1 Quarto Capitolo Mistica Orientale e mistica Occidentale quale

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Quarto Capitolo
Mistica Orientale e mistica Occidentale quale rapporto?
Uno dei punti centrali di questo capitolo è di attraverso alcuni concetti
arrivare alle somiglianze tra le mistiche, partendo dall’idea che la mistica è
unica, ma sono i diversi contesti culturali in quali nasce e ovviamente sono
diverse, o come direbbe Panikkar del mythos in cui si vive. Ovviamente
tutte hanno in comune le caratteristiche essenziali che li rendono, li
permettono, di essere chiamate “la mistica”.
Esistono dei punti che sono comuni nelle mistiche a prescindere dalla
tradizione e dal tempo, essi appartengono a quella caratteristica per quale
un fenomeno, più o meno straordinario, si può associare all’esperienza
mistica, in quanto la razza, territorio, non gli limita di essere chiamati, di
essere presentati nello stesso ambiente etnico culturale1.
Alcune differenziazioni portano alla necessità dell’essenza unitaria della
mistica che ha compito di comprendere questa “essenza” unitaria che si
manifesta nelle possibilità delle sue molteplici determinazioni singole.
Questo porta a rimuovere il pregiudizio di “una mistica sempre uguale”.
«L’essenza della mistica può scaturire soltanto dalla pienezza delle sue
possibili differenziazioni»2.
R. Otto parte con l’idea delle differenti mistiche, ma poi attraverso le
somiglianze dei fenomeni e dell’vissuto, dei mistici che studiava, arriva
alla conclusione che tra mistica orientale e quella occidentale ci sono alcuni
concetti comuni. Otto si immerge nello studio del misticismo di Meister
Eckhart, anche se giudicato e condannato dalla Chiesa ufficiale, è
rappresentante maggiore della mistica occidentale, mentre secondo,
Śankara, gode il ruolo del rappresentante maggiore della Advaita3, la
dottrina della non-dualità, nata in India.4.
1
Cfr. R. OTTO, Mistica orientale, mistica occidentale, Marietti, Casale Monferrato,
1985, 3-8; A. TRIONE, Mistica impura, 33.
2
R. OTTO, Mistica orientale, mistica occidentale, 3.
3
Subito dall’inizio è importante ribadire che l’Advaita non significa monismo, come
spesso è tradotta in occidente, ma non-dualismo. Essa, in maniera semplificata, può
essere riassunta così: soltanto l’Essere è veramente esistente, esso è immutabile, senza
alterazione e cambiamento, senza parti o molteplicità. Eternamente Uno è nello stesso
tempo Atman - assolutamente spirito, pura coscienza, assolutamente puro conoscere, e
in quanto tale è anche anatman – infinito, e fuori dello spazio e dal tempo. In: R.
PANIKKAR, «Advaita e Bhakti», in Humanitas 8, (1965, II) 991; R. PANIKKAR,
L’esperienza di Dio, 62-63.
4
Cfr. R. OTTO, Mistica orientale, mistica occidentale, 13.
2
«La nostra anima, o “Atman interiore”, non è altro che questo stesso unico
Brahman, eterno, senza mutamento senza determinazioni. Per la enigmatica
potenza della māyā ha origine nell’anima la Avidyā, il non sapere.
Attraverso essa all’unico essente viene ingannevolmente sovrapposta
(adhyāropa) la molteplicità del mondo. Così l’anima guarda l’essente, che è
in effetti uno solo, come mondo, come molteplice, come molte singole
cose, e guarda se stessa come anima singola, impigliata nel samsāra, nel
corso di questo mondo mutevole, nella catena delle nascite e delle rinascite.
Ma quando le giunge la samyagdarśanam, la vera, completa conoscenza,
allora si dissolve l’illusione della molteplicità e della differenza. Essa si
riconosce e si sa come lo stesso Brahman, eterno»5.
Secondo R. Otto la mistica di Eckhart è quasi identica a quella di
Śankara. Tutti i due autori sostengono che all’inizio era Uno/in principio.
Quello che è un rapporto di primarietà logica, l’occhio primitivo lo coglie
inizialmente in modo temporale, come l’origine primordiale, come ciò che
esiste in ogni inizio temporale. Ma quello che per l’occhio ingenuo è una
relazione di ordine cronologico, appare all’occhio più esperto di ordine
logico. Pur tuttavia si mantiene fermo in tale trasformazione il vecchio
termine ingenuo, giacché “principale” significa proprio letteralmente
“iniziale”. Per Śankara come per Eckhart questa trasformazione è
compiuta. Il termine in principio permane in Eckhart, ed è, insieme
all’“essere” il segno di riconoscimento della sua posizione. “Conoscere le
cose in principio, nella loro origine, nel loro principio”, ovvero conoscerle,
“in Dio”, nella eterna unità della loro essenza di principio, dove ogni idam,
ogni così e così, ogni hic et nunc, ogni molteplicità, ogni dualità, è eterna
unità. Lui vede questa unità come Esse che equivale al Sat, l’essente e
essere stesso 6.
Per tutti e due autori l’essere eterno, che è uno non diviso, non
molteplice, il Sat è Brahma, è il Dio. Lo stesso come in tutti e due
possiamo trovare la distinzione tra Dio personale e la Divinità che è al di
sopra, è universale7.
Un'altra somiglianza tra questi due autori consiste nella concordanza nel
metodo per raggiungere la salvezza. Essa ci porta verso la concordanza
della loro “mistica”8. (VIDI KOJI JE TO METOD)
La bellezza dell’esperienza mistica si manifesta nella sua capacità di
molteplicità. Ciò permette che i suoi contenuti possono variare
5
R. OTTO, Mistica orientale, mistica occidentale, 14.
Cfr. R. OTTO, Mistica orientale, mistica occidentale, 14-15.
7
Cfr. R. OTTO, Mistica orientale, mistica occidentale, 18-22.
8
Cfr. R. OTTO, Mistica orientale, mistica occidentale, 35.
6
3
singolarmente. Gli stati d’animo e i sentimenti con cui muove i cuori
possono distinguersi tra loro ed essere diametralmente opposti. Non
raramente essi si combinano; a volte richiedono un completamento e una
compenetrazione reciproca. Forse, insieme, rappresentano l’ideale
dell’esperienza mistica, e forse esiste fra di loro una connessione essenziale
segreta che il mistico stesso vede e ritiene ovvia9.
Esistono due vie o visioni di mistica, ma tra di loro c’è un vero e proprio
contrasto.
Mistica della “visione interiore”, ovvero dello sprofondamento in se
stessi, è il primo tipo. Discesa in se stessi per arrivare nell’interiorità
all’intuitus, e qui trovare l’infinito, o Dio, o Brahman: ātmani atmānam
ātmanā. Questa via è molto centrata su se stessi mentre lascia il mondo in
secondo piano. Qui vale soltanto “Dio e l’anima”, e questo intuitus
procederebbe avanti, anche se non vi fosse affatto un mondo, anzi, sembra
che senza esso andrebbe anche molto più facilmente10.
Mistica della “visione dell’unità”. Essa è la via di unità contro la
molteplicità degli oggetti. È caratterizzata di non aver bisogno di una
propria mistica dell’anima. Essa guarda al mondo delle cose nella sua
molteplicità. E di fronte ad essa si sviluppa, dalla profondità della
disposizione mistica, una “visione” o una “conoscenza” di un tipo
estremamente particolare, che noi possiamo prendere per una curiosa
fantasia o per profondo sguardo nella realtà eterna. Per essa è caratteristico
che come l’inizio di speculazione è apparsa sia in India che in Grecia.
Secondo Otto, quello che si chiama la scienza greca non sarebbe null’altro
che la visione mistica. Il suo specifico è che non dipendere da una dottrina,
non è nata da considerazioni razionali o da un impulso naturale casuale o
da un desiderio scientifico. Possiamo dire che il suo sorge è “come una
rivelazione”, se si hanno le circostanze, si crea la condizione di apertura
dell’“occhio celeste”11, o se parliamo nelle nostre categorie precedenti
possiamo dire del terzo occhio.
La mistica del “visone dell’unità” si divide in tre gradi.
Il primo grado, chiamato anche grado inferiore, con lo sguardo
contemplativo cerca di “eliminare” la molteplicità, separazione, divisione.
Questo mette il contemplante nella condizione di vedere tutte le cose in
unità, dunque essi diventa una sola cosa con il contemplato e vede le cose
in sé. Questa unificazione non è ancora perfetta perché ancora non è
9
Cfr. R. OTTO, Mistica orientale, mistica occidentale, 44-45.
Cfr. R. OTTO, Mistica orientale, mistica occidentale, 45.
11
Cfr. R. OTTO, Mistica orientale, mistica occidentale, 46-47.
10
4
l’unificazione con “Dio”, ma del sé con l’oggetto del mondo ideale, visto
nella unità. (DODAJ NOTU)
Il secondo grado, il molteplice che viene visto come l’uno ci porta verso
una visione dell’unità. Così la molteplicità si trasforma nell’unità e l’unità
diventa molteplicità. (DODAJ NOTU)
Il terzo grado, attraverso questo passaggio quello che aveva iniziato
come forma del molteplice diviene l’essenziale, vuol dire al di sopra del
molteplice, dopo di che con piccolo passo avanti si trasforma in opposto –
molteplice. Contemporaneamente accade che si trasforma il senso letterale
di unità e uno. Mentre prima, “unità” e “essere uno”, significavano la
sintesi del molteplice, che sempre rimaneva la sintesi, da questa unità
sintetica, da questo unum nel senso di unito, si ha adesso una unità nel
senso di unicità. Come afferma Otto, dall’unito deriva l’unico, l’esclusivo.
(DODAJ NOTU)
Nello stesso tempo, come in Śankara, il rapporto di immanenza
originaria, l’immanenza della unità nelle e alle cose, poi l’immanenza delle
cose nell’unità, si rovescia nella completa trascendenza. Il regno del
molteplice è ora il contrario pieno e negativo del regno dell’uno; è mithyājnāna e bhrama (errore). In Eckhart, conformemente alla particolarità della
sua speculazione, permane la vivente immanenza dell’uno che “si
comunica”; ma, insieme, al di sopra di questo, si eleva l’Uno in
trascendenza ugualmente assoluta nel “silenzioso deserto della Divinità”,
nel quale non è mai giunta distinzione o molteplicità. In lui il secondo
grado permane legato al terzo12. (SREDI NOTU)
Pensando allo yoga, che è anche molto presente in occidente, e senso in
cui essa è percepita come mistica, è possibile fare confronto tra mistica
orientale e mistica occidentale. Le possiamo descrivere come la “mistica
dell’anima”, oppure come l’esaltazione del senso numinoso dell’anima.
Ogni alta “fede” contiene una fede nell’“anima”. Una tale fede diventa
mistica nella misura in cui si avverte il “totalmente altro” dell’ātman, il
carattere mirabile e il segreto supermondano dell’anima, e dunque nella
misura in cui divengono vivi gli elementi numinosi dell’essenza
dell’anima, latenti in quella “fede nella anima”13.
La mistica può essere mera mistica dell’anima, come nello yoga e nella
dottrina buddhista. Ma la mistica dell’anima può anche legarsi con quella
di Dio, in modo che ne risulti un altro tipo di mistica, assolutamente a sé.
Eckhart e Śankara mostrano proprio questo tipo. Perciò si può dire che
12
13
Cfr. R. OTTO, Mistica orientale, mistica occidentale, 46-55.
Cfr. R. OTTO, Mistica orientale, mistica occidentale, 137.
5
appartengono allo stesso tipo di mistica. Come abbiamo visto, anche in
Śankara la mistica dell’ātman è fondamento e schema della costruzione.
Quasi ancora di più lo si potrebbe dire per Eckhart14.
Si può dire che l’esperienza mistica anche nell’induismo come nel
cristianesimo avviene improvvisamente, senza una preparazione. Questo ci
permette a dire che le esperienze mistiche in tutte e due religioni sono le
esperienze che uno non aspetta ma che vengono dall’alto, da qualcosa
inspiegabile alla nostra ragione15.
«Il fondamento di ogni religione, infatti, è un sentimento irrazionale di
terrore (il terrificante, tremendum), che non va associato allo spavento: esso
è inscindibilmente legato a una rêverie sorretta da fascinazione, dal senso
del meraviglioso, dallo stupore»16.
1. Filosofia e mistica
Abitualmente si può sentire che tra mistica e metafisica vi sia
un’opposizione radicale. Così la metafisica è descritta come l’opera della
ragione, mentre la mistica è opera del sentimento, e siccome tra queste due,
dicono, non corre buon sangue, tra metafisica e mistica è scavato un abisso
insuperabile. Grazie ai nostri autori possiamo dire che queste affermazioni
sono poco credibili e che mistica non sia un semplice appannaggio del
sentimento o dell’emotività. Ma essa è un guadagno logico-metafisico.
Sopra detto ci permette di affermare che la vera mistica non può essere
altro, che speculativa17.
Proprio per questo abbiamo desiderato cercare il rapporto che c’è tra
filosofie e mistica. Seguendo alcuni pensieri, in particolar modo quelli
cristiani cattolici, si arriva al punto che la mistica è un dono soprannaturale
e non sta allo stesso livello con la filosofia. Dall’altro lato ci sono anche
studiosi cristiani per i quali il rapporto tra filosofia e mistica è qualcosa
ovvio. In modo particolare questo è evidente nella mistica neoplatonica,
quale, eccetto il platonismo, ha un posto principale, ma che configura
proprio come un’esperienza dell’Uno che è al dì spora di ogni filosofia, e
immediatamente come una grandiosa esperienza mistica. Il rappresentante
più eclatante, di questa linea, è Plotino. Lui distingue l’Uno al primo Uno
che è Uno in senso proprio e il secondo Uno oppure l’Uno molteplice, e il
14
Cfr. R. OTTO, Mistica orientale, mistica occidentale, 137.
Cfr. C. CONIO, Mistica comparata e dialogo interreligioso, 144.
16
A. TRIONE, Mistica impura, Il Melangolo, Genova 2009, 29.
17
Cfr. G. BARZAGHI, «I fondamenti metafisici della mistica», 339.
15
6
terzo uno che è uno e molteplice18. «Senza alcun dubbio Plotino considera
l’ordine mistico come meta morale e meta-religioso»19.
