1 Quarto Capitolo Mistica Orientale e mistica Occidentale quale rapporto? Uno dei punti centrali di questo capitolo è di attraverso alcuni concetti arrivare alle somiglianze tra le mistiche, partendo dall’idea che la mistica è unica, ma sono i diversi contesti culturali in quali nasce e ovviamente sono diverse, o come direbbe Panikkar del mythos in cui si vive. Ovviamente tutte hanno in comune le caratteristiche essenziali che li rendono, li permettono, di essere chiamate “la mistica”. Esistono dei punti che sono comuni nelle mistiche a prescindere dalla tradizione e dal tempo, essi appartengono a quella caratteristica per quale un fenomeno, più o meno straordinario, si può associare all’esperienza mistica, in quanto la razza, territorio, non gli limita di essere chiamati, di essere presentati nello stesso ambiente etnico culturale1. Alcune differenziazioni portano alla necessità dell’essenza unitaria della mistica che ha compito di comprendere questa “essenza” unitaria che si manifesta nelle possibilità delle sue molteplici determinazioni singole. Questo porta a rimuovere il pregiudizio di “una mistica sempre uguale”. «L’essenza della mistica può scaturire soltanto dalla pienezza delle sue possibili differenziazioni»2. R. Otto parte con l’idea delle differenti mistiche, ma poi attraverso le somiglianze dei fenomeni e dell’vissuto, dei mistici che studiava, arriva alla conclusione che tra mistica orientale e quella occidentale ci sono alcuni concetti comuni. Otto si immerge nello studio del misticismo di Meister Eckhart, anche se giudicato e condannato dalla Chiesa ufficiale, è rappresentante maggiore della mistica occidentale, mentre secondo, Śankara, gode il ruolo del rappresentante maggiore della Advaita3, la dottrina della non-dualità, nata in India.4. 1 Cfr. R. OTTO, Mistica orientale, mistica occidentale, Marietti, Casale Monferrato, 1985, 3-8; A. TRIONE, Mistica impura, 33. 2 R. OTTO, Mistica orientale, mistica occidentale, 3. 3 Subito dall’inizio è importante ribadire che l’Advaita non significa monismo, come spesso è tradotta in occidente, ma non-dualismo. Essa, in maniera semplificata, può essere riassunta così: soltanto l’Essere è veramente esistente, esso è immutabile, senza alterazione e cambiamento, senza parti o molteplicità. Eternamente Uno è nello stesso tempo Atman - assolutamente spirito, pura coscienza, assolutamente puro conoscere, e in quanto tale è anche anatman – infinito, e fuori dello spazio e dal tempo. In: R. PANIKKAR, «Advaita e Bhakti», in Humanitas 8, (1965, II) 991; R. PANIKKAR, L’esperienza di Dio, 62-63. 4 Cfr. R. OTTO, Mistica orientale, mistica occidentale, 13. 2 «La nostra anima, o “Atman interiore”, non è altro che questo stesso unico Brahman, eterno, senza mutamento senza determinazioni. Per la enigmatica potenza della māyā ha origine nell’anima la Avidyā, il non sapere. Attraverso essa all’unico essente viene ingannevolmente sovrapposta (adhyāropa) la molteplicità del mondo. Così l’anima guarda l’essente, che è in effetti uno solo, come mondo, come molteplice, come molte singole cose, e guarda se stessa come anima singola, impigliata nel samsāra, nel corso di questo mondo mutevole, nella catena delle nascite e delle rinascite. Ma quando le giunge la samyagdarśanam, la vera, completa conoscenza, allora si dissolve l’illusione della molteplicità e della differenza. Essa si riconosce e si sa come lo stesso Brahman, eterno»5. Secondo R. Otto la mistica di Eckhart è quasi identica a quella di Śankara. Tutti i due autori sostengono che all’inizio era Uno/in principio. Quello che è un rapporto di primarietà logica, l’occhio primitivo lo coglie inizialmente in modo temporale, come l’origine primordiale, come ciò che esiste in ogni inizio temporale. Ma quello che per l’occhio ingenuo è una relazione di ordine cronologico, appare all’occhio più esperto di ordine logico. Pur tuttavia si mantiene fermo in tale trasformazione il vecchio termine ingenuo, giacché “principale” significa proprio letteralmente “iniziale”. Per Śankara come per Eckhart questa trasformazione è compiuta. Il termine in principio permane in Eckhart, ed è, insieme all’“essere” il segno di riconoscimento della sua posizione. “Conoscere le cose in principio, nella loro origine, nel loro principio”, ovvero conoscerle, “in Dio”, nella eterna unità della loro essenza di principio, dove ogni idam, ogni così e così, ogni hic et nunc, ogni molteplicità, ogni dualità, è eterna unità. Lui vede questa unità come Esse che equivale al Sat, l’essente e essere stesso 6. Per tutti e due autori l’essere eterno, che è uno non diviso, non molteplice, il Sat è Brahma, è il Dio. Lo stesso come in tutti e due possiamo trovare la distinzione tra Dio personale e la Divinità che è al di sopra, è universale7. Un'altra somiglianza tra questi due autori consiste nella concordanza nel metodo per raggiungere la salvezza. Essa ci porta verso la concordanza della loro “mistica”8. (VIDI KOJI JE TO METOD) La bellezza dell’esperienza mistica si manifesta nella sua capacità di molteplicità. Ciò permette che i suoi contenuti possono variare 5 R. OTTO, Mistica orientale, mistica occidentale, 14. Cfr. R. OTTO, Mistica orientale, mistica occidentale, 14-15. 7 Cfr. R. OTTO, Mistica orientale, mistica occidentale, 18-22. 8 Cfr. R. OTTO, Mistica orientale, mistica occidentale, 35. 6 3 singolarmente. Gli stati d’animo e i sentimenti con cui muove i cuori possono distinguersi tra loro ed essere diametralmente opposti. Non raramente essi si combinano; a volte richiedono un completamento e una compenetrazione reciproca. Forse, insieme, rappresentano l’ideale dell’esperienza mistica, e forse esiste fra di loro una connessione essenziale segreta che il mistico stesso vede e ritiene ovvia9. Esistono due vie o visioni di mistica, ma tra di loro c’è un vero e proprio contrasto. Mistica della “visione interiore”, ovvero dello sprofondamento in se stessi, è il primo tipo. Discesa in se stessi per arrivare nell’interiorità all’intuitus, e qui trovare l’infinito, o Dio, o Brahman: ātmani atmānam ātmanā. Questa via è molto centrata su se stessi mentre lascia il mondo in secondo piano. Qui vale soltanto “Dio e l’anima”, e questo intuitus procederebbe avanti, anche se non vi fosse affatto un mondo, anzi, sembra che senza esso andrebbe anche molto più facilmente10. Mistica della “visione dell’unità”. Essa è la via di unità contro la molteplicità degli oggetti. È caratterizzata di non aver bisogno di una propria mistica dell’anima. Essa guarda al mondo delle cose nella sua molteplicità. E di fronte ad essa si sviluppa, dalla profondità della disposizione mistica, una “visione” o una “conoscenza” di un tipo estremamente particolare, che noi possiamo prendere per una curiosa fantasia o per profondo sguardo nella realtà eterna. Per essa è caratteristico che come l’inizio di speculazione è apparsa sia in India che in Grecia. Secondo Otto, quello che si chiama la scienza greca non sarebbe null’altro che la visione mistica. Il suo specifico è che non dipendere da una dottrina, non è nata da considerazioni razionali o da un impulso naturale casuale o da un desiderio scientifico. Possiamo dire che il suo sorge è “come una rivelazione”, se si hanno le circostanze, si crea la condizione di apertura dell’“occhio celeste”11, o se parliamo nelle nostre categorie precedenti possiamo dire del terzo occhio. La mistica del “visone dell’unità” si divide in tre gradi. Il primo grado, chiamato anche grado inferiore, con lo sguardo contemplativo cerca di “eliminare” la molteplicità, separazione, divisione. Questo mette il contemplante nella condizione di vedere tutte le cose in unità, dunque essi diventa una sola cosa con il contemplato e vede le cose in sé. Questa unificazione non è ancora perfetta perché ancora non è 9 Cfr. R. OTTO, Mistica orientale, mistica occidentale, 44-45. Cfr. R. OTTO, Mistica orientale, mistica occidentale, 45. 11 Cfr. R. OTTO, Mistica orientale, mistica occidentale, 46-47. 10 4 l’unificazione con “Dio”, ma del sé con l’oggetto del mondo ideale, visto nella unità. (DODAJ NOTU) Il secondo grado, il molteplice che viene visto come l’uno ci porta verso una visione dell’unità. Così la molteplicità si trasforma nell’unità e l’unità diventa molteplicità. (DODAJ NOTU) Il terzo grado, attraverso questo passaggio quello che aveva iniziato come forma del molteplice diviene l’essenziale, vuol dire al di sopra del molteplice, dopo di che con piccolo passo avanti si trasforma in opposto – molteplice. Contemporaneamente accade che si trasforma il senso letterale di unità e uno. Mentre prima, “unità” e “essere uno”, significavano la sintesi del molteplice, che sempre rimaneva la sintesi, da questa unità sintetica, da questo unum nel senso di unito, si ha adesso una unità nel senso di unicità. Come afferma Otto, dall’unito deriva l’unico, l’esclusivo. (DODAJ NOTU) Nello stesso tempo, come in Śankara, il rapporto di immanenza originaria, l’immanenza della unità nelle e alle cose, poi l’immanenza delle cose nell’unità, si rovescia nella completa trascendenza. Il regno del molteplice è ora il contrario pieno e negativo del regno dell’uno; è mithyājnāna e bhrama (errore). In Eckhart, conformemente alla particolarità della sua speculazione, permane la vivente immanenza dell’uno che “si comunica”; ma, insieme, al di sopra di questo, si eleva l’Uno in trascendenza ugualmente assoluta nel “silenzioso deserto della Divinità”, nel quale non è mai giunta distinzione o molteplicità. In lui il secondo grado permane legato al terzo12. (SREDI NOTU) Pensando allo yoga, che è anche molto presente in occidente, e senso in cui essa è percepita come mistica, è possibile fare confronto tra mistica orientale e mistica occidentale. Le possiamo descrivere come la “mistica dell’anima”, oppure come l’esaltazione del senso numinoso dell’anima. Ogni alta “fede” contiene una fede nell’“anima”. Una tale fede diventa mistica nella misura in cui si avverte il “totalmente altro” dell’ātman, il carattere mirabile e il segreto supermondano dell’anima, e dunque nella misura in cui divengono vivi gli elementi numinosi dell’essenza dell’anima, latenti in quella “fede nella anima”13. La mistica può essere mera mistica dell’anima, come nello yoga e nella dottrina buddhista. Ma la mistica dell’anima può anche legarsi con quella di Dio, in modo che ne risulti un altro tipo di mistica, assolutamente a sé. Eckhart e Śankara mostrano proprio questo tipo. Perciò si può dire che 12 13 Cfr. R. OTTO, Mistica orientale, mistica occidentale, 46-55. Cfr. R. OTTO, Mistica orientale, mistica occidentale, 137. 5 appartengono allo stesso tipo di mistica. Come abbiamo visto, anche in Śankara la mistica dell’ātman è fondamento e schema della costruzione. Quasi ancora di più lo si potrebbe dire per Eckhart14. Si può dire che l’esperienza mistica anche nell’induismo come nel cristianesimo avviene improvvisamente, senza una preparazione. Questo ci permette a dire che le esperienze mistiche in tutte e due religioni sono le esperienze che uno non aspetta ma che vengono dall’alto, da qualcosa inspiegabile alla nostra ragione15. «Il fondamento di ogni religione, infatti, è un sentimento irrazionale di terrore (il terrificante, tremendum), che non va associato allo spavento: esso è inscindibilmente legato a una rêverie sorretta da fascinazione, dal senso del meraviglioso, dallo stupore»16. 1. Filosofia e mistica Abitualmente si può sentire che tra mistica e metafisica vi sia un’opposizione radicale. Così la metafisica è descritta come l’opera della ragione, mentre la mistica è opera del sentimento, e siccome tra queste due, dicono, non corre buon sangue, tra metafisica e mistica è scavato un abisso insuperabile. Grazie ai nostri autori possiamo dire che queste affermazioni sono poco credibili e che mistica non sia un semplice appannaggio del sentimento o dell’emotività. Ma essa è un guadagno logico-metafisico. Sopra detto ci permette di affermare che la vera mistica non può essere altro, che speculativa17. Proprio per questo abbiamo desiderato cercare il rapporto che c’è tra filosofie e mistica. Seguendo alcuni pensieri, in particolar modo quelli cristiani cattolici, si arriva al punto che la mistica è un dono soprannaturale e non sta allo stesso livello con la filosofia. Dall’altro lato ci sono anche studiosi cristiani per i quali il rapporto tra filosofia e mistica è qualcosa ovvio. In modo particolare questo è evidente nella mistica neoplatonica, quale, eccetto il platonismo, ha un posto principale, ma che configura proprio come un’esperienza dell’Uno che è al dì spora di ogni filosofia, e immediatamente come una grandiosa esperienza mistica. Il rappresentante più eclatante, di questa linea, è Plotino. Lui distingue l’Uno al primo Uno che è Uno in senso proprio e il secondo Uno oppure l’Uno molteplice, e il 14 Cfr. R. OTTO, Mistica orientale, mistica occidentale, 137. Cfr. C. CONIO, Mistica comparata e dialogo interreligioso, 144. 16 A. TRIONE, Mistica impura, Il Melangolo, Genova 2009, 29. 17 Cfr. G. BARZAGHI, «I fondamenti metafisici della mistica», 339. 