L’ arte nascosta dietro la meraviglia dell’improvvisazione L’importanza del ben rappresentare: le ragioni dell’arte nascosta e di alcuni suoi trucchi di Renata Savo II anno DaViMuS (A.A. 2008/09) Quello che per secoli ha segnato indelebilmente il volto allegro della Commedia dell’arte è stato il suo legame fortissimo e imprescindibile con la recitazione all’improvviso dei suoi attori. L’estemporaneità, che poté sembrare agli occhi e alle orecchie del pubblico un “miracolo” del genio dei commedianti e che fece parlare tanto di sé al punto da chiamare questo genere di spettacolo anche Commedia all’improvviso1, è un fenomeno abbastanza complesso, svincolato soltanto in parte dal suo concetto opposto di premeditazione. Questo termine è generalmente associato al teatro regolare , di natura letteraria, i cui monologhi e dialoghi sono sviluppati interamente per iscritto, implicando in tal senso la memorizzazione del testo da parte degli attori. Durante il Rinascimento, che vide la riscoperta del teatro stesso grazie al reperimento di testi classici, tra cui le commedie latine di Plauto e Terenzio, gli attori erano solitamente dilettanti e a godere dell’attrazione degli spettacoli che prevedevano le rappresentazioni delle commedie classiche (e su tali modelli ve ne furono scritte e rappresentate di nuove che potremmo definire “moderne”) erano solo i luoghi esclusivi delle corti signorili, nei cui spettacoli, quasi sempre giustificati da particolari occasioni e da una consistente disposizione economica, trovavano un mezzo per autocelebrarsi. Così viene chiamata, “Comedia all’improvisa, alla Italiana”, La Cortigiana Innamorata in un documento che rappresenta la prima descrizione di uno spettacolo improvvisato da dilettanti nel 1568 alla corte di Baviera, pervenutaci grazie al compositore, Massimo Trojano. 1 Sembra essere stata proprio l’evoluzione del performer, il suo passaggio dal dilettantismo al professionismo2, inteso non solo come perizia e padronanza delle tecniche recitative e imitative, bensì come ricerca di un profitto, di un sostentamento3, e la conseguente e indispensabile espansione del teatro anche al di là dei confini elitari della corte, la ragione della novità stupefacente della Commedia dell’arte: l’assenza di un testo scritto da memorizzare per gli attori e le loro pronte improvvisazioni. Ciò che può sembrare paradossale (ci si potrebbe chiedere: come può qualcosa di improvvisato essere pronto?) risponde chiaramente ad un’esigenza di immediatezza e praticità, motivata da un interesse economico. Un gioco, quello dell’improvvisazione, che implica scelte tali da renderlo più semplice all’interno della propria squadra (quali la tipizzazione dei personaggi, l’uso di canovacci e generici), ma allo stesso tempo, in quanto gioco, richiede scelte strategiche che ne complichino le possibilità di <<furto>>4 da parte delle compagnie in competizione. Da questa impostazione potrebbe derivare la decisione di non scrivere un testo preciso5, sia per difendere (come in assenza di una tutela di certi “diritti d’autore”) il proprio lavoro6, 2 In seguito al Sacco di Roma del 1527, quella schiera di intrattenitori proveniente dal mondo medievale (buffoni, acrobati, jongleurs) che aveva goduto, nel secolo precedente, dell’ospitalità sicura e accogliente della corte, si ritrova senza fonte di guadagno a causa della crisi economica che colpisce i suoi protettori. Dunque occorre specializzarsi, spostarsi e vendere i propri intrattenimenti dove è possibile. 3 << il fine dei comici qual è? Certo che non è altro che dilettare e giovare per averne essi mercede da vivere >> . Nicolò Barbieri, La supplica, discorso famigliare a quelli che trattano de' comici, a cura di F. Taviani, Milano, Il Polifilo, 1971. Secondo Pier Maria Cecchini l’attività dell’attore del suo tempo consisteva in un << furto >> di idee e battute. 