Nelle sue riflessioni, ugualmente quanto si occupa di filosofia anche
tiene conto delle esigenze spirituali del suo tempo, in cui si scontravano
vecchie e nuove forme religiose, superstizioni e credenze di ogni tipo. La
sua epoca si può descrivere come quella della grave crisi, e ovviamente in
un periodo del genere si sentiva un profondo bisogno di “salvezza”, Plotino
tiene fermo il primato del logos e offre, con la sua filosofia, un itinerario di
“salvezza razionale” veramente universale. Proprio a questo bisogno di
salvezza risponde l’esigenza primaria del pensiero, quella di trovare l’Uno.
Oggi, l’Uno potrebbe essere descritto con la parola l’Assoluto, il terreno
solido dell’essere, cui anela l’anima nel suo continuo movimento. Smarrita
nel divenire, incapace di trovare il principio di se stessa, l’anima vaga per il
molteplice, e non può trovare pace se non compie il cammino di ritorno alla
sua origine, che è appunto l’Uno20.
Mi sembrava importante riportare in evidenza l’opinione che, in qualche
maniera, è comune sia per la mistica cristiana sia quella plotiniana. Esso
riguarda la contraddittorietà di parlare su ciò di cui, a rigore, non si
potrebbe neppure parlare, questa contraddizione tocca tutta la teologia
“negativa”. Di questa contraddizione, in genere, soffre il linguaggio
mistico. Plotino è il primo a comprenderlo e, come il suo maestro Platone,
sa bene che la parola, soprattutto quella scritta, non rende ragione della
verità, e che solo il silenzio sarebbe adeguato all’esperienza dell’Uno. Il
comune è desiderio di comunicare questa esperienza, tentare di spiegarsi.
Questo spinge il mistico di non aver paura della contraddizione21.
(+PANIKKAR I NESTO IZ INDIJA)
L’affermazione precedente ci fa capire che l’Uno, di Plotino, può essere
colto soltanto con l’atto sovrarazionale di estrema “semplificazione”
(áplosis), semplicemente detto, alla riduzione all’unità di noi stessi; o a
volte chiamata “estasi” (ékstasis). Questo termine non coincide con questo
cristiano al quale sono attribuiti significati di tipo sentimentale-visionaro. Il
suo senso è estremamente razionale, e significa “uscita” dai limiti del
pensiero determinante e superamento della distanza tra il pensiero stesso e
Cfr. M. VANNINI, Il volto del Dio nascosto. L’esperienza mistica dall’Iliade a Simone
Weil, Mondadori, Milano 1999, 69-70.
19
L. GARDET – O. LACOMBE, L’esperienza del sé. Studio di mistica comparata, Editrice
Massimo, Milano 1988, 63.
20
Cfr. M. VANNINI, Il volto del Dio nascosto, 70.
21
Cfr. M. VANNINI, Il volto del Dio nascosto, 72
18
7
l’Uno, supermanto che avviene nell’assoluto distacco, prima di tutto da noi
stessi in quanto soggetto psicologico22.
Secondo Plotino, l’estasi è mezzo attraverso il quale, in senso
rigorosamente razionale, si unisce con l’Uno. L’Uno al quale lui fa capo
non ha nessuna caratteristica antropomorfica, ma può essere indicato come
nulla, in senso della realtà più alta che le descrizioni umane non possono
esprimere. Esso è assolutamente trascendente, perciò esso inteso come
nulla è il Tutto23.
«Per la sua assoluta trascendenza l’Uno viene dunque pensato come
“differente da tutto” (éteron pánton), ma, in quanto principio di tutto non
confuso con gli enti, “dappertutto e in nessun luogo”, la sua assoluta
differenza dagli enti è in se stessa assoluta non-differenza, o identità. In
quanto poi è il bene, che, senza invidia, comunica se stesso, l’Uno è Dio»24.
È importante sottolineare l’opinione plotiniana riguardo l’Uno. Dove
esso pur non essendo un Dio persale, è comunque termine ultimo
dell’amore e del desiderio dell’uomo, che in esso trova soddisfazione alle
proprie esigenze di verità e beatitudine. Lui insiste che soltanto nell’Uno si
riesce conoscere noi stessi. La conoscenza di sé si configura infatti come
identica alla conoscenza di Dio. Per Plotino, il cammino verso l’interiorità
e nello stesso tempo, un cammino verso l’alto. Così, dunque, l’ékstasis è
anche una suprema éntasis, “interiorizzazione”, o meglio dire, la discesa
verso il profondo di noi stessi e la risalita verso il principio, sono per
Plotino lo stesso processo25.
Secondo le divisioni tra mondo spirituale e sensibile Plotino si esprime
nelle parole che l’ultimo grado di mondo spirituale e il primo del mondo
sensibile. Come il molteplice presuppone l’uno, si sente obbligato ad
ammettere, molto al di sopra dello spirito, l’esistenza dell’Uno e
interamente semplice.
«L’Uno non è peraltro, l’oggetto di una deduzione, né di alcun tipo di
dialettica. Tale ragionamento rimane sul piano della coscienza e della
riflessione e non ci permette di conoscere veramente la realtà ultima a cui
rimanda. Tale ragionamento è, piuttosto, un esercizio preliminare, un
appoggio o un trampolino, di un movimento interiore, di un’esperienza, di
una conversione. Già al livello dell’intelletto e del mondo delle forme che
gli corrisponde, la contemplazione appariva come una possibilità e una
22
Cfr. M. VANNINI, Il volto del Dio nascosto, 72.
Cfr. M. VANNINI, Il volto del Dio nascosto, 73.
24
M. VANNINI, Il volto del Dio nascosto, 74.
25
Cfr. M. VANNINI, Il volto del Dio nascosto, 74; J. M. VELASCO, vol. I, 124.
23
8
necessità. Ma ora, per giungere a questo livello dell’unità perfetta, qui solo
presentita, la contemplazione diviene un’esperienza più profonda. […]
Questa “esperienza più profonda” è l’esperienza mistica, la unio mystica,
l’estasi»26.
L’“uomo interiore”, ovvero il noús nell’anima e, grazie a esso, la realtà
dell’Uno, è per Plotino il vero “sé”: questo soltanto noi siamo, niente
affatto corrispondenti alle nostre manifestazioni esteriori, spaziotemporali.
Questo “sé”, uomo “vero” o “interiore”, è il fondamento ontologico
dell’uomo storico, che vive in un corpo, ma anche il fondamento per la
decisione etica nella libertà. Il ritorno del pensiero in se stesso in quanto
autocoscienza diviene dunque anche consapevolezza delle facoltà razionali
ed etiche dell’anima. Differentemente dell’anima lo spirito è insieme
immanente e trascendente. Si potrebbe dire che è l’anima e non è l’anima:
noi non siamo propriamente spirito, anche se lo abbiamo come elemento
essenziale. Esso “è nostro e non è nostro”: nostro in quanto pensiamo
tramite esso e siamo consci della sua realtà in noi, non nostro in quanto lo
sperimentiamo come sempre trascendente l’anima. Risulta evidente come
non vi sia termine alla ricerca di noi stessi se non nell’Uno, là dove ogni
dualismo viene meno, e la dialettica cede il posto al silenzio27.
Così si può dire, che l’Uno, lo spirito e l’anima sono le tre ipostasi,
oppure i tre fondamenti sostanziali, le tre condizioni di costituzione e di
pensabilità del Tutto. L’Uno è visto come il fondamento assoluto da cui
tutto deriva, non però per creazione, la quale presupporrebbe un finalismo
estraneo alla perfezione dell’Uno, ma per apórroia, ovvero “effusione”,
“emanazione”, “processione”, così come da un punto luminoso scaturisce
naturalmente il raggio di luce, che si affievolisce man mano che si
allontana dalla sua origine. Tale effusione è inesauribile e infinita, perché
inesauribile e infinita è la ricchezza dell’Uno, e attraverso essa ogni parte
del mondo viene vivificata. Questo implica una conseguenza di grande
importanza in ambito filosofico-metafisico e morale: la sostanziale
omogeneità ontologica del cosmo, che è, sia pure in gradi diversi, tutto
quanto un “irraggiamento” dall’Uno e dell’Uno e che perciò mantiene,
anche nelle frange più basse, le tracce della propria origine28.
Come si poteva vedere dalle affermazioni precedenti, il sistema
plotiniano è rigorosamente monistico, privo di ogni netta frattura tra Dio e
26
J. M. VELASCO, vol. I, 122-123.
Cfr. M. VANNINI, Il volto del Dio nascosto, 75; E. UNDERHILL, L’educazione dello
spirito, 26-27.
28
M. VANNINI, Il volto del Dio nascosto, 76.
27
9
mondo, essere e non essere: la scansione in gradi, la trinità ipostatica,
articola il Tutto, e lo mantiene in una profonda unità29.
Qui nasce la domanda sul male e la sua origine. Secondo Plotino il male
dovrà essere pensato piuttosto come deficienza di essere, come più o meno
parziale privazione del bene, tanto maggiore quanto più ci si allontana
dall’Uno. Quello che sembra importante evidenziare, al riguardo di questo
pensiero è che, l’anima ha le energie spirituali per riconoscere l’errore,
rientrare in se stessa e iniziare il ritorno verso la propria origine divina, la
conversione - detto in maniera cristiana. L’Uno, lo spirito, l’anima sono
distinti ma non separati: il piano del Bene assoluto, quello della verità e
della conoscenza perfetta, e il piano del movimento, della vitalità e delle
aspirazioni sono legati in un’armonica gradualità. La vita e l’essere che
dall’Uno fluiscono nel molteplice nello stesso tempo ritornano dal
molteplice all’Uno, giacché tutto partecipa della sua ineffabile luce. Il
“luogo” privilegiato del ritorno è l’anima, che ha in Plotino una vera e
propria posizione media tra i due limiti estremi dell’Uno e della materia,
capace com’è di digradare verso le regioni inferiori e di muoversi verso
quelle celesti30.
Il neoplatonismo è la corrente filosofica contemporanea del
cristianesimo, proprio per questo è logico e possibile che abbiano molti
punti in comune, ma d’altro lato la mistica cristiana si riserva la
provenienza sopranaturale e così divide le mistiche precedenti alle mistiche
naturali, dunque le vie che uomo ha percorso da solo razionalmente, mentre
la sua provenienza è quella al quale l’uomo non ha nessun influsso perché è
causa della grazia, il fatto sopranaturale.
«Da un lato, come vedremo, la mistica cristiana si costituisce proprio su
basi neoplatoniche, dall’altro i cristiani condussero una serrata polemica
contro Plotino, vedendo in lui un pericoloso avversario perché fornisce una
via di salvezza assolutamente razionale, senza bisogno di libri sacri,
salvatori, chiese, riti e così via, anzi escludendo rigorosamente tutto
questo»31.
Per alcuni autori è illusorio cercare oppure immaginare l’esperienza
mistica al di fuori della fede, emancipata dalla fede teologale32. In questo
caso loro sostengono che soltanto la mistica cristiana ha carattere
29
Cfr. M. VANNINI, Il volto del Dio nascosto, 76.
Cfr. M. VANNINI, Il volto del Dio nascosto, 76-77.
31
M. VANNINI, Il volto del Dio nascosto, 78.
32
Cfr. J. MARITAIN, Distinguere per unire. I gradi del sapere, Morcelliana, Brescia
1981, 313.
30
10
sovraumano. Essi non negano diversi tipi delle mistiche dell’origine
naturale, una di loro è la mistica filosofica. La spiritualità o contemplazione
naturale sono i termini usati in senso largo, e per questo possono essere
usati anche dai medesimi. Un desiderio mistico naturale o un’aspirazione
naturale alla contemplazione mistica, po’ essere connaturale all’ogni uomo.
Questi autori non rifiutano il concetto dell’esperienza mistica naturale,
soltanto se questo si prende in senso vago, comprendente le diverse
analogie che l’ordine naturale ci offre della contemplazione infusa33.
«Vi sono delle relazioni vive, nell’attività sinergica dell’anima, tra
l’esperienza mistica e la filosofia, ma senza alcuna trasfusione, senza alcuna
mescolanza delle loro nature. Se si considerano la natura della filosofia e le
esigenze della sua essenza, la filosofia non esige per natura l’esperienza
mistica»34.
Sempre ritornando a quelli autori che collocano esperienza mistica
soltanto dentro l’ambito religioso, affermando che mistica è assolutamente
indipendente dalla filosofia, e ne fa ottimamente a meno; stesso come non
possiamo trovare, nella normalità, tra i filosofi i grandi contemplativi,
affermano che la luce della sapienza per eccellenza, dell’esperienza mistica
del divino, deve aiutare e purificare l’intelletto filosofico35.
Se osserviamo bene possiamo concludere che questa posizione sostiene
che filosofia e mistica soltanto trattano alcuni concetti comuni, ma sono
completamente diverse, da questo emerge l’ affermazione che non si può
cercare la mistica al di fuori delle religioni, anzi della religione Rivelata,
ciò esclude la esistenza anche della mistica nelle altre religioni.
Qualcosa di simile cerca di dimostrare Stanislav Breton, dicendo che
alcuni concetti di preesistenza36 sono biblici/religiosi che dopo sono stati
sviluppati anche dai filosofi ma sempre partendo dalla Bibbia. Pur sapendo
che le ricerche al riguardo di queste due discipline sono differenti. Mentre
la ricerca filosofica fonda sue fondamenta nell’ambito della ragione, la
33
Cfr. J. MARITAIN, Distinguere per unire, 317.
J. MARITAIN, Distinguere per unire, 330.
35
Cfr. J. MARITAIN, Distinguere per unire, 336.
36
Il termine preesistenza nei dizionari della filosofia è sinonimo della metempsicosi che
significa «la credenza nella trasmigrazione dell’anima di corpo in corpo. La credenza è
antichissima e di origine orientale, ma il termine compare soltanto negli scrittori dei
primi tempi dell’epoca cristiana. Plotino usa talvolta quello di metensomatosi, che
sarebbe più esatto. La credenza diffusa dalle sette degli Orfici e dei Pitagorici fu
accettata da Empedocle, da Platone, da Plotino e dai Neoplatonici e dallo gnostico
Basilide». In: Nicola ABBAGNANO, «Metempsicosi», in Dizionario di Filosofia,
Tipografia Torinese, Torino, 1964, 564-565.
34
11
ricerca mistica si basa essenzialmente sul sopranaturale ed è dipendente da
un’impostazione passiva, assolutamente diversa da quella che si svela al
filosofo nella percezione naturale dell’essere e del creato. Ma non c’è, a
prescindere dalle evidenti distinzioni, una radicale opposizione tra il
cammino filosofico verso l’Assoluto e l’esperienza mistica37.
