendo la soluzione proposta dall’FMI e da alcuni esperti occidentali, il
primo governo post-socialista dell’Europa dell’Est, decise di adottare il modello
di transizione della terapia di choc. La recessione seguita al processo di
trasformazione fu tuttavia di breve durata, e la Polonia fu il primo tra i paesi in
transizione a conoscere gli effetti della ripresa economica nel 1992. Da allora,
l’espansione dell’economia polacca è proseguita ad un ritmo vigoroso e la
Polonia oggi possiede la migliore situazione politico-economica tra i paesi in
transizione.
La crescita prolungata dipende dal dinamismo delle esportazioni e della
domanda interna, sostenuta dall’incremento della produttività, dall’alto livello
dei salari reali e dalla crescita degli investimenti diretti esteri. Allo stesso modo
l’inflazione ha avuto una tendenza decrescente tra il 1989 e il 1998 e la
disoccupazione ha conosciuto un abbassamento sensibile dopo il 1994. Tuttavia
il paese conosce ancora oggi forti tensioni politiche e relazioni sociali
conflittuale: antagonismi, inimicizie e lacune costituzionali rendono difficili i
la transizione, le transizioni
rapporti tra il Parlamento, il Governo e il Presidente. Ciò nonostante si continua a
parlare di «miracolo polacco» poiché, malgrado l’instabilità politica, i diversi
governi sono riusciti, nel corso di dieci anni, ad introdurre elementi di economia
di mercato e a condurre i negoziati per l’ingresso nell’Unione Europea.
A differenza di quanto accade in Ungheria, il processo di privatizzazione
avanza lentamente e il settore pubblico rappresentava ancora, alla fine del ’98, il
35% del PIL. Di conseguenza l’economia polacca presenta un forte dualismo,
caratterizzato da un lato da un preponderante settore pubblico che tuttavia
produce risultati mediocri, in particolare nell’industria pesante e da un settore
privato ufficiale o informale che è dinamico ed efficiente. Un altro importante
dualismo è quello che separa le grandi città dalle campagne. La Polonia è
caratterizzata da un settore agricolo importante, ma poco produttivo.
L’agricoltura occupa circa un quarto della popolazione attiva, ma rappresenta
solo il 6,5% del PIL.
L’eredità lasciata dall’economia pianificata, ma anche l’esigenza di
raggiungere un compromesso nell’ambito di un contesto socio-politico agitato,
hanno sollevato la necessità dell’intervento statale. Lo Stato ha avuto un ruolo
decisivo nel sostenere la ripresa, incoraggiare la ristrutturazione di imprese e
banche e lo sviluppo delle regioni meno favorite, e nell’offrire una protezione
sociale piuttosto generosa.
2.3 La transizione nella Repubblica Ceca
Alla «resistenza sociale» dei polacchi fa eco la resistenza alle riforme della
classe dirigente ceca. La conclusione drammatica della riforma del modello
sovietico negli anni ’60, a causa dell’invasione delle truppe del patto di Varsavia,
ha messo fine al tentativo riformista cecoslovacco. Il regime cecoslovacco è stato
profondamente segnato dagli eventi della «Primavera di Praga»7, così come
l’Ungheria è stata profondamente colpita dagli eventi del 19568. Tuttavia le
conseguenze sono state molto diverse nei due paesi. Se l’Ungheria ha cercato di
sedare il malcontento popolare, conferendo maggiore spazio ai consumi privati e
la transizione, le transizioni• p.17
cercando di liberalizzare il regime, la Cecoslovacchia ha escluso ogni possibilità
di riforma dopo la destituzione di Alexander Dubcek e l’arrivo al potere del
nuovo governo fedele ai principi sovietici. Bisognerà attendere il 1987 perché il
governo cecoslovacco torni timidamente sulla via delle riforme.
Nel gennaio del 1993, la Cecoslovacchia ha cessato di essere un unico stato
per dar vita a due stati indipendenti, la Repubblica Ceca e quella Slovacca. Il
divorzio ceco-slovacco è avvenuto senza traumi e per mutuo consenso delle due
componenti etniche. Ciò ha consentito al primo governo della nuova Repubblica
Ceca di proseguire la riforma liberale, già iniziata nel 1991 dall’ultimo governo
cecoslovacco. La terapia di choc e le privatizzazioni hanno rappresentato i due
principali strumenti di riforma. Nel 1996 le performance macroeconomiche della
giovane repubblica erano molto positive: crescita relativamente elevata,
dinamismo delle esportazioni sostenuto da una forte svalutazione della moneta,
inflazione moderata, equilibrio del bilancio e lieve disoccupazione. Allora il
miracolo ceco suscitò l’ammirazione delle organizzazioni internazionali e di
molti economisti. Tuttavia, nel 1997, a seguito di una grave crisi economica e
finanziaria, connessa al fallimento dei principali istituti bancari, il modello ceco
iniziò a vacillare.
Generosamente elogiato nel 1993, il modello ceco venne aspramente criticato
quattro anni più tardi. In modo particolare le privatizzazioni di massa produssero
alcuni effetti perversi, rafforzando i gruppi di interesse ereditati dal regime
comunista, indebolendo l’efficacia del controllo digestione sull’impresa, e
ritardando la ristrutturazione del sistema economico. Anche in questo caso, così
come è accaduto per la Polonia, lo Stato ha avuto un ruolo decisivo nel
mantenere un livello di protezione sociale sufficiente e nel controllare il livello
dei prezzi di alcuni prodotti, definiti «sensibili»9, che ha permesso di operare le
necessarie riforme con un consenso popolare assai ampio.
Di fronte alla crisi del ’97, che vide il forte incremento del disavanzo
commerciale e del deficit delle partite correnti, il governo si trovò costretto ad
adottare, nella primavera dello stesso anno, un nuovo programma di
stabilizzazione e nuovi strumenti per rafforzare il sistema finanziario di banche
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ed imprese. In ogni modo la Repubblica Ceca grazie alla vicinanza geografica
all’Europa Occidentale, alla manodopera qualificata, al consenso sociale e al
ridotto indebitamento, è attualmente uno dei paesi più vicini al raggiungimento
dei criteri di Copenaghen.
