3. Storie del respiro
«Ora la terra era deserta e vuota, le tenebre coprivano l’abisso, il soffio (ruah) di Dio si librava
sulle acque.» (Genesi 1,2)
«Il vento (pnéuma) soffia dove vuole, senti la sua voce, ma non sai da dove viene né dove va. Così
è chiunque è nato dallo Spirito (pnéuma) (Giovanni 3,8)
«L’altalena del respiro» il titolo del racconto di Müller Herta (2009 L’altalena del respiro,
Feltrinelli, Milano 2010) per ricostruire la nuda vita dello scorrere del tempo nei campi di
concentramento e lavori forzati.
1. i termini della tradizione greca ed ebraica: pnèuma, ruàh in forte evoluzione per
relazione reciproca (la bibbia dall’ebraico… al greco nella traduzione dei LXX), varietà dei
riferimenti (cosmo, uomo Dio), accumulo e conseguente densità storica.
1.1. pnèuma: respiro, alito, vento (ànemos, lo spirare fisico del vento), anima (ànemos, psyché; il
fiato, respiro è segno e realtà di vita), spirito; ispirazione nella poesia e nella mantica, con il
conseguente stato di euforico entusiasmo, invasamento e follia; dono e presenza profetica; principio
di vita e di forza (dynamis) della natura e dell’uomo ed è forza generativa, vitale e spirituale.
1.2. ruàh: respiro, alito, fiato, vento; principio di forza, vita, intelligenza, di opere; spirito di Dio, la
sua forza operante (Dio crea «con il soffio della sua bocca») e lo spirito dell’uomo, sede delle
percezioni, delle funzioni spirituali e della volontà; lo spirito dei defunti; benedizione e dono; dono
escatologico e giustizia. (I “Settanta” traducono ruàh con pnéuma)
1.3. termini in forte evoluzione per relazione reciproca e densità storica
1.3.1. Lo pnéuma dei greci come lo spiritus dei latini «inizialmente indica l’alito del vento e del
respiro; su questa base si è poi attuata l’evoluzione semantica del termine, che sta a testimoniare la
percezione della stessa realtà. In generale, la grecità profana, anche quando usa pnéuma in senso
traslato riferendolo alla realtà dell’anima e dello spirito, si attiene alla concezione di fondo suggerita
dall’etimo e pensa a qualcosa che possiede energia, che è concreto e sensibile, e quindi designa
l’aria che si muove e le sue molteplici funzioni sia nell’uomo sia nel cosmo.» Kittel Gerhard
(fondato da) 1933 Grande lessico del Nuovo Testamento, Paideia, Brescia 1965, vol. X. P. 784
1.3.2. «“Anima” è un nome universale e antico che, nell’espressione greca psyché dice il soffio, e
nell’espressione latina anima traduce il vento (ànemos). Originariamente mobile e vitale, l’anima si
concede a quell’accostamento che la fa identica alla vita: alla vita del corpo nell’intendimento di
Aristotele (De Anima 414a), o alla vita imprigionata nel corpo come a più riprese riferisce Platone
(Fedone 82e-83b). Galimberti Umberto 1999 Psiche e techne, Feltrinelli Milano, p. 642
1.3.3. Conclusione sui termini, in funzione di un’intesa preliminare. All’inizio, presso i greci e nei
documenti dell’ebraismo, è il respiro, il soffio, il vento che diventano subito spirito, anima e vita; il
respiro è qui segno e fonte di vita; l’anima è principio del vivente, tutto ciò che vive ha anima e, per
molto tempo nella storia della cultura si afferma che tutto ciò che esiste vive, quindi ha anima. Poi
sono i termini spirito e anima a dominare, a porsi al centro dell’attenzione della filosofia e della
cultura in generale sia come essenze metafisiche e principi, sia come realtà fisiche oggetto di studio,
sia come fonte e obiettivo di progetti educativi (edificazione, educazione dello spirito e dell’anima);
i due termini, spirito e anima, tendono a presentarsi come equivalenti, il primo con una
connotazione più religiosa, il secondo con un destino più filosofico; entrambi poi, alla fine, sono
usati per indicare il pensiero e finiscono in una accezione mentalistica, soprattutto nelle recenti
filosofie cognitivistiche della mente (Searle John R. 2004 La mente, Raffaello Cortina editore,
Milano 2005. Quest’ultima collocazione restringe la portata di senso che le parole spirito e anima
avevano quando, all’inizio, erano in compagnia del respiro; tesi filosofiche contemporanee, che
richiamano l’attenzione sul mondo-della-vita, sembrano restituire allo spirito (all’anima, alla mente)
e al precategoriale quel senso ampio e indeterminato che gli derivava dalla sua originale vicinanza
al respiro.
1
2. la triplice sede del respiro (dello spirito): mondo, uomo, storia, in versione miticoreligiosa. [mondo, uomo, storia: tre ambiti ricorrenti delle storie filosofiche sul “respiro”]
2.1. mondo «Nel principio Dio creò il cielo e la terra. Ma la terra era deserta e disadorna, le tenebre
coprivano l’abisso, lo spirito di Dio planava sulle acque. Dio disse “Sia la luce”…». (Gn 1, 1-3)
È l’inizio del libro della Genesi e del primo racconto della creazione, attribuito alla tradizione
sacerdotale, che disegna la creazione modellandola sulla settimana liturgica ebraica e usando come
simbolo e schema il settenario che suole esprimere, nella cultura mediorientale, la perfezione. Lo
spirito che “aleggia” sulle acque come respiro e vento, “ruah”, è all’origine del prendere forma
dell’universo. «Il vento è, per molteplici versi, una categoria ontologica e una forma presentata
dalla natura stessa per indicare qualcosa senza principio e anteriore ad ogni principio. Perciò l’idea
che il soffiar del vento sia una forza cosmogonia generatrice e portatrice di vita appartiene alla
mitologia primitiva ed è assai diffusa» (Kittel, o.c. p.791)
2.2. uomo «Al tempo in cui Yahweh Dio fece la terra e il cielo, non vi era ancora alcun arbusto dei
campi sulla terra e nessuna erba dei campi era ancora spuntata, perché Yahweh Dio non aveva
ancora fatto piovere sulla terra e non c’era alcun uomo (alcun adamo) che coltivasse il suolo.
Tuttavia un flusso sgorgava dalla terra e irrigava tutta la superficie del terreno. Allora Yahweh Dio
modellò l’uomo con la polvere del terreno e soffiò nelle sue narici un respiro di vita e l’uomo
divenne un essere vivente» (Gn 2, 4-7)
Si tratta dell’inizio del “secondo” racconto della creazione, attribuito alla tradizione detta
“yahvista”, centrato sull’uomo e sul suo destino. In forma immaginifica e drammatica delinea i fatti
dell’origine che definiscono e condizionano il genere umano nell’intera sequenza della sua storia.
Ritorna di frequente … «vedi, io sono un tuo simile, non un dio, come te sono stato modellato
d’argilla. È il soffio di Dio che mi ha fatto, il respiro di Shaddai che mi anima.» (Giobbe 33, 6,4)
2.2.1. Lo pnéuma torna nel Nuovo Testamento come dono: lo spirare di Gesù sulla croce, il suo
respiro diventa dono dello spirito. Lo pnéuma si configura come un nuovo “respiro”, forza vita e
potenza, che dall’esterno (come dono) ma non in modo estraneo determina la vicenda dell’uomo,
inaugura una nuova era storica, crea cieli nuovi e terre nuove, porta a compimento il piano salvifico
nell’era messianica. Nelle lettere di Paolo questo accadere dello spirito come dono ha un carattere
storico escatologico che segna definitivamente il corso del tempo fino a delineare da subito (dono
caparra [grazia, charis, carità] di un compimento finale certo e sperato [speranza, attesa], nella fede
[fedeltà degli attori nel compiere e fiducia nel compimento]) i tratti di una nuova antropologia, di
una nuova storia e di una nuova cosmologia. Nelle lettere si colloca al centro la riflessione
antropologica. Tra i due elementi di una antropologia scissa, corpo e anima, “sòma” (“sarx”) e
“psychè”, spesso pensati e proposti (nella filosofia e nella letteratura) in conflitto e tormento di
reciproca sopraffazione e prevaricazione, irrompe un nuovo elemento, una nuova forza e una nuova
dinamica: lo pnéuma. Non si tratta di una terza sostanza, sarebbe evidente la sua estraneità alla
dialettica interna all’uomo, ma di forza che interrompe il binomio antropologico “sòma” e
“psychè”, drammaticamente irrisolto, e porta ad armonia e realizzazione la natura scissa dell’uomo.
Il linguaggio suona nuovo: pnéuma non designa né l’anima nè la mente dell’uomo, può applicarsi
tuttavia sia all’anima sia al corpo (si parla di “sòma pneumatikòn” 1 Cor. 15,44; in Giovanni il
Lògos, Dio, diventa “sarx” Gv. 1,14), come ad essi si contrappone: vi si applica perché ne
costituisce la realizzazione e la salvezza; vi si contrappone perché accade come dono e grazia da
una dimensione esterna ed altra nei confronti di ciò che è mondano, irrompe imprevedibilmente nel
suo corso. L’esito è quello di un’armonia pacificata e attiva che manifesta da subito la sua presenza
generando i suoi frutti: l’agàpe, il primo dei doni dello spirito (Gal. 5,22). Carità intesa non come
insieme di opere con conseguente vanto di dottrine, di precetti e di meriti, ma come nuovo modo di
essere, come descritto e esaltato in 1 Cor. 13; la funzione dello pnéuma non è di tipo moralistico ma
soteriologico, o, se si vuole, la sua «funzione “etica” non è dunque altro che quella “soteriologia”.
[…] Perciò vivere della forza dello spirito e secondo la sua norma significa vivere liberi dal nòmos
[liberi dalla legge], vivere interamente del Xristòs, della chàris [grazia e carità], dello stauròs
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[croce] e in ciò rendersi liberi per l’agàpe.» (Kittel o.c. p.1041, 1043). Una antropologia triangolare
in cui lo spirito come dono (con la sua levitas e la sua forza) irrompe, stravolge e avvia in direzione
nuova (di completezza salvifica) la vicenda e la condizione umana; è l’imprevedibile altro che
accade nell’uomo, nella sua condizione, storia e vita, e attua un totale e definitivo cambiamento
(metànoia, conversione, nuova natura), creando uomini “pneumatikoi” e non più solo “psychikoi”;
li anima un nuovo respiro.