4 C’è da dire che anche se i dialoghi non erano scritti esplicitamente le fonti di ispirazione degli intrecci erano tutt’altro che inedite e irriconoscibili, la maggior parte erano proprio opere letterarie. Gli stessi attori spesso stendevano per iscritto le loro commedie quando dovevano pubblicarle. 5 Flaminio Scala, ponendosi a metà tra l’attore pratico delle scene e il commediografo-letterato, reagisce esplicitamente proprio contro questo difetto del sistema nella sua Premessa a Il Teatro delle favole rappresentative, ribadendo più volte che gli scenari contenuti nell’opera (la struttura dei quali, tra l’altro, dichiara esser stata una sua invenzione) <<leveranno a molti l’occasione di appropriarsi delle sue fatiche>> giacché << spesso compariscono di questi soggetti nelle scene, o tutti interi […] o in qualche parte alterati e variati>> e conferma Francesco Andreini nella premessa Cortesi lettori della stessa raccolta di scenari, <<oggidì non si vede altro che comedie stampate con diversi modi di dire>>. 6 ma anche per non sprecare tempo scrivendo un testo che, per la diversa qualità dei destinatari (per classe sociale, per omogeneità o eterogeneità del pubblico, per provenienza, dal momento che il dialetto non mancava mai nelle commedie), in funzione di una maggiore comprensibilità, sarebbe stato di volta in volta riscritto o modificato. Non sbaglia Roberto Tessari quando scrive << la genesi della loro attività viene ascritta alla stessa necessità storica che presiede alla nascita di ogni industria7>> ; infatti la logica che muove gli attori comici è la stessa che guida qualsiasi altra figura imprenditoriale, il cui fine è quello di guadagnarsi da vivere8, e sotto questo aspetto possiamo definire ogni compagnia un’industria in mezzo ad altre industrie. Naturalmente, come ogni impresa che voglia a tutti i costi vendere i suoi prodotti facendo la felicità dell’acquirente, anche i comici dovranno soddisfare le richieste del loro pubblico, al mercato delle loro esibizioni. A proposito di questo prostrarsi del teatro ai piedi dei suoi spettatori, significativamente il Barbieri affermava che gli attori, pur di soddisfare il pubblico, << direbbono che la terra è mobile, se loro fusse concesso9>> ed in fondo, gli avrebbe risposto Lope de Vega, <<dal momento che è lui che paga, è giustissimo parlargli in modo che si diverta10>>. Per avere successo, dunque, indispensabile è ottenere il diletto,<<la realizzazione della “cosa meravigliosa”, capace di destare lo “svogliato intelletto 11” >> degli spettatori. <<Una commedia ben riuscita è una commedia ben rappresentata>>, direbbe Flaminio Scala. E infatti ciò che non sembra prerogativa essenziale per conquistare il pubblico è la raffinatezza, l’eleganza stilistica dei monologhi e dei dialoghi, qualità che si addicono ad un poeta piuttosto che a un drammaturgo il cui fine è la mise en scéne. Quale drammaturgo migliore se non un comico che vive personalmente la scena? Per comprendere lo scarto tra un comico dell’arte e un letterato in materia di “scrittura scenica” sarebbe curioso leggere il Prologo de Il finto marito, il cui 7 cfr. Roberto Tessari, La commedia dell'arte nel seicento : Industria e arte giocosa della civiltà barocca, Firenze, Leo S. Olschki, 1969, p. 83 Lo stesso termine Commedia dell’ Arte esprime questa dialettica connessa alle Corporazioni di Arti e Mestieri. 8 9 Nicolò Barbieri, La supplica, discorso famigliare a quelli che trattano de' comici, a cura di F. Taviani, Milano, Il Polifilo, 1971. 