3. LA FRAGILITÀ DELLE TRASFORMAZIONI POST-SOCIALISTE NELL’EUROPA
MERIDIONALE: LA TRANSIZIONE IN BULGARIA E ROMANIA
All’inizio degli anni ’90, la transizione si annunciava più difficile per i paesi
dell’Europa Sud Orientale, generalmente più poveri rispetto ai paesi dell’Europa
centrale. Secondo la Banca Mondiale, nel 1994, il Prodotto Nazionale Lordo
procapite era di 1250 dollari in Romania e di 1270 in Bulgaria, contro i 3840
dollari in Ungheria. Inoltre dal punto di vista geografico questi paesi presentano
l’inconveniente di essere più lontani dal mercato dell’Europa Occidentale. Ma
ciò che più conta è che i paesi dell’Europa Sud-orientale hanno ereditato
dall’economia pianificata una struttura produttiva che si adatta più difficilmente
alla domanda mondiale. Il forte peso del settore agricolo, che occupa un posto di
primo piano nell’ambito delle attività economiche, non facilita gli scambi con
l’Unione Europea.
L’economia bulgara, tra i paesi dell’Europa dell’Est, era quella che più
fortemente dipendeva dall’Unione Sovietica dal punto di vista commerciale. Di
conseguenza, la dissoluzione dell’URSS e del CAEM ha rappresentato un duro
colpo per il sistema economico del paese.
Per quanto riguarda la Romania, invece, oltre allo sviluppo dell’industria
pesante, comune all’insieme delle economie pianificate, il paese ha privilegiato
l’autarchia, che ha accentuato il ritardo tecnologico ed ha impoverito l’economia
rumena.
Alla vigilia del processo di transizione i paesi del Sud Est europeo soffrivano
di gravi squilibri macroeconomici. La Bulgaria e la Romania avevano
accumulato un forte debito estero. Tuttavia, se la prima all’inizio degli anni ’90
continuava ad accumulare un debito molto elevato, la seconda aveva rimborsato
la transizione, le transizioni• p.19
rapidamente i suoi creditori nel corso degli anni ’80 al prezzo di una drastica
riduzione delle importazioni, che ha contribuito a rafforzare la tendenza
autarchica del paese, e ha imposto un duro sacrificio alla popolazione. Ad
aggravare la situazione economica già difficile, hanno contribuito i regimi
politici troppo autoritari e poco inclini a seguire i venti di riforma che soffiavano
nell’Europa dell’Est.
Lo choc della transizione e la recessione che ne è seguita
furono
particolarmente difficili per i paesi dell’Europa meridionale: il PIL diminuì del
30% tra il 1989 e il 1992. Da quel momento si è sviluppato un processo
cumulativo negativo che ha accentuato le differenze tra l’Europa centrale e
l’Europa meridionale, e ha accresciuto le tensioni politiche e sociali nazionali.
Attualmente il mercato del lavoro rappresenta in negativo uno degli elementi
di distinzione e preoccupazione per l’area sud-orientale: la disoccupazione,
infatti, che a fine dicembre ’97 era pari al 14,3%, è progressivamente aumentata
fino a raggiungere il 15,4% nel ’98 e il 16,6% nel ’9910.
L’andamento dell’inflazione, nel 1999, ha visto un’estrema differenziazione
del fenomeno. Mentre la spinta inflativa è aumentata in Romania, nonostante la
politica monetaria restrittiva, in Bulgaria il tasso d’inflazione si è ridotto.
Infine, a causa del ritardo nel processo di riforme istituzionali le
organizzazioni internazionali e i paesi dell’Europa occidentale sono stati molto
restii ad offrire finanziamenti per facilitare la transizione di questi paesi, che oggi
si trovano in una posizione particolarmente arretrata nella conduzione dei
negoziati con l’Unione Europea.
4. I PAESI BALTICI NEL PASSAGGIO DALL’UNIONE SOVIETICA ALL’UNIONE
EUROPEA
I paesi baltici, dopo una difficile lotta politica sono usciti dall’Unione
Sovietica e, nel 1991, hanno riacquistato la loro indipendenza. Tra i paesi
dell’Est europeo in transizione, i baltici occupano una posizione del tutto
particolare. A differenza delle altre repubbliche dell’ex URSS, l’Estonia, la
la transizione, le transizioni
Lettonia e la Lituania, sono entrate a far parte dell’impero sovietico solo nel
1940. Questo ha permesso loro di poter avere un’economia di mercato nel corso
delle due guerre mondiali. Inoltre, questi paesi, non hanno mai fatto parte della
Comunità degli Stati Indipendenti dopo la fine del comunismo in Russia.
Come i paesi dell’Europa centrale, i baltici hanno conosciuto più di quaranta
anni di economia pianificata e come loro beneficiano di una vicinanza geografica
all’UE, che privilegia i mercati. Tuttavia, l’integrazione nell’ex URSS costituisce
una differenza di rilievo rispetto agli altri paesi dell’Est. Malgrado questa
pesante eredità, i paesi baltici sono riusciti ad avvicinarsi al gruppo di testa dei
paesi in transizione e ad arrivare alle porte dell’Unione Europea11. Al di là delle
evidenti somiglianze economiche, politiche e storiche, il processo di transizione
ha assunto forme ed ha avuto un ritmo molto diverso nei tre paesi. Il modello
liberale adottato in Estonia contrasta con il gradualismo lituano e con la via
intermedia seguita dalla Lettonia. Tali differenze inducono a pensare che i paesi
baltici occupino una posizione intermedia tra i paesi dell’Europa centrale,
all’avanguardia nel processo di transizione, e i paesi dell’Europa meridionale che
sono impegnati in un percorso più lento e difficile.
5. IL RAPPORTO SULLO STATO DEI NEGOZIATI IN POLONIA
Tra i paesi candidati all’adesione, abbiamo scelto di analizzare lo stato dei
negoziati della Polonia, che oltre ad essere il paese geograficamente più grande e
più densamente popolato, è anche il più vicino al rispetto dei criteri di
Copenaghen.
