VENERDÌ 4 DICEMBRE 2009 Ore: 20,45 – 22,45 – Casa del Giovane, via Gavazzeni, 13 - Bergamo Vizi e virtù. La proposta evangelica Parola chiave di una riflessione evangelica sui Vizi e sulle Virtù del nostro tempo è la Temperanza: dimensione essenziale, guida all’azione virtuosa e sostegno al pensiero morale, la saggezza è sobrietà del vivere e solidarietà dell’agire. La misura del superfluo conduce il buonsenso e l’equilibrio del nostro abitare la terra, dove il cristiano diviene saggio testimone della preziosità della natura, della finitudine umana e del rispetto verso il prossimo. Relatore: Don Ezio Bolis – Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale Orientare le riflessioni su una virtù che intercetta anche le relazioni precedenti: Virtù della temperanza in particolare quella declinazione della temperanza che è la sobrietà. In che senso è importante la ripresa del concetto di virtù? È appena stato detto da qualche generazione che non era più usata come categoria di pensiero non solo negli spazi civili e politici ma poco anche in ambito morale e teologico. Mi pare utile richiamare brevemente l’opportunità di un discorso morale, politico, spirituale centrato sul tema delle virtù. Il secondo passo delineerà in quale posizione si colloca il tema della temperanza e qui la prospettiva è quella evangelica, quindi la teologia biblica mi pare che possa dare alcune coordinate importanti. La terza parte, quella un po’ più sostanziosa, è la sobrietà perché è una dimensione della temperanza che ha a che fare fortemente con le questioni etiche, politiche, sociali, di costume. Ma c’è uno stretto collegamento tra temperanza e sobrietà. La sobrietà coglie alcune dimensioni della temperanza. Il primo punto più di introduzione mi pare utile: perché è importante parlare nelle virtù in tutti gli ambiti? Il primo elemento che mi sembra giusto sottolineare è che il tema delle virtù consente di collegare la fede nell’esperienza quotidiana, perché le virtù hanno a che fare con la vita di tutti giorni. Quindi se la fede parla delle virtù non può che parlare della vita di tutti i giorni. Detto in termini più precisi in ambito teologico: le virtù consentono di congiungere la morale con la fede; il discorso teologico con quello etico. Nella virtù si incrociano queste due prospettive, e questo, perché è importante? Perché è un antidoto a una fede pensata in modo astratto, spiritualistico, rarefatto… c’è il rischio di parlare della Fede appunto speculando sui massimi sistemi. In qualche modo il discorso sulle virtù obbliga a mostrare il risvolto dell’agire della Fede, il risvolto etico e morale di una scelta di Fede, quindi impedisce che il discorso della teologia fugga verso orizzonti misticheggianti o fideistici. Questo mi fa calare i piedi per terra perché si tratta dell’agire quotidiano; quindi quando un discorso di Fede si riappropria delle virtù, penso si riappropria di una dimensione concreta, di un agire concreto. Ancora la virtù nella tradizione spirituale morale è sempre stata connessa a quello che in latino si chiama l’habitus cioè lo stile di vita. In altri termini per fare una virtù non basta un atto buono, occorre l’habitus cioè che l’atto sia ripetuto che diventi abitudine che diventi stile di vita. Io penso che anche questo sia importante nella nostra cultura dove non mancano alcuni atti buoni qua e la, ciò che manca è l’abitudine, lo stile di vita buono che non è fatto di una volta, di un gesto magari anche spettacolare che va a finire sulle prime pagine ma è fatto di uno stile quotidiano, feriale ma continuo. Questo è uno dei nuclei del concetto di virtù, richiama uno stile di vita quotidiano, ripetuto. Penso che di questo oggi c’è bisogno, non di qualche atto sporadico, magari anche generoso, ma di uno stile che diventi comportamento. Parlando delle virtù, un teologo milanese, Angelini, professore della facoltà Teologica di Milano di teologia morale, scrisse un libro dal titolo molto bello e dal contenuto ancora più