Per sostenere affermazione basta ricordare Eckhart38che oltre di basarsi
sui neoplatonici si è ispirato anche su Vangelo, particolarmente Quarto,
dove l’idea della preesistenza è concetto che lui assimila dal Prologo di
Giovanni, lui non nega il suo appoggio su Plotino ma insiste su quello
primo. È evidente che la filosofia già ha dato la chiave d’interpretazione
dell’eterna preesistenza dell’uomo, ma basata sulla verità della
Rivelazione. «Per raggiungere la sublime meta filosoficamente esposta
occorre perciò passare oltre i limiti dell’intelletto». Soltanto attraverso il
nulla si riesce raggiungere il tutto, è solo il vuoto da tutto che consente di
sentirsi riempire all’Assoluto39.
Il Prologo di Giovanni, quando si parla di preesistenza, collega con
mistica passiva, che è quella più feconda40.
«L’esperienza filosofica di Eckhart del “transit” come condizione
essenziale per aprirsi all’esperienza mistica, consente di parlare anche di
una “via mistica universale” che unisce l’Oriente e l’Occidente. Anche se
non si può negare la differenza dell’Assoluto orientale che, misurato con i
nostri criteri, non è e non può essere “persona”, resta anche vero che
l’Assoluto è in noi, dimora in noi, e per questo richiede l’esercizio
dell’abnegazione fino al momento in cui l’ascetica non è più sufficiente.
Occorre il “transit”, il superamento delle qualità del corpo, per accedere
all’immortale, e tornare alla preesistenza, liberi dalla nascita»41.
37
Cf. S. BRETON, Filosofia e mistica. Esistenza e super-esistenza, Libreria editrice
vaticana, Città del Vaticano 2001, 7.
38
R. OTTO, Mistica orientale, mistica occidentale, 206: «Eckhart si distingue
particolarmente da Plotino, del quale ancora si insiste a considerarlo scolaro. Anche
Plotino è banditore dell’“amore” mistico. Ma l’amore di Plotino è assolutamente non la
cristiana agape, bensì il greco eros, che è godimento, e proprio godimento della bellezza
sensibile e sovrasensibile, che scaturisce da una esperienza estetica che Eckhart non
consce affatto, e che nella sua più sottile sublimazione, in effetti, porta sempre con sé
qualcosa dell’eros del Convito di Platone: di questo grande “demone” che sublima il
calore della volontà di generare del calore divino, ma che tuttavia mantiene in se stesso
un aspetto sublimizzato di questo calore come tale».
39
S. BRETON, Filosofia e mistica, 6.
40
Cfr. S. BRETON, Filosofia e mistica, 13.
41
S. BRETON, Filosofia e mistica, 6.
12
Breton situa Eckhart tra tomismo e neoplatonismo. Preesistenza è il
luogo dove si incontrano la filosofia e la mistica. Da una parte la filosofia
cerca una risposta logica alla questione giovannea e d’altro lato possiamo
trovare nel pensiero di Eckhart la risposta che la creazione è quella che ci
porta peccato42.
La mistica e la spiritualità sono i mezzi tramite quali dobbiamo ritrovare
l’uomo originale ovvero “l’uomo nobile”43. La preesistenza eckhartiana si
manifesta in tre dimensioni: metafisica, teologica e mistica. La dimensione
mistica è interpretata come l’universale concreto44.
La teologia cristiana descrive la mistica come l’esperienza da parte della
creatura umana della vita divina comunicata dalla grazia santificante.
Perché la grazia santificante praticamente è la vita stessa di Dio, ovvero è
Dio stesso. Perciò la visione beatifica è la vera esperienza di Dio. Essendo
immediata, è senza concetto, senza mediazione concettuale. D’altra parte
non può essere altrimenti, perché Dio non è un oggetto45.
La mistica soprannaturale potrebbe essere descritta come l’effetto della
nostra elevazione allo stato di grazia che è un nuovo modo di presenza di
Dio in noi, chiamata dai teologi la missione delle Persone divine e
l’inabitazione della Trinità nell’anima. Dio è presente in noi, nel più intimo
di noi, come nel più intimo di tutte le cose, per la sua immensità, e in
ragione per la sua infinita efficienza, poiché in ogni istante ci dà l’essere e
l’agire. La presenza nella maniera di mistica soprannaturale, è la presenza
speciale assolutamente propria dell’anima in stato di grazia. «Questa
presenza speciale presuppone indubbiamente la presenza di immensità e
non sarebbe possibile senza di essa, ma di sua natura, e secondo proprie
esigenze, è una presenza reale e fisica (ontologica) di Dio nella nostra
interiorità»46. Secondo san Giovanni della Croce, la via sostanziale del
mistico è quella che passa per le virtù teologali infuse47.
Trovandosi in questo stato possiamo dire che la vita eterna comincia
adesso, in questa vita e vi deve ingrandirsi senza posa fino alla dissoluzione
del corpo, in modo da realizzare, proprio mediante l’esperienza mistica e la
contemplazione infusa, per quanto è possibile in terra, nella notte della
fede, dove non è ancora apparso ciò che saremo, quel possesso di Dio al
42
Cfr. S. BRETON, Filosofia e mistica, 44-48.
Cfr. S. BRETON, Filosofia e mistica, 51.
44
Cfr. S. BRETON, Filosofia e mistica, 54-57.
45
Cfr. BARZAGHI G., «I fondamenti metafisici della mistica», in Rivista di ascetica e
mistica, 1999, Convento di San Marco, Firenze, 340.
46
J. MARITAIN, Distinguere per unire, 304.
47
Cfr. L. GARDET – O. LACOMBE, L’esperienza del sé, 15.
43
13
quale la grazia santificante è essenzialmente ordinata. È chiaro così che
l’esperienza mistica e la contemplazione infusa appaiono come termine
normale di diritto della vita di grazia. Si può persino dire che appare come
il vertice verso cui tende tutta la vita umana. In questo mondo decaduto e
redento, dove la grazia preme da ogni parte, la vita umana tende alla vita
cristiana, poiché ogni uomo appartiene di diritto al Cristo, capo del genere
umano, e la vita cristiana tende alla vita mistica48.
Il cristianesimo si può “vantare” del fatto della non credenza, ma bensì
della conoscenza di Dio, non come ente ma come spirito (Gv 4,24)49.
Secondo Vannini, il fatto di “esser laici” in pratica significa negare la
necessità di una radicale conversione, affermando invece come buona e
valida di per sé la naturalità, corporea e psichica, e ignorando lo spirito50.
2. Esperienza del Sé
Nella persona umana l’ignoranza del sé è vista come un vizio. La storia
con i suoi grandi personaggi, le persone sante, di tutte le grandi tradizioni
religiose, ha messo in risalto l’importanza, la necessità indispensabile della
conoscenza di se stessi. Il progresso spirituale, di ogni persona, si può
misurare attraverso la conoscenza sempre maggiore di se stessi come un
nulla e della Divinità come Realtà onnicomprensiva 51.
Se a questa conoscenza del sé aggiungiamo l’esperienza mistica del Sé
che deve restare aperta alla vita della grazia e anche, alla mistica della
grazia, arriviamo alla conoscenza che ci sono numerosi casi misti di questo
genere, sia nella spiritualità cristiana come nella non cristiana52.
«Mistica del Sé e mistica del tutto si presentano come la sistole e la diastole
della mistica di immanenza di cui costituiscono delle variazioni, a patto,
s’intende, che l’esperienza in questione sia sufficientemente radicale e
spoglia da meritare l’epiteto di mistica, e che non si tratti solamente di un
qualche “sentimento” dalla colorazione più o meno panteistica»53.
La mistica del Sé trova il suo principale luogo ove ancorarsi
precisamente in quanto punto cieco della conoscenza spontanea di se stessi.
E il metodo che a ciò conduce si darà il compito di sospendere ogni
48
Cfr. J. MARITAIN, Distinguere per unire, 305-306.
Cfr. M. VANNINI, Prego Dio che mi liberi da Dio, Bompiani, Milano 2010, 7.
50
Cfr. M. VANNINI, Prego Dio che mi liberi da Dio, 9.
51
Cfr. A. HUXLEY, La filosofia perenne, 223-225.
52
Cfr. L. GARDET- O. LACOMBE, L’esperienza del sé, 22.
53
L. GARDET- O. LACOMBE, L’esperienza del sé, 24.
49
14
concettualizzazione riguardante l’essenza del Sé, e anzi di impedire il
formarsi di un’idea esplicitante dell’esperienza della propria esistenza54.
L’esperienza del Sé è oggetto di esperienza immediata vista in virtù di
una riflessione apofatica e come una “immersione” dello spirito in se
stesso, la presenza creatrice può essere riconosciuta soltanto mediamente
nello specchio del Sé. Indubbiamente lo stato di sospensione del discorso e
del concetto blocca ogni approccio consapevolmente discorsivo a Dio.
questo porta alla conclusione che nella coscienza non resta quasi altro che
un sentimento indecomposto di trascendenza e di immanenza, immanenza
di sé, trascendenza di Dio nel Sé55.
Dirigendosi verso quello che ci tramandano l’India da una parte e Plotino
dall’altra, stiamo di fronte una testimonianza innegabile che un’esperienza
di spiritualità naturale in cui l’uomo risalga per una via vissuta di nescienza
intellettuale fino alle sorgenti del proprio essere, fino all’incredibile
ricchezza del suo primo atto di esistenza, si trova inscritta nelle sue più
radicali aspirazioni. È logico che l’interpretazione dell’esperienza può
variare a causa delle culture che la interpretano. Dall’India impariamo la
possibilità di una radicale enstasi, stesso come le vie della difficile tecnica
che vi conduce56.
Alcuni studiosi reclamano la distinzione tra “mistica del sé” e “mistica
della natura”. La prima avrebbe i suoi prototipi nel samkhya-yooga, nel
giainismo o nel buddhismo, e metterebbe capo alla monade individuale. La
seconda, in cui il Sé diviene Ciò che esso è per natura, e si abolisce nel
Tutto, sarebbe quella dei grandi maestri Vedanta57. (VIDI NESTO ZA
NOTU)
«Questa distinzione conserva il suo valore per riconoscere le due linee
secondo le quali si è espressa l’esperienza fondamentale; ed esse
corrispondono a due famiglie spirituali. Se si tratta veramente di una risalita
verso l’atto primo di esistenza, l’interpretazione che ne viene data potrà
mettere l’accento o sull’atto primo o su quella esistenza sperimentata senza
distinta “tallita” di qualsiasi tipo. Due approcci, certo, ma la cui diversità
sarebbe meno legata alla tessitura in sé dell’esperienza che alla sua
risonanza nel soggetto che la vive»58.
Cfr. L. GARDET – O. LACOMBE, L’esperienza del sé, 152.
Cfr. L. GARDET – O. LACOMBE, L’esperienza del sé, 154.
56
Cfr. L. GARDET – O. LACOMBE, L’esperienza del sé, 165.
57
Cfr. L. GARDET – O. LACOMBE, L’esperienza del sé, 171.
58
L. GARDET – O. LACOMBE, L’esperienza del sé, 171.
54
55
15
Nella sua radice ontologica l’esperienza del Sé è aperta a tutti. Ciò ci
permette di sperare di ritrovarne lo slancio iniziale in molti altri casi, meno
netti, meno nettamente decifrabili per ciò che sono dal soggetto che li
sperimenta. Molte volte esso sarà soltanto un indizio appena percepibile nel
campo della coscienza, e da cui una possibile attenzione riflessa sarà subito
distolta, soverchiata dalla “chiacchiera” di un “io” invischiato nel
quotidiano. Ma non c’è solo “la vita alla superficie di se stessi” che rischia
di occultare la specificità. Molte volte questa esperienza iniziale del Sé è
stata nello stesso tempo liberata e velata da assai elevate attività spirituali,
che ora la sapranno indirizzare a loro vantaggio, ora la lasceranno
parassitare, e perfino oscurare il loro stesso fine, conservato tuttavia
esplicitamente59.
In quanto atipici, questi casi meritano una particolare attenzione. C’è
rischio, in tali casi, di proiettare l’esperienza del Sé indebitamente su
orizzonti che non le appartengono, o al contrario, di operare dalle
trascrizioni nozionali e discorsive di ciò che sfugge al discorso. Nelle sue
forme atipiche, l’esperienza del Sé sarà così intimamente mischiata ad altri
processi, che distinguerla dal resto in modo troppo radicale potrebbe finire
con lo spezzare il dinamismo di questi ultimi. Bisogna notare che le
sorgenti ontologiche del suo essere affiorano di continuo nelle più elevate
attività dell’uomo, e le orientano, anche quando non si arriva a riconoscerle
che in modo incompleto60.
Ci sono i tre tipi della mistica del Sé.
Il primo tipo è mistica del Sé e la mistica delle profondità di Dio, è
collegato con una certa conoscenza di fede. E per chi non ammetterà il
realismo extramentale dell’Oggetto della fede, l’approccio della mistica
soprannaturale non potrà essere, in definitiva, se non l’esperienza del Sé
che dà a se stessa, illusoriamente, un termine che la trascende. Essa non
sopporta due diversi approcci mistici: da un lato la ricerca dell’assoluto, a
prescindere dalla descrizione che ne vien fatta, e d’altro lato quel risalire
dell’anima verso le sue sorgenti, descritta dai mistici dell’India. La
distinzione natura/sopranatura, creato/increato, si annulla nell’attingimento
sperimentale di un Sé meta-empirico61.
Essendo il Creatore assoluto, il Dio è allo stesso tempo trascendete e
immanente alla Sua creazione. Solo attraverso Dio si va a Dio. Questo
approccio mistico presuppone l’intervento di Dio. Esso non si attua
Cfr. L. GARDET – O. LACOMBE, L’esperienza del sé, 173.
Cfr. L. GARDET – O. LACOMBE, L’esperienza del sé, 173.
61
Cfr. L. GARDET – O. LACOMBE, L’esperienza del sé, 174.
59
60
16
mediante un’en-stasi radicale verso l’atto primo di esistenza, bensì
mediante l’ek-stasi degli atti sopranaturali di fede e di carità teologali.
L’esperienza del Sé ed esperienza delle profondità di Dio, si intrecceranno
più volte. Nei climi non monoteisti l’esperienza del Sé possa abolirsi e
trasmutarsi, sotto la proposta esistenziale della grazia, nell’attingimento
fruitivo, per nescienza d’amore, del mistero della Vita divina. Mentre nel
clima monoteista un’esperienza incoativa e spontanea del Sé, dopo aver
favorito l’approccio verso le profondità di Dio, possa bloccarne lo slancio a
proprio beneficio, pur se continui a essere chiamato Dio il termine
raggiunto per via d’immanenza62.