2.3. storia
2.3.1. «L’angelo le rispose: lo Spirito Santo scenderà sopra di te e la potenza dell’Altissimo ti
coprirà con la sua ombra.» (Luca 1,35) «Eschilo, nelle Supplici, … ricorda il caso, unico in ambito
greco, di un dio che, alitando in una donna mortale, genera un figlio divino. … L’alito del vento o
del respiro è una forma d’essere e una rappresentazione in cui soprattutto certe potenze divine
superiori, di cui l’uomo non può disporre e che appartengono al genere più disparato, comunicano
all’uomo e anche alla natura, nel bene e nel male, qualcosa di quel vivente essere ed agire che esse
stesse sono.» (Kittel o.c. p. 795, 800)
2.3.2. «Se mi amate, osservate i miei comandamenti. Io pregherò il Padre ed egli vi manderà un
altro Paraclito, affinché sia sempre con voi, lo Spirito (pnèuma) di verità che il mondo non può
accogliere, perché non lo vede né lo conosce. Voi lo conoscete, perché dimora presso di voi e sarà
in voi. … Vi ho detto queste cose mentre rimango presso di voi. Ma il Paraclito, lo Spirito santo che
il Padre manderà nel mio nome, egli vi insegnerà tutto e vi farà ricordare tutto ciò che vi ho detto»
(Giovanni 14, 15-17, 25-26)
2.3.3. «Dopo ciò, sapendo Gesù che già tutto era compiuto, affinché si adempisse la Scrittura, disse:
ho sete. C’era là un vaso pieno di aceto. Fissata dunque una spugna imbevuta di aceto ad un ramo
d’issopo, glielo accostarono alla bocca. Quando ebbe preso l’aceto, Gesù disse: tutto è compiuto; e,
chinato il capo, donò lo spirito.» (Giovanni 19, 28-30)
2.3.4. «Detto ciò, soffiò su di loro [discepoli] e disse loro: ricevete lo Spirito santo: a chi rimetterete
i peccati, sono loro rimessi; a chi li ritenete, sono ritenuti.» (Gv 20, 22-23) «Il giorno della
Pentecoste volgeva al suo termine, ed essi stavano riuniti nello stesso luogo. D’improvviso vi fu dal
cielo un rumore, come all’irrompere di un vento impetuoso, che riempì tutta la casa in cui si
trovavano. Apparvero ad essi delle lingue come di fuoco che si dividevano e che andavano a posarsi
su ciascuno di essi. Tutti furono riempiti di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue
secondo che lo Spirito dava ad essi il potere di esprimersi. Si trovavano allora in Gerusalemme
Giudei devoti, provenienti da tutte nazioni del mondo. Al prodursi di questo rumore incominciò a
radunarsi una gran folla, eccitata e confusa, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua.
Fuori di sé per la meraviglia dicevano: tutti costoro che parlano sono forse Galilei? Come mai
ciascuno di noi li ode parlare nella propria lingua nativa? Parti, Medi, Elamiti, abitanti della
Mesopotamia, della Giudea e della Cappadocia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfilia,
dell’Egitto e delle regioni della Libia presso Cirene, Romani qui residenti, sia Giudei che proseliti,
Cretesi e Arabi, tutti quanti li sentiamo esprimere nelle nostre lingue le grandi opere di Dio!» (Atti
degli Apostoli 2, 1-11)
L’invio dello spirito è l’annuncio della realizzazione dei tempi messianici, quelli che l’intera Bibbia
ebraica, a partire dalla creazione e dagli eventi dell’Eden, presenta in termini di attesa e certa
speranza, quelli che i libri della bibbia cristiana, definiti nuovo testamento, annunciano come
accaduti nella figura di Gesù proclamato Cristo e quindi Messia; annuncio di realizzazione
escatologica che segna la rottura storica, non culturale, tra ebraismo e cristianesimo. Lo spirito, lo
spirare, l’ultimo respiro di Gesù non è un semplice spirare (exépneusen Mc 15,37; Lc 23,46) è dono
dello spirito (parédoken to pnéuma), dello spirito promesso, e inizio delle nuova era, quella della
salvezza, quella escatologica, che porta a compimento le attese profetiche della bibbia ebraica.
Emblematica la narrazione contenuta negli Atti degli apostoli che forma una vera e propria antitesi
messianica di redenzione della confusione e della dispersione determinatesi con la costruzione /
distruzione della torre di Babele (Genesi 11, 1-9). Il “mistero” salvifico, il disegno storico della
creazione e compimento si dispiega così nella propria completezza storica.
3
3. Respiro e anima nei tre classici filoni della ricerca filosofica: mondo, uomo, storia.
3.1. Il respiro del mondo: il mondo (la natura) e l’anima mundi.
3.1.1. La prima cosmologia mitica, filosofica e tecnica come organismo vivente nel disegno di
Platone. «Psyché deriva da physéche che significa ciò che sostiene e muove la natura.» Platone,
Cratilo 400b. Il Timeo.
La tessitura del cosmo, organizzata dal Demiurgo, è consegnata all’anima, un respiro e un vento
metafisico; si tratta dell’anima del mondo; una visione destinata ad avere una lunga storia di fortuna
e di evoluzione nel corso del tempo della riflessione filosofica e scientifica.
«Ragionando dunque trovò che delle cose naturalmente visibili, se si considerano nella loro
interezza, nessuna, priva di intelligenza, sarebbe stata mai più bella di un’altra, che abbia
intelligenza, e ch’era impossibile che alcuna avesse intelligenza senz’anima…» (Timeo 30b) «E
messa l’anima nel mezzo di esso, la distese per tutte le sue parti, e con questa stessa l’avvolse
tutt’intorno di fuori, e così fece un cielo circolare, che si muove circolarmente, unico e solitario, ma
atto per sua virtù ad accompagnarsi con se stesso e di nessun altro bisognoso e bastevolmente
conoscitore e amante di se stesso.» (Timeo 34 b) «Poiché il padre, che l’aveva generato, vide
muoversi e vivere questo mondo divenuto immagine degli eterni dei, se ne compiacque, e pieno di
letizia pensò di farlo ancor più somigliante al suo modello. Come dunque questo è un animale
eterno, così anche questo universo egli cercò, secondo il suo potere, di renderlo tale. Ora, la natura
dell’anima era eterna, e questa proprietà non era possibile conferirla pienamente a chi fosse stato
generato: e però pensa di creare un’immagine mobile dell’eternità e ordinando il cielo crea
dell’eternità che rimane nell’unità un’immagine eterna che procede secondo il numero, quella che
abbiamo chiamato tempo.» (Timeo 37c,d)
Nel mito esposto nel dialogo di Platone, Fedro, la rappresentazione cosmologica che vuole illustrare
lo stato del mondo stabilisce un raffronto tra i venti e la respirazione: «come accade di chi respira,
che il fiato va sempre e viene fluendo senza interruzione, così anche là questo fiato che oscilla
insieme con l’umore produce venti terribili e sterminati entrando e uscendo». Così lo pnèuma,
respiro e vento, si accosta a anima, forza, potenza naturale del mondo. Il cammino è completo nella
filosofia dello stoicismo dove pnéuma è concepito come sostanza dinamica cosmica universale,
come la «sostanza vitale e feconda presente nelle piante e negli animali e che tutto pervade.»
(Pseudo-Aristotele, Mundo, 394b8ss)
3.1.2. Il tema dell’anima mundi, del respiro, della vita, dell’anima del mondo e la conseguente
concezione organicistica dell’universo presentato come organismo animato (grande animale) ha una
lunga storia: presente quasi universalmente nei frammenti delle filosofie presocratiche, si può
attribuire, in diverso modo, ai pitagorici, a Platone, ad Aristotele, alla filosofia stoica, neoplatonica
e, per certi versi, anche a quella epicurea; è costante nell’età medievale e domina le filosofie della
natura degli inizi dell’età moderna. Una versione appassionata e innovativa di questa concezione è
fornita dalla filosofia di Giordano Bruno (1458-1600 arso vivo a Roma su responsabilità del
Tribunale della Santa Inquisizione della Chiesa cattolica). Nelle proprie opere Bruno riconosce e
richiama, come argomento di sostegno e di dimostrazione, le antiche ascendenze (pitagoriche,
platoniche, neoplatoniche, aristoteliche, stoiche, ermetiche, magiche) del tema dell’anima mundi e
ne richiama la recente rinascita nelle filosofie della natura rinascimentali; anzi, nella sua concezione
cosmologica e metafisica convergono tradizioni filosofiche eterogenee per la tesi dell’unità e
dell’infinità vivente del mondo. L’originalità della sintesi nella quale esse si armonizzano conduce
tuttavia Bruno a risultati che stravolgono il tradizionale linguaggio filosofico e rinnovano
completamente la visione del mondo. Egli ricorre a termini quali forza, potenza, tensione, attualità,
attività e a metafore tratte dal mondo della vita e della generazione; con essi annulla, o per lo meno
attenua, molte distinzioni od opposizioni aristoteliche. La materia, presentata anche come potenza
attiva, si fonde con il concetto di forza, energia e atto; potenza e atto tendono dunque a coincidere.
La materia in quanto animata ha in sé e «manda dal suo seno» le forme: anche materia e forma
tendono così a identificarsi. Le opposizioni tradizionali tra essere spirituale ed essere materiale,
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intelletto e natura, anima e materia cessano di esprimere dicotomie e si trasformano in espressioni
del dinamismo proprio dell’universo, uno e infinito.