denso: “Le virtù e la Fede”, dove la tesi che sostiene e che condivido è che in fondo c’è una sola virtù per i cristiani: è la Fede che per essere vera deve essere animata dalla Carità verso il prossimo. Allora che fine fanno le virtù? Che fine fa la speranza? La temperanza? La fortezza? La prudenza? E lì, spiega molto bene come sono dei tratti di incarnare l’unica virtù che è la Fede animata dalla Carità. Questo è un vantaggio, che da qualsiasi virtù si parta si arriva sempre al suo centro che è la Fede animata dalla Carità. Noi questa sera abbiamo scelto di partire dalla temperanza e va bene, ma fossimo partiti dalla giustizia saremmo arrivati alla fine del nostro discorso ancora al nocciolo; che è la Fede animata dalla Carità. Questo è anche una conseguenza importante e merita di essere sottolineata e cioè che una persona non può essere virtuosa in un aspetto e viziosa in un altro, non a livello molto superficiale perché se questo fosse vero a livello profondo, sarebbe in profonda contraddizione. Uno non può essere sincero e d’altra parte ladro, in superficie sono due cose diverse ma in profondità sono legate perché sono espressioni della stessa Fede animata dalla Carità. Quindi se uno è virtuoso in aspetto c’è da aspettarsi che questo sia espressione di una coscienza plasmata della Fede animata dalla Carità. Se uno è vizioso in aspetto importante c’è da temere che ci siano varie radici velenose, appunto perché questi vizi e queste virtù altro non sono che ramificazioni di una stessa radice. Mi sembrava importante accennare a questo discorso perché allora è da apprezzare anche l’iniziativa di questi incontri, il coraggio di recuperare la virtù come tema decente, cioè un tema per nulla inusuale ma di grande attualità proprio perché si sente la mancanza di uno stile. Cerco di delineare la virtù della temperanza. Cos’è la temperanza? Qui bisogna partire dal nome che per la verità non è molto usato, se si chiedesse anche ad un nostro ragazzo cosa vuol dire temperanza credo che dia risposte dispalate. Eppure offre già degli indizi la stessa. La temperanza richiama l’idea di una combinazione equilibrata di parti diverse, in un gioco armonico e utile, per esempio quando si parla di un clima temperato è quello che non è mai troppo freddo d’inverno e mai troppo caldo d’estate, sono due cose diverse, opposte che trovano un equilibrio. E così quando parliamo di temperamento di una persona, facciamo riferimento a quella mescolanza di doti e anche di limiti che trova poi un suo assestamento nella singola persona. Quindi è da subito un’idea di equilibrio, di una misura, di un ordine tra cose diverse. Così anche come quando si parla di metalli temprati, la tempratura si ottenga cambiando la temperatura del metallo, facendolo passare dal freddo al caldo, dal caldo al freddo di modo che ottenga una sua consistenza di durezza appunto tempratura. Allora perché ho fatto questa piccola digressione sull’etimologia del termine? Perché la prima idea che è da percorrere, è quella della temperanza come capacità di soddisfare con equilibrio, con misura direi istinti e desideri. Alla temperanza è quindi facile collegare altre virtù che la specificano, la completano, per esempio dicevo prima l’equilibrio, il senso della misura, l’ordine, l’autocontrollo, l’armonia. Mi sembrano tutti concetti, atteggiamenti che aiutano a dare forma, figura alla temperanza. La temperanza è la capacità che pian piano si acquisisce di essere equilibrati, avere un senso della misura. Allora qui si potrebbe dire: cosa centra il senso della Fede? Vi anticipo subito che qui la misura non è scelta o attinta chissà dove, la misura della temperanza è attinta dal Vangelo, dalla esperienza di Gesù. Per il cristiano temperante Gesù diventa l’unità di misura del suo comportamento. Ma detto così è ancora un po’ formale. Entro nella specificazione riferendomi ad un immagine biblica. Il libro della Genesi; Adamo, Eva, il dono di poter usufruire liberamente di tutto eccetto di