Il secondo tipo dell’esperienza del Sé è la mistica del Sé e esperienza
poetica, dipinto col silenzio interiore del poeta, ugualmente come
l’esperienza mistica quando, patisca le cose divine sotto la mozione della
grazia, o s’immerga negli abissi originari del Sé, tende al silenzio63.
Come il terzo tipo si offre la mistica del Sé e discorso filosofico. Modo
di comprenderla è concettuale e col discorso che la organizza. Un ambito
filosofico lungamente esercitato si aprirà a una connaturalità col suo
oggetto, che però questa volta è “connaturalità intellettuale (positiva) alla
realtà come concettualizzabile, e resa proporzionata in atto all’intelletto
umano”. Anche se al primo impatto l’approccio del filosofo sembra diverso
di quello della mistica del Sé, in verità non è così in quanto tutte e due
hanno l’origine nel preconscio spirituale dell’anima. Anch’esse
testimoniano di una sete di assoluto, di un aldilà del mondo empirico delle
sensazioni e delle immagini64.
Una delle caratteristiche della mistica del Sé è che essa non entra in una
soggettività, ma la trapassa in un primo tempo di ek-stasi psicologica
oggettiva, per dopo poter abolirla in un’en-stasi terminale, senza
distinzione di alcun genere65.
L’esperienza del Sé è chiamata anche l’intuizione fruitiva di
quell’assoluto che è nell’uomo il suo atto primo di esistenza. È invero
un’esperienza mistica, il termine viene assunto nel suo significato generale
e analogico, il cui modello ci è offerto dallo yoga e dal vedanta indiani, da
molte testimonianze buddhiste, da Plotino. Ma se è vero che questa
Cfr. L. GARDET – O. LACOMBE, L’esperienza del sé, 174-175.
Cfr. L. GARDET – O. LACOMBE, L’esperienza del sé, 177.
64
Cfr. L. GARDET – O. LACOMBE, L’esperienza del sé, 178-180.
65
Cfr. L. GARDET – O. LACOMBE, L’esperienza del sé, 183.
62
63
17
esperienza fruitiva è legata alla natura dell’anima umana come spirito, e
alla sua unione esistenziale con il corpo66.
Sono le due linee interpretative che spesso vengono privilegiate. L’una
favorisce l’esperienza del Sé che diviene la via di unione mistica, legata
all’oriente, via che conduce a un’affermazione di identità e di unità in
sostanza: atman è brahman; la “natura originale” che è in ciascuno di noi è
l’Assoluto a cui ogni esperienza spirituale di compiutezza può, e deve
giungere. Le adesioni di fede delle religioni monoteistiche sono altrettanti
punti-base sulla strada verso un’autotrascendenza in cui esse si realizzano,
ma anche aboliscono. Tale è, assai sovente, l’atteggiamento che si vuole
comprensivo e aperto dei maestri spirituali del Vedanta o dello zen. Mentre
la seconda linea, legata all’occidente, è quella di quegli spirituali della
cristianità, o dell’Islam, o del giudaismo, per quali ogni mistica è sempre,
dipendente dalla rappresentazione concettuale, un incontro con il Dio della
fede. Ogni mistica autentica, sia d’Oriente sia d’Occidente, è il ritorno al
“silenzio delle origini” (Le Saux) in cui l’Assoluto, che è Dio, è ridato, al di
là di ogni concettualizzazione e di ogni espressione verbale. La via mistica,
in realtà, è una, almeno quando si pensa all’esperienza del Sé. E non più
alla mistica dell’unione, bensì alla “mistica dell’unità” verranno richiesti i
riferimenti e le testimonianze dei climi monoteistici. Cosicché lo yoghi che
raggiunge l’enstasi totale del “samadhi senza germe”, il sufi che si realizza
nell’Unicità vissuta, il cristiano della Seinsmystik che scopre in “questa
irruzione”, come dice Meister Eckhart, “che Dio e io siamo uno”,
partecipano, ne siano o no consapevoli, di un’esperienza identica nella sua
sostanza. La prima linea esplicativa vede i dati della fede come i supporti
utili ma transitori, invece per la seconda linea essi tendono a diventare una
sorte di simbolizzazione concettuale di un’esperienza che li trascende
precisamente nella misura in cui questa raggiunge la loro realtà nascosta
sotto velo delle parole 67. (Probaj prereci)
Bisogna sempre ricordare che l’esperienza del Sé è situata al di là della
fede esplicita. Il suo criterio praticamente è se stessa nella sua soggettività,
con tutti i rischi che ne risultano. L’essenza del criterio oggettivo e
teologico si trova illustrato in molti casi concreti in cui s’intrecciano
mistica del Sé e mistica delle profondità di Dio68.
Al contrario la fede cristiana, che può essere chiamata la fede nel Dio
che è Amore, mette l’accento su unione mistica che è vissuta sotto l’aspetto
Cfr. L. GARDET – O. LACOMBE, L’esperienza del sé, 186.
Cfr. L. GARDET – O. LACOMBE, L’esperienza del sé, 187-188.
68
Cfr. L. GARDET – O. LACOMBE, L’esperienza del sé, 189, 193.
66
67
18
di grazia. L’esperienza spirituale di mistico cristiano è concettualizzata,
oltre il riferimento al Dio Uno e Unico, ma anche ai segreti che gli
comunica il Dio della sua fede. Come dice Nuovo Testamento, Gv 15,15:
Non vi chiamerò più servi, ma amici. Per questo motivo il teologo cristiano
avrà tendenza negare la specificità dell’esperienza del Sé, interpretandola
come un preambolo all’esperienza di Dio o come un suo prolungamento69.
Comunque, ci sembra che in realtà l’esperienza del Sé affiori in diverse
testimonianze, sia nelle tradizioni cattoliche quanto in quelle ortodosse.
Nessuna ricerca di Dio è possibile senza un tempo intenzionalmente
dedicato al silenzio e al raccoglimento. Il vortice delle sensazioni, delle
affettività, delle associazioni d’idee deve calmarsi, unificarsi, concentrarsi
nell’unico sentimento vissuto di una presenza a Dio e di Dio70.
«L’anima fedele deve anzitutto svuotarsi delle sue preoccupazioni
quotidiane, e poi di se stessa; e questo “vuoto” è come un appello rivolto a
Dio affinché Egli invada tutto. […] Ogni ricerca di unione con Dio richiede
un’ascesi di distacco dall’io contingente; ascesi che non è solo uno studio
preparatorio, ma che deve accompagnare il progredire del mistico lungo
tutto il suo percorso. Si tratta qui proprio di un procedimento che è voluto
in quanto tale»71.
Nella mistica de Sé, stesso come nelle altre, il raccoglimento e il silenzio
sono la prima tappa verso un aldilà di ogni trama empirica. Non è che si
tratti di un’avanzata continua e senza urti: il soggetto dell’esperienza deve
passare per molti salti dialettici dove si farà luce un senso di “ascolto”. Ma
tutto si situa su una stessa linea di orizzonte, verso un assoluto che è già,
ontologicamente, nella realtà profonda dell’anima come spirito. Nella
mistica delle profondità di Dio, l’assoluto desiderato non è, per natura, nel
fondo, sia pure il più segreto, dell’anima innamorata del suo Creatore e
Salvatore. Esso viene da un Altrove, presente senza dubbio nella
partecipazione d’essere che unisce Creatore e creatura, ma che si
comunicherà nella sua vita intima mediante un nuovo modo di
partecipazione, e col dono doppiamente gratuito della sua grazia72.
Alcuni autori cristiani orientali usavano la “preghiera di Gesù”, come
una via sicura verso il conseguimento delle grazie di unione con Dio, e così
il metodo di concentrazione. Vista in questa maniera “preghiera di Gesù”
non può non essere “paragonata” con certe forme di yoga, dove si rippette
Cfr. L. GARDET – O. LACOMBE, L’esperienza del sé, 207.
Cfr.L. GARDET – O. LACOMBE, L’esperienza del sé, 207.
71
L. GARDET – O. LACOMBE, L’esperienza del sé, 208.
72
Cfr. L. GARDET – O. LACOMBE, L’esperienza del sé, 208-209.
69
70
19
una certa frase come l’aiuto alla concentrazione, l’aiuto ad arrivare a
qualche scopo. La concettualizzazione della “preghiera di Gesù” è
eminentemente cristocentrica. Questo riferimento al Cristo, nella sua
duplice natura umana e divina, dove la sua umanità resta per il fedele la via
verso la sua divinità, è presente in ogni esperienza mistica di vita cristiana,
se è autentica, e quale che ne sia la modalità. Qui è evidente l’immensa
influenza esercitata da Plotino su così tanti asceti e mistici cristiani. […]
Mistica del Sé e mistica della grazia divina s’intrecciano allora
inestricabilmente. Certe volte la prima sembra venire in aiuto alla seconda,
allontanando dalla propria strada seduzioni e ostacoli; mentre altra sembra
che essa se ne impadronisca in certo qual modo e pieghi il movimento della
grazia divina verso un autocoglimento del Sé, nella trasparenza di un atto
d’essere senza “totalità”, a prescindere di ogni formulazione di fede73.
Le tracce dell’esperienza del Sé si possono trovare anche nella mistica
cristiana, dove un “raccogliersi dell’anima in se stessa” è la tappa
indispensabile. Quando “l’intelletto purificato” coglie se stesso alla propria
luce, in quel caso è in grado di divenire lo specchio in cui si riflette la
Trinità. In questo caso la teologia mistica e teologia negativa vissuta
divengono sinonimi dell’esperienza mistica stessa. L’esperienza del Sé che
affiora è così riassunta e tramutata in valori di mistica sopranaturale.
Questa unione è molto chiara in san Giovanni della Croce, le cui “notti”,
insieme purificatrici e unitive, sono conseguenza della grazia divina
immediata, e un effetto di una totale unione d’amore. Oliver Lacombe
proprio insiste come da Gregorio di Nissa fino a Giovanni della Croce ci
sono degli esempi cristiani dei mistici con gli tratti della esperienza del
Sé74.
Siamo coscienti che in Francia come in Renania, furono degli spirituali
animati da una fede intensamente cristiana che s’inoltrarono verso la
“mistica dell’unità”. Possiamo dire che in essi la via d’immanenza verso il
Sé (nel senso dell’atman indiano) e l’entrata per grazia sopranaturale nella
vita intima del Dio trascendente e intimamente presente si rispondono e
s’intrecciano. In essi, non c’è quasi esperienza del Sé che non sia
attraversata dal fuoco dell’amore divino; e non c’è quasi unione con Dio
che non sia colorata da quella trasparenza di sé a Sé in cui s’abolisce ogni
differenza e ogni qualificazione75.
Cfr. L. GARDET – O. LACOMBE, L’esperienza del sé, 211-214.
Cfr. L. GARDET – O. LACOMBE, L’esperienza del sé, 214-215.
75
Cfr. L. GARDET – O. LACOMBE, L’esperienza del sé, 216-217.
73
74
20
Quando si tratta vissuto spirituale, del Meister Eckhart non è coretto
voler spiegarlo soltanto con esperienza mistica del Sé. In lui (Sermoni
latini) è evidente la sete di unione con Dio attraverso il Cristo, nel Dio della
fede, che è nello stesso momento trascendente e immanente, una sete di
entrare nel suo Mistero, al quale solo la grazia sopranaturale può dare
accesso. Ma si deve riconoscere che questa aspirazione alle profondità di
Dio sia stata più volte assorbita da una via di pura immanenza la cui
compiutezza ha come il proprio fine in se stessa, in una totale abolizione di
ogni differenza. Molti sermoni in linguaggio popolare ne fornirebbero degli
esempi. Essi testimoniano una potente affermazione di identità, che gli
portava verso una totale non-dualità ontologica. Perciò Rudolf Otto ha
potuto nella sua opera Mistica Orientale, Mistica Occidentale (WestOstliche Mystik) fare confronto tra testi di Eckhart e del Vedanta di
Śankara76.
La problematica dell’esperienza del Sé, studiando Eckhart, si manifesta
sul piano dell’insistere che l’anima quando contempla è divisa da quello
contemplato e per questo è imperfetta, ciò richiede la sparizione di tutte
immagini dell’anima e bisogno di contemplare l’unico Uno, in questo
momento il puro essere dell’anima trova il puro, libero, essere dell’unità
divina, un essere al di sopra dell’essere77. Con quest’affermazione lui si
avvicina al plotiniano “Uno che non pensa”, a quel sovraconscio nel quale
intelletto cosciente deve abolirsi, mediante un’“uscita da sé” (estasis), cioè
del proprio io empirico, per ritrovare ciò che esso è nel più profondo del
proprio essere. “Strappata e se stessa” secondo la sua molteplicità, l’anima
“non va a un essere diverso da lei, ma rientra in se stessa, e non è allora in
nessun’altra cosa che in se stessa”. Dicendo con parole di Eckhart, “al di
là di Dio è la Deità”. È importante sottolineare, scrive Luis Gardet, che
quando Eckhart parla così di Dio, lo intende sicuramente come un “nome
funzionale” preso in rapporto a noi, e secondo la conoscenza concettuale
deturpante che noi possiamo acquisire; la stessa Trinità “ancora divisa in
sé” è beneficiaria di quella “teologia funzionale” – teologia deludente per
chi ha sete dell’Assoluto. Intento di Eckhart è inoltrarsi, al di là di “ogni
distinzione”, verso quel fondo segreto che “non conosce e non ama”; e “chi
L. GARDET – O. LACOMBE, L’esperienza del sé, 218.
Cfr. L. GARDET – O. LACOMBE, L’esperienza del sé, 218-219; ECKHART, Sermoni
tedeschi, (trad. it. M. Vannini), Adelphi edizioni, Milano 1985, 253.
76
77
21
scopre questo Fondo segreto ha compreso su che cosa riposi la
Beatitudine”78.
Gardet si chiede se proprio la fede cristiana gli ha condotto a questo tema
del “non-nato”, cosi in consonanza con una certa affermazione delle
Upanichad, perché l’influenza plotiniana (o dionisiana) non potrebbe da
sola darne ragione. Quella a cui ci troviamo di fronte è proprio una
esperienza mistica, la mistica del Sé; ma esperienza mistica che non poteva,
a motivo della fede professata, riconoscersi per quello che è sul piano che
le è proprio. Le proposizioni trattate che lo portarono alla condanna sono in
pratica le espressioni mal focalizzate di quell’incontro delle due vie
mistiche. Era difficile, se non impossibile per Eckhart cogliere la loro
rispettiva specificità. Esse dovevano essere confrontate soltanto su piano
esperienziale, che le portava alla realtà di una fede viva la cui autenticità
resta innegabile79.