15 6 terzo uno che è uno e molteplice18. «Senza alcun dubbio Plotino considera l’ordine mistico come meta morale e meta-religioso»19. Nelle sue riflessioni, ugualmente quanto si occupa di filosofia anche tiene conto delle esigenze spirituali del suo tempo, in cui si scontravano vecchie e nuove forme religiose, superstizioni e credenze di ogni tipo. La sua epoca si può descrivere come quella della grave crisi, e ovviamente in un periodo del genere si sentiva un profondo bisogno di “salvezza”, Plotino tiene fermo il primato del logos e offre, con la sua filosofia, un itinerario di “salvezza razionale” veramente universale. Proprio a questo bisogno di salvezza risponde l’esigenza primaria del pensiero, quella di trovare l’Uno. Oggi, l’Uno potrebbe essere descritto con la parola l’Assoluto, il terreno solido dell’essere, cui anela l’anima nel suo continuo movimento. Smarrita nel divenire, incapace di trovare il principio di se stessa, l’anima vaga per il molteplice, e non può trovare pace se non compie il cammino di ritorno alla sua origine, che è appunto l’Uno20. Mi sembrava importante riportare in evidenza l’opinione che, in qualche maniera, è comune sia per la mistica cristiana sia quella plotiniana. Esso riguarda la contraddittorietà di parlare su ciò di cui, a rigore, non si potrebbe neppure parlare, questa contraddizione tocca tutta la teologia “negativa”. Di questa contraddizione, in genere, soffre il linguaggio mistico. Plotino è il primo a comprenderlo e, come il suo maestro Platone, sa bene che la parola, soprattutto quella scritta, non rende ragione della verità, e che solo il silenzio sarebbe adeguato all’esperienza dell’Uno. Il comune è desiderio di comunicare questa esperienza, tentare di spiegarsi. Questo spinge il mistico di non aver paura della contraddizione21. (+PANIKKAR I NESTO IZ INDIJA) L’affermazione precedente ci fa capire che l’Uno, di Plotino, può essere colto soltanto con l’atto sovrarazionale di estrema “semplificazione” (áplosis), semplicemente detto, alla riduzione all’unità di noi stessi; o a volte chiamata “estasi” (ékstasis). Questo termine non coincide con questo cristiano al quale sono attribuiti significati di tipo sentimentale-visionaro. Il suo senso è estremamente razionale, e significa “uscita” dai limiti del pensiero determinante e superamento della distanza tra il pensiero stesso e Cfr. M. VANNINI, Il volto del Dio nascosto. L’esperienza mistica dall’Iliade a Simone Weil, Mondadori, Milano 1999, 69-70. 19 L. GARDET – O. LACOMBE, L’esperienza del sé. Studio di mistica comparata, Editrice Massimo, Milano 1988, 63. 20 Cfr. M. VANNINI, Il volto del Dio nascosto, 70. 21 Cfr. M. VANNINI, Il volto del Dio nascosto, 72 18 7 l’Uno, supermanto che avviene nell’assoluto distacco, prima di tutto da noi stessi in quanto soggetto psicologico22. Secondo Plotino, l’estasi è mezzo attraverso il quale, in senso rigorosamente razionale, si unisce con l’Uno. L’Uno al quale lui fa capo non ha nessuna caratteristica antropomorfica, ma può essere indicato come nulla, in senso della realtà più alta che le descrizioni umane non possono esprimere. Esso è assolutamente trascendente, perciò esso inteso come nulla è il Tutto23. «Per la sua assoluta trascendenza l’Uno viene dunque pensato come “differente da tutto” (éteron pánton), ma, in quanto principio di tutto non confuso con gli enti, “dappertutto e in nessun luogo”, la sua assoluta differenza dagli enti è in se stessa assoluta non-differenza, o identità. In quanto poi è il bene, che, senza invidia, comunica se stesso, l’Uno è Dio»24. È importante sottolineare l’opinione plotiniana riguardo l’Uno. Dove esso pur non essendo un Dio persale, è comunque termine ultimo dell’amore e del desiderio dell’uomo, che in esso trova soddisfazione alle proprie esigenze di verità e beatitudine. Lui insiste che soltanto nell’Uno si riesce conoscere noi stessi. La conoscenza di sé si configura infatti come identica alla conoscenza di Dio. Per Plotino, il cammino verso l’interiorità e nello stesso tempo, un cammino verso l’alto. Così, dunque, l’ékstasis è anche una suprema éntasis, “interiorizzazione”, o meglio dire, la discesa verso il profondo di noi stessi e la risalita verso il principio, sono per Plotino lo stesso processo25. Secondo le divisioni tra mondo spirituale e sensibile Plotino si esprime nelle parole che l’ultimo grado di mondo spirituale e il primo del mondo sensibile. Come il molteplice presuppone l’uno, si sente obbligato ad ammettere, molto al di sopra dello spirito, l’esistenza dell’Uno e interamente semplice. «L’Uno non è peraltro, l’oggetto di una deduzione, né di alcun tipo di dialettica. Tale ragionamento rimane sul piano della coscienza e della riflessione e non ci permette di conoscere veramente la realtà ultima a cui rimanda. Tale ragionamento è, piuttosto, un esercizio preliminare, un appoggio o un trampolino, di un movimento interiore, di un’esperienza, di una conversione. Già al livello dell’intelletto e del mondo delle forme che gli corrisponde, la contemplazione appariva come una possibilità e una 22 Cfr. M. VANNINI, Il volto del Dio nascosto, 72. Cfr. M. VANNINI, Il volto del Dio nascosto, 73. 24 M. VANNINI, Il volto del Dio nascosto, 74. 25 Cfr. M. VANNINI, Il volto del Dio nascosto, 74; J. M. VELASCO, vol. I, 124. 23 8 necessità. Ma ora, per giungere a questo livello dell’unità perfetta, qui solo presentita, la contemplazione diviene un’esperienza più profonda. […] Questa “esperienza più profonda” è l’esperienza mistica, la unio mystica, l’estasi»26. L’“uomo interiore”, ovvero il noús nell’anima e, grazie a esso, la realtà dell’Uno, è per Plotino il vero “sé”: questo soltanto noi siamo, niente affatto corrispondenti alle nostre manifestazioni esteriori, spaziotemporali. Questo “sé”, uomo “vero” o “interiore”, è il fondamento ontologico dell’uomo storico, che vive in un corpo, ma anche il fondamento per la decisione etica nella libertà. Il ritorno del pensiero in se stesso in quanto autocoscienza diviene dunque anche consapevolezza delle facoltà razionali ed etiche dell’anima. Differentemente dell’anima lo spirito è insieme immanente e trascendente. Si potrebbe dire che è l’anima e non è l’anima: noi non siamo propriamente spirito, anche se lo abbiamo come elemento essenziale. Esso “è nostro e non è nostro”: nostro in quanto pensiamo tramite esso e siamo consci della sua realtà in noi, non nostro in quanto lo sperimentiamo come sempre trascendente l’anima. Risulta evidente come non vi sia termine alla ricerca di noi stessi se non nell’Uno, là dove ogni dualismo viene meno, e la dialettica cede il posto al silenzio27. Così si può dire, che l’Uno, lo spirito e l’anima sono le tre ipostasi, oppure i tre fondamenti sostanziali, le tre condizioni di costituzione e di pensabilità del Tutto. L’Uno è visto come il fondamento assoluto da cui tutto deriva, non però per creazione, la quale presupporrebbe un finalismo estraneo alla perfezione dell’Uno, ma per apórroia, ovvero “effusione”, “emanazione”, “processione”, così come da un punto luminoso scaturisce naturalmente il raggio di luce, che si affievolisce man mano che si allontana dalla sua origine. Tale effusione è inesauribile e infinita, perché inesauribile e infinita è la ricchezza dell’Uno, e attraverso essa ogni parte del mondo viene vivificata. Questo implica una conseguenza di grande importanza in ambito filosofico-metafisico e morale: la sostanziale omogeneità ontologica del cosmo, che è, sia pure in gradi diversi, tutto quanto un “irraggiamento” dall’Uno e dell’Uno e che perciò mantiene, anche nelle frange più basse, le tracce della propria origine28. Come si poteva vedere dalle affermazioni precedenti, il sistema plotiniano è rigorosamente monistico, privo di ogni netta frattura tra Dio e 26 J. M. VELASCO, vol. I, 122-123. Cfr. M. VANNINI, Il volto del Dio nascosto, 75; E. UNDERHILL, L’educazione dello spirito, 26-27. 28 M. VANNINI, Il volto del Dio nascosto, 76. 27 9 mondo, essere e non essere: la scansione in gradi, la trinità ipostatica, articola il Tutto, e lo mantiene in una profonda unità29. Qui nasce la domanda sul male e la sua origine. Secondo Plotino il male dovrà essere pensato piuttosto come deficienza di essere, come più o meno parziale privazione del bene, tanto maggiore quanto più ci si allontana dall’Uno. Quello che sembra importante evidenziare, al riguardo di questo pensiero è che, l’anima ha le energie spirituali per riconoscere l’errore, rientrare in se stessa e iniziare il ritorno verso la propria origine divina, la conversione - detto in maniera cristiana. L’Uno, lo spirito, l’anima sono distinti ma non separati: il piano del Bene assoluto, quello della verità e della conoscenza perfetta, e il piano del movimento, della vitalità e delle aspirazioni sono legati in un’armonica gradualità. La vita e l’essere che dall’Uno fluiscono nel molteplice nello stesso tempo ritornano dal molteplice all’Uno, giacché tutto partecipa della sua ineffabile luce. Il “luogo” privilegiato del ritorno è l’anima, che ha in Plotino una vera e propria posizione media tra i due limiti estremi dell’Uno e della materia, capace com’è di digradare verso le regioni inferiori e di muoversi verso quelle celesti30. Il neoplatonismo è la corrente filosofica contemporanea del cristianesimo, proprio per questo è logico e possibile che abbiano molti punti in comune, ma d’altro lato la mistica cristiana si riserva la provenienza sopranaturale e così divide le mistiche precedenti alle mistiche naturali, dunque le vie che uomo ha percorso da solo razionalmente, mentre la sua provenienza è quella al quale l’uomo non ha nessun influsso perché è causa della grazia, il fatto sopranaturale. «Da un lato, come vedremo, la mistica cristiana si costituisce proprio su basi neoplatoniche, dall’altro i cristiani condussero una serrata polemica contro Plotino, vedendo in lui un pericoloso avversario perché fornisce una via di salvezza assolutamente razionale, senza bisogno di libri sacri, salvatori, chiese, riti e così via, anzi escludendo rigorosamente tutto questo»31. Per alcuni autori è illusorio cercare oppure immaginare l’esperienza mistica al di fuori della fede, emancipata dalla fede teologale32. In questo caso loro sostengono che soltanto la mistica cristiana ha carattere 29 Cfr. M. VANNINI, Il volto del Dio nascosto, 76. Cfr. M. VANNINI, Il volto del Dio nascosto, 76-77. 31 M. VANNINI, Il volto del Dio nascosto, 78. 32 Cfr. J. MARITAIN, Distinguere per unire. I gradi del sapere, Morcelliana, Brescia 1981, 313. 30 10 sovraumano. Essi non negano diversi tipi delle mistiche dell’origine naturale, una di loro è la mistica filosofica. La spiritualità o contemplazione naturale sono i termini usati in senso largo, e per questo possono essere usati anche dai medesimi. Un desiderio mistico naturale o un’aspirazione naturale alla contemplazione mistica, po’ essere connaturale all’ogni uomo. Questi autori non rifiutano il concetto dell’esperienza mistica naturale, soltanto se questo si prende in senso vago, comprendente le diverse analogie che l’ordine naturale ci offre della contemplazione infusa33. «Vi sono delle relazioni vive, nell’attività sinergica dell’anima, tra l’esperienza mistica e la filosofia, ma senza alcuna trasfusione, senza alcuna mescolanza delle loro nature. Se si considerano la natura della filosofia e le esigenze della sua essenza, la filosofia non esige per natura l’esperienza mistica»34. Sempre ritornando a quelli autori che collocano esperienza mistica soltanto dentro l’ambito religioso, affermando che mistica è assolutamente indipendente dalla filosofia, e ne fa ottimamente a meno; stesso come non possiamo trovare, nella normalità, tra i filosofi i grandi contemplativi, affermano che la luce della sapienza per eccellenza, dell’esperienza mistica del divino, deve aiutare e purificare l’intelletto filosofico35. Se osserviamo bene possiamo concludere che questa posizione sostiene che filosofia e mistica soltanto trattano alcuni concetti comuni, ma sono completamente diverse, da questo emerge l’ affermazione che non si può cercare la mistica al di fuori delle religioni, anzi della religione Rivelata, ciò esclude la esistenza anche della mistica nelle altre religioni. Qualcosa di simile cerca di dimostrare Stanislav Breton, dicendo che alcuni concetti di preesistenza36 sono biblici/religiosi che dopo sono stati sviluppati anche dai filosofi ma sempre partendo dalla Bibbia. Pur sapendo che le ricerche al riguardo di queste due discipline sono differenti. Mentre la ricerca filosofica fonda sue fondamenta nell’ambito della ragione, la 33 Cfr. J. MARITAIN, Distinguere per unire, 317. J. MARITAIN, Distinguere per unire, 330. 35 Cfr. J. MARITAIN, Distinguere per unire, 336. 36 Il termine preesistenza nei dizionari della filosofia è sinonimo della metempsicosi che significa «la credenza nella trasmigrazione dell’anima di corpo in corpo. La credenza è antichissima e di origine orientale, ma il termine compare soltanto negli scrittori dei primi tempi dell’epoca cristiana. Plotino usa talvolta quello di metensomatosi, che sarebbe più esatto. La credenza diffusa dalle sette degli Orfici e dei Pitagorici fu accettata da Empedocle, da Platone, da Plotino e dai Neoplatonici e dallo gnostico Basilide». In: Nicola ABBAGNANO, «Metempsicosi», in Dizionario di Filosofia, Tipografia Torinese, Torino, 1964, 564-565. 