quel frutto. Che cosa centra qui la temperanza? Centra perché nell’atteggiamento di Adamo abbiamo esattamente il contrario della temperanza. Quindi cerchiamo di ricavare la temperanza dal suo contrario. Adamo cede alla tentazione di soddisfare immediatamente il suo istinto, cede alla tentazione di provare tutto, di togliere ogni freno al desiderio. La temperanza è il contrario di un desiderio sfrenato, senza limiti che vuole provare tutto, in questo senso l’ immagine del bambino nella fase orale, dicono gli psicologi è quello che mette alla bocca tutto ecco, Adamo è in questa fase orale! Vuol provare, assaggiare tutto oltre la legge, il comandamento. Questa è la radice della intemperanza, il desiderio incontrollato. Allora non è un caso che nei dieci comandamenti il nono e il decimo riguardino il desiderio, e qui bisognerebbe apprezzare meglio questi ultimi due comandamenti che in genere vengono accantonati, il desiderio della donna d’altri, della roba d’altri … un po’ l’invidia. In questo caso non è l’invidia, non desiderare qui è proprio inteso come non lasciarti trasportare da un desiderio incontrollato, non fare del tuo desiderio, del tuo istinto la legge dell’agire. La temperanza allora vorrà dire che diventare temperanti vuol dire passare dalle voglie al volere. L’uomo intemperante è l’uomo che si lascia trasportare dalle voglie, dal desiderio incontrollato, dagli istinti. L’uomo temperante è quello che ascolta il desiderio, non lo cancella, non lo sopprime ma lo valuta, ci pensa, fa l’esame al desiderio secondo dei criteri che non sono semplicemente l’istinto. L’uomo temperante è quello che filtra il desiderio, non lo sopprime ma lo filtra, non si lascia trasportare dalle voglie ma è capace di volere e allora noi qui abbiamo il contrario di Adamo, il vero Adamo come lo chiama San Paolo: Gesù. E dov’è la pagina dove emerge la temperanza di Gesù? Nel deserto Gesù è provato, sente il desiderio della fame, del potere, della ricchezza. Eccome se lo sente! Ma non lascia che ad essere padrone della sua vita sia quel desiderio incontrollato; mette uno stop al desiderio. Sta scritto. Il desiderio deve confrontarsi con una legge. Società intemperante, allora voi capite come è importante questa declinazione della società. Una società intemperante è una società che non mette più argini al desiderio, dove non c’è legge che tenga la vince sempre il desiderio. Ma attenzione: quali sono le derive di un desiderio impazzito? Di un desiderio senza più regole? Io ne individuo tre; tre vizi che nascono dall’intemperanza e che riguardano le relazioni antropologiche umane, fondamentali: - - - Il desiderio impazzito verso le cose, diventa la voracità. Le cose diventano preda, bottino da conquistare: la voracità, l’avidità, tutta questa famiglia; desiderio quando non è controllato dalla temperanza; quando è intemperante; La relazione con gli altri. Qui qual è il fiume in piena di un desiderio impazzito? La prepotenza, il dominio, il pretendere di avere potere sugli altri. Perché c’è un desiderio buono di relazione che è la relazione con l’altro ma quando questo desiderio di relazione non ha limiti allora diventa possesso dell’altro. L’altro deve fare quello che desidero io; La relazione con Dio: cosa succede quando il desiderio di Dio non è più il desiderio di Dio, dell’assoluto, non è più controllato da una legge? Noi abbiamo il desiderio di Dio nel senso di voler diventare dei padri eterni. Quando questo desiderio non è filtrato dalla legge ci facciamo Padri Eterni. E’ quello che i sociologi chiamano i simboli di immortalità, cioè diventiamo padroni della vita. La mancanza di temperanza anche nel rapporto con Dio ha questa deriva. La figura dell’uomo temperante, è la figura del vero Adamo, di colui che di fronte a un desiderio impazzito, non pone le sue voglie come metro unico del suo agire ma la legge di Dio. Questo è importante non solo per la convivenza, ma anche per la virtù. Noi abbiamo un pregiudizio negativo nei confronti della