Il Consiglio Europeo di Lussemburgo ha stabilito che a partire dalla fine del
1998, la Commissione prepari per ciascun paese rapporti periodici sullo stato dei
negoziati, allo scopo di documentare i progressi compiuti da ognuno dei paesi
candidati in vista dell’ingresso nell’Unione Europea. Il metodo seguito dalla
Commissione è quello stabilito da Agenda 2000, relativo alla valutazione della
capacità degli stati candidati di seguire i criteri fissati a Copenaghen.
la transizione, le transizioni• p.21
Diamo pertanto conto del rapporto sulla Polonia12 presentato dalla
Commissione nel 2000. Tale rapporto analizza:
 le relazioni tra la Polonia e l’Unione, in particolare nella cornice degli
Accordi di Associazione (Accordi Europei);
 la situazione polacca rispetto ai criteri politici13 (la democrazia, il rispetto
della legge, i diritti umani, la protezione delle minoranze);
 l’ottemperanza ai criteri economici (la presenza di un’economia di mercato
e la capacità di sostenere le pressioni competitive del mercato europeo;
 la capacità della Polonia di assumere le obbligazione proprie degli stati
membri, secondo quanto disposto nei Trattati e nel diritto comunitario derivato, e
di seguire le politiche e gli obiettivi dell’Unione (acquis comunitario).
5.1 Le relazioni tra l’Unione Europea e la Polonia: rapporti commerciali e
finanziamenti comunitari
Come mostrano i trend di crescita degli ultimi dieci anni i rapporti
commerciali tra l’Unione Europa e la Polonia continuano a crescere più
velocemente rispetto a quelli tra l’UE e il resto del mondo.
Nel 1999 le esportazioni dall’UE alla Polonia sono state pari a 28.9 miliardi di
Euro, mentre le importazione della Comunità hanno raggiunto i 17.5 miliardi di
Euro. Il deficit commerciale della Polonia pari a 11.4 bilioni di Euro mostra una
leggera flessione rispetto a quello del ’98. Il commercio di macchinari e di
materiali elettrici rappresenta il capitolo più importante per le importazioni
polacche.
Per quanto riguarda i finanziamenti comunitari, nel periodo che va dal 1990 al
1999, il programma PHARE ha allocato 250 milioni di Euro in Polonia. Tra il
2000 e il 2002 l’assistenza finanziaria dell’Unione Europea garantirà alla Polonia
398 milioni di EURO all’anno dal PHARE, 168.6 milioni dal SAPARD e 385
milioni dall’ISPA14.
Il Programma PHARE per il 2000 ha provveduto ad una allocazione nazionale
di 428 milioni di Euro, ripartiti secondo le seguenti priorità:
la transizione, le transizioni
 Il rafforzamento della capacità amministrativa e istituzionale nel campo del
controllo finanziario, della finanza pubblica, del sistema bancario, delle
procedure parlamentari, dei trasporti, del dialogo sociale, del training
professionale e, infine, dello sviluppo delle esportazioni e delle politiche
regionali.
 Lo sviluppo del mercato interno.
 Il rafforzamento della cooperazione nel campo della giustizia e degli affari
interni.
 La creazione di istituzioni nell’agricoltura, nell’ambiente, nella coesione
sociale.
 La partecipazione della Polonia ai programmi comunitari.
Il programma di finanziamenti SAPARD si occupa del piano di sviluppo
rurale della Polonia. Il programma è basato su due obiettivi prioritari: lo sviluppo
dell’efficienza del mercato agroalimentare, lo sviluppo delle condizioni
necessarie per l’incremento delle attività economiche e la creazione di nuovi
posti di lavoro. Nel periodo compreso tra il 2000 e il 2006, il programma
SAPARD si occuperà del finanziamento del settore agricolo polacco per 168
milioni di Euro.
Per quanto riguarda il programma ISPA, la Commissione e le autorità
polacche hanno stabilito un programma di priorità per il finanziamento del
settore dei trasporti e dell’ambiente per il periodo 2000-2006. Relativamente ai
trasporti il programma prevede la costruzione e il restauro di autostrade, di strade
statali, di linee ferroviarie nell’ambito della rete di trasporti Trans-Europea e nel
rispetto degli standard europei.
Per quanto riguarda l’ambiente, le più importanti priorità che l’ISPA ha
stabilito per la Polonia riguardano l’acqua potabile, le acque di scarico e lo
smaltimento dei rifiuti nelle maggiori città polacche. L’agenda finanziaria
dell’ISPA per la Polonia, secondo quanto stabilito dalla Commissione nel
Settembre del 2000, ha previsto il finanziamento di 177 milioni di Euro per i
trasporti e 177 milioni per l’ambiente solo per l’anno 2000.
la transizione, le transizioni• p.23
5.2 I criteri per l’adesione
5.2.1 Il criterio politico
Il Consiglio Europeo di Copenhagen del 1993, ha stabilito che i paesi
candidati devono raggiungere la stabilità delle istituzioni nel rispetto della
democrazia, della legge, dei diritti umani e della protezione delle minoranze. Nel
rapporto del 1999 la Commissione ha concluso che la Polonia rispetta i criteri
politici di Copenhagen, anche se ulteriori sforzi dovranno essere compiuti per
incrementare l’efficienza del sistema giudiziario, in modo particolare nella lotta
contro la corruzione.
Nonostante i cambiamenti politico istituzionali la Polonia è riuscita comunque
a mantenere la stabilità delle istituzioni. La Costituzione del’97 ha dato prova di
essere uno strumento di grande stabilità politica.
Per quanto riguarda i diritti umani e la protezione dei minoranze, la Polonia ha
ratificato la convenzione Europea dei Diritti dell’uomo ed ha adottato misure
legali e costituzionali per la loro tutela.
La pena di morte in Polonia è stata abolita formalmente dal Parlamento il 14
Aprile del 200015, tuttavia, le condizioni dei polacchi negli istituti di pena
continuano ad essere precarie. Le prigioni sono sovraffollate. La popolazione
carceraria polacca, pari a 70 mila persone, rappresenta il 110% della capacità
massima del sistema penitenziario. Inoltre, violenza e maltrattamenti sono
all’ordine del giorno. Un rapporto del Comitato Europeo sulla Prevenzione delle
Torture ha evidenziato seri casi di maltrattamenti. Il traffico di esseri umani è
diminuito dalla metà degli anni ’90.
