L’empirismo è una corrente di pensiero anti innatista e avversa al razionalismo deduttivo di stampo cartesiano che attribuisce all’esperienza sensibile un ruolo centrale nel processo gnoseologico e si sviluppa in Inghilterra a partire dalla seconda metà del 1600 soprattutto con Locke, Hume e Berkeley. Thomas Hobbes (1588 – 1679): sebbene gl’interessi principali del pensiero di questo filosofo siano rivolti alla politica, che ritiene di poter fondare su basi prettamente fisiche e matematiche, anch’egli pensa che tutto ciò che esiste sia empirico e materiale, ovvero res extensa, pure quello che ci sembra spirituale (la coscienza, la memoria, il dolore, dio, ecc.). La realtà per H. non é altro che un insieme di corpi, la cui caratteristica é la misurabilità in termini matematici, e di movimenti di corpi, per cui si può avere vera scienza solo di ciò che può essere studiato in termini fisici e matematici. Su tale fisica radicalmente meccanicistica H. costruisce il suo pensiero in cui tutto è riconducibile ad estensione e movimento, che è la causa dei fenomeni, e a null’altro. Anche le sensazioni e i concetti sono caratterizzati da una natura esclusivamente materiale poiché sono frutto del movimento dei corpi che entrano in contatto con i nostri organi sensoriali. Questa concezione porta H. a sostenere un rigido nominalismo in quanto per lui non esistono universali o essenze metafisiche, come sosteneva la filosofia antica, ma solo nomi dati alle immagini mentali che l’uomo possiede. John Locke (1632 – 1704) oltre ad essere un grande pensatore politico, tanto da essere ritenuto il padre del liberalismo, è un esponente importante dell’empirismo inglese ed il primo filosofo che ritiene la gnoseologia (come si conosce) il problema centrale della filosofia moderna. Egli attribuisce grande rilevanza alla ragione umana, definendola una candela che illumina il cammino degli uomini, tuttavia non la reputa onnipotente, né può arrivare con la sua luce ovunque, come diceva Cartesio, anche se é l'unico mezzo di cui l'uomo dispone nella sua indagine esistenziale. La ragione è dunque limitata nel suo operare e deve avere consapevolezza dei suoi limiti, altrimenti si convince di poter comprendere tutto, anche la metafisica, che invece l’uomo non potrà mai capire pienamente. D’altronde a L. non interessa conoscere enti supremi e improbabili, bensì quelle realtà che hanno più a che fare con la vita umana di tutti i giorni. Infatti per lui la filosofia deve concretamente servire a risolvere i problemi umani di tutti i giorni, non a costruire impianti metafisici, o esplorare dimensioni immaginifiche piene di incertezze irrisolvibili. L. é figlio pieno del pragmatismo e della tradizione empiristica inglese. Egli critica con decisione anche le idee innate, che per lui non esistono in quanto ogni nostra idea deriva solo dall’esperienza, la quale imprime sul nostro intelletto, considerato una sorta di foglio bianco (come x Aristotele), i suoi segni. L. considera l’innatismo la principale causa di fanatismo, pregiudizi ed intolleranza, in quanto gli innatisti, convinti del carattere assoluto, incontestabile e eterno dei principi che professano, rifiutano a priori di confrontarsi su idee diverse, bollandole come eretiche e pericolose. Pure l’assolutismo regio è figlio dell’innatismo. D’altra parte se esistessero, tutti gli uomini le dovrebbero possedere allo stesso modo, mentre, per esempio, presso alcuni popoli vigono certe regole morali o certe idee della divinità che presso altri non hanno valore o sono addirittura immorali. La filosofia deve dunque analizzare empiricamente le idee mostrandone la nascita e la genesi con la consapevolezza che non può però farci conoscere più di ciò che è esperienziale. Secondo L. la nostra conoscenza inizia dalle idee semplici, non decomponibili e modificabili, quali ad esempio l’impressione visiva di un colore o la sensazione tattile che proviamo toccando un corpo, o un odore, ecc. Quando la mente umana percepisce le idee semplici è passiva, ovvero solo ricettiva, ma quando le ripete, le confronta, le associa, le mescola, quando insomma ragiona, allora diventa attiva e