«La specificità della mistica cristiana, l’inabitazione nell’anima fedele del
Cristo vivente, morto e risorto per noi, verrebbe cancellata di fronte a
questa “irruzione”, come diceva Meister Eckhart, per cui “Dio e io siamo
uno”»80. La “mistica dell’unità” nel senso renano-fiamongo non è un
completamento della mistica dell’unione, essa anzi la abbandonerebbe, vi
rinuncerebbe, per realizzarsi nell’Ungrund (abisso) il quale “non conosce e
non ama”. E non conduce tanto alla profondità di Dio quanto alle sorgenti
(create) dell’esistenza, all’assoluto (creato) dell’atto di essere, a quella
“traccia dell’Uno che è in noi”, riferimento ultimo e privilegiato
dell’esperienza plotiniana. Resta nondimeno che la mistica dell’unità può
proseguire, e più di una volta ha proseguito, in un clima di grazia cristiana
in cui l’anima, se è umile, continua a ricevere lungo tutto il suo cammino le
attenzioni provenienti e misericordiose del suo Signore»81.
Attraverso le operazioni logiche, la “conoscenza” di Eckhart e il
“darśana” di Śankara, sono in grado di distinguersi dalla ragione, dalla
riflessione, dall’elaborazione personale attraverso le operazioni logiche
della nostra facoltà intellettiva, della ratio, dalla tarka. Ma questo non gli
L. GARDET – O. LACOMBE, L’esperienza del sé, 219. «Perciò prego Dio che mi liberi
da Dio, perché il mio essere essenziale è al di sopra di Dio […]. Perciò io sono non
nato, e, secondo il modo del mio non esser nato, non posso mai morire […]. Nella mia
nascita eterna nacquero tutte le cose, ed io fui causa originaria di me stesso e di tutte le
cose […] infatti, in questa irruzione mi è toccato in sorte di essere una sola cosa con
Dio». In: M. ECKHART, Sermoni tedeschi, 136-138.
79
L. GARDET – O. LACOMBE, L’esperienza del sé, 220.
80
L. GARDET – O. LACOMBE, L’esperienza del sé, 221.
81
Cfr. L. GARDET – O. LACOMBE, L’esperienza del sé, 222.
78
22
impedisce di avere nel senso più profondo della ratio, proprio qualcosa
razionale; hanno luce e chiarezza in sé, e sono opposte quanto possibile ad
ogni oscuro “misticismo”. Per questo Eckhart può dire che in quanto “meno
tu senti più fortemente credi, e tanto più lodevole è la tua fede”82.
La mistica, di Eckhart e di Śankara, si può chiamare la mistica dello
spirito. Ātman e Brahman. Anima e Divinità. La speculazione indiana,
sulla quale si fonda quella di Śankara, ha avuto due punti di partenza e con
essi due direzioni distinte, nelle quali si è mossa: la scoperta del
“meraviglioso” (yaksha) Brahman al fondo dell’universo, è la scoperta
della fantastica essenza (gandharva) dell’ātman nel proprio intimo. Solo
più tardi le due linee si incontrano e la reciproca appartenenza, anzi, la loro
identità è riconosciuta nella visione mistica. In Śankara le due cose sono
identiche: Brahman è l’ātman, l’ātman e Brahman; si potrebbero proprio
usare i due nomi come sinonimi. Anche in ciò è simile ad Eckhart. Soltanto
che quel che in Śankara rimane ancora come contorno, in Eckhart è del
tutto chiaro. Si potrebbe quasi dire che il centro della mistica di Eckhart è
una “mistica dell’anima”: una misticizzazione dell’anima cui si lega una
misticizzazione di Dio83.
Il nucleo e il cardine della dottrina di Eckhart è riassumibile nel concetto
della Mistica dell’anima. Essa significa di trovare se stessi e conoscersi,
conoscere la propria anima nella sua vera essenza, nella sua maestà e
maestà divina, e liberare e realizzare con questa conoscenza la propria
maestà divina, trovare lo abysus, la profondità in se stessi, trovarsi come
divino nel più profondo di noi stessi – insomma, il “contrario dei cantici
dell’anima come homo nobilis”. Questo è assolutamente parallelo alla
credenza nell’ātman ed alla posizione del “Sé interiore” in Śankara. In
entrambi la conoscenza è essenzialmente e prima di tutto ātma-bodhi.
Caratteristica di entrambi maestri è innanzitutto l’opposizione tra
“interiore” e “esteriore”. Questo interiore è in Śankara l’ātman, in Eckhart
l’anima stessa. L’opposizione tra interiore ed esteriore viene spiegata da
entrambi con mezzi psicologici similari. L’“interiore” in Śankara si
distingue innanzitutto dalla carne e dal corpo, in Eckhart sotto le “potenze”,
le “potenze inferiori” e sotto potenze “superiori” riposa l’anima stessa, il
più profondo e il più alto, l’apice, la vetta dell’anima e il suo “fondo”, la
scintilla, la sinderesi, il “terzo cielo” dell’interiorità. Nel profondo
dell’ātman abita, secondo Śankara, il Signore, come guida interiore, in
mistico legame con lo ātman: e nel fondo dell’anima fiorisce e verdeggia
82
83
Cfr. R. OTTO, Mistica orientale, mistica occidentale, 72-74.
Cfr. R. OTTO, Mistica orientale, mistica occidentale, 76-79.
23
per Eckhart Dio; entra e esce, ha il suo luogo nascosto, là genera la sua
parola eterna, là dialoga con l’anima. L’anima è come l’ātman, il “sé”. E,
in quanto tale, entra in opposizione assoluta con quello che siamo abituati a
confondere con il sé, ovvero l’io, la “egoità” o la “mia-ità”, come dice
Eckhart – lo ahankāra o “quel che fa l’io”, come dice Śankara. Io devo
rinunciare a tutto l’io ed al mio, morire ed entrare nella completa povertà
spirituale (tyāga), per giungere al sé dell’anima. Mistica dell’anima elevata
dalla mistica di Dio. Si trova così in entrambi, al centro della loro dottrina
di salvezza, quella che si potrebbe chiamare una “alta fede dell’anima, che
diviene una concezione mistica dell’anima”. Si potrebbe essere tentati,
particolarmente nel caso di Eckhart, di definire ciò l’essenza della sua
intera speculazione, e forse la sua intera concezione di Dio, solo come una
sorta di ampliamento del sentimento mistico dell’anima84.
3. L’idea della non dualità e la mistica
Partire dall’advaita che si può prendere dalla licenza e da Panikkar.
«L’India è stata chiamata una Terra di mistici. La filosofia indiana, che dà
grande importanza all’esperienza, ambisce alla trasformazione totale della
persona umana. Questo avviene nella suprema, perfetta esperienza che
prende il nome di mistica. In India ci sono state ricche tradizioni mistiche
con numerosi mistici e scuole mistiche. Sebbene l’esperienza mistica sia
familiare in India, la parola ‘mistica’ è usata di rado»85.
Come la preoccupazione principale dei saggi indiani, nelle epoche
passate, è stata la persona umana e la sua liberazione. Questa
preoccupazione nasce come la risposta al problema esistenziale del dolore e
della sofferenza. Essi si sono consacrati alla ricerca di una via per
l’ottenimento della totale liberazione già qui sulla terra e non
semplicemente dopo la morte. La loro principale preoccupazione era la
liberazione (moksa) della persona umana. Questa esperienza di liberazione
qui sulla terra (jivan-mukti) può essere chiamata esperienza mistica86.
La parola più comune usata per mistica in India è yoga o marga. Yoga
significa unione, stato di unione o mezzi di unione87.
84
Cfr. R. OTTO, Mistica orientale, mistica occidentale, 79-81.
D’SOUZA Gregory, «L’esperienza mistica in India», in Aa. Vv., Sentieri illuminati
dallo spirito. Atti del Congresso internazionale di mistica, Abbazia di
Münsterschwarzach, Edizioni OCD, Roma 2006,[495-516] 495.
86
Cfr. D’SOUZA Gregory, «L’esperienza mistica in India», 495.
87
D’SOUZA Gregory, «L’esperienza mistica in India», 498.
85
24
La mistica non-dualista, Advaita, è quella che attribuisce importanza
all’esperienza della conoscenza. La chiamano anche la “Via della
Conoscenza” (Gnana Yoga). È una delle sei classiche scuole della filosofia
indiana (darshana), fondata da Śhankara (788-820). La mistica Advaita si
interessa dell’esperienza liberatoria della verità. Nella vita ordinaria di ogni
giorno, la realtà appare molteplice, in particolare, Dio (Paramatma), Sé
(Jivatma) e il mondo delle realtà (pratvi). Messa a confronto con il dolore e
la sofferenza causati dalla molteplicità della realtà, questa scuola si
interroga sulla validità della stessa realtà88.
«La realtà ultima è una sola. Da un punto di vista cosmico oggettivo,
prende il nome di Brahman mentre soggettivamente prende il nome di
Atman. Ma la realtà è una e sempre la stessa. Non ha qualificazioni
(nirguna), è inesprimibile (anirvachaniya), sconosciuta, inconoscibile e al
di là di tutti i nomi e le forme (Nama roopa). È Una sola, senza una
seconda. Non c’è neppure una distinzione e una dualità tra soggetto e
oggetto. Il Brahman supremo è impersonale. Nella devozione religiosa
ordinaria è visto come un Dio personale e ci si rivolge a lui chiamandolo
Brahman, Saguna Brahman (“Brahman qualificato”) e Iswara. Ma in se
steso, Egli è totalmente trascendente. Questa verità può essere sperimentata
solo nello stato di liberazione o al vertice mistico. Nella conoscenza pratica
della vita ordinaria (vyavahaarika gnana), la realtà è vista come molteplice.
Ma c’è una differenza tra l’esperienza pratica di ogni giorno e l’esperienza
mistica liberatoria. Quando sorge l’esperienza mistica, gradualmente
scompare l’esperienza della molteplicità e della dualità»89.
A prescindere del fatto che sappiamo che la realtà sia unica, essa si
manifesta come molteplice a causa dell’ignoranza, māyā. Praticamente,
essa è più che semplice ignoranza. Negativamente causa l’assenza di
conoscenza (agrahana) e positivamente presenta una conoscenza errata
(anyathagrahana)90.
Per superare questa illusione ed arrivare alla vera conoscenza della verità
attraverso l’esperienza mistica, ci si deve sforare di praticare una disciplina
mistica (pramana). È formata da due stadi: preparativo e classico. Il primo
stadio consiste nella pratica delle seguenti quattro virtù: il discernimento, la
rinuncia, la meditazione, la contemplazione91.
In questa quarta dimensione esistono i quattro importanti stadi nella
crescita progressiva della coscienza umana: L’esperienza dello stato vigile,
Cfr. D’SOUZA Gregory, «L’esperienza mistica in India», 498-499.
D’SOUZA Gregory, «L’esperienza mistica in India», 499.
90
Cfr. D’SOUZA Gregory, «L’esperienza mistica in India», 499.
91
Cfr. D’SOUZA Gregory, «L’esperienza mistica in India», 499-500.
88
89
25
l’esperienza dell’impressione intra-mentale, l’esperienza comparabile al
sonno senza sogni e alla fine l’esperienza mistica (Turiya). Per lo stadio
finale è legata l’esperienza mistica propriamente detta. La sua consistenza
si manifesta in una coscienza senza qualificazioni, in cui la distinzione tra
soggetto e oggetto viene annullata e rimane la sola esperienza della pura
coscienza. Questa esperienza è l’Essere supremo che è anche Beatitudine e
Coscienza (Sat Cit Ananda). Importante sottolineare che questo non sono le
tre realtà ma una sola. Essa è pura e perfetta. Le facoltà soggettive come i
sensi (indriya) e l’intelletto (buddhi) non la condizionano. Oltrepassa la
concezione dei sensi che la concezione intellettuale. È sovra-sensoriale e
sovra-razionale non ha alcun contenuto conoscibile. Poiché questa
esperienza non può essere afferrata dai sensi o dall’intelletto e poiché
queste facoltà sono private dell’esperienza degli oggetti loro propri, spesso
questa pura coscienza mistica è avvertita come tenebra 92.
Ciò che viene sperimentato è al di là di ogni comprensione, al di là di
tutti i nomi e forme, al di là di ogni forma di conoscibile. È il Brahman
inesprimibile e senza qualificazioni (Nirguna Brahman) che non può essere
oggettificato. Il risultato è che questa esperienza può essere avvertita come
vuoto. Ma questa è l’esperienza della sapienza mistica contemplativa93.
Secondo Śankara la realtà non è né una né molteplice. La molteplicità
della realtà è totalmente dipendente dall’unica eterna realtà e da questa
deriva la sua esistenza. La molteplicità è compresa nell’uno, ma non è
l’uno. Per questo la realtà è non-duale. Alla fine possiamo dire che la sua
visione è metafisica e il suo linguaggio è al contempo metafisico e
mistico94.
Nello stato non-mistico la persona è catturata dall’esperienza della
molteplicità a causa della potenza del māyā. I pensatori indiani,
generalmente, non spiegano l’origine di questa potenza, ma semplicemente
affermano che anche il Brahman, la realtà suprema, e in qualche maniera
essendo influenzato di essa, ha creato la molteplicità delle cose. Secondo
Śankara e la maggior parte dei pensatori indiani, quello che in definitiva
permette la liberazione totale è la coscienza mistica, non l’azione. Le buone
azioni hanno il ruolo negli stadi iniziali, mentre la liberazione finale può
venire solo dalla contemplazione mistica. In questa maniera essi affermano
che la contemplazione mistica è più eccellente della mera vita attiva95.
Cfr. D’SOUZA Gregory, «L’esperienza mistica in India», 501.
D’SOUZA Gregory, «L’esperienza mistica in India», 501.
94
Cfr. D’SOUZA Gregory, «L’esperienza mistica in India», 502.
95
Cfr. D’SOUZA Gregory, «L’esperienza mistica in India», 502-503.