34 11 ricerca mistica si basa essenzialmente sul sopranaturale ed è dipendente da un’impostazione passiva, assolutamente diversa da quella che si svela al filosofo nella percezione naturale dell’essere e del creato. Ma non c’è, a prescindere dalle evidenti distinzioni, una radicale opposizione tra il cammino filosofico verso l’Assoluto e l’esperienza mistica37. Per sostenere affermazione basta ricordare Eckhart38che oltre di basarsi sui neoplatonici si è ispirato anche su Vangelo, particolarmente Quarto, dove l’idea della preesistenza è concetto che lui assimila dal Prologo di Giovanni, lui non nega il suo appoggio su Plotino ma insiste su quello primo. È evidente che la filosofia già ha dato la chiave d’interpretazione dell’eterna preesistenza dell’uomo, ma basata sulla verità della Rivelazione. «Per raggiungere la sublime meta filosoficamente esposta occorre perciò passare oltre i limiti dell’intelletto». Soltanto attraverso il nulla si riesce raggiungere il tutto, è solo il vuoto da tutto che consente di sentirsi riempire all’Assoluto39. Il Prologo di Giovanni, quando si parla di preesistenza, collega con mistica passiva, che è quella più feconda40. «L’esperienza filosofica di Eckhart del “transit” come condizione essenziale per aprirsi all’esperienza mistica, consente di parlare anche di una “via mistica universale” che unisce l’Oriente e l’Occidente. Anche se non si può negare la differenza dell’Assoluto orientale che, misurato con i nostri criteri, non è e non può essere “persona”, resta anche vero che l’Assoluto è in noi, dimora in noi, e per questo richiede l’esercizio dell’abnegazione fino al momento in cui l’ascetica non è più sufficiente. Occorre il “transit”, il superamento delle qualità del corpo, per accedere all’immortale, e tornare alla preesistenza, liberi dalla nascita»41. 37 Cf. S. BRETON, Filosofia e mistica. Esistenza e super-esistenza, Libreria editrice vaticana, Città del Vaticano 2001, 7. 38 R. OTTO, Mistica orientale, mistica occidentale, 206: «Eckhart si distingue particolarmente da Plotino, del quale ancora si insiste a considerarlo scolaro. Anche Plotino è banditore dell’“amore” mistico. Ma l’amore di Plotino è assolutamente non la cristiana agape, bensì il greco eros, che è godimento, e proprio godimento della bellezza sensibile e sovrasensibile, che scaturisce da una esperienza estetica che Eckhart non consce affatto, e che nella sua più sottile sublimazione, in effetti, porta sempre con sé qualcosa dell’eros del Convito di Platone: di questo grande “demone” che sublima il calore della volontà di generare del calore divino, ma che tuttavia mantiene in se stesso un aspetto sublimizzato di questo calore come tale». 39 S. BRETON, Filosofia e mistica, 6. 40 Cfr. S. BRETON, Filosofia e mistica, 13. 41 S. BRETON, Filosofia e mistica, 6. 12 Breton situa Eckhart tra tomismo e neoplatonismo. Preesistenza è il luogo dove si incontrano la filosofia e la mistica. Da una parte la filosofia cerca una risposta logica alla questione giovannea e d’altro lato possiamo trovare nel pensiero di Eckhart la risposta che la creazione è quella che ci porta peccato42. La mistica e la spiritualità sono i mezzi tramite quali dobbiamo ritrovare l’uomo originale ovvero “l’uomo nobile”43. La preesistenza eckhartiana si manifesta in tre dimensioni: metafisica, teologica e mistica. La dimensione mistica è interpretata come l’universale concreto44. La teologia cristiana descrive la mistica come l’esperienza da parte della creatura umana della vita divina comunicata dalla grazia santificante. Perché la grazia santificante praticamente è la vita stessa di Dio, ovvero è Dio stesso. Perciò la visione beatifica è la vera esperienza di Dio. Essendo immediata, è senza concetto, senza mediazione concettuale. D’altra parte non può essere altrimenti, perché Dio non è un oggetto45. La mistica soprannaturale potrebbe essere descritta come l’effetto della nostra elevazione allo stato di grazia che è un nuovo modo di presenza di Dio in noi, chiamata dai teologi la missione delle Persone divine e l’inabitazione della Trinità nell’anima. Dio è presente in noi, nel più intimo di noi, come nel più intimo di tutte le cose, per la sua immensità, e in ragione per la sua infinita efficienza, poiché in ogni istante ci dà l’essere e l’agire. La presenza nella maniera di mistica soprannaturale, è la presenza speciale assolutamente propria dell’anima in stato di grazia. «Questa presenza speciale presuppone indubbiamente la presenza di immensità e non sarebbe possibile senza di essa, ma di sua natura, e secondo proprie esigenze, è una presenza reale e fisica (ontologica) di Dio nella nostra interiorità»46. Secondo san Giovanni della Croce, la via sostanziale del mistico è quella che passa per le virtù teologali infuse47. Trovandosi in questo stato possiamo dire che la vita eterna comincia adesso, in questa vita e vi deve ingrandirsi senza posa fino alla dissoluzione del corpo, in modo da realizzare, proprio mediante l’esperienza mistica e la contemplazione infusa, per quanto è possibile in terra, nella notte della fede, dove non è ancora apparso ciò che saremo, quel possesso di Dio al 42 Cfr. S. BRETON, Filosofia e mistica, 44-48. Cfr. S. BRETON, Filosofia e mistica, 51. 44 Cfr. S. BRETON, Filosofia e mistica, 54-57. 45 Cfr. BARZAGHI G., «I fondamenti metafisici della mistica», in Rivista di ascetica e mistica, 1999, Convento di San Marco, Firenze, 340. 46 J. MARITAIN, Distinguere per unire, 304. 47 Cfr. L. GARDET – O. LACOMBE, L’esperienza del sé, 15. 43 13 quale la grazia santificante è essenzialmente ordinata. È chiaro così che l’esperienza mistica e la contemplazione infusa appaiono come termine normale di diritto della vita di grazia. Si può persino dire che appare come il vertice verso cui tende tutta la vita umana. In questo mondo decaduto e redento, dove la grazia preme da ogni parte, la vita umana tende alla vita cristiana, poiché ogni uomo appartiene di diritto al Cristo, capo del genere umano, e la vita cristiana tende alla vita mistica48. Il cristianesimo si può “vantare” del fatto della non credenza, ma bensì della conoscenza di Dio, non come ente ma come spirito (Gv 4,24)49. Secondo Vannini, il fatto di “esser laici” in pratica significa negare la necessità di una radicale conversione, affermando invece come buona e valida di per sé la naturalità, corporea e psichica, e ignorando lo spirito50. 2. Esperienza del Sé Nella persona umana l’ignoranza del sé è vista come un vizio. La storia con i suoi grandi personaggi, le persone sante, di tutte le grandi tradizioni religiose, ha messo in risalto l’importanza, la necessità indispensabile della conoscenza di se stessi. Il progresso spirituale, di ogni persona, si può misurare attraverso la conoscenza sempre maggiore di se stessi come un nulla e della Divinità come Realtà onnicomprensiva 51. Se a questa conoscenza del sé aggiungiamo l’esperienza mistica del Sé che deve restare aperta alla vita della grazia e anche, alla mistica della grazia, arriviamo alla conoscenza che ci sono numerosi casi misti di questo genere, sia nella spiritualità cristiana come nella non cristiana52. «Mistica del Sé e mistica del tutto si presentano come la sistole e la diastole della mistica di immanenza di cui costituiscono delle variazioni, a patto, s’intende, che l’esperienza in questione sia sufficientemente radicale e spoglia da meritare l’epiteto di mistica, e che non si tratti solamente di un qualche “sentimento” dalla colorazione più o meno panteistica»53. La mistica del Sé trova il suo principale luogo ove ancorarsi precisamente in quanto punto cieco della conoscenza spontanea di se stessi. E il metodo che a ciò conduce si darà il compito di sospendere ogni 48 Cfr. J. MARITAIN, Distinguere per unire, 305-306. Cfr. M. VANNINI, Prego Dio che mi liberi da Dio, Bompiani, Milano 2010, 7. 50 Cfr. M. VANNINI, Prego Dio che mi liberi da Dio, 9. 51 Cfr. A. HUXLEY, La filosofia perenne, 223-225. 52 Cfr. L. GARDET- O. LACOMBE, L’esperienza del sé, 22. 53 L. GARDET- O. LACOMBE, L’esperienza del sé, 24. 49 14 concettualizzazione riguardante l’essenza del Sé, e anzi di impedire il formarsi di un’idea esplicitante dell’esperienza della propria esistenza54. L’esperienza del Sé è oggetto di esperienza immediata vista in virtù di una riflessione apofatica e come una “immersione” dello spirito in se stesso, la presenza creatrice può essere riconosciuta soltanto mediamente nello specchio del Sé. Indubbiamente lo stato di sospensione del discorso e del concetto blocca ogni approccio consapevolmente discorsivo a Dio. questo porta alla conclusione che nella coscienza non resta quasi altro che un sentimento indecomposto di trascendenza e di immanenza, immanenza di sé, trascendenza di Dio nel Sé55. Dirigendosi verso quello che ci tramandano l’India da una parte e Plotino dall’altra, stiamo di fronte una testimonianza innegabile che un’esperienza di spiritualità naturale in cui l’uomo risalga per una via vissuta di nescienza intellettuale fino alle sorgenti del proprio essere, fino all’incredibile ricchezza del suo primo atto di esistenza, si trova inscritta nelle sue più radicali aspirazioni. È logico che l’interpretazione dell’esperienza può variare a causa delle culture che la interpretano. Dall’India impariamo la possibilità di una radicale enstasi, stesso come le vie della difficile tecnica che vi conduce56. Alcuni studiosi reclamano la distinzione tra “mistica del sé” e “mistica della natura”. La prima avrebbe i suoi prototipi nel samkhya-yooga, nel giainismo o nel buddhismo, e metterebbe capo alla monade individuale. La seconda, in cui il Sé diviene Ciò che esso è per natura, e si abolisce nel Tutto, sarebbe quella dei grandi maestri Vedanta57. (VIDI NESTO ZA NOTU) «Questa distinzione conserva il suo valore per riconoscere le due linee secondo le quali si è espressa l’esperienza fondamentale; ed esse corrispondono a due famiglie spirituali. Se si tratta veramente di una risalita verso l’atto primo di esistenza, l’interpretazione che ne viene data potrà mettere l’accento o sull’atto primo o su quella esistenza sperimentata senza distinta “tallita” di qualsiasi tipo. Due approcci, certo, ma la cui diversità sarebbe meno legata alla tessitura in sé dell’esperienza che alla sua risonanza nel soggetto che la vive»58. Cfr. L. GARDET – O. LACOMBE, L’esperienza del sé, 152. Cfr. L. GARDET – O. LACOMBE, L’esperienza del sé, 154. 56 Cfr. L. GARDET – O. LACOMBE, L’esperienza del sé, 165. 57 Cfr. L. GARDET – O. LACOMBE, L’esperienza del sé, 171. 58 L. GARDET – O. LACOMBE, L’esperienza del sé, 171. 54 55 15 Nella sua radice ontologica l’esperienza del Sé è aperta a tutti. Ciò ci permette di sperare di ritrovarne lo slancio iniziale in molti altri casi, meno netti, meno nettamente decifrabili per ciò che sono dal soggetto che li sperimenta. Molte volte esso sarà soltanto un indizio appena percepibile nel campo della coscienza, e da cui una possibile attenzione riflessa sarà subito distolta, soverchiata dalla “chiacchiera” di un “io” invischiato nel quotidiano. Ma non c’è solo “la vita alla superficie di se stessi” che rischia di occultare la specificità. Molte volte questa esperienza iniziale del Sé è stata nello stesso tempo liberata e velata da assai elevate attività spirituali, che ora la sapranno indirizzare a loro vantaggio, ora la lasceranno parassitare, e perfino oscurare il loro stesso fine, conservato tuttavia esplicitamente59. In quanto atipici, questi casi meritano una particolare attenzione. C’è rischio, in tali casi, di proiettare l’esperienza del Sé indebitamente su orizzonti che non le appartengono, o al contrario, di operare dalle trascrizioni nozionali e discorsive di ciò che sfugge al discorso. Nelle sue forme atipiche, l’esperienza del Sé sarà così intimamente mischiata ad altri processi, che distinguerla dal resto in modo troppo radicale potrebbe finire con lo spezzare il dinamismo di questi ultimi. Bisogna notare che le sorgenti ontologiche del suo essere affiorano di continuo nelle più elevate attività dell’uomo, e le orientano, anche quando non si arriva a riconoscerle che in modo incompleto60. Ci sono i tre tipi della mistica del Sé. Il primo tipo è mistica del Sé e la mistica delle profondità di Dio, è collegato con una certa conoscenza di fede. E per chi non ammetterà il realismo extramentale dell’Oggetto della fede, l’approccio della mistica soprannaturale non potrà essere, in definitiva, se non l’esperienza del Sé che dà a se stessa, illusoriamente, un termine che la trascende. Essa non sopporta due diversi approcci mistici: da un lato la ricerca dell’assoluto, a prescindere dalla descrizione che ne vien fatta, e d’altro lato quel risalire dell’anima verso le sue sorgenti, descritta dai mistici dell’India. La distinzione natura/sopranatura, creato/increato, si annulla nell’attingimento sperimentale di un Sé meta-empirico61. Essendo il Creatore assoluto, il Dio è allo stesso tempo trascendete e immanente alla Sua creazione. Solo attraverso Dio si va a Dio. Questo approccio mistico presuppone l’intervento di Dio. Esso non si attua Cfr. L. GARDET – O. LACOMBE, L’esperienza del sé, 173. Cfr. L. GARDET – O. LACOMBE, L’esperienza del sé, 173. 61 Cfr. L. GARDET – O. LACOMBE, L’esperienza del sé, 174. 