5.2.2 Criteri economici
La Polonia possiede un’economia di mercato attiva, con un fiorente settore
privato e un ambiente legislativo ed istituzionale favorevole all’attività
la transizione, le transizioni
economica. Secondo la valutazione della Commissione Europea il sistema
economico polacco sarà in grado di fronteggiare le pressioni competitive
all’interno dell’Unione, attraverso il processo di liberalizzazione del mercato. La
Commissione ha quindi concluso affermando che la Polonia soddisfa i criteri
economici stabiliti al Consiglio Europeo di Copenhagen:
 L’esistenza di un economia di mercato attiva
 La capacità di essere competitiva nel mercato europeo
Per quanto riguarda il primo dei due criteri economici, la situazione
macroeconomica polacca è notevolmente migliorata rispetto al rapporto
precedentemente preparato dalla Commissione. La riduzione della crescita
economica, causata dalla crisi russa del’9816, si è arrestata sin dalla metà del
1999 e l’economia sta attualmente sperimentando una forte ripresa nella
produzione, collegata ad un incremento della domanda estera e ad
un’accelerazione della domanda interna. Tuttavia, è emerso dall’analisi del
rapporto un numero di squilibri macroeconomici che richiedono un adeguato
monitoraggio e adeguate misure politiche. Il tasso di disoccupazione è alto e
continua a crescere; l’inflazione ha subito un’impennata nella seconda metà del
1999; la più alta crescita economica non ha bilanciato la perdita di posti di
lavoro, dovuta alle trasformazioni economiche, il deficit delle partite correnti è
cresciuto in modo considerevole.
Sebbene le esportazioni siano aumentate, e il flusso di investimenti diretti
esteri
rimanga sostenuto, la crescita delle importazioni continua ad essere
costante, come riflesso dell’incremento della domanda interna.
La Polonia continua a registrare progressi nelle privatizzazioni e nelle riforme
istituzionali. La velocità del processo di privatizzazione è particolarmente
incoraggiante, con circa 150 imprese vendute attraverso la privatizzazione
diretta, solo nel 1999, e 50 dalla fine di Aprile del 2000. Le entrate delle
privatizzazioni sono superiori alle previsioni della legge di bilancio e sono state
incrementate dal completamento della vendita della seconda tranche di azioni
della
Telekomunikacjia
Polska.
Le
entrate
delle
privatizzazioni
sono
principalmente dirette al finanziamento delle riforme sociali. Il governo polacco
la transizione, le transizioni• p.25
ha, inoltre, deciso alcune ristrutturazioni delle imprese pubbliche, che interessano
in particolare l’industria per l’estrazione del carbone e
l’industria per gli
armamenti. Si registrano, tuttavia, diversi ritardi per quel che riguarda la
privatizzazione nel settore siderurgico e la ristrutturazione del settore agricolo. Il
settore pubblico continua a rappresentare un fardello per l’efficienza e la
competitività della Polonia e agisce negativamente sulla finanza pubblica. D’altro
canto, il nuovo sistema pensionistico e la riforma della sanità, dell’istruzione, e
del fisco, sebbene difficili e costosi nel breve periodo, sono indispensabili per
rafforzare le basi della crescita futura. La stabilità macroeconomica e il consenso
circa le politiche economiche hanno migliorato la performance dell’economia di
mercato, mentre un settore finanziario ben sviluppato e l’assenza di barriere nel
mercato incrementano l’efficienza economica.
L’alto livello di disoccupazione rappresenta un’altra importante sfida politica.
La disoccupazione è aumentata dall’Agosto del 1998 e ha raggiunto il 15% nel
1999, secondo i dati dell’ILO17. L’aumento della disoccupazione riflette le
pressioni demografiche e strutturali e un numero di caratteristiche specifiche
sottolinea la necessità di migliorare il mercato del lavoro: il tasso di
disoccupazione degli individui al di sotto dei 25 anni, pari al 30%, la
disoccupazione in aumento per i lavoratori con basse qualifiche, le disparità
regionali (il tasso di disoccupazione è compreso tra il 9% e il 20%).
Per quanto riguarda i progressi compiuti nella riduzione del tasso di inflazione,
nella seconda metà del ’99 i prezzi sono aumentati sensibilmente come risultato
di una combinazione di fattori: l’aumento del prezzo della benzina e dei generi
alimentari, l’impatto del deprezzamento della moneta polacca, l’incremento delle
tariffe e la grossa crescita del credito delle famiglie dovuta alla ripresa
economica. Anno dopo anno il tasso d’inflazione è cresciuto sino a raggiungere,
nel 2000, le due cifre. La media del tasso d’inflazione era pari al 7.3% nel 1999 e
appare possibile che l’indice dei prezzi al consumo alla fine del 2000 sarà più
alto del livello più elevato che il Monetary Policy Council ha fissato al 6.8%.
Nell’Aprile del 2000 la Polonia ha attuato una politica di libera fluttuazione dei
cambi attraverso una strategia coerente con l’obiettivo inflazione.
la transizione, le transizioni
La privatizzazione nel settore assicurativo ha subito una forte accelerazione
con la vendita del 30% della PZU S.A18. lo scorso novembre. Il settore è in
espansione grazie alla riforma del sistema pensionistico, anche se il trasferimento
dal primo al secondo regime19 non è stato ancora attuato. Il mercato assicurativo
ha sperimentato la bancarotta per ben due volte nel corso del 1999. La riforma
pensionistica ha portato un aumento del 71% del Warsaw Stock Market l’anno
passato: oggi rappresenta circa il 20% del PIL. Alcuni cambiamenti nel settore
non bancario sono ancora necessari.
Per quanto riguarda la capacità della Polonia di fronteggiare le pressioni
competitive e le forze del mercato europeo, l’esistenza di un’economia aperta e
di un modello macroeconomico stabile, che permette agli agenti economici di
prendere decisioni in un clima di prevedibilità, ha permesso allo stato polacco di
soddisfare il criterio economico. Tuttavia è necessario incrementare il capitale
fisico e umano e favorire lo sviluppo delle infrastrutture.
Gli investimenti rappresentano circa il 25% del PIL, tuttavia da un’analisi più
approfondita
della
produttività
risulta
che
è
necessario
migliorare
quantitativamente e qualitativamente lo stock di capitali attraverso la
canalizzazione degli investimenti esteri diretti.
