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Indice
1 Lessico
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Storia: lo sport nell’antichità classica
3 Storia: lo sport dal Quattrocento a oggi
4 Classificazione: gli sport
5 Sociologia dello sport
6 Significato dello sport
Lessico
sm. [sec. XIX; dall'inglese sport, che risale all'antico francese desport, diporto].
1) L'insieme delle attività fisiche (esercizi, giochi, gare) esercitate, individualmente o in
gruppo, con spirito agonistico talora congiunto con intenti ricreativi. L'aspetto ricreativo può
riguardare coloro che praticano attivamente lo sport o, più spesso, il pubblico di appassionati
che assiste alle competizioni. Anche ciascuna di tali attività considerate singolarmente: dedicarsi
a uno sport.
2) Per estensione, divertimento, passatempo: fare qualche cosa per sport, senza uno scopo
pratico o senza effettiva necessità.
Storia: lo sport nell'antichità classica
Lo sport, nella sua moderna accezione, ha meno di tre secoli di vita: infatti, le prime
manifestazioni sportive, non riservate a pochi privilegiati e svolte secondo un preciso
regolamento, risalgono al Settecento e vennero effettuate in Gran Bretagna. Tuttavia, la pratica
sportiva, intesa come competizione regolamentata da alcune norme, è assai antica: basti pensare
ai giochi e alle gare tribali (ancor oggi molto diffusi) e alle competizioni con fondo religioso
svolte presso tutte le grandi civiltà del passato. Quelle che sono rimaste più vive nel patrimonio
culturale occidentale sono senz'altro i giochi olimpici, i più celebri fra i giochi nazionali ellenici
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(che comprendevano anche i giochi istmici, pitici, nemei e altri): le Olimpiadi si svilupparono
lungo una direttrice che avrebbe portato alla maturazione di una coscienza molto simile a quella
insita nello sport moderno, se non fossero intervenuti fattori di inquinamento che furono poi
determinanti e contribuirono al disordine della decadenza fino alla soppressione dei Giochi. I
Romani, se da una parte diffusero gli aspetti più negativi dell'agonismo con i cruenti spettacoli
del circo, dall'altra seppero sottolineare e valorizzare l'importanza della preparazione atletica dei
singoli istituendo scuole, fissando norme, sollecitando giovani e adulti a educare il proprio
corpo, seppure per fini utilitaristici. Il contributo più efficace che venne dai Romani è
rappresentato, come avvenne per altri popoli (Cinesi, Indiani), dalla pratica di passatempi
popolari che, obbedendo alle norme dell'esercizio, del simbolo e del regolamento, avevano già
insiti, sia pure allo stato rudimentale, i principi stessi dello sport. Non avevano la nobiltà e il
decorso riservato alle gare di un'Olimpiade, ma, nello stesso tempo, non sollecitavano gli istinti
più negativi della gente, come i giochi circensi, severamente condannati dalla chiesa. Queste
attività sportive, proprio perché furono considerate una manifestazione secondaria del
paganesimo, non furono osteggiate decisamente dal cristianesimo e poterono sopravvivere
originando nel Medioevo quelle contese agonistiche che furono poi alla base di molte accese
rivalità comunali; forme di agonismo si ritrovano anche nell'attività cavalleresca con il suo
corollario di duelli, giostre e tornei.