legge perché vediamo sempre la legge come ostacolo alla libertà. Ci portiamo dietro questa prevenzione negativa nei confronti della legge, per cui se c’è la legge, non sono libero. E’ proprio vero il contrario. Nella rivelazione biblica, è la legge che ti guida la libertà! Questo già nell’Esodo quando il popolo d’Israele è liberato dal Faraone, senza una legge che fa? Si autodistrugge. Quando finalmente riceve le tavole della legge allora diventa libero. La nostra cultura ci porta in una direzione opposta. La legge è sempre comunque un male minore. Bisogna per forza! Altrimenti ci “scanniamo” ma potendo, si farebbe a meno. Facciamo fatica a comprendere il valore di molte pagine della Scrittura che esaltano la legge. La legge del Signore è più dolce del miele. Questo si capisce soltanto se si ha una visione positiva della legge. La legge è ciò che garantisce, altrimenti cosa sarebbe di un bambino se non avesse la legge della mamma che non deve mettere il ditino nell’interruttore della corrente? La legge salva la vita. È un elemento di una virtù della temperanza! Secondo punto: Vorrei mettere in evidenza un particolare nome della temperanza: la sobrietà. A questo punto sgombrerei il campo da un equivoco che la sobrietà abbia solo a vedere con l’avere. Avere la temperanza ha a che fare con l’essere e con tante delle dimensioni della persona. C’è il pericolo di ridurre il discorso della sobrietà a una forma leggera di povertà, ma mi pare appunto sia riduttivo, allora provo a svilupparla nelle sue diverse dimensioni (ne ho individuate sette o otto). Cosa vuol dire parlare di temperanza, sobrietà quanto all’essere? Quando uno è sobrio? Proprio in questa direzione avrei trovato un’altra espressione per dire la sobrietà nell’essere. L’autenticità e la contraffazione della sobrietà nell’essere a me pare apparire. Una persona non è sobria quando non è se stessa, quando appare in un modo diverso da quello che è, quando recita, quando si cala in ruolo, in una parte. Qui io vedo la sobrietà, la temperanza come l’autenticità, la verità e anche qui non faccio discorsi strampalati e ho deciso di adottare l’unità di misura sempre di Gesù. Questo non vuol dire che non si trovino atteggiamenti virtuosi paradossalmente a chi crede, questo è un altro discorso che bisogna comunque tener presente. Quando Gesù dice nel Vangelo di Matteo capitolo 23: “tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini, allungano le frange, amano i posti d’onore nei conviti, i primi seggi nelle Sinagoghe, i saluti nelle piazze come anche sentirsi chiamare rabbì dalla gente” e scrive un modo di vita inautentico, ipocrita, non sobrio. La sobrietà nell’essere a me pare, possa essere vista come autenticità e forse è questo il motivo per cui Gesù attirava le folle, lo percepivano vero non un teatrante e un attore. Sentivano che quello che era dentro era anche fuori, una corrispondenza. Ma la sincerità forse riguarda subito il dire, l’autenticità riguarda qualcosa più generale, riguarda l’essere e non l’essere sinceri soltanto nella parola ma di essere genuini. Temperanza espressa nello stile della genuinità. E’ evidente che per essere genuini occorre riconquistare anche la libertà da certi modelli, da certe mode. Essere condizionati troppo almeno da certi stili di vita. C’è anche una temperanza nel modo di pensare a se stesso. Qui chiamo sobrio una persona umile, modesta, che non esagera quando pensa a sé, la temperanza qui è l’avere un concetto troppo alto di sé che è la superbia, l’avana gloria. Sono partito da una virtù e vedete quante ne abbiamo recuperate nel cammino. La temperanza ha il senso della misura da pensare anche a se stessi e anche qui c’è qualcosa mi pare che il Vangelo ci dice in proposito, quando Gesù disse: “Ti benedico Padre, Signore del cielo e della terra perché hai tenuto nascosto queste cose ai sapienti, agli intelligenti e le hai rivelate ai più piccoli, si Padre perché così è piaciuto a te, tutto mi è stato dato dal Padre