Dal dialogo De la causa principio et uno, la natura animata: «Il spirto, l’anima, la vita si ritrova in
tutte le cose»
«Teofilo. Or venemo al più particolare. Mi par che detrahano alla divina bontà et all’eccellenza di
questo grande animale, e simulacro del primo principio, quelli che non vogliono intendere, né
affirmare il mondo con gli suoi membri essere animato; come Dio avesse invidia alla sua imagine,
come l’architetto non amasse l’opra sua singulare di cui dice Platone che si compiaque nell’opificio
suo, per la sua similitudine che remirò in quello, e certo che cosa può più bella di questo universo
presentarsi a gli occhi della divinità? et essendo che quello costa di sue parti: a quali di esse si deve
più attribuire che al principio formale? lascio a meglio e più particolar discorso mille raggioni
naturali oltre questa topicale o logica. Dicsono. Non mi curo che vi sforziate in ciò, atteso non è
filosofo di qualche riputazione, anco tra Peripatetici, che non voglia il mondo e le sue sfere essere in
qualche modo animate. Vorei ora intendere con che modo volete che questa forma venga ad
insinuarsi alla materia de l’universo? Teofilo. Se gli gionge di maniera che la natura del corpo la
quale secondo sé non è bella, per quanto è capace viene a farsi partecipe di bellezza, atteso che non
è bellezza se non consiste in qualche specie o forma, non è forma alcuna che non sia prodotta da
l’anima. Dicsono. Mi par udir cosa molto nova: volete forse che non solo la forma de l’universo ma
tutte quante le forme di cose naturali siano anima? Teofilo. Sì. Dicsono. Sono dumque tutte le cose
animate? Teofilo. Sì. […] Se dumque il spirto, la anima, la vita si ritrova in tutte le cose, e secondo
certi gradi empie tutta la materia: viene certamente ad essere il vero atto, e la vera forma de tutte le
cose. L’anima dumque del mondo, è il principio formale constitutivo de l’universo, e di ciò che in
quello si contiene: dico che se la vita si trova in tutte le cose, l’anima viene ad esser forma di tutte le
cose: quella per tutto è presidente alla materia, e signoreggia nelli composti, effettua la
composizione, e consistenzia de le parti.»
Ispirandosi al modello dell’organismo vivente, le cui parti si compongono in armonia, Bruno
formula quindi una nuova visione dell’universo come «grande animale». Il fondamento metafisico
di questa cosmologia sta nella presentazione dell’anima come principio immanente, formale e
costitutivo, dell’universo; essa determina, presiede e armonizza la potenza attiva della materia o la
sua capacità di generare da sé infinite forme. L’universo, uno e infinito per l’unicità e l’infinità della
forza vitale che lo anima, si presenta perciò come un tutto organico, capace di muoversi per impulso
e finalità propria. Le affermazioni «circa la mente, il spirto, l’anima, la vita che penetra tutto»
consentono a Bruno di mettere in luce sia l’autonomia del mondo (che si trasforma in virtù della
propria forza e non per dipendenza da cause esterne), sia l’autonomia della filosofia e delle scienze
che studiano la natura. L’indicazione dei principi metafisici immanenti alla materia consente alla
filosofia naturale di annullare ogni dipendenza dalla teologia.
3.1.3. In opposizione allo sguardo matematico, scientifico utilitaristico e tecnico a cui la natura è
stata sottoposta da molte tradizioni precedenti e ancora dominanti (la filosofia di Descartes, i
Principia di Newton, le posizioni degli Illuministi, l’utilitarismo inglese, la logica della produzione
e dello sviluppo industriale) la folta schiera di autori che viene collocata dietro l’etichetta di
“romantici” (i fratelli Schlegel, Novalis, Schelling, Tiek, Wakenroder, Schleiermacher, Böhme e
per certi versi gli stessi “antiromantici” Goethe, Schiller, Hegel) ritorna a vedere la Natura come
organismo vivente, pervasa da un respiro e da un flusso inesauribile che si può raggiungere solo con
l’intuizione, il sogno, la magia, l’arte. Natura in senso puro diventa ciò che è il più lontano possibile
da alterazioni meccaniche dell’uomo: il primitivo sconvolgente e orrido, luogo privilegiato e
naturale dell’infinito, immediatamente sublime. Il fascino della paura, una appassionata ricerca
dell’orrido definito come prodigioso diventano il contesto di una “seconda vista” che oltre l’usuale
e il meccanico fa cogliere con l’intuizione e vivere simpateticamente l’anima e il respiro del mondo.
«Essi abbozzarono una filosofia la quale non assunse mai forma coerente e sistematica. Discepoli
dei classici, concepivano inizialmente il mondo come il flusso inesauribile e perpetuamente
mutevole delle creazioni della forza vitale; sotto l’influsso degli scienziati e di Schelling vi
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introdussero poi una “simpatia universale” manifestantesi, per esempio, nell’affinità chimica, nel
magnetismo, nell’amore umano; infine, sotto l’influsso delle effusioni religiose di Schleiermacher,
finirono col derivare da Böhme l’idea del centrum, principio divino e anima del mondo. Chi entra in
contatto con la realtà vera, per mezzo dell’intuizione, e anche del sogno, della magia, è l’artista di
genio; e in lui quest’esperienza misteriosa si tramuta in opera d’arte. Il poeta è un sacerdote, e tale
filosofia finisce con l’affidarsi al miracolo» (Mathiez A., Lefebvre G. La rivoluzione francese,
Torino 1968, p.688) [e non alla legge, tanto meno ai concetti astratti e freddi, non vitali, della
scienza]
3.1.4. Gli effetti rivoluzionari del vitalismo romantico non si traducono solo nel campo della
produzione artistica e delle parallele teorie estetiche ma anche nel rilancio in nuove direzioni del
sapere e della ricerca scientifica.
Ridotte finora al modello meccanico, prendono invece autonomia e vigore ricerche che finiscono
per costituire nuovi rami del sapere scientifico e del sistema economico. L’attenzione romantica dai
tratti mistici – magici alla forza vitale della natura e al respiro del mondo diventa studio della
chimica, dell’elettricità, del magnetismo e, soprattutto, dà vita ad una nuova biologia che ha nelle
teorie evoluzionistiche il proprio asse portante. Le tesi dell’organismo vitalistico applicate alla
natura e all’universo cedono il passo alla dottrine dell’evoluzione delle specie il cui punto centrale è
nel concetto di vivente dotato di un piano di adattamento all’ambiente. La tesi ha anche un più vasto
e rivoluzionario campo di applicazione: l’universo, di cui ricompare il “respiro”. Le leggi fisiche
mutano nel tempo per un processo di adattamento dotato di autonomia e di relazioni.
3.1.4.1. estensione cosmologica dell’evoluzionismo e versione scientifica del “respiro” del mondo:
«…perché non immaginare che le leggi fisiche, proprio come l’universo stesso, si evolvano nel
corso del tempo, in una sorta di processo adattativo di tipo darwiniano? È proprio quanto propone
Lee Smolin: ci sarebbe una specie di selezione cosmologica naturale delle leggi fisiche, che, nel
corso del tempo permetterebbe all’universo di cambiare le sue leggi d’evoluzione. In qualche modo,
l’universo s’adatterebbe al suo stesso stato e le sue leggi fisiche sarebbero operative solo nel
momento in cui gli oggetti a cui esse si applicano si concretizzassero effettivamente. Già suggerita
alla fine del XIX secolo dal filosofo Charles Sanders Peirce, questa idea ha il merito di restituire la
singolarità di qualunque istante presente, una singolarità che è invece abbandonata nel quadro della
teoria della relatività: ogni “adesso” potrebbe essere caratterizzato da un certo stato delle leggi
fisiche, che permetterebbe di distinguerlo da tutti gli “adesso” che l’hanno preceduto e da tutti quelli
che lo seguiranno.» Klein Étienne 2007 Il tempo non suona mai due volte, Raffaello Cortina
editore, Milano 2008, p.130
3.1.4.2. estensione sociale politica dell’evoluzionismo in due recenti studi e proposte:
3.1.4.2.1. Latour Bruno 1999 Politiche della natura. Per una democrazia delle scienze, Raffaello
Cortina editore, Milano 2000. La natura è un concetto rischioso per la politica se 1. la si intende
come concetto per uniformare il sociale “il collettivo” negandone la insopprimibile complessità; 2.
la si utilizza per consolidare scelte politiche e forme sociali rendendole dominanti attraverso
attribuendo e riservando loro l’epiteto di naturali; 3. la si presenta come un in sé astratto e astorico,
ignorando come di fatto il suo concetto e la sua forma non possano non comprendere anche la
componente antropica, indispensabile per la definizione stessa di natura, per determinarne i processi
d’uso, per comprendere come l’uomo, componente della natura nel suo fare, vi possa incidere
interagendo con la sua plastica evoluzione. Al vecchio ecologismo che tende a concepire e imporre
la natura come un in sé assoluto va contrapposto un nuovo ecologismo, una ecologia politica
democratica che introduce le scienze nella definizione e gestione secondo progetto di un bene
comune. È un’attenzione che si impone di fronte alla consapevolezza di un doppio procedimento in
avanzata: il mutamento giuridico della natura in atto quando quando i processi di privatizzazione
porta alla sua fine il concetto di natura come bene universale, che «esiste gratuitamente»
(Dietzgen); l’incidenza della tecnica sulla natura ad opera dell’uomo fino all’ipotesi inquietante:
«Occorre infatti evitare che l’età della tecnica segni quel punto assolutamente nuovo nella storia, e
forse irreversibile, dove la domanda non è più: “Cosa possiamo fare noi con la tecnica?”, ma: “Che
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cosa la tecnica può fare di noi?» Galimberti Umberto 1999 Psiche e techne, Feltrinelli Milano
p.715
3.1.4.2.2. Rubin Paul H. 2002 La politica secondo Darwin. L’origine evolutiva della libertà, IBL
libri, Torino 2009
3.1.4.2.1. vecchio ecologismo: la natura come un in sé assoluto
3.1.4.2.2. nuovo ecologismo: ecologia politica democratica; natura e società.
3.1.4.3. estensione artistica, urbanistica e architettonica del tema del respiro del mondo nel tempo
storico del suo trascorrere: lo spirito dei luoghi
3.2. Il respiro dell’uomo e la complessità dell’anima.
Aristotele considera l’anima (psyché) identica alla vita (bìos), e perciò ne parla come del “principio
degli esseri viventi”, o come “ciò per cui ai viventi spetta la vita”; la studia come principio che dà
forma al corpo generandone le molte funzioni. Nel suo trattato, De Anima, trovano voce e
connessione in forma metafisica le osservazioni e teorie sull’anima che erano state formulate nei
campi disparati del pensiero comune, della poesia epica e tragica, della filosofia morale e politica
soprattutto di Socrate e di Platone, e nelle ricerche naturalistiche e biologiche. La visione
antropologica quale prende forma nelle opere etiche risulta dall’intreccio dei tre campi: metafisico,
etico, biologico. Qui viene ripresa e rilanciata l’attenzione di Socrate e di Platone al tema
dell’anima come principio della “cura di sé” atto proprio della natura filosofica dell’uomo.
3.2.1. La capacità dell’uomo di stare presso di sé e avvertire il proprio respiro, il proprio movimento
in dimensione individuale e in irrinunciabile solitudine costituisce il presupposto e il fondamento di
ogni tipo di indagine antropologica. La tradizione filosofica europea, fin dai suoi inizi, mette in atto
la capacità autoriflessiva dell’uomo indicando tra gli obiettivi primari della filosofia la scoperta,
lettura e cura dell’anima. Di tale obiettivo è sintesi e progetto primo la filosofia di Socrate e di
Platone.