Storia: lo sport dal Quattrocento a oggi
Ma furono l'Umanesimo prima e il Rinascimento poi a gettare le premesse della moderna
concezione sportiva, attraverso studiosi, pedagoghi e trattatisti. Tra questi spiccano i nomi di
Maffeo Vegio (1407-1458), con il suo De educatione liberorum clarisque eorum moribus; di
Leon Battista Alberti (1404-1472), con il suo trattato Della Familia; di Enea Silvio Piccolomini
(1405-1464), divenuto poi papa Pio II, autore di trattati sulla caccia e sull'equitazione così come
di un libro sull'educazione corporea, il De liberorum educatione; di Vittorino da Feltre (13781446), fondatore a Mantova della Ca' giocosa (1423), un centro destinato all'educazione
giovanile che costituisce l'anello rinascimentale di congiunzione tra il ginnasio greco,
nell'antichità, e il college inglese, nei tempi moderni. Bisogna poi ricordare il filosofo inglese
John Locke (1632-1704) che, con i suoi Pensieri sull'educazione (1693), è considerato da molti
studiosi l'anticipatore dello sport moderno. Nel sec. XVIII, in Inghilterra, si affermò, sia pure in
senso ancora aristocratico, il concetto di sport basato su un'attività sportiva a carattere
esclusivamente dilettantistico che ne avrebbe consentito soltanto a certe categorie sociali la cura
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e l'interesse. Agli inglesi va anche il merito assoluto di avere impostato gran parte dei
regolamenti delle specialità sportive che dal sec. XVIII in poi si diffusero nel mondo. Un
contributo fondamentale in quest'opera venne soprattutto da un educatore, Thomas Arnold,
rettore del collegio di Rubgy dal 1828 al 1842, e da un suo allievo, Thomas Hugues, famoso per
I giorni di scuola di Tom Brown (1857), che fu una specie di breviario dell'insegnamento dello
sport per tutta la seconda metà dell'Ottocento. Un commento di questo studio, curato da Taine in
Notes sur l'Angleterre (1872), fu conosciuto anche da De Coubertin in un momento in cui
l'interesse per l'antico olimpismo diventava sempre più vivo. Lo sport moderno deve tutto alla
rinascita delle Olimpiadi e, quindi, al loro restauratore, Pierre De Coubertin. Nel 1894 fu
fondato il Comitato Internazionale Olimpico (CIO) e nel 1896 si disputò ad Atene la prima
Olimpiade dell'era moderna. Nel corso del sec. XIX lo sport aveva cominciato a esprimersi con
manifestazioni concrete basate su competizioni specialistiche (calcio, pugilato, ippica,
canottaggio ecc.); nella seconda metà dell'Ottocento nacquero società, squadre, club, federazioni
e vennero svolti i primi campionati nazionali e internazionali. In Italia il Club Alpino Italiano fu
fondato nel 1863, nello stesso anno si formò la “Cerea”, la prima società remiera italiana e nel
1869 venne fondata la Federazione Calcio.
Classificazione: gli sport
La società moderna, accanto al sano aspetto agonistico dello sport, fa registrare una ripresa
dell'aspetto circense romano: infatti, oggi, è sempre più sviluppato il lato spettacolare delle gare,
tanto che intorno a esse ruotano grandi interessi economici. Una delle caratteristiche più
peculiari è quella del divismo legato al professionismo degli atleti. L'avvento dello sport di
massa, ossia della partecipazione alle attività sportive di larghi strati della popolazione ha posto
notevoli problemi economici: per addestrarsi in uno sport sono necessari attrezzature,
allenamenti, assistenza tecnica. D'altra parte, i costi per quanto sopra e per gli impianti sportivi,
che tengano conto anche degli aspetti spettacolari dello sport, sono divenuti così elevati che le
vecchie società sportive non sono state più in grado di sostenerli. Da ciò l'intervento da una
parte dello Stato (in Italia, per esempio, attraverso il CONI) e dall'altra di privati che però
agiscono per finalità non più sportive ma, spesso, di lucro; il lucro, del resto, è stato sancito
ufficialmente ammettendo la suddivisione degli atleti fra dilettanti, che non vengono rimunerati
per le loro prestazioni, e professionisti, pagati e spesso oggetto di mercato. Comunque sia l'etica
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dello sport resta basata soprattutto sulla lealtà che non ammette la vittoria a tutti i costi; tale
lealtà garantisce, con i regolamenti, una continua evoluzione studiata per armonizzare al
massimo l'equilibrio delle possibilità di confronto senza impedire che il più forte prevalga: in tal
senso il record è uno degli aspetti più importanti dello sport. Gli sport possono essere
individuali o a squadre: nel primo caso l'atleta si trova con le sue sole possibilità di fronte a tutti
gli altri (che hanno le stesse possibilità); nel secondo, invece, gli atleti, riuniti in formazione,
gareggiano sfruttando al massimo il grado di affiatamento e coordinamento delle formazioni.