59 60 16 mediante un’en-stasi radicale verso l’atto primo di esistenza, bensì mediante l’ek-stasi degli atti sopranaturali di fede e di carità teologali. L’esperienza del Sé ed esperienza delle profondità di Dio, si intrecceranno più volte. Nei climi non monoteisti l’esperienza del Sé possa abolirsi e trasmutarsi, sotto la proposta esistenziale della grazia, nell’attingimento fruitivo, per nescienza d’amore, del mistero della Vita divina. Mentre nel clima monoteista un’esperienza incoativa e spontanea del Sé, dopo aver favorito l’approccio verso le profondità di Dio, possa bloccarne lo slancio a proprio beneficio, pur se continui a essere chiamato Dio il termine raggiunto per via d’immanenza62. Il secondo tipo dell’esperienza del Sé è la mistica del Sé e esperienza poetica, dipinto col silenzio interiore del poeta, ugualmente come l’esperienza mistica quando, patisca le cose divine sotto la mozione della grazia, o s’immerga negli abissi originari del Sé, tende al silenzio63. Come il terzo tipo si offre la mistica del Sé e discorso filosofico. Modo di comprenderla è concettuale e col discorso che la organizza. Un ambito filosofico lungamente esercitato si aprirà a una connaturalità col suo oggetto, che però questa volta è “connaturalità intellettuale (positiva) alla realtà come concettualizzabile, e resa proporzionata in atto all’intelletto umano”. Anche se al primo impatto l’approccio del filosofo sembra diverso di quello della mistica del Sé, in verità non è così in quanto tutte e due hanno l’origine nel preconscio spirituale dell’anima. Anch’esse testimoniano di una sete di assoluto, di un aldilà del mondo empirico delle sensazioni e delle immagini64. Una delle caratteristiche della mistica del Sé è che essa non entra in una soggettività, ma la trapassa in un primo tempo di ek-stasi psicologica oggettiva, per dopo poter abolirla in un’en-stasi terminale, senza distinzione di alcun genere65. L’esperienza del Sé è chiamata anche l’intuizione fruitiva di quell’assoluto che è nell’uomo il suo atto primo di esistenza. È invero un’esperienza mistica, il termine viene assunto nel suo significato generale e analogico, il cui modello ci è offerto dallo yoga e dal vedanta indiani, da molte testimonianze buddhiste, da Plotino. Ma se è vero che questa Cfr. L. GARDET – O. LACOMBE, L’esperienza del sé, 174-175. Cfr. L. GARDET – O. LACOMBE, L’esperienza del sé, 177. 64 Cfr. L. GARDET – O. LACOMBE, L’esperienza del sé, 178-180. 65 Cfr. L. GARDET – O. LACOMBE, L’esperienza del sé, 183. 62 63 17 esperienza fruitiva è legata alla natura dell’anima umana come spirito, e alla sua unione esistenziale con il corpo66. Sono le due linee interpretative che spesso vengono privilegiate. L’una favorisce l’esperienza del Sé che diviene la via di unione mistica, legata all’oriente, via che conduce a un’affermazione di identità e di unità in sostanza: atman è brahman; la “natura originale” che è in ciascuno di noi è l’Assoluto a cui ogni esperienza spirituale di compiutezza può, e deve giungere. Le adesioni di fede delle religioni monoteistiche sono altrettanti punti-base sulla strada verso un’autotrascendenza in cui esse si realizzano, ma anche aboliscono. Tale è, assai sovente, l’atteggiamento che si vuole comprensivo e aperto dei maestri spirituali del Vedanta o dello zen. Mentre la seconda linea, legata all’occidente, è quella di quegli spirituali della cristianità, o dell’Islam, o del giudaismo, per quali ogni mistica è sempre, dipendente dalla rappresentazione concettuale, un incontro con il Dio della fede. Ogni mistica autentica, sia d’Oriente sia d’Occidente, è il ritorno al “silenzio delle origini” (Le Saux) in cui l’Assoluto, che è Dio, è ridato, al di là di ogni concettualizzazione e di ogni espressione verbale. La via mistica, in realtà, è una, almeno quando si pensa all’esperienza del Sé. E non più alla mistica dell’unione, bensì alla “mistica dell’unità” verranno richiesti i riferimenti e le testimonianze dei climi monoteistici. Cosicché lo yoghi che raggiunge l’enstasi totale del “samadhi senza germe”, il sufi che si realizza nell’Unicità vissuta, il cristiano della Seinsmystik che scopre in “questa irruzione”, come dice Meister Eckhart, “che Dio e io siamo uno”, partecipano, ne siano o no consapevoli, di un’esperienza identica nella sua sostanza. La prima linea esplicativa vede i dati della fede come i supporti utili ma transitori, invece per la seconda linea essi tendono a diventare una sorte di simbolizzazione concettuale di un’esperienza che li trascende precisamente nella misura in cui questa raggiunge la loro realtà nascosta sotto velo delle parole 67. (Probaj prereci) Bisogna sempre ricordare che l’esperienza del Sé è situata al di là della fede esplicita. Il suo criterio praticamente è se stessa nella sua soggettività, con tutti i rischi che ne risultano. L’essenza del criterio oggettivo e teologico si trova illustrato in molti casi concreti in cui s’intrecciano mistica del Sé e mistica delle profondità di Dio68. Al contrario la fede cristiana, che può essere chiamata la fede nel Dio che è Amore, mette l’accento su unione mistica che è vissuta sotto l’aspetto Cfr. L. GARDET – O. LACOMBE, L’esperienza del sé, 186. Cfr. L. GARDET – O. LACOMBE, L’esperienza del sé, 187-188. 68 Cfr. L. GARDET – O. LACOMBE, L’esperienza del sé, 189, 193. 66 67 18 di grazia. L’esperienza spirituale di mistico cristiano è concettualizzata, oltre il riferimento al Dio Uno e Unico, ma anche ai segreti che gli comunica il Dio della sua fede. Come dice Nuovo Testamento, Gv 15,15: Non vi chiamerò più servi, ma amici. Per questo motivo il teologo cristiano avrà tendenza negare la specificità dell’esperienza del Sé, interpretandola come un preambolo all’esperienza di Dio o come un suo prolungamento69. Comunque, ci sembra che in realtà l’esperienza del Sé affiori in diverse testimonianze, sia nelle tradizioni cattoliche quanto in quelle ortodosse. Nessuna ricerca di Dio è possibile senza un tempo intenzionalmente dedicato al silenzio e al raccoglimento. Il vortice delle sensazioni, delle affettività, delle associazioni d’idee deve calmarsi, unificarsi, concentrarsi nell’unico sentimento vissuto di una presenza a Dio e di Dio70. «L’anima fedele deve anzitutto svuotarsi delle sue preoccupazioni quotidiane, e poi di se stessa; e questo “vuoto” è come un appello rivolto a Dio affinché Egli invada tutto. […] Ogni ricerca di unione con Dio richiede un’ascesi di distacco dall’io contingente; ascesi che non è solo uno studio preparatorio, ma che deve accompagnare il progredire del mistico lungo tutto il suo percorso. Si tratta qui proprio di un procedimento che è voluto in quanto tale»71. Nella mistica de Sé, stesso come nelle altre, il raccoglimento e il silenzio sono la prima tappa verso un aldilà di ogni trama empirica. Non è che si tratti di un’avanzata continua e senza urti: il soggetto dell’esperienza deve passare per molti salti dialettici dove si farà luce un senso di “ascolto”. Ma tutto si situa su una stessa linea di orizzonte, verso un assoluto che è già, ontologicamente, nella realtà profonda dell’anima come spirito. Nella mistica delle profondità di Dio, l’assoluto desiderato non è, per natura, nel fondo, sia pure il più segreto, dell’anima innamorata del suo Creatore e Salvatore. Esso viene da un Altrove, presente senza dubbio nella partecipazione d’essere che unisce Creatore e creatura, ma che si comunicherà nella sua vita intima mediante un nuovo modo di partecipazione, e col dono doppiamente gratuito della sua grazia72. Alcuni autori cristiani orientali usavano la “preghiera di Gesù”, come una via sicura verso il conseguimento delle grazie di unione con Dio, e così il metodo di concentrazione. Vista in questa maniera “preghiera di Gesù” non può non essere “paragonata” con certe forme di yoga, dove si rippette Cfr. L. GARDET – O. LACOMBE, L’esperienza del sé, 207. Cfr.L. GARDET – O. LACOMBE, L’esperienza del sé, 207. 71 L. GARDET – O. LACOMBE, L’esperienza del sé, 208. 72 Cfr. L. GARDET – O. LACOMBE, L’esperienza del sé, 208-209. 69 70 19 una certa frase come l’aiuto alla concentrazione, l’aiuto ad arrivare a qualche scopo. La concettualizzazione della “preghiera di Gesù” è eminentemente cristocentrica. Questo riferimento al Cristo, nella sua duplice natura umana e divina, dove la sua umanità resta per il fedele la via verso la sua divinità, è presente in ogni esperienza mistica di vita cristiana, se è autentica, e quale che ne sia la modalità. Qui è evidente l’immensa influenza esercitata da Plotino su così tanti asceti e mistici cristiani. […] Mistica del Sé e mistica della grazia divina s’intrecciano allora inestricabilmente. Certe volte la prima sembra venire in aiuto alla seconda, allontanando dalla propria strada seduzioni e ostacoli; mentre altra sembra che essa se ne impadronisca in certo qual modo e pieghi il movimento della grazia divina verso un autocoglimento del Sé, nella trasparenza di un atto d’essere senza “totalità”, a prescindere di ogni formulazione di fede73. Le tracce dell’esperienza del Sé si possono trovare anche nella mistica cristiana, dove un “raccogliersi dell’anima in se stessa” è la tappa indispensabile. Quando “l’intelletto purificato” coglie se stesso alla propria luce, in quel caso è in grado di divenire lo specchio in cui si riflette la Trinità. In questo caso la teologia mistica e teologia negativa vissuta divengono sinonimi dell’esperienza mistica stessa. L’esperienza del Sé che affiora è così riassunta e tramutata in valori di mistica sopranaturale. Questa unione è molto chiara in san Giovanni della Croce, le cui “notti”, insieme purificatrici e unitive, sono conseguenza della grazia divina immediata, e un effetto di una totale unione d’amore. Oliver Lacombe proprio insiste come da Gregorio di Nissa fino a Giovanni della Croce ci sono degli esempi cristiani dei mistici con gli tratti della esperienza del Sé74. Siamo coscienti che in Francia come in Renania, furono degli spirituali animati da una fede intensamente cristiana che s’inoltrarono verso la “mistica dell’unità”. Possiamo dire che in essi la via d’immanenza verso il Sé (nel senso dell’atman indiano) e l’entrata per grazia sopranaturale nella vita intima del Dio trascendente e intimamente presente si rispondono e s’intrecciano. In essi, non c’è quasi esperienza del Sé che non sia attraversata dal fuoco dell’amore divino; e non c’è quasi unione con Dio che non sia colorata da quella trasparenza di sé a Sé in cui s’abolisce ogni differenza e ogni qualificazione75. Cfr. L. GARDET – O. LACOMBE, L’esperienza del sé, 211-214. Cfr. L. GARDET – O. LACOMBE, L’esperienza del sé, 214-215. 75 Cfr. L. GARDET – O. LACOMBE, L’esperienza del sé, 216-217. 73 74 20 Quando si tratta vissuto spirituale, del Meister Eckhart non è coretto voler spiegarlo soltanto con esperienza mistica del Sé. In lui (Sermoni latini) è evidente la sete di unione con Dio attraverso il Cristo, nel Dio della fede, che è nello stesso momento trascendente e immanente, una sete di entrare nel suo Mistero, al quale solo la grazia sopranaturale può dare accesso. Ma si deve riconoscere che questa aspirazione alle profondità di Dio sia stata più volte assorbita da una via di pura immanenza la cui compiutezza ha come il proprio fine in se stessa, in una totale abolizione di ogni differenza. Molti sermoni in linguaggio popolare ne fornirebbero degli esempi. Essi testimoniano una potente affermazione di identità, che gli portava verso una totale non-dualità ontologica. Perciò Rudolf Otto ha potuto nella sua opera Mistica Orientale, Mistica Occidentale (WestOstliche Mystik) fare confronto tra testi di Eckhart e del Vedanta di Śankara76. La problematica dell’esperienza del Sé, studiando Eckhart, si manifesta sul piano dell’insistere che l’anima quando contempla è divisa da quello contemplato e per questo è imperfetta, ciò richiede la sparizione di tutte immagini dell’anima e bisogno di contemplare l’unico Uno, in questo momento il puro essere dell’anima trova il puro, libero, essere dell’unità divina, un essere al di sopra dell’essere77. Con quest’affermazione lui si avvicina al plotiniano “Uno che non pensa”, a quel sovraconscio nel quale intelletto cosciente deve abolirsi, mediante un’“uscita da sé” (estasis), cioè del proprio io empirico, per ritrovare ciò che esso è nel più profondo del proprio essere. “Strappata e se stessa” secondo la sua molteplicità, l’anima “non va a un essere diverso da lei, ma rientra in se stessa, e non è allora in nessun’altra cosa che in se stessa”. Dicendo con parole di Eckhart, “al di là di Dio è la Deità”. È importante sottolineare, scrive Luis Gardet, che quando Eckhart parla così di Dio, lo intende sicuramente come un “nome funzionale” preso in rapporto a noi, e secondo la conoscenza concettuale deturpante che noi possiamo acquisire; la stessa Trinità “ancora divisa in sé” è beneficiaria di quella “teologia funzionale” – teologia deludente per chi ha sete dell’Assoluto. Intento di Eckhart è inoltrarsi, al di là di “ogni distinzione”, verso quel fondo segreto che “non conosce e non ama”; e “chi L. GARDET – O. LACOMBE, L’esperienza del sé, 218. Cfr. L. GARDET – O. LACOMBE, L’esperienza del sé, 218-219; ECKHART, Sermoni tedeschi, (trad. it. M. Vannini), Adelphi edizioni, Milano 1985, 253. 