«Nell’Apologia Socrate, enunciando il significato originario della pratica educativa, afferma che il
compito dell’educatore è quello di sollecitare l’altro ad «aver cura di sé» (Apologia di Socrate, 36c),
e spiega che l’essenza della cura di sé consiste nell’aver cura della propria anima (epimeléisthai tes
psychès) affinché acquisisca la forma migliore possibile (Apologia di Socrate, 30b). Coerentemente
con il fine cui aspira, l’educazione va dunque concepita come pratica che «ha per fine la cura
dell’anima» ed educatore non può essere che colui che risulta esperto di tale cura (Lachete, 185d),
non solo in quanto enuncia discorsi su di essa, ma perché vive coerentemente con quanto enuncia
realizzando nella propria vita un accordo tra parole e azioni (Platone, Lachete, 188c).
La centralità della cura dell’anima viene ribadita in altri dialoghi. Nel Cratilo si dice che non
bisogna affidare la propria anima a una terapia fondata solo sui nomi, sulle parole (Cratilo, 440c);
nel Fedone si dice che dal momento che l’anima è immortale a essa va riservata dedizione e cura
(Fedone, l07c) e nell’Alcibiade Socrate spiega analiticamente in che cosa consiste «aver cura della
propria anima» (psychés epimeleteon) (Alcibiade, 132c). Data l’importanza dell’interpretazione
della cura di sé come cura dell’anima è necessario qui sintetizzare la struttura argomentativa del
discorso socratico sviluppata nell’Alcibiade Primo, poiché costituisce la matrice generativa della
cultura della cura di sé: è necessario aver cura di sé (127e), questo prendersi cura consiste
nell’essere capaci di una giusta cura (128b), aver giusta cura di sé significa migliorare se stessi
(128b); per migliorare se stessi è necessario conoscere se stessi (129a), perché solo se si conosce se
stessi si può conoscere anche l’arte di aver cura di sé (129a); conoscere se stessi significa conoscere
l’anima, poiché l’essenza dell’essere umano è l’anima, nel senso che «l’anima è l’essere umano»
(130e); aver cura di sé significa quindi aver cura dell’anima (132c). La cura dell’anima trova una
ragione ontogenetica nella necessità di cercare quell’orientamento dell’esistere necessario ad
addensare di sensatezza il tempo della vita. Il valore del discorso socratico appare dunque
indiscutibile, perché se solo ci si ferma a pensare non si può non sentire l’inaggirabile necessità di
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occuparsi eticamente del proprio essere. Mortari Luigina 2009 Aver cura di sé, Bruno Mondadori,
Milano, p. 9-10
Sulla riflessività, di cui ogni soggetto è capace per definizione antropologica, è fondato il concetto
di educazione correttamente inteso. «Se l’educazione non può insegnare direttamente quella
sapienza essenziale e primaria che è l’arte di esistere, può tuttavia guidare il soggetto educativo ad
apprendere quei metodi di ricerca ontogenetici — cioè che danno forma all’essere — praticando i
quali si va in cerca del sapere essenziale. Quell’aver cura dell’anima dei giovani, in cui consiste
l’essenza dell’educazione (Platone, Lachete, 185d), e che va intesa come l’aver cura che l’altro si
prenda cura della sua anima, si attualizza dunque non nel passare all’altro un sapere già dato, perché
nessuno lo possiede per intero e solo i saggi ne possiedono frammenti, ma nel guidare l’altro alla
consapevolezza della primarietà esistentiva della ricerca di tale sapere; tale consapevolezza
costituisce, infatti, condizione essenziale affinché il soggetto risponda alla chiamata ontologica di
attivarsi per divenire proprio essere possibile.» (Mortari 2009 o.c. p.2)
3.2.2. Non c’è pericolo di una direzione solipsistica e intimistica della cura di sé nel progetto di
Socrate e Platone; la cura di sé è infatti premessa per il pieno e armonico impegno dell’uomo nel
campo delle relazioni sociali. Del resto, come Platone programmaticamente ribadisce nella
Repubblica, non esiste una giustizia privata, in sé e astratta, questa è riflesso e applicazione di una
giustizia che si realizza in una società giusta; nessuno è giusto da solo. Il tema della strada verso
l’interiorità e della conseguente scoperta e cura di sé è ricorrente anche nel pensiero religioso, la sua
valenza va intesa come fortemente antropologica. La cultura religiosa è pur sempre, ancora fin dalle
origini, una forma di analisi antropologica. Non è solo Feuerbach (molti anni dopo le origini) ma lo
stesso Omero e lo stesso Esiodo a servirsi delle narrazioni sugli dei e sugli eroi per mettere a
disposizione dell’uomo percorsi di scoperta e di sé e del mondo. Nella cultura religiosa è legittimo e
doveroso scorgere una indagine antropologica anche e proprio in quella letteratura “mistica” che, a
prima vista, sembra allontanare l’uomo da sé per portarlo ad una congiunzione contemplativa con
una trascendenza divina. La produzione dei mistici è una spregiudicata e libera attenzione riflessiva
al proprio vivere e diventa un cammino di esplorazione e scoperta dell’anima e del suo “respiro”.
Strada di un misticismo antropologico di scoperta e narrazione che sembra affidarsi ad una doppia
modalità, paradigmaticamente articolata da due autori medievali Dionigi l’Areopagita (lo PseudoDionigi) V-VI sec., Meister Eckhart 1260-1327.
3.2.2.1. misticismo “logico”: lo pseudo Dionigi e la teologia mistica. Il postulato cardine attorno a
cui ruota tutta la teologia mistica è l’affermazione biblica che Dio è «colui che ha posto le tenebre
come proprio nascondiglio». Il tema del nascondersi di Dio, oltre a sottolineare la trascendenza e
l’ineffabilità del divino, indica un nuovo cammino, dottrinale ed etico, con cui raggiungere l’unione
dell’uomo con Dio. Tale unione, infatti, non può attuarsi definitivamente né con la teologia che si
avvale di discorsi, né con i riti salvifici (teurgia) che la Chiesa propone. Il richiamo diretto
all’irraggiungibilità e trascendenza di Dio invita a superare ogni discorso umano per giungere alla
comunione divina e sembra collocare il fedele oltre ogni ordine mondano, ponendolo in solitudine
di fronte a Dio. La teologia mistica contrappone infatti alla cultura del discorso e della parola la
cultura del silenzio, dell’ascolto e dell’attesa, della disponibilità totale all’incontro con Dio.
« Noi preghiamo di trovarci in questa tenebra luminosissima e mediante la privazione della vista e
della conoscenza poter vedere e conoscere ciò che sta oltre la visione e la conoscenza con il fatto
stesso di non vedere e di non conoscere. Questa, infatti, è la maniera di vedere veramente e di
conoscere e di lodare soprasostanzialmente l’Essere soprasostanziale escludendo le caratteristiche il
tutti gli esseri; come fanno coloro che costruiscono una statua al naturale, staccando tutto ciò che si
sovrappone alla pura visione della figura nascosta, e mediante questo lavoro di eliminazione
manifestano in sé e per sé la bellezza occulta. Dionigi Areopagita, Tutte le opere, Rusconi, Milano
1981, p 411
3.2.2.2. misticismo “metafisico”: Meister Eckhart e l’unione mistica nell’anima con Dio.
Riprendendo il tema, caro alla teologia negativa, dell’ineffabilità di Dio, dell’impossibilità di
definirlo positivamente poiché egli trascende ogni definizione, ogni delimitazione, Meister Eckhart
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invita nelle sue prediche (scritte in tedesco per i fedeli) e nei suoi trattati (in latino per gli studenti
delle università) a cercare Dio al di là delle creature, al di là dell’intelletto, staccandosi dalle cose e
da se stessi per ritrovare Dio nel silenzio, nella semplicità, nella povertà, nell’estasi mistica dei
santi. In parte ripresi dalle opere di Dionigi, i temi della meditazione di Eckhart si staccano tuttavia
in modo radicale sia da quella tradizione mistica, sia dalla teologia e dalla morale delle scuole
medievali. L’unione dell’anima con Dio non avviene infatti nè sul piano della conoscenza, né su
quello dei sentimenti; non è un fatto di conoscenza o d’amore, ma si colloca nell’essenza dell’anima
quando ogni suo atto è estinto. Il «luogo mistico» dell’unione dell’anima con Dio viene individuato
da Eckhart nell’«essenza dell’anima», nel suo luogo più profondo ed essenziale: Dio, il Padre,
proferendo la sua eterna parola, il Verbo, e assumendo nella propria essenza la natura umana,
genera il Figlio, Cristo, nell’anima dell’uomo. Dunque, poiché la manifestazione e l’avvento di Dio
nel Figlio Cristo ha la propria sede nell’interiorità e nell’essenza dell’anima dell’uomo, questi si
trova unito misticamente e inseparabilmente con Dio dall’eternità. La generazione del Verbo di Dio
che, collocata nell’eternità, già nella teologia scolastica aveva perso il carattere biblico di evento
storico, tende ora, nella riflessione di Eckhart, a perdere oltre alla storicità temporale anche quella
spaziale: il Verbo di Dio è generato dall’eternità nell’anima dell’uomo che fa tutt’uno con la natura
del Figlio. Sembra qui riemergere la tradizione gnostica che ha influenzato fortemente il primo
pensiero del cristianesimo, i suoi scritti e la sua tradizione e lascia tracce nella scrittura del Nuovo
testamento: la natura pneumatica dell’uomo esiste da sempre, di conseguenza la presenza del divino
in lui è un tratto essenziale dell’anima dall’eternità, la realtà suprema è la gnòsis, cioè la conoscenza
della realtà divine in se stessa, qui lo pnéuma, nell’unione mistica con la sostanza divina, annulla
ogni individualità; ciò che si realizza (secondo il pensiero gnostico e in molte tradizioni della
cultura greca) è l’incontro della sostanza di Dio con quella che si trova sepolta nell’uomo e che
originariamente era uguale ad essa; quasi a ricomporre una frattura metafisica originaria che ha il
nome di storia e che ora misticamente si annulla (il chiudersi di quella frattura originaria è il
chiudersi della storia, la fine del tempo).