Sport individuali sono: il pugilato, la lotta, il sollevamento pesi ecc.; sport a squadre: il calcio, il
baseball, l'hockey, la pallacanestro ecc. Alcuni sport possono poi avere sia l'una sia l'altra
caratteristica: per esempio il tennis con le gare di singolo e di doppio, l'atletica leggera con le
gare di corsa singole e a staffetta. Altre suddivisioni sono basate essenzialmente sulle
caratteristiche delle specialità praticate, per esempio sport atletici (leggera, pesante), acquatici
(nuoto, tuffi ecc.), del combattimento (pugilato, lotta ecc.), equestri (trotto, galoppo ecc.), delle
regate (canottaggio e vela), della palla (calcio, baseball, tennis, pallacanestro ecc.), del disco
(hockey su ghiaccio), meccanici (automobilismo, motociclismo, motonautica ecc.), della
montagna (alpinismo), della neve e del ghiaccio (sci, bob, pattinaggio artistico e di velocità),
delle armi (scherma, tiro a volo, tiro a segno ecc.). Le varie specialità sono controllate dalle
federazioni nazionali che, a loro volta, sono riunite in federazioni internazionali: l'attività delle
federazioni nazionali può essere coordinata da un comitato olimpico o da un ente similare, al
quale può essere affiancata l'opera di controllo del governo. I vari comitati olimpici (in Italia il
CONI) aderiscono al Comitato Internazionale Olimpico (CIO). I regolamenti delle diverse
specialità stabiliscono le norme che determinano se un atleta è dilettante o professionista: per
esempio, in molti sport, come il canottaggio, il golf, il tennis ecc., per i dilettanti è ammesso un
compenso percepito sotto forma di indennità di trasferta e contributo spese. Non sono invece
considerati dilettanti coloro che, pur non ricevendo alcun compenso, esplicano un'attività affine
remunerata: per esempio, nel canottaggio, i marinai di professione (ad eccezione degli ufficiali
della marina militare), i traghettatori, i guardiani di società nautiche ecc.; nel nuoto i
sorveglianti di piscine e spiagge ecc. Generalmente la qualifica di dilettante viene persa dagli
atleti che abbiano ottenuto vantaggi materiali speculando su premi o titoli vinti, oppure che
abbiano sfruttato la loro fama sportiva per ragioni commerciali. Infine in alcuni sport, come il
pugilato, il ciclismo ecc., la qualifica di dilettante viene riconosciuta riferendosi a criteri speciali
(tra cui l'età), in attesa che siano gli atleti a chiedere il passaggio alla categoria professionisti. I
dilettanti, secondo i regolamenti internazionali, possono partecipare solamente alle gare loro
riservate e la qualifica di dilettante è indispensabile per partecipare ai Giochi Olimpici. Il
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Comitato Internazionale Olimpico è il massimo organo che internazionalmente possa decidere
sul dilettantismo degli atleti.