mio, nessuno conosce il Padre se non è il Figlio”; quindi la temperanza, l’equilibrio, la moderazione, quello che volete voi, verso se stessi si esprime in termini di umiltà. C’è connesso un aspetto importante, la convinzione per il cristiano che il tesoro stia nel piccolo; la riconquista del tema della piccolezza vanta intemperanza, hanno un’idea smisurata di sé, stonano, vedi che manca equilibrio nel giudicarsi. Il monito di Gesù sempre in Matteo 23: “non fatevi chiamare maestri perché uno solo è il vostro maestro, non abbiate un’idea troppo alta di voi stessi”. Veniamo a una terza declinazione della temperanza e della sobrietà: quella dei rapporti verso gli altri. Allora qui sì direi la sincerità, la schiettezza, la paresia cioè l’essere franchi. Nella Bibbia spesso questo aspetto della sobrietà è chiamato semplicità. La persona semplice è la persona schietta, senza giri di parole. Aspetto importante della temperanza è il contrario della doppiezza. Si riconnette un po’ a quello che si diceva all’inizio solo che “la” era nei riguardi di sé, “qui” è nel confronto/relazione con gli altri. Nuoce alla temperanza ogni forma di doppiezza, la dicotomia tra il pensare e il parlare. Tutto questo a me pare che possa essere connesso a quella forma di sobrietà che si può chiamare franchezza. La sobrietà anche nelle relazioni, negli affetti. Che cosa vuol dire essere sobri negli affetti? Non vuol dire non amare. La sobrietà negli affetti la chiamerei delicatezza, altra dote e virtù rara. Quando io amo una persona, quella persona non deve essere il complemento oggetto: io voglio bene a …, quando io voglio bene a … rinuncio a catturarlo, invece, amare nel senso possessivo del termine, riduce l’altro a preda del mio amore, soffocamento. Anche su questo ci sarebbe da dire, non ha dimenticato naturalmente l’amore ma forse si è eclissata questa misura e qui non si tratta di amare un po’ di meno ma si tratta di amare senza soffocare l’altro. Ad esempio nei rapporti con i genitori e figli, quando i rapporti saltano perché uno si sente soffocato. Allora qui la temperanza non è amare di meno, ma amare con delicatezza, con discrezione che è di più della buona educazione. Quando una persona è discreta vuol dire che ti vuole bene ma non ti pesa, non ti soffoca, non ti cava il fiato. Penso che qui stiamo già lavorando di cesello? Eppure nella nostra società vive nella discrezione. Ancora vedo un modo di essere equilibrati. Se non vi piace la parola temperanza, sempre nel rapporto con gli altri, ma anche nel modo di comunicare e come chiamerei quella forma di comunicazione sobria? La chiamerei una comunicazione semplice che non ricorre a inutili complicazioni. Qui devo citare un aneddoto che si addice a questo aspetto della temperanza, della sobrietà; si racconta che Papa Giovanni, aveva un modo semplice di parlare per questo arrivava alla gente. Si dice che dopo la sua elezione si accorse che l’Osservatore Romano diceva i discorsi che lui faceva, le udienze così, con questa formula di rito: “Come abbiamo potuto raccogliere dalle auguste labbra di Sua Santità …”. Cominciava sempre così e al caporedattore dell’Osservatore Romano gli disse: “Da domani lasciate perdere queste sciocchezze e dite semplicemente il Papa ha detto…” Io rimango sempre allibito quando per cinque anni della mia vita non ho fatto altro che studiare e mi capita ancora adesso di prendere in mano dei volantini, non di medicina o di chimica o di biologia ma cose anche di teologia e non capisco una parola. Bisognerebbe utilizzare un linguaggio non sciatto, ma semplice. Capisco che ci sono degli ambiti specifici: è ovvio che se stanno facendo un convegno dei medici che stanno sperimentando una tecnica nucleare useranno dei termini tecnici e li capisco, ma non nella comunicazione pubblica. C’è una temperanza e una sobrietà anche nella preghiera, nel rapporto con Dio. Dal Vangelo, Gesù dice: “Quando preghi, entra nella tua camera, chiusa la porta prega il Padre tuo nel segreto e quando