«Lo stesso è per Dio, Egli ha fatto tutte le cose secondo l’immagine di esse che è in lui, e non
secondo se stesso. Ne ha fatte alcune in particolare secondo quel che fluisce da lui, come la bontà,
la sapienza, e ciò che si dice di Dio, ma l’anima l’ha fatta non solo secondo l’immagine che è in lui,
o secondo quel che fluisce da lui e quel che si dice di lui; molto di più: l’ha fatta secondo se stesso,
secondo tutto quel che egli è, la sua natura, il suo essere, la sua operazione che fluisce da lui e che
permane in lui, secondo il fondo in cui permane in se stesso, in cui genera il suo Figlio unigenito, da
cui si effonde lo Spirito santo; è secondo questa operazione che fluisce da lui ed in lui permane, che
Dio ha creato l’anima. […]. Io dico che Dio, continuamente ed eternamente, è stato presente in
questo qualcosa, e che in esso l’uomo è uno con Dio. Non v’è qui affatto bisogno di grazia, perché
la grazia è creata, e niente di creato interviene qui, perché nel fondo dell’essere divino, dove le tre
Persone sono un solo essere, l’anima è una secondo questo fondo. Perciò, se lo vuoi, sono tue tutte
le cose, e Dio. Distàccati dunque da te stesso e da tutte le cose, e da tutto quel che sei in te stesso, e
cogliti secondo quel che sei in Dio.» Meister Eckhart, Sermoni tedeschi, Adelphi,Milano 1985, p.
60 ss.
3.2.3. Il misticismo, soprattutto il misticismo metafisico, presuppone e rimanda ad una vera e
propria anatomia dell’anima. Una esplorazione e descrizione spaziale e temporale (utilizzate
opportunamente sia al negativo che al positivo) dell’anima condotta in analogia con le descrizioni
del corpo. Il tema è presente in modo operativo, più che teoretico, in Agostino, il Libro X Le
confessioni [tr. it. di C. Carena, Einaudi, Torino 1966] si apre con un inno alla memoria; libro
famoso proprio per la celebre metafora dei “vasti quartieri della memoria”, la quale infonde
all’interiorità l’aspetto di una spazialità specifica, la spazialità di un luogo intimo (tutte le cose che
vi furono “introdotte”, “tutte queste cose la memoria accoglie nella sua vasta caverna, nelle sue,
come dire, pieghe segrete e ineffabili, per richiamarle e rivederle all’occorrenza”; x, 8.13); nei
sermoni di Meister Eckhart (vedi: Bergamo M. Anatomia dell’anima, il Mulino, Bologna 1991, pp.
143-163). Si tratta di un filone che si lega e genera produzioni successive aperte in più direzioni: la
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mnemotecnica e i luoghi per gestire la memoria (R. Lullo, G. Bruno), lo studio delle passioni nella
forma di una geometria interiore (B. Spinoza, R. Descartes), la scena teatrale come
drammatizzazione della storia degli uomini e delle loro relazioni (W. Shakespeare [studi di Yeats ],
fino alla recente attenzione degli psicoterapeuti sostenuta dall’urgenza di delineare una topica dello
psichismo per scopi analitico – terapeutici (la psicanalisi da Freud in poi).
3.2.4. Dopo la filosofia di Descartes che con la categoria di sostanza enfatizza la distinzione
metafisica tra anima e corpo (res cogitans, res extensa) tutta la filosofia successiva è dominata
dall’obiettivo di garantire una congiunzione tra le due componenti dell’uomo (così come opera lo
stesso Descartes e tutto il successivo occasionalismo), fino al tentativo, ormai universalmente
accettato, di impedire all’anima di diventare sostanza, di impedire quindi di cadere in inutili e
devastanti dualismi anima / corpo. Si tratta di una delle tesi più innovative inaugurate
dall’illuminismo (Condillac, Helvétius, La Mettrie) ma è anche un recupero di posizione antiche
come quella espressa da Aristotele nel trattato De Anima. L’indagine sulla natura della mente, sulla
sua struttura e sulle sue funzione è oggetto del filone di ricerca, di origine anglosassone, che si
denomina “Filosofia della mente” (Phylosophy of Mind). Indagini che trovano sviluppo e
autonomia nei campi della psicologia, il cognitivismo, del vasto mondo delle neuroscienze, degli
studi sulla intelligenza artificiale.
3.2.5. in conclusione: le quattro età dell’“unione” anima e corpo e della sua lunga tormentata
irrisolta storia.
3.2.5.1. Ai tempi di Omero e dei presocratici l’anima, associata al respiro, al soffio della vita e ai
grandi elementi della physis, è concepita come il principio cosmico che anima e muove i corpi.
3.2.5.2. Con Platone si esce dalla fusione, pur senza arrivare a una netta separazione: l’anima è
intesa come il movimento che permette al pensiero di allontanarsi dal mondo visibile per
contemplare il mondo immutabile delle Idee. Quando questa dissociazione, anche attraverso il
neoplatonismo, entra nel pensiero cristiano della chiesa si apre la lunga storia del corpo, tra
esaltazione e disprezzo.
3.2.5.3. Nell’età moderna è il dualismo teorizzato da Descartes a dividere: da una parte la sostanza
pensante, dall’altra il corpo macchina; diventa così molto complesso il problema della relazione unione anima e corpo.
3.2.5.4. La quarta età di questa storia è quella del XX secolo: sullo sfondo di una generale
rivalutazione e scoperta (scientifica, biologica, fisiologica…) del corpo, il pensiero (l’anima) si
incarna e si localizza, il corpo nei suoi tessuti specifici si spiritualizza e pensa. Resta il problema di
comporre le nuove tesi scientifiche (fisiologiche e neurologiche) dell’unione anima e corpo (fino
all’urgenza di abbandonare quei termini “metafisici”) con il peso che la tradizione e le parole hanno
sul nostro vissuto e percepito quotidiano. (la problematica è analiticamente affrontata, ad esempio,
in Searle John R. 2004 La mente, Raffaello Cortina editore, Milano 2005)
Il tema dell’intreccio, da non tagliare come nodo gordiano, tra l’insopprimibile dualismo delle
dimensioni antropologiche e cosmologiche anima/corpo, spirito/materia è individuabile nel motivo
iconico pittorico medievale riguardante il tema del peso dell’anima. È un tema posto su di un
doppio margine o confine: con una misura corporale, il peso, valuto la consistenza dell’anima;
l’evento della misurazione si verifica sul territorio di confine tra terra e cielo, in uscita dal mondo
terreno in ingresso al mondo celeste: “San Michele pesa le anime” (1470 circa, Memorial Museum,
Oberlin College, Austria)
3.3. Il respiro della storia e lo spirito del mondo (Weltgeist), dei popoli (Volkgeist): opposte e
inconciliabili tesi.
3.3.1. Nelle lezioni berlinesi di filosofia della storia, Hegel si propone di superare il livello
puramente descrittivo degli eventi della storia e del mondo per seguire lo Spirito nel suo svolgersi
temporale nella storia dei popoli e delle loro civiltà. La tesi è nota: un unico «spirito del mondo»
(Weltgeist) informa di sé la vita di ogni civiltà e dell’intera storia; ogni popolo assolve a uno
specifico compito nel piano complessivo della storia, recando lo spirito del mondo a un determinato
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grado di sviluppo; nell’attuare le potenzialità che sono proprie del suo spirito (Volkgeist), ciascun
popolo contribuisce così anche alla realizzazione dello spirito del mondo. Ogni civiltà, quando ha
portato a compimento il proprio fine, si avvia al declino e lascia posto al sorgere della successiva
civiltà destinata a elevare di un grado lo spirito del mondo. Lo Spirito assoluto, principio e filo
conduttore della visione sistematica e razionale della realtà, in ogni suo ambito, diventa anima e
respiro della storia, dei popoli, degli individui ben oltre la loro consapevolezza e le loro storie
private. Alle spalle dell’affermarsi e del tramontare delle civiltà e delle vicende private vi è la
ragione che opera e agisce per scopi razionali tanto certi quanto ancora ignorati dalle vedute parziali
(dominate dall’intelletto) che ancora circolano sulla storia e sul suo corso. A dimostrazione della
visione unitaria, razionale dinamica e dialettica della storia Hegel introduce il concetto di “astuzia”
della ragione (concetto che ha noti precedenti nelle tesi di Leibniz, Smith): vi è un astuto piano della
ragione che opera in ogni evento, anche quelli che paiono assolutamente privi di senso; in essi lo
Spirito, con procedimenti logici propri della ragione dialettica, per contraddizioni e sintesi,
raggiunge i propri fini giungendo alla piena consapevolezza e realizzazione di sé svelata nella forme
dell’arte, della religione, della filosofia sistematica.
3.3.2. Hegel può considerarsi espressione “ufficiale” di concezioni della storia a disegno, sorrette
dalla convinzione ottimistica del loro chiudersi finale in piena razionalità e salvezza. Concezioni
che attraversano l’intera storia della cultura dalle sue origini ai giorni presenti, nella estrema varietà
di ambiti culturali in cui si affaccia il tema: religione, filosofia, scienze…Così come, negli stessi
livelli di tempo e di ambiti, quelle concezioni vengono contestate da visioni opposte che
proclamano l’assoluta incoerenza e casualità dei fatti in successione o, per lo meno, la totale
impossibilità di scorgervi un disegno preordinato, il pericolo fatalistico e l’inganno che tali visioni
della linearità storica finiscono per diffondere. Siamo al Candide di Voltaire.
A contrastare filosoficamente (e quindi con ragionate motivazioni) le filosofie che dicono di
cogliere nell’evoluzione dei fatti il respiro della ragione, due opere “classiche” della filosofia del
Novecento dei due autori: Walter Benjamin (1892-1940), Karl Raimund Popper (1902-1994).
3.3.2.1. Benjamin Walter 1942 Tesi sul concetto di storia. «Nelle Tesi di filosofia della, storia,
Benjamin denuncia l’ottimismo progressista dello storicismo relativistico e spesso positivistico del
tardo Ottocento e del primo Novecento. La dichiarata razionalità della storia si rivela, ai suoi occhi,
apologia del presente e di ogni presente contrassegnato dalla mitologia e dalla giurisprudenza di un
vincitore. Di là dalla prospettiva storicistica, che egli accusa di mistificazione sistematica, la storia
appare a Benjamin come una fenomenologia dell’essere nel mondo del dominio: la borghesia
capitalistica ha abolito i residui di apparente autonomia del soggetto e ha trasformato gli uomini in
merci, la cui sopravvivenza è legata alla propria circolazione nel mercato. La redenzione dell’uomo
può giungere soltanto da una rottura radicale col passato improntato dal dominio e da un recupero
della tradizione sacra, messianica. Ma, in mancanza di elementi di fede, come i presupposti della
liberazione-redenzione non sono dati, così anche la soggettività liberante attende di essere istituita.»