76 77 21 scopre questo Fondo segreto ha compreso su che cosa riposi la Beatitudine”78. Gardet si chiede se proprio la fede cristiana gli ha condotto a questo tema del “non-nato”, cosi in consonanza con una certa affermazione delle Upanichad, perché l’influenza plotiniana (o dionisiana) non potrebbe da sola darne ragione. Quella a cui ci troviamo di fronte è proprio una esperienza mistica, la mistica del Sé; ma esperienza mistica che non poteva, a motivo della fede professata, riconoscersi per quello che è sul piano che le è proprio. Le proposizioni trattate che lo portarono alla condanna sono in pratica le espressioni mal focalizzate di quell’incontro delle due vie mistiche. Era difficile, se non impossibile per Eckhart cogliere la loro rispettiva specificità. Esse dovevano essere confrontate soltanto su piano esperienziale, che le portava alla realtà di una fede viva la cui autenticità resta innegabile79. «La specificità della mistica cristiana, l’inabitazione nell’anima fedele del Cristo vivente, morto e risorto per noi, verrebbe cancellata di fronte a questa “irruzione”, come diceva Meister Eckhart, per cui “Dio e io siamo uno”»80. La “mistica dell’unità” nel senso renano-fiamongo non è un completamento della mistica dell’unione, essa anzi la abbandonerebbe, vi rinuncerebbe, per realizzarsi nell’Ungrund (abisso) il quale “non conosce e non ama”. E non conduce tanto alla profondità di Dio quanto alle sorgenti (create) dell’esistenza, all’assoluto (creato) dell’atto di essere, a quella “traccia dell’Uno che è in noi”, riferimento ultimo e privilegiato dell’esperienza plotiniana. Resta nondimeno che la mistica dell’unità può proseguire, e più di una volta ha proseguito, in un clima di grazia cristiana in cui l’anima, se è umile, continua a ricevere lungo tutto il suo cammino le attenzioni provenienti e misericordiose del suo Signore»81. Attraverso le operazioni logiche, la “conoscenza” di Eckhart e il “darśana” di Śankara, sono in grado di distinguersi dalla ragione, dalla riflessione, dall’elaborazione personale attraverso le operazioni logiche della nostra facoltà intellettiva, della ratio, dalla tarka. Ma questo non gli L. GARDET – O. LACOMBE, L’esperienza del sé, 219. «Perciò prego Dio che mi liberi da Dio, perché il mio essere essenziale è al di sopra di Dio […]. Perciò io sono non nato, e, secondo il modo del mio non esser nato, non posso mai morire […]. Nella mia nascita eterna nacquero tutte le cose, ed io fui causa originaria di me stesso e di tutte le cose […] infatti, in questa irruzione mi è toccato in sorte di essere una sola cosa con Dio». In: M. ECKHART, Sermoni tedeschi, 136-138. 79 L. GARDET – O. LACOMBE, L’esperienza del sé, 220. 80 L. GARDET – O. LACOMBE, L’esperienza del sé, 221. 81 Cfr. L. GARDET – O. LACOMBE, L’esperienza del sé, 222. 78 22 impedisce di avere nel senso più profondo della ratio, proprio qualcosa razionale; hanno luce e chiarezza in sé, e sono opposte quanto possibile ad ogni oscuro “misticismo”. Per questo Eckhart può dire che in quanto “meno tu senti più fortemente credi, e tanto più lodevole è la tua fede”82. La mistica, di Eckhart e di Śankara, si può chiamare la mistica dello spirito. Ātman e Brahman. Anima e Divinità. La speculazione indiana, sulla quale si fonda quella di Śankara, ha avuto due punti di partenza e con essi due direzioni distinte, nelle quali si è mossa: la scoperta del “meraviglioso” (yaksha) Brahman al fondo dell’universo, è la scoperta della fantastica essenza (gandharva) dell’ātman nel proprio intimo. Solo più tardi le due linee si incontrano e la reciproca appartenenza, anzi, la loro identità è riconosciuta nella visione mistica. In Śankara le due cose sono identiche: Brahman è l’ātman, l’ātman e Brahman; si potrebbero proprio usare i due nomi come sinonimi. Anche in ciò è simile ad Eckhart. Soltanto che quel che in Śankara rimane ancora come contorno, in Eckhart è del tutto chiaro. Si potrebbe quasi dire che il centro della mistica di Eckhart è una “mistica dell’anima”: una misticizzazione dell’anima cui si lega una misticizzazione di Dio83. Il nucleo e il cardine della dottrina di Eckhart è riassumibile nel concetto della Mistica dell’anima. Essa significa di trovare se stessi e conoscersi, conoscere la propria anima nella sua vera essenza, nella sua maestà e maestà divina, e liberare e realizzare con questa conoscenza la propria maestà divina, trovare lo abysus, la profondità in se stessi, trovarsi come divino nel più profondo di noi stessi – insomma, il “contrario dei cantici dell’anima come homo nobilis”. Questo è assolutamente parallelo alla credenza nell’ātman ed alla posizione del “Sé interiore” in Śankara. In entrambi la conoscenza è essenzialmente e prima di tutto ātma-bodhi. Caratteristica di entrambi maestri è innanzitutto l’opposizione tra “interiore” e “esteriore”. Questo interiore è in Śankara l’ātman, in Eckhart l’anima stessa. L’opposizione tra interiore ed esteriore viene spiegata da entrambi con mezzi psicologici similari. L’“interiore” in Śankara si distingue innanzitutto dalla carne e dal corpo, in Eckhart sotto le “potenze”, le “potenze inferiori” e sotto potenze “superiori” riposa l’anima stessa, il più profondo e il più alto, l’apice, la vetta dell’anima e il suo “fondo”, la scintilla, la sinderesi, il “terzo cielo” dell’interiorità. Nel profondo dell’ātman abita, secondo Śankara, il Signore, come guida interiore, in mistico legame con lo ātman: e nel fondo dell’anima fiorisce e verdeggia 82 83 Cfr. R. OTTO, Mistica orientale, mistica occidentale, 72-74. Cfr. R. OTTO, Mistica orientale, mistica occidentale, 76-79. 23 per Eckhart Dio; entra e esce, ha il suo luogo nascosto, là genera la sua parola eterna, là dialoga con l’anima. L’anima è come l’ātman, il “sé”. E, in quanto tale, entra in opposizione assoluta con quello che siamo abituati a confondere con il sé, ovvero l’io, la “egoità” o la “mia-ità”, come dice Eckhart – lo ahankāra o “quel che fa l’io”, come dice Śankara. Io devo rinunciare a tutto l’io ed al mio, morire ed entrare nella completa povertà spirituale (tyāga), per giungere al sé dell’anima. Mistica dell’anima elevata dalla mistica di Dio. Si trova così in entrambi, al centro della loro dottrina di salvezza, quella che si potrebbe chiamare una “alta fede dell’anima, che diviene una concezione mistica dell’anima”. Si potrebbe essere tentati, particolarmente nel caso di Eckhart, di definire ciò l’essenza della sua intera speculazione, e forse la sua intera concezione di Dio, solo come una sorta di ampliamento del sentimento mistico dell’anima84. 3. L’idea della non dualità e la mistica Partire dall’advaita che si può prendere dalla licenza e da Panikkar. «L’India è stata chiamata una Terra di mistici. La filosofia indiana, che dà grande importanza all’esperienza, ambisce alla trasformazione totale della persona umana. Questo avviene nella suprema, perfetta esperienza che prende il nome di mistica. In India ci sono state ricche tradizioni mistiche con numerosi mistici e scuole mistiche. Sebbene l’esperienza mistica sia familiare in India, la parola ‘mistica’ è usata di rado»85. Come la preoccupazione principale dei saggi indiani, nelle epoche passate, è stata la persona umana e la sua liberazione. Questa preoccupazione nasce come la risposta al problema esistenziale del dolore e della sofferenza. Essi si sono consacrati alla ricerca di una via per l’ottenimento della totale liberazione già qui sulla terra e non semplicemente dopo la morte. La loro principale preoccupazione era la liberazione (moksa) della persona umana. Questa esperienza di liberazione qui sulla terra (jivan-mukti) può essere chiamata esperienza mistica86. La parola più comune usata per mistica in India è yoga o marga. Yoga significa unione, stato di unione o mezzi di unione87. 84 Cfr. R. OTTO, Mistica orientale, mistica occidentale, 79-81. D’SOUZA Gregory, «L’esperienza mistica in India», in Aa. Vv., Sentieri illuminati dallo spirito. Atti del Congresso internazionale di mistica, Abbazia di Münsterschwarzach, Edizioni OCD, Roma 2006,[495-516] 495. 86 Cfr. D’SOUZA Gregory, «L’esperienza mistica in India», 495. 87 D’SOUZA Gregory, «L’esperienza mistica in India», 498. 85 24 La mistica non-dualista, Advaita, è quella che attribuisce importanza all’esperienza della conoscenza. La chiamano anche la “Via della Conoscenza” (Gnana Yoga). È una delle sei classiche scuole della filosofia indiana (darshana), fondata da Śhankara (788-820). La mistica Advaita si interessa dell’esperienza liberatoria della verità. Nella vita ordinaria di ogni giorno, la realtà appare molteplice, in particolare, Dio (Paramatma), Sé (Jivatma) e il mondo delle realtà (pratvi). Messa a confronto con il dolore e la sofferenza causati dalla molteplicità della realtà, questa scuola si interroga sulla validità della stessa realtà88. «La realtà ultima è una sola. Da un punto di vista cosmico oggettivo, prende il nome di Brahman mentre soggettivamente prende il nome di Atman. Ma la realtà è una e sempre la stessa. Non ha qualificazioni (nirguna), è inesprimibile (anirvachaniya), sconosciuta, inconoscibile e al di là di tutti i nomi e le forme (Nama roopa). È Una sola, senza una seconda. Non c’è neppure una distinzione e una dualità tra soggetto e oggetto. Il Brahman supremo è impersonale. Nella devozione religiosa ordinaria è visto come un Dio personale e ci si rivolge a lui chiamandolo Brahman, Saguna Brahman (“Brahman qualificato”) e Iswara. Ma in se steso, Egli è totalmente trascendente. Questa verità può essere sperimentata solo nello stato di liberazione o al vertice mistico. Nella conoscenza pratica della vita ordinaria (vyavahaarika gnana), la realtà è vista come molteplice. Ma c’è una differenza tra l’esperienza pratica di ogni giorno e l’esperienza mistica liberatoria. Quando sorge l’esperienza mistica, gradualmente scompare l’esperienza della molteplicità e della dualità»89. A prescindere del fatto che sappiamo che la realtà sia unica, essa si manifesta come molteplice a causa dell’ignoranza, māyā. Praticamente, essa è più che semplice ignoranza. Negativamente causa l’assenza di conoscenza (agrahana) e positivamente presenta una conoscenza errata (anyathagrahana)90. Per superare questa illusione ed arrivare alla vera conoscenza della verità attraverso l’esperienza mistica, ci si deve sforare di praticare una disciplina mistica (pramana). È formata da due stadi: preparativo e classico. Il primo stadio consiste nella pratica delle seguenti quattro virtù: il discernimento, la rinuncia, la meditazione, la contemplazione91. In questa quarta dimensione esistono i quattro importanti stadi nella crescita progressiva della coscienza umana: L’esperienza dello stato vigile, Cfr. D’SOUZA Gregory, «L’esperienza mistica in India», 498-499. D’SOUZA Gregory, «L’esperienza mistica in India», 499. 90 Cfr. D’SOUZA Gregory, «L’esperienza mistica in India», 499. 91 Cfr. D’SOUZA Gregory, «L’esperienza mistica in India», 499-500. 88 89 25 l’esperienza dell’impressione intra-mentale, l’esperienza comparabile al sonno senza sogni e alla fine l’esperienza mistica (Turiya). Per lo stadio finale è legata l’esperienza mistica propriamente detta. La sua consistenza si manifesta in una coscienza senza qualificazioni, in cui la distinzione tra soggetto e oggetto viene annullata e rimane la sola esperienza della pura coscienza. Questa esperienza è l’Essere supremo che è anche Beatitudine e Coscienza (Sat Cit Ananda). Importante sottolineare che questo non sono le tre realtà ma una sola. Essa è pura e perfetta. Le facoltà soggettive come i sensi (indriya) e l’intelletto (buddhi) non la condizionano. Oltrepassa la concezione dei sensi che la concezione intellettuale. È sovra-sensoriale e sovra-razionale non ha alcun contenuto conoscibile. Poiché questa esperienza non può essere afferrata dai sensi o dall’intelletto e poiché queste facoltà sono private dell’esperienza degli oggetti loro propri, spesso questa pura coscienza mistica è avvertita come tenebra 92. Ciò che viene sperimentato è al di là di ogni comprensione, al di là di tutti i nomi e forme, al di là di ogni forma di conoscibile. È il Brahman inesprimibile e senza qualificazioni (Nirguna Brahman) che non può essere oggettificato. Il risultato è che questa esperienza può essere avvertita come vuoto. Ma questa è l’esperienza della sapienza mistica contemplativa93. Secondo Śankara la realtà non è né una né molteplice. La molteplicità della realtà è totalmente dipendente dall’unica eterna realtà e da questa deriva la sua esistenza. La molteplicità è compresa nell’uno, ma non è l’uno. Per questo la realtà è non-duale. Alla fine possiamo dire che la sua visione è metafisica e il suo linguaggio è al contempo metafisico e mistico94. Nello stato non-mistico la persona è catturata dall’esperienza della molteplicità a causa della potenza del māyā. I pensatori indiani, generalmente, non spiegano l’origine di questa potenza, ma semplicemente affermano che anche il Brahman, la realtà suprema, e in qualche maniera essendo influenzato di essa, ha creato la molteplicità delle cose. Secondo Śankara e la maggior parte dei pensatori indiani, quello che in definitiva permette la liberazione totale è la coscienza mistica, non l’azione. Le buone azioni hanno il ruolo negli stadi iniziali, mentre la liberazione finale può venire solo dalla contemplazione mistica. In questa maniera essi affermano che la contemplazione mistica è più eccellente della mera vita attiva95. Cfr. D’SOUZA Gregory, «L’esperienza mistica in India», 501. D’SOUZA Gregory, «L’esperienza mistica in India», 501. 94 Cfr. D’SOUZA Gregory, «L’esperienza mistica in India», 502. 95 Cfr. D’SOUZA Gregory, «L’esperienza mistica in India», 502-503. 