10 11 Lope de Vega, Arte nuova di fare commedie (Arte nuevo de hacer comedias, 1609) cfr. Roberto Tessari, La commedia dell'arte nel seicento : Industria e arte giocosa della civiltà barocca, Firenze, Leo S. Olschki, 1969, p. 82 scenario, insieme alla versione della commedia estesa per intero, è presente ne Il Teatro delle favole rappresentative, la famosa raccolta di scenari curata da Flaminio Scala, in arte Flavio. Il prologo si apre in maniera metateatrale rappresentando l’interessante incontro tra un Comico e un Forestiero, il quale sta invadendo il palcoscenico su cui si sta per tenere la commedia. Il valore che viene attribuito dallo Scala al Forestiero è quello prima di “letterato” e poi di “moralista”. Il Forestiero dice al Comico di trovarsi lì perché non vuole essere urtato dagli altri indisciplinati spettatori che vogliono assistere alla <<zannata>> (da zanni, i servi comici). Il riferimento provoca la reazione sdegnata del Comico dando luogo a un confronto ricco di contrasti: tra scrittura e improvvisazione, cultura e spontaneità. Da questo confronto ne risulta che la Commedia dell’arte non è inferiore al teatro regolare perché, dice il Comico, <<avviene che molti gran litterati, e de’ migliori per non aver pratica della scena, distendano commedie con bello stile, buoni concetti e graziosi discorsi e nobili invenzioni, ma queste poi messe sulla scena restan fredde, perché mancan dell’imitazione del proprio […]>>. Questo significa che l’esperienza diretta dell’attore è propedeutica alla formazione del drammaturgo e la riduzione dell’arte drammatica a momento letterario disgiunto dalla pratica è pericolosa per l’esistenza del teatro regolare stesso. A quest’ultimo, poi, mancano la naturalezza, la spontaneità della recita all’improvviso. Sono caratteristiche, queste, che non devono essere trascurate a teatro, la cui filosofia di base, funzionale alla creazione, è proprio quella di imitare la natura12. Il teatro, infatti, è il luogo in cui idealmente opera la vita vera, s’incontrano vizi e virtù, espressioni dialettali e modi di fare verosimili e spontanei. Per questo occorre sul palco avvicinarsi quanto più è possibile alla realtà e, per ottenere un tale effetto, <<al fare tipico del poeta deve essere sostituito il far all’improvviso13>>. Il successo dell’improvvisazione, e quindi della naturalezza, <<logica fondata sopra la sola ragione>>, è garantito dall’esperienza, l’unica vera <<maestra delle cose>>, la quale può insegnare <<a chi ha spirito di ben formare e meglio rappresentare i soggetti, il ben distenderli ancora>>; così risponde il Comico quando il Forestiero azzarda a collocare il teatro improvviso in una posizione inferiore alla letteratura, dal momento che minore è l’abilità richiesta per indossare i panni di una maschera regionale in confronto alla realizzazione per iscritto della vita Aristotele nella sua Poetica esprime il concetto di <<mimesis>>, l’atto della creazione di un oggetto che si manifesta interamente nella forma e nella vitalità dell’oggetto creato. 12 13 cfr. Roberto Tessari, La commedia dell'arte nel seicento : Industria e arte giocosa della civiltà barocca, Firenze, Leo S. Olschki, 1969, p. 96 di un personaggio14. E quando questi cerca di far capire all’interlocutore che coloro che devono dare le regole del ben rappresentare i concetti sono i letterati, in quanto conoscono le manifestazioni di allegria, del dolore, del timore, attraverso lo studio dei filosofi e degli oratori, il Comico prontamente risponde che <<Tutti i precetti veramente son buoni, ma il ridurre le cose all'operazione, quello è la essenza di ogni arte o scienza>> e, dunque, incarna nei membri della categoria di cui si fa portavoce, i veri precettori degli scrittori per il teatro. Da notare, inoltre, che in scena entra in gioco una poetica differente da quella dello scrittore, che è poetica del