Sociologia dello sport
La storia della sociologia insegna che manifestazioni apparentemente eccentriche e
marginali, ma capaci di intersecare continuamente la vita quotidiana, posseggono una
straordinaria capacità di portare alla luce la trama sotterranea delle relazioni sociali. Questa
osservazione vale a pieno titolo per un'attività diffusa e relativamente strutturata, come lo sport,
che coinvolge – a differenti livelli di fruizione e di pratica – la maggior parte dei cittadini. Basti
pensare, per quanto riguarda il caso italiano ed escludendo dal computo l'esercito sterminato dei
consumatori “passivi” di sport, che sono almeno tredici milioni (il 22,3% della popolazione
nazionale) gli italiani che a metà degli anni Novanta dichiaravano di dedicarsi con relativa
continuità a qualche pratica fisico-motoria. Oltre quattro milioni e mezzo risultavano
regolarmente affiliati a una federazione agonistica, cifra che saliva a oltre otto milioni
considerando l'universo dei praticanti a vario titolo attività competitive. Computando gli atleti
“occasionali” o i praticanti stagionali, che associano alle vacanze o al fine settimana qualche
attività sportiva o parasportiva, arriviamo a concludere che poco meno della metà dei cittadini
italiani appartiene alla galassia sociale del sistema sportivo. Un dato statistico che supera di
sedici-diciassette volte la stima fornita dall'ISTAT nel 1959, in occasione della prima
rilevazione ufficiale sulla pratica dello sport in Italia, rivelando un dinamismo che è impossibile
non ricondurre a un mutamento diffuso di cultura e sensibilità. Ancora più impressionanti le
grandezze economiche: con un fatturato di 38 mila miliardi all'anno (stime del 1995), lo sport
rappresenta per valore aggiunto il quinto comparto produttivo nazionale, precedendo settori
tradizionali del made in Italy, come l'industria del legno e quella tessile. Se non bastassero le
dimensioni sociali ed economiche del fenomeno, varrebbe anche la pena di sottolinearne la
rilevanza ai fini di un'analisi propriamente sociologica.
Significato dello sport
In un'ottica retrospettiva, non c'è dubbio che l'Occidente abbia originato la rivoluzione dello
sport planetario, veicolando stili di vita, gusti sociali diffusi e modelli di comportamento. Prima
nella stagione dell'egemonia britannica, poi attraverso altre e complementari influenze,
globalizzazione e occidentalizzazione sembrano dinamiche perfettamente coincidenti. Dalla
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Francia si irradia agli inizi del Novecento la passione per le prove su strada, ciclistiche e
motoristiche; soprattutto agli USA si deve la spettacolarizzazione televisiva degli eventi
sportivi; l'idolatria del calcio affonda radici nel contesto europeo prima di contagiare l'America
Latina e poi quasi tutto il Terzo Mondo. Eppure il percorso non è propriamente univoco. Le arti
marziali giapponesi e alcune pratiche motorie orientali vengono nel secondo dopoguerra
progressivamente metabolizzate dall'Occidente, che spesso le interpreta depurandole dai
caratteri culturali e filosofici propri del loro contesto d'origine. La figura del campione sportivo
viene enfatizzata da regimi politici autoritari (ma non solo) che ne fanno l'archetipo dell'eroe
politico. Questo processo è particolarmente visibile nei regimi socialisti dell'Est europeo, che
associano il campione sportivo ad altre figure simbolo, come il cosmonauta, eroe tecnologico i
cui precedenti vanno rintracciati forse nel mito retorico dei trasvolatori o dei sommergibilisti
nella stagione fascista. Neanche queste linee di lettura riescono però a risolvere in sé la
complessità e la problematicità della questione sportiva. La globalizzazione non è, in realtà, un
processo lineare. La commercializzazione, la professionalizzazione e la spettacolarizzazione
mediatica rappresentano tendenze dominanti, il cui impatto sociale nella vita quotidiana è
tangibile e vistoso. Ma esse non riescono a celare il fatto che, contemporaneamente, si
affacciano entro il perimetro delle pratiche fisico-motorie esperienze, linguaggi e domande
sociali contraddittorie, o comunque non banalmente riconducibili a quel modello. Lo sport per
tutti, per esempio, costituisce un movimento di dimensioni imponenti, forte di un proprio
mercato e strutturato in diversi Paesi sviluppati in reti organizzative molto estese. Si tratta di un