Gli investimenti diretti esteri giocano un ruolo di primaria importanza nel
favorire le esportazioni polacche e sviluppare la competitività economica della
Polonia. Il flusso di investimenti dall’estero è stato pari ad 8 miliardi di Euro nel
1999. Nel 1997, la quota di imprese straniere negli investimenti totali del settore
manifatturiero ha raggiunto il 57%. Queste imprese hanno inciso per il 50% sul
totale delle esportazione polacche nel 1999.
Una parte molto consistente degli investimenti esteri è stata indirizzata verso
settori diversi da quello delle esportazioni, come quello bancario, della vendita al
dettaglio o delle costruzioni. Inoltre gli investimenti esteri nei servizi producono
ulteriori effetti benefici, diminuendo i costi di transazione e attraendo investitori
stranieri nel settore manifatturiero.
la transizione, le transizioni• p.27
5.2.3 L’acquis
Questa sezione del rapporto ha il compito di aggiornare il Consiglio sulla
capacità della Polonia di soddisfare gli obblighi comunitari, sia dal punto di vista
legislativo che istituzionale. Il Consiglio Europeo di Madrid del 1995 ha
evidenziato la necessità di creare le condizioni necessarie per la graduale e
armoniosa integrazione di tutti i candidati, in particolar modo attraverso
l’adeguamento della struttura amministrativa. A questo proposito l’Agenda 2000
ha sottolineato l’importanza di incorporare la legislazione comunitaria in quella
nazionale, attraverso adeguate strutture amministrative e giudiziarie. I progressi
compiuti dalla Polonia nel condurre i negoziati prendono in considerazione in
primo luogo le quattro libertà fondamentali del mercato interno ( la libera
circolazione di beni, capitali, servizi e persone) e continuano con un’analisi
sistematica dei vari capitoli relativi all’acquis: le politiche di settore, gli affari
economici e sociali, la coesione economica e sociale, le innovazione, la qualità
della vita e l’ambiente, la giustizia e gli affari interni, la politica estera e le
questioni finanziarie.
Dei 29 capitoli del negoziato, 11 non necessitano ulteriori negoziazioni. I
negoziati, infatti, si sono conclusi per il settore dell’Unione economica e
monetaria, per la Statistica, per la politica Industriale, per la ricerca, per
l’istruzione, il training, le telecomunicazioni e le nuove tecnologie, i
consumatori, la protezione della salute, le relazioni esterne le politiche estere e la
sicurezza comune, il controllo finanziario. I negoziati proseguono per i rimanenti
capitoli.
5.3 Il capitolo sull’agricoltura
La Polonia ha compiuto dei progressi molto limitati nell’adozione dell’acquis
nel campo dell’agricoltura rispetto al precedente rapporto. L’agricoltura (inclusa
la caccia, la pesca e il legname) rappresenta in Polonia il 3,8% del PIL (secondo i
la transizione, le transizioni
dati del 1999), contro il 4,8% del 1998. L’occupazione in agricoltura, secondo i
dati Eurostat, ha subito una diminuzione negli anni passati tale da raggiungere il
18% dell’occupazione totale per il 1999. Nel 1999 si è verificata inoltre una
significativa riduzione della produzione agricola, principalmente a causa delle
sfavorevoli condizioni climatiche, mentre la diminuzione della produzione di
bestiame (-1.6%) è dovuta alla riduzione dello stock di animali. Nel 1999 le
importazioni di prodotti agricoli polacchi nell’Unione è aumentata di un punto
percentuale, mentre le esportazioni dalla Comunità alla Polonia sono diminuite di
circa il 10% . Il saldo della bilancia commerciale in favore della Comunità
ammonta a circa 536 milioni di Euro, contro i 723 milioni del ’98, una
diminuzione di circa un terzo ( a beneficio dell’economia polacca). Alcune
importanti politiche strategiche sono state adottate per favorire lo sviluppo
agricolo. Fra questa la più significativa è il Patto per l’Agricoltura sottoscritto dal
governo polacco all’inizio di Settembre. Il Patto per l’Agricoltura ha come
obiettivo l’incremento della competitività e delle condizioni di lavoro nel settore
agricolo e lo sviluppo della flessibilità nella struttura socio-economica delle aree
agricole. Quattro sono le aree principali sulle quali è articolato il Patto per
l’Agricoltura: l’ambiente agricolo, lo sviluppo dell’imprenditoria e la creazione
di posti di lavoro al di fuori dell’agricoltura, lo sviluppo di politiche sociali nelle
aree rurali e il dialogo sociale.
5.4 Politiche sociali e occupazione
La situazione occupazionale in Polonia si è deteriorata nel corso del 1999. Le
ricerche sulla forza lavoro mostrano che l’occupazione è diminuita più del 4%,
tra il Febbraio ’99 e il Febbraio del 2000, mentre nello stesso periodo di tempo il
tasso di occupazione è sceso al 56%, ben al di sotto della media europea che è
pari al 62%. Allo stesso tempo, il tasso di disoccupazione è salito dal 12.5% al
16.7%. Gli ultimi indici mostrano che la ripresa economica in Polonia non si è
ancora tradotta in un miglioramento del mercato del lavoro. Per fronteggiare
questo problema il governo polacco ha adottato una strategia per l’occupazione e
la transizione, le transizioni• p.29
lo sviluppo delle risorse umane per il periodo compreso tra il 2000 e il 2006.
Nell’implementare questa strategia il governo sta lavorando ad un programma
dettagliato: gli obiettivi stabiliti dal governo saranno realizzati sulla base dei
Piani di Azione Nazione per lo Sviluppo dell’occupazione (NAP)20.
Il dialogo sociale in Polonia è caratterizzato dalla contrattazione tripartita.
Questo dialogo, che si svolge attraverso una «Commissione per gli affari sociali
ed economici», continua ad essere ostacolato dal ritiro del più importante
sindacato polacco dal tavolo delle contrattazioni. La sua assenza pesa
enormemente sul valore delle decisioni prese in Commissione. Inoltre il dialogo
autonomo a livello settoriale è ancora mancante e nessun progresso viene
registrato a livello imprenditoriale, poiché il dialogo sociale non ha luogo in
nessuna delle nuove imprese.