92
93
26
Il teismo di Śankara deve la sua particolarità al teismo dell’India. Ātman
e Brahman sembrano essere solo una pura tautologia. Malgrado ciò, c’è
una differenza abissale tra la dottrina dello yoga e quella dell’ātmanBrahman. Gli yogin, che non cercano il Brahman, che desiderano “solo”
trovare l’ātman, stanno molto al di sotto dei conoscitori del Brahman e
sono disperatamente lontani dalla salvezza. Ciò che separa radicalmente le
due posizioni, quella di Śankara dallo yoga, è ciò stesso che viene
ordinariamente riprovato – assurdamente – a Śankara come ad Eckhart e
che, tenendosi alle loro formule ed asserzioni letterali sarebbe una
conseguenza necessaria. Il seguace dei Veda rimprovererebbe con
indignazione allo yogin ciò che egli stesso non cessa di fare, secondo le sue
formule: perseguire una “autodivinizzazione” senza salvezza. Lo yogin
attribuisce all’ātman quello che appartiene al Brahman96.
La dottrina dei due maestri si potrebbe, secondo le loro formule, esporre
ugualmente dall’alto, in modo che tutto il percorso da essa descritto appaia
come una questione del Brahman non dell’ātman. Più o meno così:
“Brahman, uno soltanto, senza dualità viene reso molteplice dalla avidyā.
Una falsa rappresentazione gli “sovrappone” il mondo della molteplicità. Il
puro uno essente appare molteplice nella (fittizia) pluralità delle singole
anime. Il senso della dottrina del Brahman è quello di distruggere il
groviglio dell’ignoranza nei suoi singoli punti, togliendo dal vero essere
questo mostruoso errore”97.
La fede in un Dio personale, che dona salvezza, da adorarsi e da
conquistare con l’amore fedele della bhakti, per Śankara è solo aparā
vidyā, scienza inferiore, che scompare appena giunge il samyag darśanam,
la conoscenza piena. La conoscenza che è espressa con “grande parola” tat
tvam asi: questo sei tu. Questo Brahman e la sua esperienza mistica
escludono assolutamente il Dio personale ed il rapporto personale con le
funzioni di amore confidente; anzi stanno in opposizione pura e piena con
esso. L’intero mondo molteplice, insieme con il suo Signore, affonda nella
apparenza della avidyā, del non-sapere, ed è esso stesso solo avidyā. Perciò
il punto di vista di “colui che conosce” è al di sopra del teismo personale
come di ogni altra interpretazione del mondo. Un barato insuperabile lo
separa dagli altri. La mistica si presenta qui nella sua purezza, non colorata
e non caratterizzata da elementi estranei, in una fredda tranquillità che va
oltre le emozioni della pietà teista o “credente”, in una glaciale chiarezza
96
97
Cfr. R. OTTO, Mistica orientale, mistica occidentale, 82-83.
Cfr. R. OTTO, Mistica orientale, mistica occidentale, 83.
27
del puro essere e del conoscere. La mistica è qui conseguente. E questa è la
mistica che si ritrova ovunque, quando si mostra “conseguente”98.
Mistica di Śankara è chiamata fredda perché è diversa da quelle calde
emozionali. La mistica di Eckhart è piena di affettività, è perciò diversa
dall’esperienza di Śankara. Bisogna ricordare, ma quanto questa mistica
può essere chiamata fredda, che non esiste il “freddo glaciale” della mistica
e in particolar modo della mistica indiana. Senza dubbio la mistica di
Śankara e lo stato di colui che è giunto al Brahman-nirvana si distinguono
dalle altre forme della mistica per l’immobilità, la quiete concentrata e
profonda, per la loro “staticità”. In secondo luogo, essa è caratterizzata dal
fatto di non essere neutrale verso il teismo al di sopra del quale si innalza,
perché sta sempre in salda relazione con il teismo indiano, specialmente
quello della Gītā, che la rende particolare, proprio per questa relazione99.
Nel piano inferiore Śankara è completamente teista, lo dimostra
seriamente e con sacro zelo. Su questo punto, si incontra la sua teologia e
quella descritta di Rāmānuja (1017-1137) che combatte con passione
contro Śankara per la concezione personale del Brahman. Per lui è ovvio
che, chi è liberato una volta in Dio “non torna indietro”, ma prossimamente
trovi, seguendo la strada di una “liberazione graduale”, il Brahma-nirvāna.
Così, e non con il preteso “modo di pensare sintetico indiano”, si
comprende la singolare elasticità dei confini tra scienza superiore ed
inferiore in Śankara. Anche nel suo concetto di māyā si riflette stessa
relazione. Anche se occasionalmente māyā e avidyā confluiscono l’una
nell’altra, tra di loro due c’è una differenza significativa. Avidyā ha l’uomo
che scorge l’eternamente-Uno nella molteplicità. Māyā ha il Brahman è il
grande māyin. Questo non impedisce a Śankara, di difendere la sua
posizione affermando che Brahman ha il diritto di chiamarsi causa
materiale e causa efficiente del mondo. Il nome di causa materiale prende
in quanto è il sostrato su cui è formata la molteplicità di tutte le cose.
Mentre la causa efficiente lo è, in quanto per la sua māyā esso appare così
come appare, questo mondo di apparenze del molteplice. Lui crede di non
portare qualcosa di nuovo, ma di esporre l’insegnamento e la mistica
dell’antica saggezza delle Upanishad, che hanno compiuto un significativo
mutamento a proposito del Brahman100.
Come il secondo tipo di advaita, si può portare esempio di Prahlāda. La
sua sorte è finita male perché credeva in Vishnu. A causa della sua
98
Cfr. R. OTTO, Mistica orientale, mistica occidentale, 144.
Cfr. R. OTTO, Mistica orientale, mistica occidentale, 144-145.
100
Cfr. R. OTTO, Mistica orientale, mistica occidentale, 146-147.
99
28
credenza il padre gli era buttato in mare. Dice che egli sente se steso come
acyuta, scompare a se stesso e si conosce come il sé: “Infinito io sono,
senza mutamento, io stesso sono ora l’altissimo Sé”. È evidente il fatto che
qui l’esperienza mistica parte da un atto di intensa bhakti. Il Signore
personale, amato e in cui si ha fiducia, si estende qui in totalità mistica, che
è l’unica essenza. Che permette al soggetto e oggetto di passare l’uno
nell’altro, e il soggetto dell’esperienza “è” egli stesso il Signore che è
Tutto. La caratteristica che è propria a questo Dio è la capacità di poter
essere presente all’anima come essenza totale beata e assorbente, e come
amore personale ed amico dell’anima101.
Diversamente da Śankara che è zelante non-dualista, Eckhart a volte si
manifesta come il duro dualista, particolarmente con la dottrina della
creatura che è un puro nulla. Lo emerge soltanto nel senso del dualismo
religioso, per spessore, o meglio dire nel senso della dottrina di salvezza.
L’interesse che ci sveglia è l’opposizione tra assoluta salvezza e assoluta
dannazione: opposizioni estreme, autoescludendosi, non mediabili da alcun
passaggio, evoluzione o emanazione, contrarie come Dio e il demonio. La
mistica quando è religione e non speculazione cosmologica, è quasi sempre
“dualistica”. Ma purtroppo in questo dualismo sta il senso fondamentale del
suo messaggio102.
L’altro rimprovero ad Eckhart, ed occasionalmente alla “mistica” in
generale, è il fatto che la vita piena con tutte le sue particolarità finisca per
perdersi in pallide e grigie astrazioni, in identificazioni vuote di essenze
che sono divenute schematicamente vuote. Per esempio divenire uno con
l’Uno, con l’essere, con ciò che è spogliato di ogni concetto e di ogni forma
concreta. Questi rimproveri, da parte dell’Otto, sono visti come le
incomprensioni nei confronti del contenuto dell’esperienza mistica indiana,
mentre quelle che riguardano Eckhart sono semplicemente mostruose.
Quello che lo rende diverso, e perciò incompreso, è il suo senso di Dio
nuovo ed enorme, che si espande nel suo tempo “gotico”103.
Differenzia tra Śankara ed Eckhart, secondo Otto, sta anche nel loro
concetto di Dio. Mentre il primo ha un concetto assolutamente statico il
secondo ha assolutamente dinamico. L’eterna quiete della Divinità, di
Eckhart, ha un altro senso rispetto al sat in quiete. Essa è tanto il principio
quanto la conclusione di un gigantesco movimento interno, di un processo
eterno di vita che fluisce in se stessa. Una ruota che gira da se stessa, un
101
Cfr. R. OTTO, Mistica orientale, mistica occidentale, 152-153.
Cfr. R. OTTO, Mistica orientale, mistica occidentale, 94.
103
Cfr. R. OTTO, Mistica orientale, mistica occidentale, 159.
102
29
fiume che fluisce in se stesso: immagini del tutto impossibili per l’Uno di
Śankara. Il numen di Eckhart è “causa sui” nel senso altamente positivo di
una incessante produzione di se stesso. Quando Eckhart insiste che bisogna
lasciare Dio, elevarsi al di sopra di Dio, e che Dio scompare ed è assorbito
nella Divinità senza modo, potrebbe sembrare che la produzione di Dio, e
del mondo con lui, dal profondo della Divinità, sia semplicemente una
mera infelice anomalia, una fatalità da riparare, un puro e totale
controsenso senza significato proprio, come è infatti in Śankara. Dio che
Eckhart chiama con Aristotele “primo motore”, è in se stesso enorme
movimento vitale. Dalla unità indivisa passa alla molteplicità della persona,
della vita personale e delle “Persone”, in cui è incluso il Verbo e dunque la
molteplicità del mondo104.
«Quello che la creatura ha ed è in se, come dice Eckhart, non è la vita vera:
è piuttosto bāsār, carne, ovvero morte e impotenza, invece di vita. La vita la
ha solo il Dio “vivente”, che è la vita stessa. E questa vita è la salvezza, è
luce e verità, ruach, spirito, la traboccante ricchezza di Dio. Egli partecipa
la vita col suo spirito, e questa partecipazione a Dio-spirito e alla “vita” e la
partecipazione al divino stesso»105.
L’operosità è quel fatto attraverso cui l’uomo diviene “reale”. Ciò vuol
dire l’uomo che è divenuto “vita”, “essere”, “dio”. Un tale uomo diventa
“essenziale”, e perciò “reale”: questo significa in Eckhart più che
raggiungere il satyasya satyam, l’essere veramente reale nel senso della
realtà più vera. Diversamente da lui, lo scopo di Śankara è la cessazione di
ogni karmānai, di ogni azione ed atto di volizione, quietismo, tyāga,
rinuncia al volere e all’agire, abbandono dell’opera sia cattiva sia buona,
perché entrambe “legano”, in particolar modo al mondo della
trasmigrazione. Per Śankara ciò che veramente è non opera. Così
l’operosità diventa luogo essenziale delle differenze tra nostri due
rappresentanti della mistica occidentale e quella orientale. Anche se tutti e
due ricercano e contemplano l’unità e l’eternamente Uno in opposizione al
molteplice; la relazione tra l’uno e i molti è in Śankara quella rigorosa
esclusione, mentre in Eckhart della più vitale polarità. Śankara è il più
rigoroso monista, ma niente affatto “filosofo dell’identità” dell’uno e del
molteplice, Eckhart, invece, lo è del tutto106.
Stesso come afferma Gesù dicendo che “Lui e Padre sono una cosa
sola”. Egli si conosce come uno col Padre, e contemporaneamente distinto
104
R. OTTO, Mistica orientale, mistica occidentale, 163-164.
R. OTTO, Mistica orientale, mistica occidentale, 166.
106
R. OTTO, Mistica orientale, mistica occidentale, 166-167.
105
30
dal Padre, che è possibile notare in quanto non dice “Io sono il Padre”, ma:
“Io e il Padre siamo uno”. È nota la sua unità nella distinzione. L’intera
mistica cristiana si è sviluppata attorno questa muta compenetrazione tra
unità e distinzione. Questa dimensione della unità e distinzione è punto che
distingue l’esperienza cristiana di Dio da quella indù. L’indù, nella sua più
profonda esperienza dell’advaita, conosce Dio in un’identità di essere. “Io
sono Brahman”, “Tu sei quello”. Il cristiano sperimenta Dio in una
comunione di essere, in un rapporto d’amore, in cui c’è, non di meno,
perfetta unità d’essere.107
4. Contemplazione e azione
Azione e contemplazione non si escludono, anzi molti mistici sono stati
uomini di azione108.
INSERIRE “DIMORA DELLA SAGEZZA” PARTENDO DALLA P.7
PANIKKAR – MISTICA (2008) – 70-89; 323-348.
Consultando qualsiasi formulazione storica della Filosofia Perenne è
certo che il fine della vita umana è la contemplazione, ovvero “la
consapevolezza diretta e intuitiva di Dio; che ‘azione è il mezzo a quel
fine”. Da questo emerge che una società può essere considerata buona in
quanto permette, assicura, ai suoi membri la possibilità di arrivare a quel
fine – alla contemplazione, stesso come senza almeno di una minoranza
contemplativa nessuna società non può essere considerata buona. Le
società occidentali generalmente si considerano buone in quanto ai suoi
membri rassicurano una vita attiva, e in quanto loro membri contribuiscono
al progresso tecnico e organizzativo; “e che una minoranza dei
contemplativi è perfettamente inutile e forse perfino dannosa alla comunità
che la tolleri”109.
Sia nelle religioni orientali, buddhismo e induismo espresso nella
corrente Vedānta, stesso come nel cristianesimo, la Retta Azione è vista
come il mezzo con quale la mente si prepara alla contemplazione. La
contemplazione non è una attività riservata per i privilegiati, essa è aperta a
tutti, in quanto tutti sono chiamati a realizzare la liberazione, “che è
semplicemente la conoscenza che unisce il conoscente al conosciuto, e cioè
107
Cfr. B. GRIFFITHS, Una nuova visione della realtà. Scienza occidentale, misticismo
orientale e fede cristiana, Edizioni Appunti di Viaggio, Roma 2005, 258-259.
108
Cfr. R. PANIKKAR, L’esperienza della vita. La mistica, 166; R. PANIKKAR, Il ritmo
dell’essere, 322.
109
Cfr. A. HUXLEY, La filosofia perenne, 398.
31
all’etero fondamento e Divinità. Tutte le persone sono chiamate alla vita
mistica, la sua realizzazione è possibile se le persone sarebbero disposte di
evitare i peccati, e poi secondo la propria condizione sottomettersi allo
Spirito Santo, sicuramente tutte raggiungerebbero la perfezione che li
porterebbe alla vita mistica, vera e propria110.
«Come ci mostra l’esempio di tanti mistici, azione e contemplazione non si
escludono. Non solo si completano a vicenda, ma anche si implicano
mutualmente, poiché non c’è vera azione senza contemplazione né
autentica contemplazione senza azione. […] Il mistico è incarnato in questo
mondo e talmente radicato in esso perché non scinde la Vita in due, non
separa la propria esistenza terrestre da quello che è stato definito “altro
mondo”, anche se sono ben cosciente della distinzione»111.