pregate non sprecate parole come i pagani”. Certo che bisogna pregare e parlare, Gesù lo dice sempre ma non c’è bisogno di continuare a parlare, ma anche qui la confusione tra la preghiera e il multiloquio è il continuare a parlare. Talvolta la parola è fatta solo di gesti, di sguardi. Ecco, quindi non soltanto in un discorso pubblico vale quanto si diceva. Sant’Ignazio direbbe qui “Non multa sed multum”, tante cose ma intensamente una cosa chiede la sapienza e direi questo è anche il principio cardine della temperanza. Non tante amicizie ma sode, profonde. Non tanti libri ma qualcuno assimilato. Non tanto, il come è più importante del quanto! La temperanza sposta l’accento dal tanto al come. La parte anche della semplicità di Gesù, quando deve inventare la cosa più alta che ci sia ovvero il sacramento della sua presenza prende due cose semplicissime. Sobrietà dell’avere e anche qui non sto parlando di cose facili. La sobrietà nell’avere vuol dire combattere l’assioma secondo cui: consumo dunque sono. E’ basata su questo assioma! Se consumi sei, sei nella misura in cui neanche hai. Sobrietà è contestazione di questo assioma, tu non sei né quello che hai né quello che consumi! D’altra parte l’uomo consumatore, l’uomo vorace, l’uomo che verso le cose ha un approccio da predatore. Questo è l’uomo oggi. Questa dimensione è una cosa ridicola se non fosse drammatica! Questa è un’immagine significativa nella nostra società, della mancanza di temperanza, di un rapporto consumistico con le cose, l’accumulazione che poi crea conflittualità. La temperanza combatte la tendenza all’accumulo, al possesso, ai falsi bisogni e allora come è in positivo la sobrietà? Direi due a dire la sobrietà nell’avere, la libertà dalle cose che vuol dire che le uso le cose! Nella Bibbia quando il re Nabuccodonosor chiama Daniele e gli dice: “Ora se tu mi interpreti questo sogno io ti riempio di …”. Quindi una è la libertà, l’altra è il dono. Nella società dove esisto se consumo, entriamo nella direttissima che dalla temperanza ci porta alla carità. C’è anche una sobrietà, una temperanza nel vivere il tempo che ci manca tanto. Oggi ci vantiamo di essere sempre di corsa, magari fingiamo di essere dispiaciuti, ma se non siamo di corsa ci sembra che non facciamo niente. È paradossale ma è proprio così. Alla domanda “come stai?”, spesso si risponde:“sono stanco”. E se non dici sono stanco cosa fai al mondo? Quindi devi dire obbligatoriamente che sei stanco! Bisogna far pace con il tempo. Anche nella carità, il giorno del giudizio non ci verrà chiesto quanti ne hai vestiti, quanti ne hai sfamati. Quando una casa è sobria? Ci sono delle case che mi capita di vedere di amici, che io dico: “sono bellissime ma io non ci vivrei mai”. L’equilibrio e la temperanza è che qui hai il tuo spazio, qui è ovvio che per tutti non è lo stesso! La virtù non si può comandare dall’alto. Si possono dare delle indicazioni, poi ciascuno si deve adattare, a sé, alla propria vita. Concludo con una storiella che ho raccolto, non è mia, ma è bella, simpatica e ci tira su un po’ dalla settimana di lavoro sempre di corsa. In questa storiella, c’è un gatto greco protagonista di nome Biàs, viene cacciato dalla sua isola e al momento di imbarcarsi gli chiedono: “Ma parti senza bagagli?” risponde con fierezza: “Omnia mea mecum” porto tutte le cose con me! Qui c’è dentro tutto, sua moglie, i suoi desideri … omnia mea mecum! Quindi mai caricarsi eccessivamente di pesi: diceva un ospite a Santo Stefano Rotondo, lungo un bel litorale, lei aveva pensato tra le prime case di accoglienza per malati e le si presenta un ricco e disse: “Ci devo pensare per non mettere a disagio questi ragazzi”. Un signore si è sentito in dovere di dire: “Madre, lei lo prenda poi vedrà. L’occasione non è da perdere” e lei molto seriamente non seccata perché non era capace di seccarsi ma seriamente disse: “Ciò che non serve, mi pesa”. Immagine della temperanza! Trascrizione della relazione non rivista dall’autore.