6. L’ADESIONE DELLA TURCHIA E LA QUESTIONE CIPRIOTA
La Turchia ha una storia del tutto particolare nel contesto dei paesi candidati,
posizionandosi a metà strada tra i paesi islamici del medio oriente e l’europa
orientale.
Dopo il collasso dell’Impero Ottomano alla fine della prima Guerra Mondiale,
il fondatore della nuova Repubblica Turca, Mustafa Kemal Atatürk, si fece
promotore del processo di modernizzazione e di avvicinamento della Turchia
all’Occidente, attraverso l’abolizione della legge e dell’abbigliamento islamico e
l’adozione del codice civile svizzero e dell’alfabeto latino21. Dopo la seconda
Guerra Mondiale la Turchia entrò a far parte delle grandi organizzazioni europee
ed internazionali, l’OCSE, l’ONU e il Consiglio d’Europa e, nel 1959, avanzò la
sua candidatura a membro associato della CEE. Gli accordi di associazione con
la Turchia, anche noti come Accordi di Ankara, furono firmati nel 1963 e
stabilirono le fasi attraverso le quali la Turchia e la Comunità Europea sarebbero
giunte alla piena integrazione economica. L’unione doganale per i prodotti della
Comunità Europea fu raggiunta con la Turchia nel 1995, attraverso significative
riduzioni delle tariffe sui prodotti europei e l’armonizzazione dei dazi esteri.
la transizione, le transizioni
In occasione del Consiglio Europeo di Helsinki del 1999 venne decisa
l’apertura dei negoziati di adesione con tutti i paesi candidati ad eccezione della
Turchia. Nella stessa sede venne conferito alla Turchia lo status di paese
candidato, ribadendo, tuttavia, che l’apertura dei negoziati rimane condizionata
ad alcuni requisiti preliminari connessi ai criteri politici stabiliti a Copenaghen.
Le questioni politiche che impediscono l’apertura dei negoziati di adesione con la
Turchia sono complesse e molteplici e riguardano anzitutto la violazione dei
diritti umani, la pratica delle torture e la mancanza di libertà di espressione. In
secondo luogo, il paese è soggetto al potere dei militari del Consiglio di
Sicurezza Nazionale, che agiscono senza alcun controllo da parte dell’autorità
civile turca. Inoltre, l’occupazione da parte della Turchia della regione
settentrionale dell’isola di Cipro inasprisce i rapporti tra il governo turco e la
comunità internazionale. Infine, l’adesione della Turchia viene pregiudicata dalla
mancata ottemperanza dei criteri economici22 e dalla presenza di alcune questioni
sociali di grande rilevanza che contribuiscono ad allontanare il paese
dall’Unione: i problemi socio-economici, come l’analfabetismo, la mortalità
infantile e la scarsa tutela della salute pubblica; infine le disparità regionali nello
sviluppo sociale ed economico. Tuttavia, è la questione cipriota a sollevare le
maggiori difficoltà di fonte all’ingresso dello stato turco nell’Unione Europea.
Il cuore della questione cipriota sta nella divisione dell’isola in due diverse
aree Nel 1974 la Turchia, in risposta al colpo di stato organizzato dai militari
greci contro l’allora presidente cipriota, occupò la parte Nord dell’isola 23.. Da
allora la frontiera tra Cipro Nord e Cipro Sud, conosciuta come la Linea Verde, è
soggetta al controllo delle truppe delle Nazioni Unite. La parte meridionale di
Cipro, che rappresenta i 2/3 dell’isola è riconosciuta a livello internazionale, ad
eccezione della Turchia, come Repubblica Cipriota24. La parte settentrionale,
riconosciuta solo dal governo turco che ha stanziato nel territorio circa 35.000
soldati, ha preso il nome, dal 1983, di Repubblica Turca di Cipro Nord e dipende
dalla Turchia per la gran parte delle sue necessità. La popolazione si è stabilita lì
dopo il 1974 e proviene per la gran parte dall’Anatolia. Il governo della
Repubblica cipriota del Sud considera gli abitanti della parte settentrionale
la transizione, le transizioni• p.31
dell’isola, come immigrati clandestini ai quali non verrà riconosciuta la
cittadinanza cipriota, nel caso di una riunificazione dell’isola.
La moneta utilizzata a Cipro Nord è quella turca. La Turchia è il principale
partner commerciale per le importazione e le esportazioni. Infine, poiché
l’ostracismo internazionale non permette a Cipro Nord di avere il suo sistema
postale e di telecomunicazioni, la regione deve usufruire di quello turco. Per
queste ragioni, l’adesione di Cipro Nord all’Unione Europea dipende fortemente
dalla preventiva adesione turca.
Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha compiuto numerosi sforzi negli ultimi
anni per riunire l’isola sotto un'unica sovranità e riconoscerle una sola personalità
giuridica internazionale. Tuttavia, mentre il governo della Repubblica Cipriota si
è mostrato a favore della soluzione avanzata dall’ONU, la Repubblica Turca di
Cipro Nord continua a sostenere che l’unica soluzione è mantenere nell’isola due
diverse sovranità.
I rapporti di Cipro con la Comunità Europea sono stati fondati in passato sugli
Accordi di Associazione. Sottoscritti nel 1972, tali accordi hanno provveduto
all’eliminazione delle barriere commerciali allo scopo di istituire una vera e
propria unione doganale. Dalla fine degli anni ’80 il governo della Repubblica
Cipriota ha iniziato le trattative per passare dall’unione doganale all’adesione
all’Unione Europea. La ragione sembra essere principalmente politica: la
prospettiva di una adesione all’UE potrebbe costituire uno stimolo efficace per la
risoluzione della questione cipriota o almeno potrebbe consentire all’Unione di
assumersi la responsabilità della soluzione della questione cipriota. D’altra parte
l’adesione potrebbe rappresentare una garanzia di sicurezza per Cipro nei suoi
rapporti con la Turchia.