gesto, dell’azione, non della parola: baci, carezze, sguardi, lacrime, sono molto più persuasivi agli occhi dello spettatore di qualsiasi sermone filosofico 15. Dette queste cose ben si può intuire che in un genere in cui non sono necessarie caratteristiche proprie della scrittura, non è indispensabile scrivere. Se il commediografo tradizionale pone l’accento sulle leggi stilistiche e retoriche della sua opera, al comico interessa il suo risultato sulla scena, il quale include gesti, movimenti, acrobazie (dove se ne trovi l’occasione), ma anche linguaggio scurrile e acceso, molto poco letterario, tutto ciò, insomma, che occorre per dilettare e destare l’ilarità dello spettatore. Proprio perché la drammaturgia, intesa come la modalità di trasformazione di un testo in un elemento da inscenare, deve utilizzare un linguaggio ed una poetica differenti dalla letteratura drammatica, <<a una struttura teatrale esclusivamente realizzata nel discorso diretto, viene a sostituirsi una diversa struttura che elimina il tradizionale spazio della battuta monologica o dialogica. Quest’ultima […] raccolta nella più distesa forma del discorso indiretto […] si allinea sullo stesso piano dell’azione16>>. Ciò che resta dunque del testo della commedia altro non è che 14 <<non si può dilettare con la variazione o del bergamasco o del veneziano o del bolognese, ma bisogna con la proprietà delle parole ben imitare>>. 15 <<Chi adunque vorrà azioni imitare, con le azioni più se gli appresserà che con le parole nel genere comico, e considerisi ciò negli amanti, che più da una lacrimuzza, da uno sguardo, da un bacio […] vengano dal subietto amati e tirati e mossi, che dalla persuasiva di qual si voglia gran filosofo […] perché i sensi da’ i sensi più agevolmente vengon mossi, che dalle cose che sono in astratto>>. Flaminio Scala, Il teatro delle favole rappresentative, a cura di E. Marotti, Milano, Il Polifilo, 1974. 16 cfr. Roberto Tessari, La commedia dell'arte nel seicento : Industria e arte giocosa della civiltà barocca, Firenze, Leo S. Olschki, 1969, p.116. lo scenario17, lo scheletro che sorregge l’intreccio, con la segnalazione di tutte le entrate e le uscite dei personaggi, con un accenno alle loro battute, giusto quelle convenzionali, che servono a far capire, a chi è pronto ad uscire dalle quinte, che dopo quella battuta deve entrare in scena. Questa presa di posizione nei confronti della scrittura teatrale, però, non è radicale; in fondo, non era del tutto assente nel Prologo a Il Teatro delle favole rappresentative l’intento autocelebrativo dell’autore. Il rapporto tra teatro e letteratura è simile a quello tra due amanti: opposti che si attraggono e imparano l’uno dall’altra a convivere armoniosamente. Come, infatti, Flaminio Scala asserisce che la letteratura per essere drammaturgicamente valida necessita dell’esperienza sul palco, così il teatro prende ben più di pochi spunti dalla stessa compagna, Letteratura. Proprio quel genere di teatro che si spaccia per “all’improvviso” cela dietro di sé un lavoro di assemblaggio di materiali verbali (molti dei quali da memorizzare) e di situazioni che si nutrono costantemente di letteratura: dallo stile aulico e gentile delle rime petrarchesche, a quello più licenzioso e popolare del Boccaccio, fino ad arrivare alle immagini più paradossali delle commedie “moderne”, come La Mandragola, e alle geniali parodie della letteratura straniera, come Don Chisciotte. La Commedia dell’arte ama attingere ai drammi regolari i propri soggetti. Perrucci fa una distinzione tra quest’ultimi a seconda che derivino da autori moderni, come i traduttori o rifacitori (ad esempio G.A. Cicognini18) del teatro spagnolo di Lope de Vega, Tirso de Molina, o autori antichi, come quelli