capace di produrre nuove idee, ovvero le idee complesse. Ci sono infine le idee generali (l’albero, il cane, l’uomo, ecc.) che nella realtà non esistono in quanto sono segni che riassumono i caratteri comuni di una specie, di una categoria di cose, ecc. L. sostiene che vi sono tre tipi di conoscenza: per sensazione, per intuizione, per dimostrazione. Nel primo caso non possiamo essere sicuri che le idee che si formano nel nostro intelletto corrispondano esattamente alla realtà, anche se capiamo, grazie alle nostre sensazioni, che al di fuori di noi c’è una sostanza (una materia o sostrato – la chora platonica -) che è percepibile tramite i sensi: cosa sia questa sostanza, però, non è possibile saperlo con rigore, perché si percepiscono solo i suoi derivati, cioè le cose di cui abbiamo sensibilità (gli oggetti) che ne sono manifestazioni individuali. Nella conoscenza per intuizione (assiomi matematici, il fatto che esistiamo, che il caldo non sia freddo, che il bagnato non sia asciutto ecc.) abbiamo il modo più certo di conoscere in quanto non occorre dimostrarla. La conoscenza per dimostrazione riguarda le scienze matematiche, ma anche Dio: infatti L. lo dimostra sostenendo che, siccome io so con certezza di esistere, e tutto ciò che esiste esige una causa, bisogna ammettere una causa prima creatrice, che è appunto ciò che noi chiamiamo Dio. In definitiva per L. solo tre ordini di realtà possono essere definiti certamente esistenti: la materia (per sensazione), l’io (per intuizione), Dio (per dimostrazione). George Berkeley (1685-1753) muove dall’empirismo di Locke per negare l’esistenza della sostanza (sostrato), e sviluppa una forma di empirismo radicale conosciuto con il nome di immaterialismo. Concordando con la tesi empirista secondo cui prima vengono le percezioni sensoriali poi le idee, egli afferma che nulla esiste al di fuori dell’uomo: un ente esiste in quanto è percepito: “Esse est percipi” (essere è essere percepito). In pratica, B. nega l'esistenza in sé della materia (sostanza), che riduce a una semplice percezione, e del mondo, che considera semplicemente come una rappresentazione umana. Ovviamente per lui non esistono nemmeno idee astratte ed esterne all’uomo, ma solo nomi a cui si dà erroneamente valenza esistenziale. Nega, inoltre, l’esistenza di qualità primarie, cioè oggettive, dei corpi, perché sostiene che tutte le qualità sono sensibili e soggettive. Non c’è nulla di oggettivo, nemmeno la res extensa cartesiana, e non c’è nulla che esista al di là di ciò che è percepito dall’uomo. Se la materia non esiste al di fuori della percezione umana, si potrebbe obiettare che ogni cosa, dal momento in cui non è percepita, smetta di essere. La stessa natura non esisterebbe se non vi fossero gli esseri umani a percepirla. B. non sostiene tale ipotesi, però, perché è uomo dotato di profonda fede: crede infatti fermamente in Dio e afferma che tutte le cose esistono sempre nella mente di Dio. Dio è lo spirito supremo e assoluto che percepisce ogni cosa infinitamente e illimitatamente, mentre la percezione umana è saltuaria, mutevole e temporanea. Dio così funge da garante supremo per l’esistenza del creato, a prescindere dalla percezione umana. Le leggi naturali non sono che decreti divini che dominano il mondo. L’uomo deve limitarsi a scoprire tali leggi tramite l’esperienza, senza pretendere di spiegare il perché dei fenomeni fisici, che non hanno una ragione necessaria di essere, ma solo accidentale e dipendente dalla oscura volontà divina. Con la sua concezione di Dio, egli mira a contrastare il materialismo tendenzialmente ateo della sua epoca. David Hume (1711 – 1776) è un altro empirista, e porta all’estremo l’empirismo stesso tanto da cadere in uno scetticismo totale. La sua opera più nota è il “Trattato sulla natura umana” con cui egli vuole fondare una scienza su basi sperimentali. Per H. tutte le scienze rinviano all’uomo, ai sentimenti, istinti, capacità conoscitive e facoltà di cui è in possesso. Ogni cosa esistente, ogni valore a cui attribuiamo peso, dipende esclusivamente dalle esperienze che caratterizzano la natura delle nostre facoltà umane. H. giunge