Furio Jesi, Enciclopedia Garzanti di Filosofia, Benjamin Walter.
3.3.2.1.1. «La concezione di un progresso del genere umano nella storia è inseparabile da quella del
processo della storia stessa come percorrente un tempo omogeneo e vuoto. La critica dell’idea di
questo processo deve costituire la base della critica dell’idea del progresso come tale.» Benjamin
Walter 1955 Angelus novus. Saggi e frammenti. Tesi di filosofia della storia, Einaudi, Torino 1981,
p. 83. «Articolare storicamente il passato non significa conoscerlo “come propriamente è stato”.
Significa impadronirsi di un ricordo come esso balena nell’istante di un pericolo» Benjamin 1955,
p. 77. «“La mia ala è pronta al volo, / ritorno volentieri indietro, / poiché restassi pur tempo vitale, /
avrei poca fortuna.” Gerhard Scholem, Gruss vom Angelus.
C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di
allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali
distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare
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una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le
rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una
tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più
chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il
cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta.»
Benjamin 1955, p. 80.
3.3.2.1.2. Un commento: «Come ha osservato Walter Benjamin, la tempesta spinge irresistibilmente
i viandanti nel futuro a cui volgono le spalle, mentre la montagna di detriti davanti a loro sale
gradualmente verso il cielo: «Noi chiamiamo questa tempesta progresso». (in nota: Walter
Benjamin, Illuminations, New York 1979, p. 290) Bauman Zygmunt 1991 Modernità e
ambivalenza, Bollati Boringhieri, Torino 2010 p. 21
3.3.2.1.3. Un bilancio: «Come il monaco medievale, il lettore delle Tesi è invitato ad esercitarsi
nell’idea di una riserva nei confronti delle vicende mondane e, nella fattispecie, della loro
configurazione storico-politica (il politische Weltkind). Tale riserva si esprime in una radicale messa
in questione dell’immagine della storia come processo, marcia in avanti di un’umanità che ha reciso
i vincoli “naturali” della sua origine. Alla luce di questa immagine la categoria del progresso, che
volge al futuro il senso del procedere, e la visione dello Historismus, che conferisce il sigillo
dell’autonoma fattualità alla contingenza di ogni evento, risultano derivare da un unico modello
generativo, quello della storia come il complesso di tutto ciò che accade non potendo far altro che
pro-cedere, travolgendo ciò che gli resiste. Se ci si arresta a quest’immagine, il punto di vista di
ogni conoscenza storica non può che essere quello dei vincitori, di coloro che si identificano con il
processo stesso e, soprattutto, con la forma di dominio che ne esprime il presente. […]
L’incanto progressista e il disincanto storicista soccombono ad una medesima illusione, quella che
risolve l’accadere storico in totalità dei fatti, nella gabbia d’acciaio di ciò che si è concluso: ambito
del perfectum. Rispetto ad esso la coscienza non può che adeguarsi, intendendo l’adaequatio rei et
intellectus nel senso di un perfetto rovesciamento tra l’attività del soggetto e la passività
dell’oggetto. In questo caso è la storia stessa a presentarsi come il soggetto, come medium resosi
autonomo in cui si è secolarizzato lo spirito. Nell’epoca in cui a dominare è il feticismo della formamerce, proprio nella storia pare realizzarsi la sua perfetta incarnazione.
In quanto feticcio della soggettività, formazione che ha in sé il principio del proprio movimento, la
storia appare a Benjamin come l’eidolon più difficile da abbattere. È innanzitutto per questo motivo
che il ricorso alla teologia si rende necessario. Il compito di quest’ultima, secondo quanto Benjamin
aveva affermato nel 1930 in un colloquio con Brecht relativo al progetto della rivista “Krise und
Kritik”, sta proprio nella «distruzione radicale del mondo dell’immagini». Nell’indirizzare alla
storia un gesto distruttivo, che può essere solo teologico, Benjamin corrisponde al precetto istitutivo
dell’ebraismo: “non farsi immagine alcuna” del Nome di Dio. Con questo gesto egli prende distanza
non solo da quella secolarizzazione dell’escatologia nello spazio profano della storia… […]
Nell’equazione tra storia e progresso o nella sua assolutizzazione storicistica in nuda processualità
non s’incarna il Dio ebraico-cristiano, nemmeno nella forma hegeliana di un concetto finalmente
compreso, bensì un’immagine idolatrica del divino, anzi un feticcio: apparenza fissata in cosa.»
Desideri Fabrizio, Baldi Massimo 2010 Benjamin, Carocci editore, Roma p. 168,169,170).
Dunque, il mutamento di prospettiva richiesto: «La tradizione degli oppressi ci insegna che lo “stato
d’eccezione” in cui viviamo è la regola. Dobbiamo giungere a un concetto di storia che corrisponda
a questo. Allora ci starà davanti, come nostro compito, di suscitare il vero stato d’eccezione,
migliorando così la nostra posizione nella lotta contro il fascismo. La cui chance sta, non da ultimo,
nel fatto che gli oppositori lo affrontano in nome del progresso, come se questo fosse una norma
della storia. — Lo stupore perché le cose che noi viviamo sono “ancora” possibili nel ventesimo
secolo non è filosofico. Non sta all’inizio di alcuna conoscenza, se non di questa: che l’idea di storia
da cui deriva non è sostenibile.» […] Il primo passo in tale direzione consiste nel frantumare il
totalitarismo di questo modello, il suo carattere di «falsa universalità». Per questo bisogna spingere
il concetto di progresso verso il suo limite, farlo precipitare verso la sua soglia critica. Allora il
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processo si rivela una catastrofe, la totalità si trasforma in un cumulo di macerie. […] Quel che resta
qui non è, però, né il tempo né la sua fine. Quel che resta è l’immagine dell’incompiutezza
dell’origine che proprio l’unità di catastrofe e redenzione rivela. (Desideri-Baldi 2010 p. 170-171,
191 [è qui la differenza tra il messianismo ebraico e il messianismo cristiano, compreso
l’abbandono di una teologia “cattolica” fondata sulla redenzione dal peccato, magari originale; se vi
è un “peccato” originale è l’incompiutezza della creazione.]
3.3.2.2. Popper Karl Raimund 1957 Miseria dello storicismo.
3.3.2.2.1. la pseudoscienza delle filosofia della storia: «Questo piccolo libro ha una lunga storia;
una storia che spiega, almeno in parte, perché il libro è piccolo. La sua tesi fondamentale è che la
credenza diffusa nel determinismo storico e nella possibilità di predire il corso storico
razionalmente o “scientificamente” è una credenza errata. Io pervenni a questa conclusione
nell’inverno del 1919-1920, dopo la prima guerra mondiale, attraverso una disamina critica del
mitico, impellente avvento della Rivoluzione comunista mondiale. La mia tesi circa il carattere
pseudoscientifico, pseudostorico e mitico delle filosofie profetiche della storia, come quelle di
Hegel o Marx o Spengler, maturò lentamente attraverso gli anni. Con il 1935 essa divenne
approssimativamente la traccia del presente libro.»( Prefazione all’edizione italiana, scritta da
K.R.Popper [1973] p.11)
3.3.2.2.2. la natura “infernale” delle utopie di un mondo perfetto. «Benché la critica della filosofia
storicista della storia (piuttosto che della storiografia) sia forse il tema principale del libro, debbo far
osservare che non è l’unico. Per esempio, ho anche tentato di analizzare alcune connessioni tra
storicismo e modo utopistico di concepire le cose — ossia, il sogno di portare il paradiso sulla terra.
Ciò mi ha indotto a criticare le idee utopistiche di una pianificazione centrale e di un’economia
centralmente pianificata: una critica dal punto di vista della logica e del metodo piuttosto che da
quello dell’economia. Credo che un’economia competitiva sia più efficiente di un’economia
centralmente pianificata, ma non ho mai creduto che questo fosse un argomento decisivo contro la
pianificazione centrale dell’economia: se una tale pianificazione potesse produrre una società più
libera e umana o anche solo una società che fosse più giusta di una società competitiva, la
patrocinerei anche se la pianificazione fosse meno efficiente della competizione. È mia opinione,
infatti, che dovremmo essere pronti a pagare un alto prezzo per la libertà.» (Popper 1957 p.13)
«Se tentiamo superbamente di portare il paradiso sulla terra, riusciamo soltanto a trasformare la
terra in un inferno. Perché ciò non accada dobbiamo abbandonare il sogno di un mondo perfetto.
Ciò non significa che dobbiamo cessare i nostri tentativi di fare il mondo migliore di quanto non sia,
ma che dobbiamo impegnarci in questo compito con la dovuta umiltà: dobbiamo limitarci a
combattere la miseria, l’ingiustizia, l’oppressione, la corruzione. In questo compito non dovremo
mai dimenticare ciò che vi è di imprevisto e, forse, anche di imprevedibile nelle nostre azioni;
messo sulla bilancia, il passivo attribuibile ai nostri tentativi di progresso potrebbe superare l’attivo.
(Popper 1957 p.14)
3.3.2.2.3. le ragioni della miseria (dello storicismo). «In questo libro, Miseria dello storicismo, ho
tentato di dimostrare, pur senza confutarlo effettivamente, che lo storicismo è un metodo povero, un
metodo che non può portare ad alcun frutto. Ma non lo confutavo seriamente.
In seguito, riuscii a fornire una confutazione dello storicismo: ho dimostrato che, per ragioni
strettamente logiche, ci è impossibile predire il corso futuro della storia. …
Per informare il lettore dei miei risultati più recenti, mi propongo di fornire, in poche parole, una
traccia di questa confutazione dello storicismo. L’argomento può essere sintetizzato nelle cinque
proposizioni seguenti:
1. Il corso della storia umana è fortemente influenzato dal sorgere della conoscenza umana. …
2. Noi non possiamo predire, mediante metodi razionali o scientifici, lo sviluppo futuro della
conoscenza scientifica. …
3. Perciò, non possiamo predire il corso futuro della storia umana.
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4. Ciò significa che dobbiamo escludere la possibilità di una storia teorica; cioè, di una scienza
sociale storica che corrisponda alla fisica teorica. Non vi può essere alcuna teoria scientifica dello
sviluppo storico che possa servire di base per la previsione storica.