modello di pratica e fruizione che non ha nulla a che vedere con il vecchio amateurism
aristocratico. Al contrario, lo sport di prestazione relativa si è da tempo emancipato da compiti
di pura supplenza istituzionale (sport per i meno abbienti o per gruppi sociali a torto o a ragione
considerati periferici rispetto al sistema agonistico). Il movimento dello sport per tutti e a misura
di ciascuno è alla fine del Novecento un autentico sismografo di nuove sensibilità
antropologiche. Il suo profilo sociale evoca il principio dell'individualismo organizzato, in cui
ogni attore cerca soddisfazione per domande particolari attingendo a risorse strumentali. Esso
produce e consente una rete associativa, un sistema specializzato di offerta, l'appartenenza a una
comunità di stile. Il suo retroterra è nella mutazione culturale che interessa le società affluenti a
partire dagli anni Sessanta, a cominciare dalla filosofia del fitness. Ma non è nemmeno del tutto
riducibile a questa dimensione sotterranea. Lo sport per tutti è anche parente del nuovo
ecologismo. Preferisce le pratiche all'aria aperta, gli sport californiani (dal windsurf al
deltaplano o al parapendio, dal rafting alla canoa) in cui all'energia meccanica della motoristica
tradizionale si sostituisce il ricorso alle forze naturali del vento, delle maree, delle rapide
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fluviali. Preferisce la soft competition delle gare di orientamento, a diretto contatto con boschi e
foreste; la scalata a mani nude (free climbing) rispetto all'aggressione alla roccia con chiodi e
piccozze; le cavalcate in campagna rispetto alla coercitività dell'esibizione tecnica imposta al
cavaliere e all'animale dalla tradizionale equitazione da concorso. Non solo: nella gestione delle
attività, lo sport per tutti recupera quella logica della solidarietà e della “cittadinanza estesa” che
il principio di competizione inevitabilmente deprime. L'attività non agonistica può essere
un'eccellente strategia contro l'invecchiamento; il gioco presportivo non precocemente
specializzato è un importante strumento di socializzazione per i bambini; in quanto pratica
tendenzialmente transculturale e a basso contenuto verbale, un'occasione di comunicazione
interetnica. Categorie sociali marginali possono trovare nella pratica sportiva occasioni preziose
di risocializzazione e persino eventi di origine prettamente agonistica, come le maratone
cittadine, possono trasformarsi in grandi happenings a contenuto tematico (per l'ambiente, la
pace, la solidarietà ecc.). L'analisi sociologica stenta ancora a cogliere in pieno la complessità
del sistema sportivo contemporaneo. Troppo spesso il suo percorso intellettuale procede per
schemi generali – prima la civilizzazione (Elias e Dunning), poi la globalizzazione (Jarvie e
Maguire) –, alimentando l'irresistibile impulso a comprimere in essi tutta la varietà del
fenomeno. Già T. Veblen aveva circoscritto l'incipiente sportivizzazione alla sopravvivenza
dell'istinto predatorio della vecchia aristocrazia feudale, interpretando lo sport come un
fenomeno di omologazione della società industriale ai valori e ai modelli gerarchici della classe
dominante, la leisure class. Pochi decenni dopo, Ortega y Gasset analizzerà lo spettacolo
agonistico come pura risposta al bisogno di drammatismi semplici e arcaici dell'uomo massa. E.
L. Mumford, negli anni Trenta, si spingerà oltre, denunciando proprio il processo di
desacralizzazione del gioco sportivo, che ai suoi occhi lo andava degradando “dal dramma
all'esibizione”. La filosofia del successo a ogni costo, del resto, appariva a questi critici un
tradimento dell'ideale olimpico fondato sul primato della partecipazione “amatoriale”. Nella
realtà, come si è accennato, quel paradigma retorico rappresentava il prodotto di distillazione di
una cultura ispirata al pedagogismo positivistico di Coubertin e dei suoi seguaci. La sua
sopravvivenza nel tempo sarebbe stata di breve durata, eppure ancora nel 1938 lo storico
olandese J. Huizinga, legittimamente impressionato dall'uso strumentale e aggressivamente
nazionalistico dello sport di competizione da parte dei regimi dittatoriali del tempo – le
Olimpiadi di Berlino sono sostanzialmente coeve del suo Homo ludens –, riprenderà nella
sostanza le intenzioni etico-simboliche dei padri (ri)fondatori dello sport in versione vittoriana.