La Repubblica Cipriota ha formalmente presentato la sua domanda di adesione
all’UE nel Luglio del 1990. La richiesta di adesione è stata presentata per conto
dell’intera isola, e questo malgrado il fatto che l’autorità della Repubblica non si
estenda alla parte settentrionale di Cipro e che i leader politici del governo del
Nord abbiano del tutto respinto la legittimità di tale domanda. Se le autorità
cipriote avessero presentato la richiesta di adesione solo per la parte dell’isola
la transizione, le transizioni
sulla quale esercitano la giurisdizione, avrebbero trasformato una divisione de
facto in una divisione de iure , compromettendo in modo irreversibile la
possibilità di essere considerate la sola rappresentanza legittima dell’isola. Da
quando nella metà degli anni ’90 l’Unione Europea ha aperto i negoziati con
Cipro, il governo cipriota ha iniziato un’intensa campagna diplomatica per
enfatizzare che il governo della Repubblica è la sola autorità legittima di
dell’isola e che i negoziati dovrebbero essere condotti solo attraverso essa.
Sarebbe infatti irragionevole, secondo il governo cipriota, l’Unione Europea
rimanesse ostaggio di un governo «illegale» quello della Repubblica Turca di
Cipro Nord e di uno stato, quello turco, che non è ancora membro dell’Unione.
E’ necessario, tuttavia, considerare anche i rapporti politici ed economici tra la
Turchia e l’Unione Europea. In occasione dei lavori preparatori di Agenda 2000
alcuni stati membri espressero numerose perplessità circa l’adesione della
Turchia all’UE, da un lato a causa della tradizione politica e religiosa turca,
molto diversa da quella Europea, dall’altro a causa delle violazioni dei diritti
umani in forte contrasto con i principi fondamentali dell’Unione. La Turchia, da
parte sua, è fermamente contraria all’adesione di Cipro all’UE, poiché tale
adesione potrebbe consentire al governo della Repubblica cipriota di opporre il
veto alla membership turca e ai finanziamenti europei verso la Turchia25. D’altra
parte l’adesione cipriota potrebbe del tutto compromettere i rapporti tra l’Unione
Europea e la Turchia, mentre l’Unione è ansiosa che tali rapporti migliorino sia
per ragioni economiche, poiché la Turchia è il sesto partner commerciale per
l’Unione, sia per motivi politici. La Turchia, infatti, oltre ad essere un ponte tra
Occidente e Oriente, è un paese islamico con una considerevole influenza sui
Balcani, nel Medio Oriente e in molti paesi dell’ex Unione Sovietica.
Infine un’Unione che non includa la Turchia perpetuerà il rischio di un aspro
confronto tra Atene e Ankara. Accogliere la Turchia nell’Ue significherebbe
eliminare i confini nazionali tra i due paesi favorendo la cooperazione e la
stabilità nella regione.
la transizione, le transizioni• p.33
5.2 L’adesione di Malta
Nonostante la posizione geografica che la vede ancorata al centro del
Mediterraneo, Malta, il più piccolo tra i paesi candidati all’ingresso nell’Unione
Europea, ha scelto di integrare la propria economia a quella europea, dopo aver
ottenuto circa quaranta anni fa l’indipendenza dal Regno Unito. La domanda di
adesione presentata nel 1991, è stata sospesa nel 1996 dal governo laburista che
mirava alla creazione di un area di libero scambio tra Malta e l’Unione.
Oggi le trattative per l’ingresso nell’UE sono a buon punto, grazie soprattutto
ad un sistema produttivo che privilegia le nuove tecnologie. Il processo di
privatizzazione, iniziato nel 1998, ha portato alla cessione da parte del governo
maltese di 22 società pubbliche, tra cui uno dei maggiori istituti bancari
dell’isola.
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APPENDICE 1
L’EUROPA E I BALCANI
Il novecento, che è iniziato in Europa con la dissoluzione degli imperi
asburgico e ottomano, ha visto nell’area dei Balcani la nascita di nuove nazioni
e lo scoppio del primo conflitto mondiale. Nell’ultimo decennio del secolo, tra il
1989 e il 1999, i numerosi conflitti nell’area dei Balcani hanno portato alla
divisione territoriale, che non hanno reso la regione né più stabile, né più
europea.
Sovranità e confini, che con il rafforzarsi delle istituzioni sovranazionali,
hanno perso via via significato e valore in Europa, hanno conservato forza e
violenza tali nei Balcani da scatenare aspri conflitti nell’intera regione. In
quest’ultimo decennio, la disgregazione della Jugoslavia è costata tre conflitti
etnici, centinaia di migliaia di vittime, milioni di profughi e lo strangolamento
delle economie di questi paesi. «La guerra nei Balcani ha messo l’UE di fronte
agli enormi costi della mancata esportazione della democrazia e del libero
mercato, al fallito tentativo di contenere il nazionalismo e alle conseguenze di
aver trascurato le regioni più difficili del continente»26. Per questo si può dire
che di fronte ai conflitti nei Balcani l’Unione Europea ha mostrato tutta la sua
debolezza.
Oggi che le tensioni politiche nei Balcani sembrano spegnersi, l’Unione ha la
responsabilità politica e morale di avviare il processo d’integrazione di questi
popoli.
Il Consiglio Europeo di Feira nel giugno del ’99, ha ribadito che tutti i paesi
dell’area balcanica sono possibili candidati all’ingresso nell’Unione. In questa
prospettiva ogni paese dovrebbe accelerare il suo processo di riforma allo scopo
di allineare la sua legislazione e le sue istituzioni a quelle europee. Il patto di
stabilità per i Balcani, sottoscritto nel 1999, ha come principali obiettivi il
dialogo politico, la liberalizzazione del mercato, l’assistenza finanziaria e la
cooperazione nell’ambito economico e sociale. Il fine dell’Unione Europea è
quello di creare nella regione dei Balcani una situazione di pace e di stabilità
politica, allo scopo di estendere a quest’area la prosperità economica e la
libertà politica e sociale che i 15 paesi membri dell’Unione hanno creato in più
di 50 anni di integrazione
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APPENDICE 2
GEOGRAFIA DELL’ALLARGAMENTO
L’UNIONE EUROPEA E I PAESI CANDIDATI
In grigio scuro i quindici paesi membri dell’Unione Europea, in grigio chiaro i
paesi candidati all’adesione. I dieci paesi dell’Europa centrale e orientale sono: i
tre paesi baltici, Estonia (1), Lettonia (2), Lituania (3); i paesi dell’Europa
centrale, Polonia (4), Repubblica Ceca (5), Slovacchia (6), Ungheria (7),
Slovenia (8); i paesi che affacciano sul Mar Nero, Romania (9) e Bulgaria (10).