92 93 26 Il teismo di Śankara deve la sua particolarità al teismo dell’India. Ātman e Brahman sembrano essere solo una pura tautologia. Malgrado ciò, c’è una differenza abissale tra la dottrina dello yoga e quella dell’ātmanBrahman. Gli yogin, che non cercano il Brahman, che desiderano “solo” trovare l’ātman, stanno molto al di sotto dei conoscitori del Brahman e sono disperatamente lontani dalla salvezza. Ciò che separa radicalmente le due posizioni, quella di Śankara dallo yoga, è ciò stesso che viene ordinariamente riprovato – assurdamente – a Śankara come ad Eckhart e che, tenendosi alle loro formule ed asserzioni letterali sarebbe una conseguenza necessaria. Il seguace dei Veda rimprovererebbe con indignazione allo yogin ciò che egli stesso non cessa di fare, secondo le sue formule: perseguire una “autodivinizzazione” senza salvezza. Lo yogin attribuisce all’ātman quello che appartiene al Brahman96. La dottrina dei due maestri si potrebbe, secondo le loro formule, esporre ugualmente dall’alto, in modo che tutto il percorso da essa descritto appaia come una questione del Brahman non dell’ātman. Più o meno così: “Brahman, uno soltanto, senza dualità viene reso molteplice dalla avidyā. Una falsa rappresentazione gli “sovrappone” il mondo della molteplicità. Il puro uno essente appare molteplice nella (fittizia) pluralità delle singole anime. Il senso della dottrina del Brahman è quello di distruggere il groviglio dell’ignoranza nei suoi singoli punti, togliendo dal vero essere questo mostruoso errore”97. La fede in un Dio personale, che dona salvezza, da adorarsi e da conquistare con l’amore fedele della bhakti, per Śankara è solo aparā vidyā, scienza inferiore, che scompare appena giunge il samyag darśanam, la conoscenza piena. La conoscenza che è espressa con “grande parola” tat tvam asi: questo sei tu. Questo Brahman e la sua esperienza mistica escludono assolutamente il Dio personale ed il rapporto personale con le funzioni di amore confidente; anzi stanno in opposizione pura e piena con esso. L’intero mondo molteplice, insieme con il suo Signore, affonda nella apparenza della avidyā, del non-sapere, ed è esso stesso solo avidyā. Perciò il punto di vista di “colui che conosce” è al di sopra del teismo personale come di ogni altra interpretazione del mondo. Un barato insuperabile lo separa dagli altri. La mistica si presenta qui nella sua purezza, non colorata e non caratterizzata da elementi estranei, in una fredda tranquillità che va oltre le emozioni della pietà teista o “credente”, in una glaciale chiarezza 96 97 Cfr. R. OTTO, Mistica orientale, mistica occidentale, 82-83. Cfr. R. OTTO, Mistica orientale, mistica occidentale, 83. 27 del puro essere e del conoscere. La mistica è qui conseguente. E questa è la mistica che si ritrova ovunque, quando si mostra “conseguente”98. Mistica di Śankara è chiamata fredda perché è diversa da quelle calde emozionali. La mistica di Eckhart è piena di affettività, è perciò diversa dall’esperienza di Śankara. Bisogna ricordare, ma quanto questa mistica può essere chiamata fredda, che non esiste il “freddo glaciale” della mistica e in particolar modo della mistica indiana. Senza dubbio la mistica di Śankara e lo stato di colui che è giunto al Brahman-nirvana si distinguono dalle altre forme della mistica per l’immobilità, la quiete concentrata e profonda, per la loro “staticità”. In secondo luogo, essa è caratterizzata dal fatto di non essere neutrale verso il teismo al di sopra del quale si innalza, perché sta sempre in salda relazione con il teismo indiano, specialmente quello della Gītā, che la rende particolare, proprio per questa relazione99. Nel piano inferiore Śankara è completamente teista, lo dimostra seriamente e con sacro zelo. Su questo punto, si incontra la sua teologia e quella descritta di Rāmānuja (1017-1137) che combatte con passione contro Śankara per la concezione personale del Brahman. Per lui è ovvio che, chi è liberato una volta in Dio “non torna indietro”, ma prossimamente trovi, seguendo la strada di una “liberazione graduale”, il Brahma-nirvāna. Così, e non con il preteso “modo di pensare sintetico indiano”, si comprende la singolare elasticità dei confini tra scienza superiore ed inferiore in Śankara. Anche nel suo concetto di māyā si riflette stessa relazione. Anche se occasionalmente māyā e avidyā confluiscono l’una nell’altra, tra di loro due c’è una differenza significativa. Avidyā ha l’uomo che scorge l’eternamente-Uno nella molteplicità. Māyā ha il Brahman è il grande māyin. Questo non impedisce a Śankara, di difendere la sua posizione affermando che Brahman ha il diritto di chiamarsi causa materiale e causa efficiente del mondo. Il nome di causa materiale prende in quanto è il sostrato su cui è formata la molteplicità di tutte le cose. Mentre la causa efficiente lo è, in quanto per la sua māyā esso appare così come appare, questo mondo di apparenze del molteplice. Lui crede di non portare qualcosa di nuovo, ma di esporre l’insegnamento e la mistica dell’antica saggezza delle Upanishad, che hanno compiuto un significativo mutamento a proposito del Brahman100. Come il secondo tipo di advaita, si può portare esempio di Prahlāda. La sua sorte è finita male perché credeva in Vishnu. A causa della sua 98 Cfr. R. OTTO, Mistica orientale, mistica occidentale, 144. Cfr. R. OTTO, Mistica orientale, mistica occidentale, 144-145. 100 Cfr. R. OTTO, Mistica orientale, mistica occidentale, 146-147. 99 28 credenza il padre gli era buttato in mare. Dice che egli sente se steso come acyuta, scompare a se stesso e si conosce come il sé: “Infinito io sono, senza mutamento, io stesso sono ora l’altissimo Sé”. È evidente il fatto che qui l’esperienza mistica parte da un atto di intensa bhakti. Il Signore personale, amato e in cui si ha fiducia, si estende qui in totalità mistica, che è l’unica essenza. Che permette al soggetto e oggetto di passare l’uno nell’altro, e il soggetto dell’esperienza “è” egli stesso il Signore che è Tutto. La caratteristica che è propria a questo Dio è la capacità di poter essere presente all’anima come essenza totale beata e assorbente, e come amore personale ed amico dell’anima101. Diversamente da Śankara che è zelante non-dualista, Eckhart a volte si manifesta come il duro dualista, particolarmente con la dottrina della creatura che è un puro nulla. Lo emerge soltanto nel senso del dualismo religioso, per spessore, o meglio dire nel senso della dottrina di salvezza. L’interesse che ci sveglia è l’opposizione tra assoluta salvezza e assoluta dannazione: opposizioni estreme, autoescludendosi, non mediabili da alcun passaggio, evoluzione o emanazione, contrarie come Dio e il demonio. La mistica quando è religione e non speculazione cosmologica, è quasi sempre “dualistica”. Ma purtroppo in questo dualismo sta il senso fondamentale del suo messaggio102. L’altro rimprovero ad Eckhart, ed occasionalmente alla “mistica” in generale, è il fatto che la vita piena con tutte le sue particolarità finisca per perdersi in pallide e grigie astrazioni, in identificazioni vuote di essenze che sono divenute schematicamente vuote. Per esempio divenire uno con l’Uno, con l’essere, con ciò che è spogliato di ogni concetto e di ogni forma concreta. Questi rimproveri, da parte dell’Otto, sono visti come le incomprensioni nei confronti del contenuto dell’esperienza mistica indiana, mentre quelle che riguardano Eckhart sono semplicemente mostruose. Quello che lo rende diverso, e perciò incompreso, è il suo senso di Dio nuovo ed enorme, che si espande nel suo tempo “gotico”103. Differenzia tra Śankara ed Eckhart, secondo Otto, sta anche nel loro concetto di Dio. Mentre il primo ha un concetto assolutamente statico il secondo ha assolutamente dinamico. L’eterna quiete della Divinità, di Eckhart, ha un altro senso rispetto al sat in quiete. Essa è tanto il principio quanto la conclusione di un gigantesco movimento interno, di un processo eterno di vita che fluisce in se stessa. Una ruota che gira da se stessa, un 101 Cfr. R. OTTO, Mistica orientale, mistica occidentale, 152-153. Cfr. R. OTTO, Mistica orientale, mistica occidentale, 94. 103 Cfr. R. OTTO, Mistica orientale, mistica occidentale, 159. 102 29 fiume che fluisce in se stesso: immagini del tutto impossibili per l’Uno di Śankara. Il numen di Eckhart è “causa sui” nel senso altamente positivo di una incessante produzione di se stesso. Quando Eckhart insiste che bisogna lasciare Dio, elevarsi al di sopra di Dio, e che Dio scompare ed è assorbito nella Divinità senza modo, potrebbe sembrare che la produzione di Dio, e del mondo con lui, dal profondo della Divinità, sia semplicemente una mera infelice anomalia, una fatalità da riparare, un puro e totale controsenso senza significato proprio, come è infatti in Śankara. Dio che Eckhart chiama con Aristotele “primo motore”, è in se stesso enorme movimento vitale. Dalla unità indivisa passa alla molteplicità della persona, della vita personale e delle “Persone”, in cui è incluso il Verbo e dunque la molteplicità del mondo104. «Quello che la creatura ha ed è in se, come dice Eckhart, non è la vita vera: è piuttosto bāsār, carne, ovvero morte e impotenza, invece di vita. La vita la ha solo il Dio “vivente”, che è la vita stessa. E questa vita è la salvezza, è luce e verità, ruach, spirito, la traboccante ricchezza di Dio. Egli partecipa la vita col suo spirito, e questa partecipazione a Dio-spirito e alla “vita” e la partecipazione al divino stesso»105. L’operosità è quel fatto attraverso cui l’uomo diviene “reale”. Ciò vuol dire l’uomo che è divenuto “vita”, “essere”, “dio”. Un tale uomo diventa “essenziale”, e perciò “reale”: questo significa in Eckhart più che raggiungere il satyasya satyam, l’essere veramente reale nel senso della realtà più vera. Diversamente da lui, lo scopo di Śankara è la cessazione di ogni karmānai, di ogni azione ed atto di volizione, quietismo, tyāga, rinuncia al volere e all’agire, abbandono dell’opera sia cattiva sia buona, perché entrambe “legano”, in particolar modo al mondo della trasmigrazione. Per Śankara ciò che veramente è non opera. Così l’operosità diventa luogo essenziale delle differenze tra nostri due rappresentanti della mistica occidentale e quella orientale. Anche se tutti e due ricercano e contemplano l’unità e l’eternamente Uno in opposizione al molteplice; la relazione tra l’uno e i molti è in Śankara quella rigorosa esclusione, mentre in Eckhart della più vitale polarità. Śankara è il più rigoroso monista, ma niente affatto “filosofo dell’identità” dell’uno e del molteplice, Eckhart, invece, lo è del tutto106. Stesso come afferma Gesù dicendo che “Lui e Padre sono una cosa sola”. Egli si conosce come uno col Padre, e contemporaneamente distinto 104 R. OTTO, Mistica orientale, mistica occidentale, 163-164. R. OTTO, Mistica orientale, mistica occidentale, 166. 106 R. OTTO, Mistica orientale, mistica occidentale, 166-167. 105 30 dal Padre, che è possibile notare in quanto non dice “Io sono il Padre”, ma: “Io e il Padre siamo uno”. È nota la sua unità nella distinzione. L’intera mistica cristiana si è sviluppata attorno questa muta compenetrazione tra unità e distinzione. Questa dimensione della unità e distinzione è punto che distingue l’esperienza cristiana di Dio da quella indù. L’indù, nella sua più profonda esperienza dell’advaita, conosce Dio in un’identità di essere. “Io sono Brahman”, “Tu sei quello”. Il cristiano sperimenta Dio in una comunione di essere, in un rapporto d’amore, in cui c’è, non di meno, perfetta unità d’essere.107 4. Contemplazione e azione Azione e contemplazione non si escludono, anzi molti mistici sono stati uomini di azione108. INSERIRE “DIMORA DELLA SAGEZZA” PARTENDO DALLA P.7 PANIKKAR – MISTICA (2008) – 70-89; 323-348. Consultando qualsiasi formulazione storica della Filosofia Perenne è certo che il fine della vita umana è la contemplazione, ovvero “la consapevolezza diretta e intuitiva di Dio; che ‘azione è il mezzo a quel fine”. Da questo emerge che una società può essere considerata buona in quanto permette, assicura, ai suoi membri la possibilità di arrivare a quel fine – alla contemplazione, stesso come senza almeno di una minoranza contemplativa nessuna società non può essere considerata buona. Le società occidentali generalmente si considerano buone in quanto ai suoi membri rassicurano una vita attiva, e in quanto loro membri contribuiscono al progresso tecnico e organizzativo; “e che una minoranza dei contemplativi è perfettamente inutile e forse perfino dannosa alla comunità che la tolleri”109. Sia nelle religioni orientali, buddhismo e induismo espresso nella corrente Vedānta, stesso come nel cristianesimo, la Retta Azione è vista come il mezzo con quale la mente si prepara alla contemplazione. La contemplazione non è una attività riservata per i privilegiati, essa è aperta a tutti, in quanto tutti sono chiamati a realizzare la liberazione, “che è semplicemente la conoscenza che unisce il conoscente al conosciuto, e cioè 107 Cfr. B. GRIFFITHS, Una nuova visione della realtà. Scienza occidentale, misticismo orientale e fede cristiana, Edizioni Appunti di Viaggio, Roma 2005, 258-259. 108 Cfr. R. PANIKKAR, L’esperienza della vita. La mistica, 166; R. PANIKKAR, Il ritmo dell’essere, 322. 109 Cfr. A. HUXLEY, La filosofia perenne, 398. 31 all’etero fondamento e Divinità. Tutte le persone sono chiamate alla vita mistica, la sua realizzazione è possibile se le persone sarebbero disposte di evitare i peccati, e poi secondo la propria condizione sottomettersi allo Spirito Santo, sicuramente tutte raggiungerebbero la perfezione che li porterebbe alla vita mistica, vera e propria110. «Come ci mostra l’esempio di tanti mistici, azione e contemplazione non si escludono. Non solo si completano a vicenda, ma anche si implicano mutualmente, poiché non c’è vera azione senza contemplazione né autentica contemplazione senza azione. […] Il mistico è incarnato in questo mondo e talmente radicato in esso perché non scinde la Vita in due, non separa la propria esistenza terrestre da quello che è stato definito “altro mondo”, anche se sono ben cosciente della distinzione»111. Nella letteratura cristiana troviamo le espressioni come «l’ascolto della Parola, che si fa contemplazione e amore, sequela e azione, è il centro della nostra vita». Comunque sia una senza l’altra non può esistere, non esiste una vera azione, possiamo dire anche missione, se non scaturisce dalla contemplazione112. Secondo Huxley, l’affermazione che tutti sono chiamati alla contemplazione sembra in contrasto con quanto si sappia sulle diverse forme innate di temperamento e con la dottrina che sostiene che esistono almeno tre vie principali della liberazione: la Via delle Opere, della Devozione e della Conoscenza. Afferma che questo contrasto è più apparente che reale. «Se le vie della devozione e delle opere portano alla liberazione, è solo perché introducono alla Via della Conoscenza. La liberazione totale si dà, infatti, solo attraverso la conoscenza unitiva». Perciò si crede che un’anima che non passa attraverso la via della devozione e delle opere a quella della conoscenza non è totalmente liberata113. Sentiamo necessità di ricordare che Dio non è unico oggetto possibile di contemplazione. Oltre le persone religiose ci sono molti filosofi, esteti e scienziati contemplativi114. «Indubbiamente il piano dell’esperienza mistica e contemplativa trascende le categorie razionalistiche, le distinzioni concettuali, ma ciò non significa che essa non sia arrischiata alla deriva in una sorta di naufragio in 110 Cfr. A. HUXLEY, La filosofia perenne, 400-401. R. PANIKKAR, L’esperienza della vita. La mistica, 166. 