a dire che tutti i contenuti della mente umana sono solo “percezioni”, ovvero ciò che si presenta al nostro intelletto come sensazione, emozione, riflessione ecc. Le percezioni sono di due tipi: le impressioni e le idee. Le impressioni sono tutte le sensazioni, passioni, emozioni colte nel momento preciso in cui vediamo, sentiamo, amiamo, desideriamo, ecc. Le immagini indebolite e sbiadite di quelle impressioni sono invece le idee o pensieri. Ogni idea deriva per H. dalle precedenti impressioni e non vi possono essere idee di cui non si sia avuta in precedenza l’impressione: solo quest’ultime sono originarie. Le idee che si raccolgono nella nostra mente rappresentano il ricordo delle nostre esperienze; esse tendono ad associarsi tra loro e a creare idee derivate di tipo astratto che non esistono nella realtà, ma solo nella nostra testa: vedendo tanti cavalli nella realtà, io mi formo in testa l’idea astratta, ovvero il vocabolo o nome “cavallo” che li raggruppa tutti, anche se non corrisponde a nessun cavallo in particolare perché non esiste un cavallo uguale per tutti. Si forma così in noi l’abitudine di considerare unite tra loro le molteplici idee indicate da un unico nome. Noi passiamo facilmente da un’idea ad un’altra che le assomiglia (per es. una foto ci fa venire in mente il personaggio che rappresenta); oppure da un’idea ad un’altra, che abitualmente si è presentata a noi come connessa alla prima nello spazio e/o nel tempo (per es. l’idea dell’accensione di un’auto mi suscita quella della sua partenza); l’idea di causa mi richiama quella di effetto e viceversa (ad es. quando penso al fuoco sono portato a pensare al calore o al fumo o alla luce che determina). Tuttavia secondo H. causa e effetto sono idee tra loro ben distinte, nel senso che nessuna analisi dell’idea di causa, per quanto accurata, può farci scoprire a priori l’effetto che ne deriva. Il fatto che anche oggi sia sorto il sole, come ha fatto ieri e sempre, non implica che esso sorgerà necessariamente anche domani. Simili previsioni hanno per H. un presupposto: la credenza che il corso della natura si mantenga costantemente uniforme e che il futuro sia sempre conforme al passato. Questa credenza, tuttavia, è una pura ipotesi che trae origine solo da un’abitudine o costume o consuetudine che ci porta a proiettare nel futuro ciò che è avvenuto tante volte nel passato e a dare per certa la sua ripetizione. L’idea di causalità perde così per H. ogni valore razionale, dimostrativo, oggettivo e ne acquista uno per così dire emotivo, sentimentale, arazionale: ha solo un valore pratico e utilitario, in quanto permette all’uomo di organizzare in modo più efficace i propri comportamenti. Ugualmente gli oggetti che ci sembrano reali non sono altro che un fascio di impressioni e di idee, quindi sono sempre e soltanto soggettivi. Anche l’io non è che un fascio di impressioni che solo la nostra immaginazione associativa raccoglie in unità. In pratica H. smonta l’esistenza oggettiva di ogni cosa e sfocia ovviamente in uno scetticismo totale che lo porta a non avere certezze universali in nulla. Per H. l’uomo non può pretendere il raggiungimento di un sapere assoluto e deve abbandonare l’ambizione di possedere verità indiscutibili, che sono invece solo credenze e pregiudizi condivisi. In ambito morale e religioso H. resta nello stesso modo di pensare in quanto religione e morale non si basano su principi assolutamente certi e universalmente validi, ma su sentimenti, passioni e credenze degli uomini, sulla necessità di convivere insieme in una società (da qui morale e giustizia), sulla paura della morte e dei fenomeni inspiegabili (da qui creazione della religione e del concetto di dio). Con H. in definitiva si giunge sia ad uno scetticismo fisico che metafisico perché l’esperienza su cui egli fonda tutta la conoscenza costituisce da una parte un limite che non permette di affermare nulla al di là dell’esperienza stessa, dall’altra non ammette nemmeno il costituirsi di una scienza della natura, perché scienza è conoscenza del necessario e dell’universale, mentre l’esperienza può fornire solo il particolare e il contingente.