Sono inoltre candidati all’adesione la Turchia (11), Cipro (12) e Malta (13).
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Tabelle
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Note
1
Cfr. Magnin E., (1999)
La terapia di choc si iscrive nella prospettiva teorica d’ispirazione neoclassica, che
privilegia l’idea di un aggiustamento rapido verso nuovi equilibri, grazie ai meccanismi
di mercato, e tende a sottostimare il ruolo dello Stato e l’importanza delle riforme
strutturali, che in quanto tali non possono che avere un effetto graduale. Quanto al
gradualismo, esso affonda le sue radici in varie correnti teoriche, generalmente
raggruppate nella categoria degli "approcci eterodossi»: teorie post-Keynesiane,
evoluzioniste ed istituzionaliste. Questo approccio, associato ai nomi di Keynes e
Shumpeter, insiste sull’importanza delle istituzioni e dello stato, nel determinare la
dinamica economica.
3
Per sistema bancario a due velocità si intende un sistema nel quale vi sia un banca
centrale che si occupa della politica monetaria e delle regole del sistema creditizio e una
pluralità di banche di affari che si occupano della gestione dei crediti a persone o
imprese.
4
Cfr. Kornai J., (1984)
5
Cfr. Kornai J., (1996)
6
In seguito la stessa negoziazione è stata sostituita da sei forum permanenti, suddivisi
per temi, che si riuniscono due volte l’anno o tutte le volte che sia necessario. In questi
forum peso preponderante è assunto da 6.000 ONG che, sostituendo lo stato nella
erogazione di prestazioni sociali, divengono rappresentanti dell’interesse collettivo in
sostituzione dei sindacati.
7
La «Primavera di Praga» fu il più ampio e interessante esperimento di liberalizzazione
mai tentato in un fino ad allora in un paese del blocco sovietico. Il programma di azione
iniziato nel ’68 cercava di conciliare il mantenimento del sistema economico socialista
con l’introduzione di elementi di pluralismo economico e politico. I sovietici tentarono
invano di bloccare il processo di riforma , finché le truppe dell'Urss e di altri quattro
paesi del Patto di Varsavia occuparono Praga, arrestarono Dubcek e portarono al potere
un governo filosovietico.
8
Nel 1956, Kruscev divenne il leader indiscusso del paese e il promotore di alcune
significative riforme, non esitando a denunciare gli errori e i crimini commessi
dall’Unione Sovietica. La destanilizzazione provocò agitazioni e rivolte tra la
popolazione, finché le proteste sfociarono in una vera e propria insurrezione. Il 1
novembre dello stesso anno, il capo del partito comunista, Kadar, invocò l’intervento
delle truppe sovietiche che occuparono Budapest e stroncarono le milizie popolari.
9
Beni di prima necessità, come pane e latte
10
Cfr. Gobet S., (2000)
11
Il Consiglio Europeo di Lussemburgo, del 1997, ha sancito l’inizio dei negoziati di
adesione con cinque paesi PECO, tra cui l’Estonia, scelta tra i Baltici. CFR Agenda
2000
12
European Commission (2000)
13
Il Consiglio Europeo di Copenaghen ha stabilito che l’ingresso nell’Unione è
subordinato al rispetto dei criteri politici, economici e dell’acquis.
14
Da Gennaio 2000, la Comunità Europea finanzia tre diversi strumenti di preadesione
al fine di sostenere i paesi candidati nel processo di allargamento: il programma
PHARE che finanzia i progetti relativi al rafforzamento delle istituzioni; il programma
2
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SAPARD che provvede al finanziamento del settore agricolo; e l’ISPA che finanzia i
progetti relativi alle infrastrutture nel settore dell’ambiente e dei trasporti. Questi
programmi concentrano i loro finanziamenti sulle priorità stabilite dai partenariati di
adesione al fine di aiutare i paesi candidati a soddisfare i criteri della Comunità.
15
Quando è stata adottata la legislazione che approva il Protocollo n.6 della
Convenzione Europea sui diritti umani.
16
La crisi Russa del ‘98
17
International Labour Office o Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL)
18
Sistema pubblico assicurativo polacco
19
Si riferisce al passaggio da un sistema previdenziale pubblico ad un sistema nel quale
i contributi sono versati ad imprese private che si occupano della gestione dei risparmi.
20
Cfr “I NAP” su Lezioni sull’Europa Materiali CISS
21
Ataturk introdusse anche l’uso del cognome. Ogni turco dovette scegliere un
cognome. Ataturk significa «padre dei turchi»
22
L’inefficienza nel settore agricolo dovuta alla presenza di piccole aziende; i problemi
del settore finanziario, a causa del monopolio di un piccolo numero di banche che
detiene la gran parte delle attività finanziarie del paese; l’alto tasso di inflazione;
l’instabilità dei prezzi nell’agricoltura, nel trasporto e nell’energia, e la prevalenza nel
settore manifatturiero di piccole imprese che con tutta probabilità avranno serie
difficoltà nel fronteggiare la concorrenza del mercato europeo.
23
Cipro ha avuto da sempre un ruolo preminente nell’ambito della politica estera greca
e turca. La questione cipriota ha contribuito ad inasprire i rapporti tra i due paesi già
molto tesi da quando dopo la prima guerra mondiale i greci, che avevano combattuto a
fianco degli alleati e rivendicavano alcuni territori dell’Asia Minore, furono
pesantemente sconfitti dalle truppe turche guidate dal giovane Mustafà Kemal e
scacciati dalla città di Smirne.
24
I greci a Cipro rappresentano i quattro quinti della popolazione dell’isola
25
L’art. 49 del Trattato CE stabilisce che l’ingresso di un nuovo stato nell’Unione
Europea deve essere approvato con il voto all’unanimità di tutti gli stati membri. Per
questo l’adesione di un nuovo paese è esclusa se anche un solo stato membro oppone il
veto.
26
Cfr. Pflüger F., (2000)
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