112 S. FAUSTI, Missione: modo di essere Chiesa, EDB, Bologna 2010, 47. 113 A. HUXLEY, La filosofia perenne, 402. 114 Cfr. A. HUXLEY, La filosofia perenne, 404. 111 32 un’esperienza impersonale, in una confusione in cui la ricchezza del molteplice e della carne del mondo e dell’umanità vengono vanificate e perdute»115. Possiamo dire che la contemplazione cristiana coincide con la partecipazione all’eterno risveglio del Figlio al Padre nella non dualità, nella comunione e nel dono dello Spirito, che è lo Spirito Santo116. Non vi è alcun dubbio che il cristiano deve innanzitutto curare la contemplazione, ma non è meno certo che la contemplazione è rivolta, per sua natura, all’azione. Si sente la necessità, seguendo modello dove il verbo si è fatto carne, anche la contemplazione si incarni in azione, la quale rappresenta per il cristiano la continua presenza di Cristo nella sua vita. Secondo la dottrina cristiana, l’azione non è una dispersione della vita spirituale, anzi, essa costituisce l’esigenza più profonda117. In qualche maniera, nella vita cristiana, esiste una circolarità tra questi due concetti. Come la contemplazione alimenta l’azione, così l’azione alimenta la contemplazione118. Il rapporto tra azione contemplazione deve essere guardato, osservato in concreto. «Il cristiano, che vive la sua vita di cristiano in atteggiamento attivocontemplativo, è totalmente immerso nella concretezza, cioè nella realtà vera. Ed è da rilevare che ciò che lo chiama alla concretezza non è tanto l’azione quanto piuttosto la contemplazione, perché questa è essenzialmente rivolta all’azione. La contemplazione è visione della realtà cristiana, ma questa realtà si attua nell’azione»119. Intesa come rapporto con Cristo, l’unione di azione e contemplazione costituisce l’essenza della vita cristiana. Vuol dire che non c’è vita cristiana senza rapporto con Cristo, che esprime in concreto l’unione di azione e contemplazione. Questo rapporto tra azione e contemplazione può essere descritto come l’amore di Cristo realizzato nella vita cristiana, che in fine diventa l’essenza della vita cristiana. Nell’amore di Cristo realizzato nella vita cristiana, azione e contemplazione vengono ricomprese, e il primato 115 M. BOLOGNINO, «Dialogo contemplativo cristiano-indù», in Rivista di Ascetica e mistica, 2008 n. 2/3, 631 (627-635). 116 Cfr. M. BOLOGNINO, «Dialogo contemplativo cristiano-indù», 632. 117 Cfr. G. GIANNINI, Orientamenti: Azione e contemplazione – Identità e differenza, Pontificia Università Lateranense – Città Nuova Editrice, Roma 1979, 16-17. 118 Cfr. G. GIANNINI, Orientamenti: Azione e contemplazione – Identità e differenza, 17. 119 Cfr. G. GIANNINI, Orientamenti: Azione e contemplazione – Identità e differenza, 20. 33 della contemplazione sull’azione si afferma come ciò che vivifica l’azione e la rende impegno permanete120. Secondo Merton la contemplazione non è un comportamento della vita, quanto piuttosto il modo di integrare la propria vita in un insieme unico 121. Lui insiste che nella maggior parte dei casi, la via della contemplazione non è nemmeno una via, e se la si segue, ciò che si trova è nulla. Perciò può affermare che una delle strane leggi della vita contemplativa è che in essa non ti siedi per risolvere i problemi: ma devi aver pazienza con essi finché in qualche modo si risolvono da soli. O finché la vita stessa li risolve per te122. Differentemente delle occidentali le tradizioni orientali hanno il vantaggio di disporre l’uomo alla contemplazione in modo più naturale. «La prima cosa che devi fare, ancor prima di cominciare a pensare a cose quali la contemplazione, è cercare di recuperare la tua naturale unità di fondo, riprendere il tuo essere frammentato e ricomporlo in un insieme coordinato e semplice, e imparare a vivere da persona umana unificata. Questo significa che devi rimettere insieme i frammenti della tua esistenza distratta, in modo che quando dici “io”, ci sia realmente qualcuno presente a sostenere il pronome che hai pronunciato»123. Qualsiasi tipo di esperienza che posiamo sperimentare, religiosa, morale, artistica, tende di avere in sé qualcosa della presenza dell’io interiore. Solo dall’io interiore l’esperienza spirituale di qualsiasi genere acquista profondità, realtà e anche una certa incomunicabilità. Ma la profondità dell’esperienza spirituale ordinaria ci trasmette solo una sensazione indiretta dell’io interiore124. La prima cosa al riguardo di Zen che Merton sottolinea è la sua non pretesa di essere una esperienza sopranaturale o mistica. Essi è appunto anti-mistico. Proprio per questo ci permette di osservare il lavoro naturale dell’io interiore. Grande esponente dello studio dello Zen D. T. Suzuki si dà da fare per contrapporre questo evento spirituale all’esperienza mistica cristiana, mettendo l’accento sul suo carattere “naturale”, di fenomeno “puramente psicologico”. E quindi nessuno avrà da recriminare se 120 Cfr. G. GIANNINI, Orientamenti: Azione e contemplazione – Identità e differenza, 26, 28. Cfr. TH. MERTON, L’esperienza interiore. Note sulla contemplazione, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2005, 17-18. 122 Cfr. TH. MERTON, L’esperienza interiore. Note sulla contemplazione, 24-25. 123 TH. MERTON, L’esperienza interiore. Note sulla contemplazione, 27. 124 Cfr. TH. MERTON, L’esperienza interiore. Note sulla contemplazione, 32. 121 34 riteniamo di esaminarlo in quanto caso psicologico, mostrando il modo di operare dell’io interiore presumibilmente senza alcuna influenza della grazia mistica125. La scoperta dell’io interiore ha un ruolo significativo nella mistica cristiana. Mentre nello zen sembra non sia richiesto di sforzarsi per andare oltre l’io interiore. Nel cristianesimo, l’io interiore è solo un gradino sulla via della consapevolezza di Dio126. È importante ribadire che all’interno della teologia cristiana e cattolica non esiste una teologia della mistica comunemente recepita. Esistono grandi personalità mistiche che rendono testimonianza delle loro esperienze. Per questo è ovvio che qualsiasi prova di sistematizzare il pensiero mistico secondo i canoni teologici diventa in una certa maniera una riflessione sistematica sull’esperienza mistica che emerge sempre in connessione con le concezioni teologiche e di fede che il mistico in questione possiede. Egli inevitabilmente si servirà di esse, nel tentativo di descrivere o addirittura di sistematizzare la sua esperienza originaria, così da inquadrarla nel sistema di coordinate delle sue particolari convinzioni e opinioni filosofiche e teologiche127. «Un primo problema fondamentale, di cui oggi una teologia della mistica dovrebbe occuparsi, riguarda la relazione precisa del mistico con ciò che egli esperimenta nella forma di una “assoluta vicinanza”. […] Potrebbe anche essere che forse una probabile esperienza mistica dell’unità del soggetto col “mondo” venga immediatamente identificata con una esperienza dell’unità del soggetto mistico con Dio stesso. Ancora, potrebbe avvenire che il venire meno della propria egoistica particolarità nell’esperienza mistica di un amore radicale di Dio che si auto comunica, venga mal interpretato, dal punto di vista della riflessione oggettiva, come una pura e semplice cessazione del soggetto finito»128. Tutti questi motivi sopra nominati, sono estremamente importanti per le persone che prestano l’attenzione alla mistica, stesso come anche al mistico stesso, e come lui vive e spiega la propria esperienza mistica relativamente a tali questioni129. Cfr. TH. MERTON, L’esperienza interiore. Note sulla contemplazione, 34. Cfr. TH. MERTON, L’esperienza interiore. Note sulla contemplazione, 40. 127 Cfr. K. RAHNER, Visioni e profezie: Mistica ed esperienza della trascendenza, Vita e Pensiero, Milano 1995, 134. 128 K. RAHNER, Visioni e profezie, 135 – 136. 129 Cfr. K. RAHNER, Visioni e profezie, 136. 125 126 35 Come secondo problema fondamentale della teologia mistica Rahner sottolinea la relazione tra la grazia-fede da un lato e l’esperienza mistica dall’altro. Secondo lui questo è uno dei più grossi problemi della tradizionale teologia mistica in quanto essa queste esperienze mistiche considera la “grazia”, ma questa grazia è tale anzitutto per questo, perché viene concepita come un particolare, puntuale intervento di Dio, che è gratuito, e perché qui il Dio inaccessibile si auto comunica in una maniera tutta speciale. Quello che rimane poco chiaro è il modo con cui una tale grazia si rapporta a quella grazia che il cristianesimo annuncia come offerta di Dio a tutti gli uomini130. Opinione che Rahner mette in evidenza è che la mistica deve essere concepita all’interno della normale grazia e della fede, altrimenti teologia mistica non sarà niente di più che una “parapsicologia” intesa in senso più ampio. Secondo lui ogni autentica mistica religiosa, che si distingue dai fenomeni naturali di immersione interiore, deve essere compresa come una “variante” dell’esperienza più ampia di grazia che avviene nella fede131. «Verosimilmente perciò, bisogna lasciare al mistico e allo psicologo il compito di spiegare da dove venga una tale variante mistica dell’esperienza della grazia nella fede. Pertanto: la tesi enunciata, che l’esperienza mistica – distinta come tale dai fenomeni di immersione interiore in sé naturalmente spiegabili e perciò anche in linea di principio apprendibili – rappresenta una “variante” di quell’esperienza dello Spirito che è offerta a ogni uomo e a ogni cristiano; e l’altra tesi, che perciò la teologia della mistica come tale appartiene assolutamente alla teologia dogmatica, queste due tesi non implicano che allora una tale teologia della mistica possa costituirsi soltanto attraverso le fonti e i metodi con cui lavora la tradizionale teologia dogmatica (Scrittura, Magistero, tradizione della Chiesa ecc.). Al contrario: se e nella misura in cui il mistico empirico riferisce veramente della sua esperienza mistica come tale, questa rappresenta l’oggetto specifico di quell’esperienza gratuita dello Spirito che, in fede, speranza e carità, avviene nell’autocomunicazione di Dio all’uomo, anche se la maniera specifica con cui questa esperienza gratuita dello Spirito viene fatta, comprende pure momenti di tipo “naturale”, come si dirà ancora più dettagliatamente. La mistica empirico-descrittiva come tale – dove non riferisce soltanto di fenomeni naturali di immersione interiore – può essere assolutamente teologia della rivelazione, perché essa parla della grazia divinizzante vera e propria; anche perché quanto normalmente chiamiamo rivelazione nella parola e teologia della rivelazione, non è nient’altro che la 130 131 Cfr. K. RAHNER, Visioni e profezie, 137. Cfr. K. RAHNER, Visioni e profezie, 138. 36 obiettivazione riflessa – nella storia e nella parola – di quanto avviene nella autocomunicazione gratuita di Dio che viene fondamentalmente esperita. Tutto questo anche se l’oggettivazione pura e autentica di questa autocomunicazione divina ha trovato proprio in Gesù Cristo il suo punto più alto irreversibile nella dottrina del cristianesimo l’espressione conforme alla sua verità. Per questo si può dare un’esperienza della grazia anche in una mistica “extracristiana”, come pure anche una teologia della mistica extracristiana può rappresentare un momento della teologia della rivelazione, almeno in linea di principio, sebbene poi una tale teologia rimanga sempre orientata a quella teologia che si riferisce esplicitamente al Crocifisso e Risorto, nel quale l’avvenimento mistico della consegna a Dio, così come egli è in se e per sé, ha raggiunto il suo definitivo compimento attraverso la morte salvifica di Gesù, e così si è manifestato storicamente come avvenimento vittorioso»132. Andando avanti così si arriva al terzo problema fondamentale di una teologia mistica, la relazione tra “natura” e “grazia”. Qui i due concetti in questione devono essere intesi nel loro significato rigorosamente teologico133. «Se l’esperienza mistica non può essere concepita come un avvenimento che supera in linea di principio, come qualcosa di più alto, l’esperienza sopranaturale dello Spirito nella fede, allora dev’essere possibile rintracciare nell’ambito “naturale” dell’uomo, una “differenza specifica” di questa esperienza, che la distingue dalla “normale” esperienza dello Spirito propria a ogni cristiano. Dev’esserci cioè un tipo particolare di esperienza, propria della natura stessa dell’uomo, di trascendenza e di “ritorno” a se stessi. Ciò non contraddice quanto abbiamo appena detto a proposito della mistica quale esperienza della grazia. La forma psicologica dell’esperienza mistica si distingue dalla forma “normale” degli avvenimenti di coscienza ordinaria solo nella dimensione della “natura”. In questo senso essa può essere appresa in linea di principio. Ma tali avvenimenti spirituali in sé naturali, possono essere “elevati”, così come ogni altro atto umano di coscienza, libertà e riflessione, attraverso l’autocomunicazione gratuita di Dio, abituale o attuale. Questi avvenimenti cioè possono essere radicalizzati attraverso l’autocomunicazione personale di Dio, in vista appunto di una immediatezza con Lui, così come avviene generalmente per gli atti “sopranaturali” di fede, speranza e carità della “normale” vita cristiana. Fatti psichici di per sé naturali, come appunto i fenomeni mistici, possono essere “elevati” dalla grazia, e diventare perciò atti sopranaturali di fede ecc., essere cioè atti salvifici. La particolare caratteristica psicologica di 132 133 K. RAHNER, Visioni e profezie, 138-139. K. RAHNER, Visioni e profezie, 140. 