delle commedie plautine tardo rinascimentali; aggiunge Tessari: <<gli uni e gli altri oggetti di uno degli ennesimi furti che danno vita all’arte nascosta>>. Il Sanesi arriva a definire le commedie di questi attori addirittura <<travestimenti popolari della commedia erudita>>. Più correttamente sono un <<recamo di concertate pezzette>>, proprio secondo il gusto arlecchinesco o, se si vuole, detta “alla Perrucci”, una riduzione <<a stilo di potersi rappresentare all’improvviso>>, in un periodo, quello del secondo Seicento, in cui era opportuno rubare soggetti da commedie preesistenti in quanto <<farne di nuovi è un poco difficile>>; soluzione Roberto Tessari afferma che lo scenario <<si presenta quale ideale espressione letteraria d’una occasione teatrale attenta alle esigenze dello spettacolo: la pagina in cui si realizza è idealmente disposta a ospitare ogni indicazione atta a trasferire il dramma sulla scena>>. 17 18 G.A. Cicognini scrisse Il convitato di pietra, modellato sul famoso dramma di Tirso de Molina, El burlador de Sevilla. che non preclude la possibilità di riconoscere, nello scenario, il suo sostrato. Questo lavoro di composizione19 più che di creazione, non poteva fare capo ad un unico intelletto e restava nell’anonimato, a dimostrazione del fatto che era frutto di una solida collaborazione tra compagni. <<Tradurre, adornare, inventare, imitare, amplificare>>, secondo il Barbieri, erano le tecniche che venivano applicate dagli attori ad un soggetto già esistente per realizzare la “nuova” commedia all'improvviso. Tali qualità dello scenario fanno pensare alla tecnica moderna di un collage, un gioco di “taglia e cuci” ove, nei tagli inflitti allo scenario sul quale si stende l’intreccio, si collocano liberamente quelle particolari <<composizioni generali>> chiamate appunto generici. Essi, dice giustamente Tessari, sono <<l’arma nascosta del comico>>. Come un’aria operistica da baule, i generici erano i pezzi di bravura degli attori conservati gelosamente, come un diario segreto, nel personale <<zibaldone>>. Un repertorio che cambiava da tipo a tipo e che, naturalmente, era unico per ogni attore il quale si prestava a specializzarsi e ad interpretare la stessa parte per tutta la vita. Si può ben immaginare quanto queste scenette tipiche, e non indispensabili ai fini dell’intreccio, fossero amate presso il pubblico e non si trovassero affatto monotone, almeno fino alla seconda metà del Seicento; avevano, inoltre, anche il magnifico vantaggio, proprio perché informate di criteri di adattabilità quanto più ampi possibile, di essere drammaturgicamente efficaci. Il trattato di Perrucci20 offre una vastissima gamma di battute e di situazioni che potevano essere sfruttate dai comici. Le ha intitolate di volta in volta e ordinate per parte comica. E’ molto ben fornito. Riportiamo qui qualche simpatico esempio. Il primo, tratto dal capitolo Dei Dialoghi Amorosi, riguarda il dialogo tra due amanti sdegnati (il motivo del loro sdegno? Questo era l’intreccio a deciderlo); Dialogo di sdegno e sdegno. Donna. Lacci. Homo. Catene. L’immagine della composizione rimanda a quella delle concertate pezzette, come fosse, la compagnia degli attori, un’orchestra che si cimenti, in ogni occasione, in una nuova virtuosistica toccata. 