5. Lo scopo fondamentale dello storicismo è quindi, infondato. E lo storicismo crolla.
Naturalmente, l’argomentazione non nega la possibilità di previsioni sociali di ogni genere. Al
contrario, esso è perfettamente compatibile con la possibilità di provare delle teorie sociali — per
esempio le teorie economiche — predicendo che certi sviluppi avranno luogo in certe condizioni.
L’argomentazione nega soltanto la possibilità di predire sviluppi storici nella misura in cui essi
possono venire influenzati dall’accrescimento della nostra conoscenza.
Il punto decisivo di questo argomento è la proposizione 2. Io penso che il punto sia convincente in
sé: se è vero che c’è qualcosa come l’accrescimento della conoscenza umana, sarà anche vero che
non possiamo anticipare oggi ciò che sapremo soltanto domani. Questo, credo, è un ragionamento
perfetto, ma esso non equivale ancora ad una prova logica della proposizione. … La mia prova
consiste nel mostrare che nessun predittore scientifico — scienziato o macchina calcolatrice che sia
— può predire, con metodo scientifico, i suoi risultati futuri. Un tale tentativo potrebbe ottenere un
risultato solo dopo l’evento, quando sarebbe troppo tardi per predirlo e, cioè, quando la predizione
avrebbe già assunto l’aspetto di una retrodizione. (dalla Prefazione, scritta da K.R.Popper, pp. 1718) Popper Karl Raimund 1957 Miseria dello storicismo, Feltrinelli, Milano 2002
3.4. dalla linearità progressiva (e dalla paura) alle relazioni e nodi dell’incontro
Nelle filosofia della storia della continuità, del progresso, di carattere teleologico trova espressione
la paura dell’evento, dell’accadere, dell’altro.
«Il conflitto che oppone il centro alla periferia è, come ci ha indicato Foucault, lo stesso conflitto
ideologico che separa coloro che credono in una Storia concepita come un’ininterrotta continuità e
coloro che comprendono la società contemporanea attraverso modelli di eterogeneità ed eterotopie.
La prima concezione è quella della storia del fondamento che si perpetua cancellando l’irruzione
degli eventi. La teoria della discontinuità è invece quella delle «trasformazioni che valgono come
fondazione e rinnovamento della fondazione». Tuttavia una teoria generale della discontinuità
risulta particolarmente difficile da formulare, afferma anche Foucault. Perché laddove si è abituati a
cercare origini pure, a ricostruire tradizioni, salendo all’infinito le linee delle filiazioni e delle
antecedenze, a progettare teleologicamente, come se «si provasse una singolare ripugnanza a
pensare alla differenza, a descrivere degli scarti e dispersioni», è come se «avessimo paura di
concepire l’Altro all’interno del tempo del nostro pensiero». La ragione di questa difficoltà sta nel
fatto che la concezione della storia come discorso della continuità costituisce «un rifugio
privilegiato per la sovranità della coscienza»; una garanzia che la salva «contro tutti i
decentramenti»; una dimora che le fornisce «un riparo più sicuro, meno esposto» all’irruzione
dell’altro e degli altri, interni esterni che siano.
Alla logica teleologica e totalizzante del tempo Foucault contrapponeva una rete con nodi che
mutano in continuazione, un sistema di relazioni che lega insieme una diversità di luoghi e di
soggetti, più o meno conflittuali. Lo scriveva nell’ormai lontano 1969, ma è proprio questa la
situazione in cui il mondo globale si interconnette nel tempo presente. Eppure si continua a
riproporre, anzi a rafforzare, dato che le paure sono aumentate, l’ideologia che fa della Storia il
discorso della continuità, della perpetuazione del fondamento e del radicamento topografico.
Il massiccio spostamento di popolazioni, dalle periferie ex coloniali al centro delle metropoli, ha
portato al sovvertimento di un tale sistema ideologico, di cui una critica occidentale ha imparato a
sospettare, soprattutto attraverso i lavori di Foucault o di Derrida, e che molti scrittori del mondo
postcoloniale hanno cominciato da alcuni decenni a decostruire nei loro testi letterari. In essi
emerge, infatti, un soggetto che cerca di concepire la propria relazione all’altro in un modo che
respinga l’opposizione binaria tra società «senza storia», come le definiva Hegel, o ai margini della
storia, e le società europee-occidentali che dichiarano di manifestare la centralità di un “destino
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storico”. Si può dire che il pensiero della decostruzione ha accompagnato la decolonizzazione come
evento storico, insieme allo scombinarsi delle “carte” del mondo.
La compresenza di interno ed esterno, di inclusione ed esclusione, di familiare ed estraneo, di qui e
altrove è ormai da tempo la questione primaria, e non solo letteraria, che gli scrittori cosiddetti
“postcoloniali” si sono trovati ad affrontare e che li spinge a un’elaborazione di pensiero e ad una
produzione creativa molto avanzate. (da Prezzo Rosella 2008 Veli d’Occidente. Temi, metafore,
simboli, Bruno Mondadori, Milano p.115-117)
In estrema sintesi: il respiro della storia, due fasi opposte (prima, ora) e una conseguenza (quindi).
Prima (Hegel): una storia concepita come un’ininterrotta continuità progressiva e segnata dalla
opposizione binaria evidente tra società «senza storia» o ai margini della storia e le società sede del
“destino storico” (europee-occidentali). Ora: nelle nostra società, da migrazioni e
“globalizzazioni”, è evidente la compresenza di interno ed esterno, di inclusione ed esclusione, di
familiare ed estraneo, di qui e altrove… Quindi: la storia è ormai da tempo una questione di rete
con nodi che mutano in continuazione (Foucault, dal lontano 1969).
4. per riprendere il respiro: la (ri)comparsa del mondo-della-vita nei tre filoni della
ricerca filosofica: uomo, mondo, storia (società).
Per “riprendere il respiro” o ridare la parola al respiro, al soffio, allo spirito nella funzione
costituente quale si manifesta alle origini (uniche e perenni) si impone un doppio ritorno.
Un ritorno alla concezione greca ed ebraica di respiro e di anima; empiricamente e storicamente il
respiro è colto come segnale e principio di vita (in Omero e nella Genesi), dunque respiro e anima
(anemos, pnéuma, ruah) principio del vivente.
Un ritorno allo studio dell’anima nelle sue funzioni e potenzialità compiendo un cammino a ritroso:
dagli atti alle capacità e potenzialità. È quanto viene proposto con il termine e con il tema «mondodella-vita», Lebenswelt; compare agli inizi del ‘900 e segna l’intera filosofia contemporanea.
Il tema del mondo-della-vita, come definito da Edmund Husserl, e il progetto filosofico di una sua
analisi fenomenologica, evidenzia la propria rilevanza in tutta la filosofia del ‘900 e ai giorni nostri
soprattutto nei campi della innovazione epistemologica (le riflessioni di K.R. Popper), della analisi
della comunicazione finalizzata all’intesa (le tesi di J. Habermas), nella analitica linguistica (gli
studi della filosofia analitica).
4.01. Con l’opera del filosofo Edmund Husserl (1859-1938), La crisi delle scienze europee e la
fenomenologia trascendentale (1954 postuma), irrompe nella filosofia del ‘900 la nozione di
mondo-della-vita, “Lebenswelt”. Un po’ come accade all’atteggiamento del guardare e del vedere:
tutti guardano, non tutti vedono o non necessariamente vedono le stesse cose; basta pensare a
un’opera d’arte, a un’espressione algebrica scritta, a lastre radiografiche e, in realtà, a tutti gli
oggetti del vivere quotidiano cui si presti un minimo di attenzione. Il vedere presuppone
orientamenti abitudinari, di tipo percettivo e concettuale, che permettono di notare ciò che il
semplice guardare non permette di vedere. Così accade alle teorie: vedono il mondo e ne
organizzano i dati, ma l’alternanza storica delle teorie permette di avvertire che esse costruiscono
mondi diversi al variare delle abitudini, dei bisogni, degli scopi e, soprattutto, dei concetti utilizzati
come nozioni chiare di partenza assunte come postulati di lettura. Occorre trovare, dietro
l’alternanza e la successione delle teorie e delle posizioni, il contesto e la radice del loro porsi e
prendere forma; il campo delle loro possibilità. L’errore e la morte della teoria, della scienza e del
vedere si verificano quando ciò che si vede viene fatto coincidere con ciò che si guarda; le direzioni
dello sguardo sono vincolate alla capacità storica, collettiva e individuale, di vedere. Ciò impedisce
di cogliere che oltre il nostro vedere esiste un guardare indifferenziato e primitivo ben più ampio,
così come dietro ogni teoria scientifica esiste un mondo ben più ricco per quanto non coordinato,
che si rende disponibile a ben altre, imprevedibili per forma e numero, visioni e teorie scientifiche.
Per evitare la dittatura che è sempre presente nel dominio delle teorie considerate ufficiali e
nell’obbligo a vedere secondo abitudini consolidate e ammesse, occorre sospendere (fare epoché) il
mondo logico del vedere e del fare scienza per avvertire l’esistenza di una realtà disponibile, ben
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più ampia, che Husserl definisce con l’espressione Lebenswelt, mondo-della-vita. Si tratta di un
contesto che dà l’impressione di uscire dal rigido mondo delle teorie dominanti per recuperare la
sensibilità nel confronti del respiro del vivere.
In conclusione provvisoria: i nostri sistemi teorici, le nostre regole morali, i nostri stili di vita, le
nostre forme espressive artistiche, i modi del nostro comunicare sono gli strumenti di cui ci
serviamo per vedere e decidere. Si tratta di possibilità che noi delineiamo attingendo ad un serbatoio
molto più ampio di materiali disponibili ma in attesa di formalizzazione e scelta: si tratta appunto
del vastissimo mondo della vita, potenziale senza limiti e non formalizzato cui attingiamo per
alimentare tutte le direzioni del nostro comportamento: serbatoio per la coscienza individuale
generale (uomo), per la definizione dell’esperienza secondo forme scientifiche (natura), per la
partecipazione al flusso delle comunicazioni (società).
4.02. Le tre specificazioni con cui viene inteso il concetto di mondo: cultura, società, persona,
possono venire considerate come indicazioni preliminari di metodo: non vi è tema che non debba
essere indagato e scoperto nelle tre dimensioni, analiticamente distinte prima di venir comprese
nella concreta dinamica della realtà studiata. Alcuni esempi: lo studio del tempo è affidato alle
scienze fisico-matematiche (il tempo matematico, degli orologi o della misurazione quantitativa) ,
alla indagini sociologiche (i tempi, le periodizzazioni, i costumi storici sociali collettivi), alle analisi
del soggetto (il tempo vissuto, percepito; il tempo interiore e il suo particolare fluire nella memoria
e nella narrazione…). Lo stesso si può dire dello spazio, ma anche di emozioni (amore, odio,
invidia…) di oggetti (una strada, una casa, un libro…).