37 questi atti può contribuire, proprio in virtù della sua particolarità, a che tali atti, soprannaturalmente elevati, siano radicati, dal punto di vista esistenziale, più profondamente nel nucleo della persona e perciò plasmino e trasformino l’intero soggetto in misura maggiore. C’è, a questo proposito, una questione che non può essere decisa dalla teologia della mistica come tale: se cioè questa maggior profondità personale dell’atto mistico, in sé naturale, come pure la maggiore riflessività – in se stessa naturale anche se elevata dalla grazia – dell’esperienza della trascendenza ad essa legata, sia raggiungibile per via miracolosa (preternaturale) oppure per via naturale, attraverso un esercizio che avviene a certe determinate condizioni. Se si lascia materialmente aperta una tale questione – almeno a partire dalle possibilità della teologia come tale -, allora da qui in poi si può pensare alla possibilità di fenomeni di immersione interiore puramente naturali, come a una sorta di esperienza pura della trascendenza e cioè come un’esperienza che avviene in mancanza, parziale o totale, della mediazione categoriale. Volendo dare a una tale esperienza il nome di “mistica naturale”, non si può rivolgere contro tale termine alcuna obiezione di fondo. Tuttavia sarebbe meglio riservare il concetto “mistica” a quei fenomeni impliciti dell’esperienza dello Spirito che sono psicologicamente straordinari, elevati dalla grazia e propriamente sopranaturali, così come abbiamo cercato di fare»134. Secondo Rahner ogni atto di immersione interiore, in sé naturale, sarebbe anche strutturalmente elevato dalla grazia. In questo modo sarebbe cioè un atto di mistica autentica, un atto salvifico, anche se in questo atto tale fondamentale caratteristica non è ancora emersa in maniera sufficiente chiara, oppure, al livello della successiva riflessione, viene sottovalutata o addirittura viene malintesa nel senso di una “mistica” panteistica, e cioè quale fenomeno di unificazione dell’uomo e di Dio135. L’esperienza mistica così come l’ha impostato Rahner, che sarebbe l’unione gratuita di Dio con l’uomo, ovvero all’esperienza gratuita dello Spirito da parte del cristiano, non rappresenta uno stadio “più alto” della vita cristiana della grazia. Può esserlo al massimo solo indirettamente, nella misura in cui il fenomeno mistico, in quanto causa ed effetto, può rappresentare un indizio del fatto che un cristiano ha fatto propria la grazia a lui offerta della autocomunicazione di Dio in misura particolarmente intensa dal punto di vista esistenziale136. 134 K. RAHNER, Visioni e profezie, 140-141. Cfr. K. RAHNER, Visioni e profezie, 142. 136 Cfr. K. RAHNER, Visioni e profezie, 143. 135 38 La mistica non appartiene necessariamente a ogni vita cristiana. Ciò permette alla psicologia competente di spiegare che questi fenomeni di immersione mistica, in sé naturali, appartengono necessariamente a un processo di maturazione personale, anche se non vengono sempre “tecnicamente” coltivati e spesso forse si danno in maniera abbastanza irriflessiva, allora anche la mistica in senso vero e proprio dovrebbe essere considerata un fenomeno normale nel processo di perfezionamento umano e cristiano, anche se poi rimane ancora aperta la questione se, quanto e con quale risultato buono o cattivo, una tale esperienza mistica venga riflettuta137. La caratteristica della contemplazione infusa, che in un certo modo si può paragonare con la visione, si incorpora nella persona investendone la sfera immaginativa e sensibile. La visione, cioè, è soltanto espressione ed effetto secondario del fatto mistico: scomparendo questo, che è esclusivamente dono di grazia, cessa conseguentemente anche la visione138. «L’esperienza non è mai un fatto neutro; è piuttosto un accadimento che, da fuori, raggiunge la persona e la determina. L’esperienza appartiene al complesso rapporto tra la persona e la realtà. Proprio per questa sua caratterizzazione personale, l’esperienza comporta sempre una certa attività della persona: include necessariamente un modello intuitivo, non sempre consapevole, di organizzazione della realtà. Anche l’esperienza cristiana bisogna guardarsi dalla convinzione ingenua che l’esperienza vada dritto ai fatti, senza mediazione alcuna, senza rappresentazioni concettuali; al contrario trascina con sé una visione, più o meno cosciente, della vita di fede. Per questo comporta la necessità di una vigile criticità a cui la teologia contribuisce riflettendo sulle condizioni oggettive dell’esperienza cristiana. Per quanto sia ovvio, rimane sempre utile ricordare che non si dà vera esperienza spirituale se non sulla base e nella forma dell’esperienza di Gesù. Solo là dove lo Spirito di Cristo fonda una vera comunione con Lui e introduce a una percezione evangelica della realtà, nasce un’autentica esperienza spirituale di stampo cristiano. L’esperienza cristiana di Dio è esperienza del rapporto che Dio ha costruito con noi nella maniera in cui Lui stesso lo ha voluto. Lo strutturarsi del vissuto cristiano deve rispettare le dimensioni obbiettive poste da Dio stesso nel suo rivelarsi. L’esperienza cristiana dovrà sempre costruirsi sull’esperienza filiale di Gesù senza omologarsi a visioni generiche o attuali. Leggere le visioni come segni comporta il non mettervi al centro il miracoloso e il sensazionale ma, 137 138 Cfr. K. RAHNER, Visioni e profezie, 143-144. Cfr. K. RAHNER, Visioni e profezie, 18. 39 piuttosto, il significato: un significato da cercare con umiltà e pazienza, in comunione con la Chiesa e i suoi pastori»139. Gli studiosi occidentali cominciano evidenziare il bisogno della meditazione in quanto uno stile di vita porta al grande stress e non permette alle persone di fermarsi e riflettere su se stessi. Avendo una mentalità “produttiva” l’uomo occidentale riconosce soltanto quello che “produce secondo il proprio schema”. Ma l’importanza si manifesta nel fato di essere capaci di riconoscere la meditazione come un modo “di percepire, di ricevere, di assumere e di partecipare”140. «È interessante osservare che nella descrizione della miseria in cui versano gli individui dalla personalità debole, ricorre sempre la terminologia impiegata dalla mistica. Ma ciò che per i mistici sono virtù, per l’uomo moderno sono tormenti e malattie: alienazione, solitudine, silenzio, isolamento, vuoto interiore, privazione, povertà, ignoranza, ecc. […] Gli uomini moderni rifuggono da ciò che i monaci cercavano per trovare Dio, come se si trattasse del diavolo. Un tempo i mistici sceglievano la solitudine del deserto per combattere con i demoni e sperimentare la vittoria di Cristo. A me sembra che noi oggi abbiamo bisogno di uomini che s’incamminano verso il deserto interiore dell’anima e scendano negli abissi dell’Io per combattere i demoni e sperimentare la vittoria di Cristo, o più semplicemente: per garantire una sfera di vita interiore e, attraverso l’esperienza dell’anima, aprire la strada agli altri. E nel nostro contesto questo significa: capire il senso positivo della solitudine, del silenzio, del vuoto interiore, della sofferenza, della povertà, dell’aridità spirituale e del “sapere che ignora”»141. Secondo Moltmann la meditazione è la conoscenza dell’oggetto improntata nell’amore, sofferenza e partecipazione, mentre la contemplazione significa rendersi consapevoli, in tale meditazione, del proprio Io142. «Chi medita s’immerge nel proprio oggetto, sfocia nella contemplazione, ‘dimentica se stesso’. E l’oggetto s’immerge in lui. Nella contemplazione egli si ricorda di sé, percepisce i mutamenti che si sono il lui verificati, ritorna a se stesso dopo essere uscito da sé ed essersi dimenticato. Nella meditazione noi ci accorgiamo dell’oggetto. Nella contemplazione ad essa congiunta ci accorgiamo della nostra percezione. Certo, non esiste 139 K. RAHNER, Visioni e profezie, 24-25. Cfr. J. MOLTMANN, Esperienze di Dio. Speranza, angoscia, mistica, Queriniana, Brescia 1981, 83. 141 J. MOLTMANN, Esperienze di Dio, 86-87. 142 Cfr. J. MOLTMANN, Esperienze di Dio, 88. 140 40 meditazione senza contemplazione, ne contemplazione senza meditazione, ma per il conoscere è importante operare una simile distinzione»143. Se vogliamo applicare questo metodo della meditazione alla meditazione cristiana è importante individuare alcuni momenti. Innanzitutto la meditazione cristiana non è mai trascendentale, essa è sempre indirizzata ad un oggetto. Questo oggetto è generalmente Cristo nella sua passione e morte. Seconda cosa da individuare è il fatto che la persona che medita sulla storia di Cristo praticamente ritorna a se stesso, «scopre pure che questa sua conoscenza della storia di Cristo è stata caratterizzata da essa»144. «La meta teologica del viaggio mistico dell’anima a Dio sta nella immagine divina dell’anima e nell’intenzione salvifica, riconosciuta nella storia di Cristo, di ripristinare questa immagine di Dio e portarla a compimento della somiglianza dell’uomo con Dio. Il mondo è la creazione di Dio, non però la sua figura. Soltanto l’uomo è destinato ad essere la figura di Dio. E Dio è più riconoscibile nella sua figura che in tutte le sue opere. La conoscenza del mondo oggettivo è una conoscenza mediata dai sensi e quindi pur sempre una conoscenza illusoria. L’autoconoscenza dell’anima, invece, non è una conoscenza mediata a livello sensibile, e quindi è conoscenza più certa. L’amore per la creazione di Dio è un amore per le sue opere. L’amore per l’uomo è l’amore per la sua figura. L’amore immediato per la figura di Dio è l’amore di sé. […] L’amore di sé come amore per la propria immagine di Dio è un gradino, una parte dell’amore di Dio»145. La contemplazione compie il passo verso l’unione mistica meditando sulla storia di Cristo. Nel momento in cui ci accorgiamo del coinvolgimento in questa storia, ci rendiamo conto che in noi viene rinnovata l’immagine di Dio per la quale siamo stati creati. «E quando ciò avviene noi ci conosciamo in Dio e ‘Dio in noi’, mediante l’immagine che noi portiamo di lui»146. Moltmann sottolinea il fatto che per noi uomini è la grazia che Dio si celi nella sua rivelazione. Tutto quello è rinforzato con l’Antico Testamento dove si dice “chi vede Dio morirà”. L’assenza di Dio nella sua presenza è una liberazione dell’uomo, non è una alienazione. «E tuttavia la 143 J. MOLTMANN, Esperienze di Dio, 88. Cfr. J. MOLTMANN, Esperienze di Dio, 88-89. 145 J. MOLTMANN, Esperienze di Dio, 94. 146 J. MOLTMANN, Esperienze di Dio, 95. 144 41 passione dell’uomo la ricerca di Dio e del compimento in Dio spinge a superare tutte le mediazioni, per raggiungere l’immediatezza»147. Non potendo parlare della mistica, si dovrà tacere. «Ma per qualificare attraverso il silenzio il silentium mysticum di una presenza non deformata di Dio, bisognerà parlare per eliminare il parlare stesso. Dovremo eliminare le mediazioni attraverso le quali l’anima raggiunge la comunione con Dio, affinché l’anima non indugi in esse, non vi si fermi, ma le sfrutti per ciò che sono: gradini di una scala, brani di un cammino, stazioni lungo il viaggio. E di questi supermanti delle mediazioni hanno parlato tutti i mistici, poiché l’amore dell’uomo per Dio è attratto dall’amore di Dio per l’uomo. Come Dio nel suo amore è disceso all’uomo, così l’amore dell’uomo sale a Dio, attraverso le strade che lui stesso a tracciato nella creazione, incarnazione e missione dello Spirito»148. Molti mistici pongono l’uomo di fronte all’alternativa Dio-mondo, il motivo per cui lo fanno è il desiderio di una liberazione delle creature e dell’uomo stesso, dall’amore finito e quindi distruttivo dell’uomo per Dio, essi esigono tutto un “penoso lavoro” di privazione, di alienazione, di povertà e di abbandono di ogni cosa, infine pure dell’autoannientamento, dell’anima. Essi credono che l’amore dell’uomo per Dio viene di-strato dal mondo e da se stessi, e così cessa pure quell’idolatria verso cui spinge in modo ossessivo l’amore divinizzante, il mondo e se stessi. Ed ha fine pure la sopravvalutazione del mondo e di se stessi attraverso l’amore di Dio. Noi e la creazione ritorniamo ormai liberi per ciò che siamo, quando amiamo Dio e lo godiamo per se stesso149. Ma la mistica e i mistici di quali desideriamo occuparci hanno trapassato questa soglia e hanno capito che si può amare Dio amando il mondo e non annientandolo come il reale, che è proprio di Dio. 147 J. MOLTMANN, Esperienze di Dio, 95. J. MOLTMANN, Esperienze di Dio, 97. 149 Cfr. J. MOLTMANN, Esperienze di Dio, 98. 148