19 20 Andrea Perrucci, Dell'arte rappresentativa premeditata, ed all'improviso (1699) (coedizione dell'edizione bilingue con commento italiano a cura di Francesco Cotticelli), Scarecrow Press, 2007 Donna. Che ligaste. Homo. Che stringeste. Donna. Quest’alma. Homo. Il mio cuore. Donna. Spezzatevi. Homo. Rompete. […] Donna. Barbaro. Homo. Sclerata. Donna. Che dici? Homo. Che barbotti? Donna. Dico che ti detesto. Homo. Dico che t’abborrisco. Donna. Che non posso più vederti. Homo. Che non posso più soffrirti. Donna. Non sai quei lacci. Homo. Non sai quei ceppi. Donna. Che chiamasti d’oro. Homo. Che dicesti di diamante. Donna. Sono scoverti falsi. Homo. Sono stati di vetro. quello seguente è, invece, un esempio tratto da Delle parti de’ Padri, e Vecchi, utile ad un Pantalone che viene a conoscenza di qualche inconveniente del figlio ingrato, presumibilmente un innamorato. Naturalmente, di quale inconveniente si tratti di preciso è stabilito dallo scenario; Maledizione al Figlio. O fio (quasi hò dito d’un becazo cornuo) de sta maniera me paghi l’eser che t’ho dao?Le note, che per ti nò hò dormio? I bezi che per ti hò spesi? I travaggi, che per ti hò soportao? Co sta ingratidudine se paga un pare, che per ti tanto hà fato? M’hò destilao en bruo per darti el primo eser; me son marena de farina per darte i alimenti; me hò strucolao soto el torcolo per darte el sugo vital; me hò descolao come una candela de seo per far luse a ti, che ti è la mia luse;e ti como vipera crudel lazeri le viscere de chi t’ha inzenerao? Come caligo ti incurisi quel Sol che t’ha posto in luse. Come ellera dissechi quell’albero, che t’ha sustentato in piè; e come ton colpisi quela tera, che coi so vapori t’ha dato l’eser. Rivelate e ripetute per quasi ogni commedia simili <<pezzette>> colorate del collage, l’arte del Comico non è più <<nascosta>>, non sembra più improvvisa e non ci meraviglia più. Come non stupisce ormai, neanche lo spettatore più distratto, il più grande segreto dell’<<arte nascosta>>: il comportamento fisso ed immutabile dei personaggi. La tipizzazione consentiva ai comici di creare sul palco un’intesa reciproca, prevedere le sfumature delle battute degli interlocutori (che non potevano varcare i limiti di una certa sfera di significato), il loro modo di agire in scena, i loro compiti ai fini dell’intreccio. Essendo ben distribuite (e ricordate sullo scenario) le azioni e i caratteri di ognuno, ciascuno non è tenuto a invadere il campo di azione e il carattere altrui. Roberto Tessari rende bene l’immagine dei pregi, ma anche dei difetti, della tipizzazione dei personaggi la quale, all’interno di una struttura drammatica pressoché costante, evita di ridurre l’improvvisazione ad un meccanismo che ha la garanzia e la resistenza di un castello di carte : <<Se dunque l’insieme delle parti rivela come l’improvvisazione non costringa i prodotti di questo teatro al capriccioso arbitrio d’un castello di carte, anzi, offra alle sue costruzioni fondamenta solide e costanti, una struttura drammatica cioè (se pur lontana dal compiuto sviluppo della pagina scritta), questa struttura si rivela aperta nella misura in cui si presta a un gioco di inserzioni e modificazioni, ma rigidamente chiusa per altri aspetti21>>. Non tardarono, infatti, a farsi sentire i sintomi di un’inevitabile decadenza: la mancanza di novità, di naturalezza, e l’appello sempre più disperato dei comici ai letterati nella speranza di trovare nuove idee che ancora accondiscendessero al mutevole gusto degli spettatori, rendono chiaro che, anche per il teatro, sono visibili e tangibili i segni del tempo. Un processo di invecchiamento che porta con sé tutti gli acciacchi connessi e un’indiscutibile stanchezza creativa. Una crisi che, verso la fine del Seicento, non può più trovare sintomi di ripresa, dal momento che l’invenzione è 21 cfr. Roberto Tessari, La commedia dell'arte nel seicento : Industria e arte giocosa della civiltà barocca, Firenze, Leo S. Olschki, 1969, p. 99 veramente << l’anima e il tutto nelle commedie22>>. E i comici dell’arte non possono che essere una specie umana in via di estinzione. 22 Flaminio Scala, Il teatro delle favole rappresentative, a cura di E. Marotti, Milano, Il Polifilo, 1974.