Al centro della sua riflessione sarà l'allarme per il progressivo declino della ludicità nei giochi
sportivi e la tendenza ipertrofica e degenerativa dello spirito agonistico. La sottintesa critica
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della società di massa e l'orrore per la futura società “totalmente amministrata” costituiscono un
importante elemento di raccordo fra Huizinga e i sociologi francofortesi. Per citare un solo
esempio, Adorno scaglierà contro lo sport di competizione – inevitabilmente dominato dal
principio di misurazione – l'antico anatema ebraico contro la manipolazione del corpo. Con
assonanza macabra, arriverà a paragonare lo sguardo dello sportivo a quello del “costruttore di
bare”, la sola figura autorizzata dall'etica ebraica tradizionale a misurare le dimensioni del corpo
umano. Questo filone apocalittico riemerge fra gli anni Sessanta e Settanta, in coincidenza con il
ciclo di protesta che attraversa le società industriali avanzate dell'Occidente. Sono
principalmente studiosi francesi e tedeschi a rappresentare lo sport di prestazione come la più
efficace metafora della mercificazione della società tardocapitalistica e della sua intrinseca
vocazione alla violenza, al disciplinamento aggressivo, alla gerarchizzazione. J. Galtung leggerà
la diffusione planetaria dello sport spettacolo, agevolata dallo sviluppo delle tecnologie
comunicative, come un fenomeno di omologazione culturale per diffusione dal centro alla
periferia, dal Primo al Terzo Mondo, dai Paesi detentori delle ricchezze, delle tecnologie e delle
risorse simboliche ai “mondi della subalternità”. Non è difficile percepire che, pur sollevando
argomenti e preoccupazioni in gran parte fondati, gli studiosi di ispirazione “apocalittica”
riflettono anche l'intrinseca difficoltà delle scienze sociali a misurarsi con una problematica che
ha conosciuto, nel corso di appena un secolo, rapide e radicali dinamiche di cambiamento.
Sicuramente più perspicaci risultano analisi di taglio meno ideologico, ma più attente alla
dimensione propriamente sociologica del fenomeno sportivo. Per citare un autore totalmente
sconosciuto nel contesto scientifico italiano, basterebbe rifarsi, per esempio, al tedesco H. Risse,
che, nel lontano 1921, sviluppa con la sua Soziologie des Sports un'analisi ancora di grande
attualità. Oppure si potrebbe scomodare C. Wright Mills, che negli anni Cinquanta utilizza lo
sport campionistico nordamericano per esemplificare l'emergere di un doppio codice normativo
(work morality vs fun morality) in seno alle società affluenti postbelliche. Muovendo dalle
riflessioni di Huizinga sul gioco e la civiltà, R. Caillois crede invece di rintracciare il nucleo
genetico in cui prendono corpo domande espressive e bisogni mimetici. Con la felice allegoria
della maschera e della vertigine lo studioso francese propone un'inedita anatomia delle relazioni
sotterranee che collegano il gioco all'identità, il mimetismo sportivo al bisogno del sacro, la
passione per l'azzardo alle pulsioni distruttive e autodistruttive diffuse nel reticolo dei rapporti
interpersonali. E. Morin fa dello sport il paradigma più nitido di quell'etica del loisir che gli
sembra l'espressione più coerente della mutazione antropologica del sistema sociale e P.
