La banca Bears Stearns finisce i soldi

La banca Bears Stearns finisce i soldi. La
finanza in crisi terminale. E se
ricominciassimo a occuparci dell'economia
reale? Usa in recessione. Trema Wall Street
Sabina Morandi
Se non è il panico poco ci manca. Con il crollo del 50% del titolo di Bear
Stearns, una delle banche d'investimento più antiche e rispettate del
mondo, a Wall Street si affaccia lo spettro del '29. La notizia fa il paio con
l'annuncio che il più potente fondo privato del mondo - il Carlyle Group di
papà Bush - ha dovuto ammettere uno "scoperto" di 22 miliardi di dollari.
Bear Stearns ha chiesto l'aiuto della Jp Morgan e della Federal Reserve
che hanno risposto con la solita iniezione di liquidità, anche se la dirigenza
della banca ha dichiarato che non ci sono garanzie che la terapia funzioni.
Il fatto che la stessa Jp Morgan si sia affrettata a rassicurare gli azionisti
sulla propria situazione finanziaria la dice lunga sul clima che si respira al
di là dell'Oceano. L'unico che continua a perseverare e rifiuta quelo che
appare ormai inevitabile è il presidente Bush che davanti al precipitare
della situazione non trova di meglio che dichiarare: «Vedrete, l'economia
ripartirà».
Com'è noto il gioco d'azzardo può diventare una malattia e una sommaria
analisi in chiave psicopatologica delle ultime decisioni prese
dall'establishment per arginare la crisi dei mutui - in particolare da
Bernake, il capo della Federal Reserve - può trovare molti paralleli: prima
la negazione e poi la disperata ripetizione della ricetta di sempre - taglio
di tassi e massicce "iniezioni di liquidità" - che poi sarebbe quella che ha
portato al disastro di oggi. Un disastro che dimostra quanto avessero
ragione quelli che criticavano l'eccessiva finanziarizzazione dell'economia
a scapito delle reali attività produttive. Com'era facile aspettarsi l'iniezione
di liquidità di due giorni fa (ben 200 miliardi di dollari) ha prodotto il
classico rimbalzo: una forte risalita del mercato azionario accompagnata
da una leggera risalita del biglietto verde che poi è precipitato di nuovo
mentre il petrolio schizzava a 111 dollari al barile. Tutto prevedibile
conoscendo la proverbiale "sensibilità" dei mercati finanziari alle manovre
disperate. Oltretutto gli States sono l'unico paese del mondo che può
stampare moneta senza dover rendere conto a nessuno, nemmeno al
Congresso. Risultato: i mercati hanno punito severamente questa
immissione di carta straccia accompagnata dalle pessime notizie sul
fronte dell'economia reale.
In realtà la crisi di oggi è cominciata almeno dieci anni fa, quando il boom
dell'economia virtuale si è sgonfiato come un pallone bucato. Il fallimento
dei giganti energetici (Enron) e informatici (Worldcom) poteva essere
l'occasione per ripensare un'economia fatta di troppi soldi (virtuali) e
pochi posti di lavoro (reali), con una spiccata propensione a violare ogni
tipo di regola. E' stata invece presa la strada dell'economia di guerra,
praticamente ormai l'unico sbocco professionale per un paese come gli
Stati Uniti, dove la classe media è stata spazzata via. Così, mentre le
fabbriche venivano delocalizzate all'estero e i salari precipitavano,
s'invitava la popolazione a partecipare al gioco d'azzardo collettivo
indebitandosi al di là di ogni ragionevolezza, per poi mettersi a speculare
anche su tali debiti. L'unica sorpresa, rispetto alla crisi dei mutui, è che
non sia scoppiata prima. Ma la crisi di oggi, a differenza di quella del 1987
o del 2000, trova un paese in piena recessione, con infrastrutture
fatiscenti e città rese fantasma dalla fuga all'estero delle attività
produttive. In queste condizioni il vecchio gioco dei soldi pubblici per
ripagare i furti privati non funziona più e per arginare il contagio
statunitense gli altri governi sono costretti a prendere in sordina misure
socialisteggianti - come la nazionalizzazione della britannica Northern
Rock - senza considerare soluzioni più drastiche.
Sì perché questa crisi s'interseca in modo inestricabile con la crisi delle
risorse energetiche causata dallo sviluppo in chiave ultra-capitalista di
India, Cina e Russia. Tutti paesi che non si avvicinano nemmeno
lontanamente ai nostri standard di consumo pro-capite ma che, essendo
molto popolati e dovendo fabbricare i prodotti occidentali al posto nostro,
risucchiano materie prime a ritmi incredibili. Il problema dell'esaurimento
dei combustibili fossili, con la produzione che non riesce a salire mentre la
domanda continua a crescere, lascia ben poche possibilità di scelta:
bisogna fare un'inversione totale della tendenza degli ultimi vent'anni come hanno già capito gli economisti di destra - visto che il mercato,
lasciato da solo, si comporta come un giocatore incallito. Prima di tutto gli
vanno tolti i fiammiferi, ovvero la possibilità di speculare su cose
importanti come il petrolio, il frumento e altre materie prime
assolutamente necessarie. Il secondo passo è sulla strada indicata da un
certo John Maynard Keynes parecchi decenni fa, strada coraggiosamente
imboccata da Franklin Delano Roosevelt all'alba della crisi del '29, altro
meraviglioso periodo di economia ruggente.
Naturalmente occorre un notevole coraggio politico per decidere di
invertire la rotta: bisogna costringere gli imprenditori a utilizzare soldi e
intelligenza per produrre cose utili invece di impiegare le proprie energie
nella caccia ai soldi pubblici per opere di dubbio valore. Le cattedrali nel
deserto - centrali nucleari, treni ad alta velocità e ponti d'oro - sono
troppo costose per un'economia in recessione. Molto meglio restaurare
quello che c'è - la rete elettrica, quella idrica, i porti non elettrificati, le
raffinerie vecchie e inquinanti - spendendo meno e impiegando cento
volte più manodopera. Solo così si abbatte la disoccupazione, la gente
ricomincia a comprare (non a credito) e l'economia riprende a girare.
Basti pensare a cosa si sarebbe potuto fare negli States con i 200 miliardi
di dollari che sono stati dati in pasto a Wall Street e digeriti in due giorni:
rammodernare le fatiscenti ferrovie o le centrali a carbone che risalgono
agli anni Trenta, e magari finanziare la riconversione a energie più pulite,
misura quanto mai urgente prima che manchino i soldi per pagare le
armate con cui Washington si assicura l'accesso al greggio. Che intanto
noi potremmo cominciare a pagare in euro, per non andare a fondo
insieme all'Impero.
15/03/2008