Nella letteratura cristiana troviamo le espressioni come «l’ascolto della
Parola, che si fa contemplazione e amore, sequela e azione, è il centro della
nostra vita». Comunque sia una senza l’altra non può esistere, non esiste
una vera azione, possiamo dire anche missione, se non scaturisce dalla
contemplazione112.
Secondo Huxley, l’affermazione che tutti sono chiamati alla
contemplazione sembra in contrasto con quanto si sappia sulle diverse
forme innate di temperamento e con la dottrina che sostiene che esistono
almeno tre vie principali della liberazione: la Via delle Opere, della
Devozione e della Conoscenza. Afferma che questo contrasto è più
apparente che reale. «Se le vie della devozione e delle opere portano alla
liberazione, è solo perché introducono alla Via della Conoscenza. La
liberazione totale si dà, infatti, solo attraverso la conoscenza unitiva».
Perciò si crede che un’anima che non passa attraverso la via della
devozione e delle opere a quella della conoscenza non è totalmente
liberata113.
Sentiamo necessità di ricordare che Dio non è unico oggetto possibile di
contemplazione. Oltre le persone religiose ci sono molti filosofi, esteti e
scienziati contemplativi114.
«Indubbiamente il piano dell’esperienza mistica e contemplativa trascende
le categorie razionalistiche, le distinzioni concettuali, ma ciò non significa
che essa non sia arrischiata alla deriva in una sorta di naufragio in
110
Cfr. A. HUXLEY, La filosofia perenne, 400-401.
R. PANIKKAR, L’esperienza della vita. La mistica, 166.
112
S. FAUSTI, Missione: modo di essere Chiesa, EDB, Bologna 2010, 47.
113
A. HUXLEY, La filosofia perenne, 402.
114
Cfr. A. HUXLEY, La filosofia perenne, 404.
111
32
un’esperienza impersonale, in una confusione in cui la ricchezza del
molteplice e della carne del mondo e dell’umanità vengono vanificate e
perdute»115.
Possiamo dire che la contemplazione cristiana coincide con la
partecipazione all’eterno risveglio del Figlio al Padre nella non dualità,
nella comunione e nel dono dello Spirito, che è lo Spirito Santo116.
Non vi è alcun dubbio che il cristiano deve innanzitutto curare la
contemplazione, ma non è meno certo che la contemplazione è rivolta, per
sua natura, all’azione. Si sente la necessità, seguendo modello dove il verbo
si è fatto carne, anche la contemplazione si incarni in azione, la quale
rappresenta per il cristiano la continua presenza di Cristo nella sua vita.
Secondo la dottrina cristiana, l’azione non è una dispersione della vita
spirituale, anzi, essa costituisce l’esigenza più profonda117.
In qualche maniera, nella vita cristiana, esiste una circolarità tra questi
due concetti. Come la contemplazione alimenta l’azione, così l’azione
alimenta la contemplazione118. Il rapporto tra azione contemplazione deve
essere guardato, osservato in concreto.
«Il cristiano, che vive la sua vita di cristiano in atteggiamento attivocontemplativo, è totalmente immerso nella concretezza, cioè nella realtà
vera. Ed è da rilevare che ciò che lo chiama alla concretezza non è tanto
l’azione quanto piuttosto la contemplazione, perché questa è essenzialmente
rivolta all’azione. La contemplazione è visione della realtà cristiana, ma
questa realtà si attua nell’azione»119.
Intesa come rapporto con Cristo, l’unione di azione e contemplazione
costituisce l’essenza della vita cristiana. Vuol dire che non c’è vita cristiana
senza rapporto con Cristo, che esprime in concreto l’unione di azione e
contemplazione. Questo rapporto tra azione e contemplazione può essere
descritto come l’amore di Cristo realizzato nella vita cristiana, che in fine
diventa l’essenza della vita cristiana. Nell’amore di Cristo realizzato nella
vita cristiana, azione e contemplazione vengono ricomprese, e il primato
115
M. BOLOGNINO, «Dialogo contemplativo cristiano-indù», in Rivista di Ascetica e
mistica, 2008 n. 2/3, 631 (627-635).
116
Cfr. M. BOLOGNINO, «Dialogo contemplativo cristiano-indù», 632.
117
Cfr. G. GIANNINI, Orientamenti: Azione e contemplazione – Identità e differenza,
Pontificia Università Lateranense – Città Nuova Editrice, Roma 1979, 16-17.
118
Cfr. G. GIANNINI, Orientamenti: Azione e contemplazione – Identità e differenza, 17.
119
Cfr. G. GIANNINI, Orientamenti: Azione e contemplazione – Identità e differenza, 20.
33
della contemplazione sull’azione si afferma come ciò che vivifica l’azione
e la rende impegno permanete120.
Secondo Merton la contemplazione non è un comportamento della vita,
quanto piuttosto il modo di integrare la propria vita in un insieme unico 121.
Lui insiste che nella maggior parte dei casi, la via della contemplazione non
è nemmeno una via, e se la si segue, ciò che si trova è nulla. Perciò può
affermare che una delle strane leggi della vita contemplativa è che in essa
non ti siedi per risolvere i problemi: ma devi aver pazienza con essi finché
in qualche modo si risolvono da soli. O finché la vita stessa li risolve per
te122.
Differentemente delle occidentali le tradizioni orientali hanno il
vantaggio di disporre l’uomo alla contemplazione in modo più naturale.
«La prima cosa che devi fare, ancor prima di cominciare a pensare a cose
quali la contemplazione, è cercare di recuperare la tua naturale unità di
fondo, riprendere il tuo essere frammentato e ricomporlo in un insieme
coordinato e semplice, e imparare a vivere da persona umana unificata.
Questo significa che devi rimettere insieme i frammenti della tua esistenza
distratta, in modo che quando dici “io”, ci sia realmente qualcuno presente a
sostenere il pronome che hai pronunciato»123.
Qualsiasi tipo di esperienza che posiamo sperimentare, religiosa, morale,
artistica, tende di avere in sé qualcosa della presenza dell’io interiore. Solo
dall’io interiore l’esperienza spirituale di qualsiasi genere acquista
profondità, realtà e anche una certa incomunicabilità. Ma la profondità
dell’esperienza spirituale ordinaria ci trasmette solo una sensazione
indiretta dell’io interiore124.
La prima cosa al riguardo di Zen che Merton sottolinea è la sua non
pretesa di essere una esperienza sopranaturale o mistica. Essi è appunto
anti-mistico. Proprio per questo ci permette di osservare il lavoro naturale
dell’io interiore. Grande esponente dello studio dello Zen D. T. Suzuki si dà
da fare per contrapporre questo evento spirituale all’esperienza mistica
cristiana, mettendo l’accento sul suo carattere “naturale”, di fenomeno
“puramente psicologico”. E quindi nessuno avrà da recriminare se
120
Cfr. G. GIANNINI, Orientamenti: Azione e contemplazione – Identità e differenza, 26,
28.
Cfr. TH. MERTON, L’esperienza interiore. Note sulla contemplazione, San Paolo,
Cinisello Balsamo (MI) 2005, 17-18.
122
Cfr. TH. MERTON, L’esperienza interiore. Note sulla contemplazione, 24-25.
123
TH. MERTON, L’esperienza interiore. Note sulla contemplazione, 27.
124
Cfr. TH. MERTON, L’esperienza interiore. Note sulla contemplazione, 32.
121
34
riteniamo di esaminarlo in quanto caso psicologico, mostrando il modo di
operare dell’io interiore presumibilmente senza alcuna influenza della
grazia mistica125.
La scoperta dell’io interiore ha un ruolo significativo nella mistica
cristiana. Mentre nello zen sembra non sia richiesto di sforzarsi per andare
oltre l’io interiore. Nel cristianesimo, l’io interiore è solo un gradino sulla
via della consapevolezza di Dio126.
È importante ribadire che all’interno della teologia cristiana e cattolica
non esiste una teologia della mistica comunemente recepita. Esistono
grandi personalità mistiche che rendono testimonianza delle loro
esperienze. Per questo è ovvio che qualsiasi prova di sistematizzare il
pensiero mistico secondo i canoni teologici diventa in una certa maniera
una riflessione sistematica sull’esperienza mistica che emerge sempre in
connessione con le concezioni teologiche e di fede che il mistico in
questione possiede. Egli inevitabilmente si servirà di esse, nel tentativo di
descrivere o addirittura di sistematizzare la sua esperienza originaria, così
da inquadrarla nel sistema di coordinate delle sue particolari convinzioni e
opinioni filosofiche e teologiche127.
«Un primo problema fondamentale, di cui oggi una teologia della mistica
dovrebbe occuparsi, riguarda la relazione precisa del mistico con ciò che
egli esperimenta nella forma di una “assoluta vicinanza”. […] Potrebbe
anche essere che forse una probabile esperienza mistica dell’unità del
soggetto col “mondo” venga immediatamente identificata con una
esperienza dell’unità del soggetto mistico con Dio stesso. Ancora, potrebbe
avvenire che il venire meno della propria egoistica particolarità
nell’esperienza mistica di un amore radicale di Dio che si auto comunica,
venga mal interpretato, dal punto di vista della riflessione oggettiva, come
una pura e semplice cessazione del soggetto finito»128.
Tutti questi motivi sopra nominati, sono estremamente importanti per le
persone che prestano l’attenzione alla mistica, stesso come anche al mistico
stesso, e come lui vive e spiega la propria esperienza mistica relativamente
a tali questioni129.
Cfr. TH. MERTON, L’esperienza interiore. Note sulla contemplazione, 34.
Cfr. TH. MERTON, L’esperienza interiore. Note sulla contemplazione, 40.
127
Cfr. K. RAHNER, Visioni e profezie: Mistica ed esperienza della trascendenza, Vita e
Pensiero, Milano 1995, 134.
128
K. RAHNER, Visioni e profezie, 135 – 136.
129
Cfr. K. RAHNER, Visioni e profezie, 136.
125
126
35
Come secondo problema fondamentale della teologia mistica Rahner
sottolinea la relazione tra la grazia-fede da un lato e l’esperienza mistica
dall’altro. Secondo lui questo è uno dei più grossi problemi della
tradizionale teologia mistica in quanto essa queste esperienze mistiche
considera la “grazia”, ma questa grazia è tale anzitutto per questo, perché
viene concepita come un particolare, puntuale intervento di Dio, che è
gratuito, e perché qui il Dio inaccessibile si auto comunica in una maniera
tutta speciale. Quello che rimane poco chiaro è il modo con cui una tale
grazia si rapporta a quella grazia che il cristianesimo annuncia come offerta
di Dio a tutti gli uomini130.
Opinione che Rahner mette in evidenza è che la mistica deve essere
concepita all’interno della normale grazia e della fede, altrimenti teologia
mistica non sarà niente di più che una “parapsicologia” intesa in senso più
ampio. Secondo lui ogni autentica mistica religiosa, che si distingue dai
fenomeni naturali di immersione interiore, deve essere compresa come una
“variante” dell’esperienza più ampia di grazia che avviene nella fede131.
«Verosimilmente perciò, bisogna lasciare al mistico e allo psicologo il
compito di spiegare da dove venga una tale variante mistica dell’esperienza
della grazia nella fede. Pertanto: la tesi enunciata, che l’esperienza mistica –
distinta come tale dai fenomeni di immersione interiore in sé naturalmente
spiegabili e perciò anche in linea di principio apprendibili – rappresenta una
“variante” di quell’esperienza dello Spirito che è offerta a ogni uomo e a
ogni cristiano; e l’altra tesi, che perciò la teologia della mistica come tale
appartiene assolutamente alla teologia dogmatica, queste due tesi non
implicano che allora una tale teologia della mistica possa costituirsi soltanto
attraverso le fonti e i metodi con cui lavora la tradizionale teologia
dogmatica (Scrittura, Magistero, tradizione della Chiesa ecc.). Al contrario:
se e nella misura in cui il mistico empirico riferisce veramente della sua
esperienza mistica come tale, questa rappresenta l’oggetto specifico di
quell’esperienza gratuita dello Spirito che, in fede, speranza e carità,
avviene nell’autocomunicazione di Dio all’uomo, anche se la maniera
specifica con cui questa esperienza gratuita dello Spirito viene fatta,
comprende pure momenti di tipo “naturale”, come si dirà ancora più
dettagliatamente. La mistica empirico-descrittiva come tale – dove non
riferisce soltanto di fenomeni naturali di immersione interiore – può essere
assolutamente teologia della rivelazione, perché essa parla della grazia
divinizzante vera e propria; anche perché quanto normalmente chiamiamo
rivelazione nella parola e teologia della rivelazione, non è nient’altro che la
130
131
Cfr. K. RAHNER, Visioni e profezie, 137.
Cfr. K. RAHNER, Visioni e profezie, 138.
36
obiettivazione riflessa – nella storia e nella parola – di quanto avviene nella
autocomunicazione gratuita di Dio che viene fondamentalmente esperita.
Tutto questo anche se l’oggettivazione pura e autentica di questa
autocomunicazione divina ha trovato proprio in Gesù Cristo il suo punto
più alto irreversibile nella dottrina del cristianesimo l’espressione conforme
alla sua verità. Per questo si può dare un’esperienza della grazia anche in
una mistica “extracristiana”, come pure anche una teologia della mistica
extracristiana può rappresentare un momento della teologia della
rivelazione, almeno in linea di principio, sebbene poi una tale teologia
rimanga sempre orientata a quella teologia che si riferisce esplicitamente al
Crocifisso e Risorto, nel quale l’avvenimento mistico della consegna a Dio,
così come egli è in se e per sé, ha raggiunto il suo definitivo compimento
attraverso la morte salvifica di Gesù, e così si è manifestato storicamente
come avvenimento vittorioso»132.
Andando avanti così si arriva al terzo problema fondamentale di una
teologia mistica, la relazione tra “natura” e “grazia”. Qui i due concetti in
questione devono essere intesi nel loro significato rigorosamente
teologico133.