Bourdieu, alla fine degli anni Settanta, nel suo studio sulla distinzione rintraccia nell'opzione per
alcune determinate specialità sportive una disperata ricerca di mobilità ascensionale individuale,
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cui le pratiche “di prestigio” (il golf, la vela, l'equitazione) conferirebbero un'inequivocabile
impronta di status. Bisognerà però aspettare la fine degli anni Settanta per imbatterci in un
contributo teorico-critico di grande rilievo, che segna forse il più organico tentativo di dare
dignità sociologica alla ricerca sullo sport. Ne è autore A. Guttmann, che nel suo From Ritual to
Record (1978) indaga finalmente la sportivizzazione come dinamica sociale nel quadro della
teoria weberiana della modernizzazione e della “scientificizzazione del mondo”. Per Guttmann,
i moderni giochi sportivi si pongono in linea di derivazione con la distinzione fra gioco
spontaneo (play) e pratica retta da regole (game). Lo sport discende dal game, nella sua versione
competitiva (contest) associata all'esercizio della corporeità (specificazione che apre la
controversa questione dei giochi “mentali”, tipo gli scacchi o il bridge). Ma è la modernità
industriale a inserire compiutamente lo sport nel reticolo del sistema sociale. Anzi, a farne una
sorta di potente metafora della modernità. Lo sport di competizione, infatti, presuppone una
avanzata secolarizzazione della società. È l'emancipazione dall'uso puramente celebrativo e
liturgico della corporeità – come nelle danze sacre o nelle esibizioni devozionali – che libera e
rende possibile la gara e il suo corollario intrinseco: la classifica. Ma, nel contempo, nello sport
moderno si riflette il principio proprio delle società industriali della specializzazione. La
molteplicità delle pratiche agonistiche evidenzia perfettamente una cultura sociale che si ispira
alla divisione funzionale del lavoro e che fa di questa un elemento portante della
razionalizzazione. Insieme, lo sport competitivo ha bisogno di regole certe, di istituzioni
organizzative permanenti, di giudici e di sedi arbitrali. La razionalizzazione si associa così alla
burocratizzazione, ma l'altra faccia di questo processo è rappresentata dall'adozione di un
principio di pari opportunità di fronte all'accesso alle pratiche e di fronte alle sue regole. In
questo senso, lo sport riproduce le istanze egualitarie della modernità, affermando codici
comportamentali – il fair play, la lealtà sportiva – spesso ipocritamente invocati e rinnegati nei
fatti dall'avvento precoce del campionismo e della commercializzazione estrema (si pensi al
doping, ai risultati truccati, all'etica del risultato a qualsiasi prezzo). Quello che Guttmann
intende però sottolineare è che la filosofia delle pari opportunità è un portato politico della
modernità, completamente ignoto alle età precedenti. Infine, con l'ideologia della
quantificazione della prestazione e del record si realizza un'intima compenetrazione fra sport e
industrialismo, l'uno come l'altro governati dall'imperativo di misurare, calcolare, rendere
tangibile e verificabile il prodotto di un'attività umana. L'introduzione dell'elettronica nella
misurazione di tempi e distanze ha condotto questa tendenza a esiti quasi parossistici. La stessa
idea di record, assolutamente estranea allo sport classico, consente un miracolo spaziotemporale, permettendo agli atleti di competere non solo con gli avversari diretti, bensì anche
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con atleti che hanno gareggiato in passato o che potranno in futuro tentare di battere quel tempo
o quella misura. Il record consente addirittura di competere con se stessi, cercando
ossessivamente di migliorare la propria performance in un gioco psicologicamente intricato di
narcisismo e soddisfazione differita. Un tema squisitamente politologico è al centro, infine,
dell'analisi di R. S. Gruneau, che ha collegato la formazione del sistema sportivo al passaggio
dalle società tradizionali preindustriali a quelle industriali contemporanee. Lo studioso canadese
ha cercato per questa via di ampliare la prospettiva spaziale e temporale che la Scuola di
Leicester aveva limitato all'Inghilterra ottocentesca e alla sua peculiare parabola di
sportivizzazione. Anche per Gruneau, comunque, lo sport riproduce l'ambiguità della
democratizzazione. Da un lato, il successo agonistico evoca una possibile mobilità ascensionale,
affidata alla coltivazione del talento naturale, per definizione individuale. Dall'altro, la
professionalizzazione e la stessa commercializzazione dello sport spezzano il recinto del
vecchio amateurism dei ceti privilegiati, che Veblen aveva un secolo prima icasticamente
individuato.
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