«Se l’esperienza mistica non può essere concepita come un avvenimento
che supera in linea di principio, come qualcosa di più alto, l’esperienza
sopranaturale dello Spirito nella fede, allora dev’essere possibile
rintracciare nell’ambito “naturale” dell’uomo, una “differenza specifica” di
questa esperienza, che la distingue dalla “normale” esperienza dello Spirito
propria a ogni cristiano. Dev’esserci cioè un tipo particolare di esperienza,
propria della natura stessa dell’uomo, di trascendenza e di “ritorno” a se
stessi. Ciò non contraddice quanto abbiamo appena detto a proposito della
mistica quale esperienza della grazia. La forma psicologica dell’esperienza
mistica si distingue dalla forma “normale” degli avvenimenti di coscienza
ordinaria solo nella dimensione della “natura”. In questo senso essa può
essere appresa in linea di principio. Ma tali avvenimenti spirituali in sé
naturali, possono essere “elevati”, così come ogni altro atto umano di
coscienza, libertà e riflessione, attraverso l’autocomunicazione gratuita di
Dio, abituale o attuale. Questi avvenimenti cioè possono essere radicalizzati
attraverso l’autocomunicazione personale di Dio, in vista appunto di una
immediatezza con Lui, così come avviene generalmente per gli atti
“sopranaturali” di fede, speranza e carità della “normale” vita cristiana.
Fatti psichici di per sé naturali, come appunto i fenomeni mistici, possono
essere “elevati” dalla grazia, e diventare perciò atti sopranaturali di fede
ecc., essere cioè atti salvifici. La particolare caratteristica psicologica di
132
133
K. RAHNER, Visioni e profezie, 138-139.
K. RAHNER, Visioni e profezie, 140.
37
questi atti può contribuire, proprio in virtù della sua particolarità, a che tali
atti, soprannaturalmente elevati, siano radicati, dal punto di vista
esistenziale, più profondamente nel nucleo della persona e perciò plasmino
e trasformino l’intero soggetto in misura maggiore. C’è, a questo proposito,
una questione che non può essere decisa dalla teologia della mistica come
tale: se cioè questa maggior profondità personale dell’atto mistico, in sé
naturale, come pure la maggiore riflessività – in se stessa naturale anche se
elevata dalla grazia – dell’esperienza della trascendenza ad essa legata, sia
raggiungibile per via miracolosa (preternaturale) oppure per via naturale,
attraverso un esercizio che avviene a certe determinate condizioni. Se si
lascia materialmente aperta una tale questione – almeno a partire dalle
possibilità della teologia come tale -, allora da qui in poi si può pensare alla
possibilità di fenomeni di immersione interiore puramente naturali, come a
una sorta di esperienza pura della trascendenza e cioè come un’esperienza
che avviene in mancanza, parziale o totale, della mediazione categoriale.
Volendo dare a una tale esperienza il nome di “mistica naturale”, non si può
rivolgere contro tale termine alcuna obiezione di fondo. Tuttavia sarebbe
meglio riservare il concetto “mistica” a quei fenomeni impliciti
dell’esperienza dello Spirito che sono psicologicamente straordinari, elevati
dalla grazia e propriamente sopranaturali, così come abbiamo cercato di
fare»134.
Secondo Rahner ogni atto di immersione interiore, in sé naturale,
sarebbe anche strutturalmente elevato dalla grazia. In questo modo sarebbe
cioè un atto di mistica autentica, un atto salvifico, anche se in questo atto
tale fondamentale caratteristica non è ancora emersa in maniera sufficiente
chiara, oppure, al livello della successiva riflessione, viene sottovalutata o
addirittura viene malintesa nel senso di una “mistica” panteistica, e cioè
quale fenomeno di unificazione dell’uomo e di Dio135.
L’esperienza mistica così come l’ha impostato Rahner, che sarebbe
l’unione gratuita di Dio con l’uomo, ovvero all’esperienza gratuita dello
Spirito da parte del cristiano, non rappresenta uno stadio “più alto” della
vita cristiana della grazia. Può esserlo al massimo solo indirettamente, nella
misura in cui il fenomeno mistico, in quanto causa ed effetto, può
rappresentare un indizio del fatto che un cristiano ha fatto propria la grazia
a lui offerta della autocomunicazione di Dio in misura particolarmente
intensa dal punto di vista esistenziale136.
134
K. RAHNER, Visioni e profezie, 140-141.
Cfr. K. RAHNER, Visioni e profezie, 142.
136
Cfr. K. RAHNER, Visioni e profezie, 143.
135
38
La mistica non appartiene necessariamente a ogni vita cristiana. Ciò
permette alla psicologia competente di spiegare che questi fenomeni di
immersione mistica, in sé naturali, appartengono necessariamente a un
processo di maturazione personale, anche se non vengono sempre
“tecnicamente” coltivati e spesso forse si danno in maniera abbastanza
irriflessiva, allora anche la mistica in senso vero e proprio dovrebbe essere
considerata un fenomeno normale nel processo di perfezionamento umano
e cristiano, anche se poi rimane ancora aperta la questione se, quanto e con
quale risultato buono o cattivo, una tale esperienza mistica venga
riflettuta137.
La caratteristica della contemplazione infusa, che in un certo modo si
può paragonare con la visione, si incorpora nella persona investendone la
sfera immaginativa e sensibile. La visione, cioè, è soltanto espressione ed
effetto secondario del fatto mistico: scomparendo questo, che è
esclusivamente dono di grazia, cessa conseguentemente anche la visione138.
«L’esperienza non è mai un fatto neutro; è piuttosto un accadimento che, da
fuori, raggiunge la persona e la determina. L’esperienza appartiene al
complesso rapporto tra la persona e la realtà. Proprio per questa sua
caratterizzazione personale, l’esperienza comporta sempre una certa attività
della persona: include necessariamente un modello intuitivo, non sempre
consapevole, di organizzazione della realtà. Anche l’esperienza cristiana
bisogna guardarsi dalla convinzione ingenua che l’esperienza vada dritto ai
fatti, senza mediazione alcuna, senza rappresentazioni concettuali; al
contrario trascina con sé una visione, più o meno cosciente, della vita di
fede. Per questo comporta la necessità di una vigile criticità a cui la teologia
contribuisce riflettendo sulle condizioni oggettive dell’esperienza cristiana.
Per quanto sia ovvio, rimane sempre utile ricordare che non si dà vera
esperienza spirituale se non sulla base e nella forma dell’esperienza di
Gesù. Solo là dove lo Spirito di Cristo fonda una vera comunione con Lui e
introduce a una percezione evangelica della realtà, nasce un’autentica
esperienza spirituale di stampo cristiano. L’esperienza cristiana di Dio è
esperienza del rapporto che Dio ha costruito con noi nella maniera in cui
Lui stesso lo ha voluto. Lo strutturarsi del vissuto cristiano deve rispettare
le dimensioni obbiettive poste da Dio stesso nel suo rivelarsi. L’esperienza
cristiana dovrà sempre costruirsi sull’esperienza filiale di Gesù senza
omologarsi a visioni generiche o attuali. Leggere le visioni come segni
comporta il non mettervi al centro il miracoloso e il sensazionale ma,
137
138
Cfr. K. RAHNER, Visioni e profezie, 143-144.
Cfr. K. RAHNER, Visioni e profezie, 18.
39
piuttosto, il significato: un significato da cercare con umiltà e pazienza, in
comunione con la Chiesa e i suoi pastori»139.
Gli studiosi occidentali cominciano evidenziare il bisogno della
meditazione in quanto uno stile di vita porta al grande stress e non permette
alle persone di fermarsi e riflettere su se stessi. Avendo una mentalità
“produttiva” l’uomo occidentale riconosce soltanto quello che “produce
secondo il proprio schema”. Ma l’importanza si manifesta nel fato di essere
capaci di riconoscere la meditazione come un modo “di percepire, di
ricevere, di assumere e di partecipare”140.
«È interessante osservare che nella descrizione della miseria in cui versano
gli individui dalla personalità debole, ricorre sempre la terminologia
impiegata dalla mistica. Ma ciò che per i mistici sono virtù, per l’uomo
moderno sono tormenti e malattie: alienazione, solitudine, silenzio,
isolamento, vuoto interiore, privazione, povertà, ignoranza, ecc. […] Gli
uomini moderni rifuggono da ciò che i monaci cercavano per trovare Dio,
come se si trattasse del diavolo. Un tempo i mistici sceglievano la
solitudine del deserto per combattere con i demoni e sperimentare la vittoria
di Cristo. A me sembra che noi oggi abbiamo bisogno di uomini che
s’incamminano verso il deserto interiore dell’anima e scendano negli abissi
dell’Io per combattere i demoni e sperimentare la vittoria di Cristo, o più
semplicemente: per garantire una sfera di vita interiore e, attraverso
l’esperienza dell’anima, aprire la strada agli altri. E nel nostro contesto
questo significa: capire il senso positivo della solitudine, del silenzio, del
vuoto interiore, della sofferenza, della povertà, dell’aridità spirituale e del
“sapere che ignora”»141.
Secondo Moltmann la meditazione è la conoscenza dell’oggetto
improntata nell’amore, sofferenza e partecipazione, mentre la
contemplazione significa rendersi consapevoli, in tale meditazione, del
proprio Io142.
«Chi medita s’immerge nel proprio oggetto, sfocia nella contemplazione,
‘dimentica se stesso’. E l’oggetto s’immerge in lui. Nella contemplazione
egli si ricorda di sé, percepisce i mutamenti che si sono il lui verificati,
ritorna a se stesso dopo essere uscito da sé ed essersi dimenticato. Nella
meditazione noi ci accorgiamo dell’oggetto. Nella contemplazione ad essa
congiunta ci accorgiamo della nostra percezione. Certo, non esiste
139
K. RAHNER, Visioni e profezie, 24-25.
Cfr. J. MOLTMANN, Esperienze di Dio. Speranza, angoscia, mistica, Queriniana,
Brescia 1981, 83.
141
J. MOLTMANN, Esperienze di Dio, 86-87.
142
Cfr. J. MOLTMANN, Esperienze di Dio, 88.
140
40
meditazione senza contemplazione, ne contemplazione senza meditazione,
ma per il conoscere è importante operare una simile distinzione»143.
Se vogliamo applicare questo metodo della meditazione alla meditazione
cristiana è importante individuare alcuni momenti. Innanzitutto la
meditazione cristiana non è mai trascendentale, essa è sempre indirizzata ad
un oggetto. Questo oggetto è generalmente Cristo nella sua passione e
morte. Seconda cosa da individuare è il fatto che la persona che medita
sulla storia di Cristo praticamente ritorna a se stesso, «scopre pure che
questa sua conoscenza della storia di Cristo è stata caratterizzata da
essa»144.
«La meta teologica del viaggio mistico dell’anima a Dio sta nella immagine
divina dell’anima e nell’intenzione salvifica, riconosciuta nella storia di
Cristo, di ripristinare questa immagine di Dio e portarla a compimento della
somiglianza dell’uomo con Dio. Il mondo è la creazione di Dio, non però la
sua figura. Soltanto l’uomo è destinato ad essere la figura di Dio. E Dio è
più riconoscibile nella sua figura che in tutte le sue opere. La conoscenza
del mondo oggettivo è una conoscenza mediata dai sensi e quindi pur
sempre una conoscenza illusoria. L’autoconoscenza dell’anima, invece, non
è una conoscenza mediata a livello sensibile, e quindi è conoscenza più
certa. L’amore per la creazione di Dio è un amore per le sue opere. L’amore
per l’uomo è l’amore per la sua figura. L’amore immediato per la figura di
Dio è l’amore di sé. […] L’amore di sé come amore per la propria
immagine di Dio è un gradino, una parte dell’amore di Dio»145.
La contemplazione compie il passo verso l’unione mistica meditando
sulla storia di Cristo. Nel momento in cui ci accorgiamo del
coinvolgimento in questa storia, ci rendiamo conto che in noi viene
rinnovata l’immagine di Dio per la quale siamo stati creati. «E quando ciò
avviene noi ci conosciamo in Dio e ‘Dio in noi’, mediante l’immagine che
noi portiamo di lui»146.
Moltmann sottolinea il fatto che per noi uomini è la grazia che Dio si
celi nella sua rivelazione. Tutto quello è rinforzato con l’Antico
Testamento dove si dice “chi vede Dio morirà”. L’assenza di Dio nella sua
presenza è una liberazione dell’uomo, non è una alienazione. «E tuttavia la
143
J. MOLTMANN, Esperienze di Dio, 88.
Cfr. J. MOLTMANN, Esperienze di Dio, 88-89.
145
J. MOLTMANN, Esperienze di Dio, 94.
146
J. MOLTMANN, Esperienze di Dio, 95.
144
41
passione dell’uomo la ricerca di Dio e del compimento in Dio spinge a
superare tutte le mediazioni, per raggiungere l’immediatezza»147.
Non potendo parlare della mistica, si dovrà tacere.
«Ma per qualificare attraverso il silenzio il silentium mysticum di una
presenza non deformata di Dio, bisognerà parlare per eliminare il parlare
stesso. Dovremo eliminare le mediazioni attraverso le quali l’anima
raggiunge la comunione con Dio, affinché l’anima non indugi in esse, non
vi si fermi, ma le sfrutti per ciò che sono: gradini di una scala, brani di un
cammino, stazioni lungo il viaggio. E di questi supermanti delle mediazioni
hanno parlato tutti i mistici, poiché l’amore dell’uomo per Dio è attratto
dall’amore di Dio per l’uomo. Come Dio nel suo amore è disceso all’uomo,
così l’amore dell’uomo sale a Dio, attraverso le strade che lui stesso a
tracciato nella creazione, incarnazione e missione dello Spirito»148.
Molti mistici pongono l’uomo di fronte all’alternativa Dio-mondo, il
motivo per cui lo fanno è il desiderio di una liberazione delle creature e
dell’uomo stesso, dall’amore finito e quindi distruttivo dell’uomo per Dio,
essi esigono tutto un “penoso lavoro” di privazione, di alienazione, di
povertà e di abbandono di ogni cosa, infine pure dell’autoannientamento,
dell’anima. Essi credono che l’amore dell’uomo per Dio viene di-strato dal
mondo e da se stessi, e così cessa pure quell’idolatria verso cui spinge in
modo ossessivo l’amore divinizzante, il mondo e se stessi. Ed ha fine pure
la sopravvalutazione del mondo e di se stessi attraverso l’amore di Dio. Noi
e la creazione ritorniamo ormai liberi per ciò che siamo, quando amiamo
Dio e lo godiamo per se stesso149. Ma la mistica e i mistici di quali
desideriamo occuparci hanno trapassato questa soglia e hanno capito che si
può amare Dio amando il mondo e non annientandolo come il reale, che è
proprio di Dio.
147
J. MOLTMANN, Esperienze di Dio, 95.
J. MOLTMANN, Esperienze di Dio, 97.
149
Cfr. J. MOLTMANN, Esperienze di Dio, 98.
148