4.03. Il mondo-della-vita è sfondo e contesto per l’impegno nei tre ambiti richiamati: cultura,
società, persona. Ambiti che possono essere riconosciuti come luoghi classici della filosofia; la
definizione in essi della nozione e della funzione del mondo-della-vita può essere affidata a tre
autori contemporanei: Edmund Husserl (mondo della vita e uomo), Karl Raimund Popper (mondo
della vita e natura, visione scientifica della natura), Jürgen Habermas (mondo della vita e società,
comunicazione e relazioni).
4.1. Il mondo-della-vita “l’ovvietà che inerisce a qualsiasi vita umana” (mondo della vita e
coscienza; uomo). Nella sua ultima (e incompiuta) opera dal titolo La crisi delle scienze europee e
la fenomenologia trascendentale e in un’importante conferenza tenuta a Vienna nel 1935 sul tema
«La crisi dell’umanità europea e la filosofia», Husserl approfondisce l’indagine sul fallimento delle
scienze e sul dissolversi dell’ideale, tipico dell’antichità greca, di filosofia universale. La ragione
filosofica e scientifica dell’Europa (nozione che Husserl usa non in senso geo-politico, ma come
idea spirituale, luogo ideale nel quale è nata la teoresi filosofica) pare aver dimenticato il proprio
progetto originario: in Grecia, nel VII secolo a.C., era nata «un’umanità che, pur vivendo nella
finitezza, viveva protesa verso i poli dell’infinità, [..] la cui vita spirituale, nella comunione
spirituale per le idee, per la produzione di idee e per la normatività ideale, portava in sé l’orizzonte
di un futuro infinito»; la società e la civiltà europee, che si sono formate in seno al mondo greco,
paiono invece aver tradito queste origini dimenticando il senso e la direzione della ragione
filosofica; hanno trascurato l’esperienza umana e soggettiva, occultando sotto le categorie della
matematica, che si è imposta come forma privilegiata della scientificità, la pienezza dell’esperienza
umana, il mondo-della-vita (Lebenswelt) all’interno del quale il soggetto intenziona il mondo con i
propri progetti e bisogni, con gli stimoli della propria esperienza vitale al di là e prima delle
categorie logiche della ragione scientifica. Husserl indica nella rivoluzione scientifica seicentesca il
momento in cui furono poste le premesse della crisi che ancora investe le scienze. A partire da
Galilei si impone la convinzione che il mondo sia assolutamente autonomo rispetto al soggetto che
lo percepisce e lo conosce e che la «verità obiettiva» del mondo sia esprimibile in puri termini
matematico-geometrici. Dimenticando il ruolo essenziale della coscienza, del soggetto che si volge
verso il mondo per dargli ordine e senso, la scienza galileiana non pensa che a «sussumere» i dati
empirici entro gli schemi ideali della matematica, rinunciando a cogliere la realtà nella sua pienezza
e varietà; in tal modo, anziché indagare il nesso che sussiste tra la coscienza e il mondo, e invece di
approfondire il ruolo svolto dalla soggettività nel costituire la natura, la scienza moderna, e in
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particolare la fisica galileiana, impostano la ricerca su una presunta verità oggettiva del mondo,
esprimibile mediante indici matematici. Galileo diventa nell’interpretazione husserliana il «genio
che scopre e insieme occulta. Egli scopre la natura matematica, l’idea metodica e apre la strada a
un’infinità di scopritori e di scoperte fisiche»; ma nello stesso tempo è responsabile di quella
matematizzazione del mondo che proietta sulla realtà le forme categoriali, ideali e simboliche, della
geometria e della matematica. «Con Galilei comincia la sovrapposizione della natura idealizzata a
quella intuitiva pre-scientifica.»
La cultura, e la filosofia come forma della sua consapevolezza, dopo l’opportuna epoché con cui
mette tra parentesi ogni costruzione culturale definita, magari diventata (più o meno
consapevolmente) sistema e atteggiamento naturale dell’uomo, deve ripartire dal mondo-della-vita
(Lebenswelt), nel quale si esprimono e si conservano come in una riserva senza limiti, convinzioni,
bisogni e progetti dell’uomo, e a partire dal quale la filosofia può mostrare con metodo
fenomenologico trascendentale le strutture costitutive della coscienza nel suo intenzionarsi alle cose
e aprirsi alla comprensione del fine e del senso universale del mondo.
4.1.1. « Il mondo-della-vita come tale non è forse l’universalmente noto, l’ovvietà che inerisce a
qualsiasi vita umana, ciò che nella sua tipicità ci è già sempre familiare attraverso l’esperienza ? I
suoi orizzonti ignoti non sono forse semplicemente orizzonti di una conoscenza semplicemente
imperfetta, e cioè già noti almeno nella loro tipicità più generale ? Certo alla vita pre-scientifica
questa conoscenza basta, come le basta il suo modo di trasformare la non-conoscenza in conoscenza
e di attingere occasionalmente una conoscenza sulla base dell’esperienza e dell’induzione (di
un’esperienza che continuamente viene verificata e che esclude costantemente le apparenze). Ciò
basta alla prassi quotidiana. Ma se si vuoi compiere un passo in avanti, per pervenire a una
conoscenza «scientifica», che cosa può essere messo in discussione se non gli scopi e le operazioni
della scienza obiettiva ? […] Le scienze costruiscono sopra l’ovvietà del mondo-della-vita, se ne
servono attingendo ad esso tutto ciò che volta per volta è necessario ai loro scopi. Ma usare in
questo modo il mondo-della-vita non significa conoscerlo scientificamente nel suo modo d’essere.
[…] Il mondo-della-vita è un regno di evidenze originarie. Ciò che è dato in modo evidente è, a
seconda dei casi, «esso stesso» dato nella percezione, e cioè esperito nella sua presenza immediata,
oppure è ricordato nella memoria. Tutti gli altri modi di intuizione sono presentificazioni di questo
«esso stesso». […] Certo uno dei compiti più importanti della penetrazione scientifica del mondodella-vita, è quello di valorizzare il diritto originario (Urrecht) di queste evidenze, la loro dignità di
evidenze capaci di fondare la conoscenza rispetto a quella delle evidenze logico-obiettive. Occorre
chiarire, occorre cioè mostrare in un’evidenza definitiva, come qualsiasi evidenza delle operazioni
logico-obiettive su cui si fonda, sia per la forma sia per il contenuto, qualsiasi teoria obiettiva (la
teoria matematica, la teoria delle scienze naturali), abbia le sue occulte fonti di fondazione nella vita
ultima operante in cui la datità evidente del mondo-della-vita ha attinto e sempre di nuovo attinge il
suo senso d’essere pre-scientifico. Dall’evidenza logico-obiettiva (della «visione intellettuale»
[«Einsicht»]) matematica, delle scienze naturali, delle scienze positive, così come le pratica il
matematico nell’atto di perseguire e di fondare i suoi risultati, ecc., la strada riconduce all’evidenza
originaria, in cui il mondo-della-vita è costantemente già dato.» Husserl Edmund, 1959 La crisi
delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano 1975 pp. 153-157
passim)
4.2. Il mondo-della-vita e la “scienza su palafitte” nella “palude” (mondo ella vita e natura /
scienza; mondo).
Per restituire alla scienza il campo completo della sua osservazione senza che venga
pregiudizialmente consegnata né a nozioni a priori immutabili e dogmatiche né a dati d’esperienza
considerati come prove definitive di leggi assolute Popper riporta nel campo della ricerca scientifica
la nozione di mondo-della-vita. Per compiere questa operazione egli si serve dell’efficace metafora
della palafitta: all’immagine tradizionale della scienza come edificio che lo scienziato-architetto
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eleva dalle solide fondamenta al tetto, Popper oppone la provocatoria immagine della palafitta (le
teorie) costruita piantando dei pali dall’alto nel terreno sabbioso della palude, l’esperienza.
«Dunque la base empirica delle scienze oggettive non ha in sé nulla di «assoluto». La scienza non
posa su un solido strato di roccia. L’ardita struttura delle sue teorie si eleva, per così dire, sopra una
palude. È come un edificio costruito su palafitte. Le palafitte vengono conficcate dall’alto, giù nella
palude: ma non in una base naturale o «data»; e il fatto che desistiamo dai nostri tentativi di
conficcare più a fondo le palafitte non significa che abbiamo trovato un terreno solido.
Semplicemente, ci fermiamo quando siamo soddisfatti e riteniamo che almeno per il momento i
sostegni siano abbastanza stabili da sorreggere la struttura.» Popper Karl Raimund 1959 Logica
della scoperta scientifica, Einaudi, Torino 1970 p. 108.
La palude può essere considerata il mondo-della-vita, l’immediatamente e universalmente a
disposizione per l’osservazione e l’indagine, ma si tratta di un mondo doppiamente complesso: per
l’indeterminatezza che lo caratterizza, se pensato prima di ogni lettura secondo concetti e prima di
ogni sistemazione secondo teorie scientifiche, e perché il concetto stesso di mondo è plurivoco. Nei
suoi studi Popper osserva infatti come il termine mondo, proprio del linguaggio quotidiano, possa
venire formalizzato in tre diverse accezioni (tre mondi): il mondo oggettivo dei fatti, cui
corrispondono le forme scientifiche della cultura linguisticamente formulate, universalmente
condivise e divenute perciò terreno comune di intesa di un’epoca (cultura-natura); il mondo sociale
delle norme, cui corrispondono i processi che indagano e regolano le relazioni interpersonali,
dall’etica alla politica (società); il mondo soggettivo dell’esperienza individuale, in cui si collocano
le scelte che definiscono le singole personalità (persona). Ogni evento, fatto storico, si pone
all’intersezione di questi tre mondi: cultura, società, persona; essi costituiscono il ricco patrimonio
del mondo-della-vita quando viene considerato contesto per comprendere i fatti del mondo,
congetturare sistemi culturali scientifici, decidere per nuove operazioni antropologiche.
4.3. Il mondo-della-vita e l’agire comunicativo. (mondo della vita e società; storia)
Il filosofo e sociologo tedesco Jurgen Habermas (1929), nella sua principale opera Teoria dell’agire
comunicativo, del 1981, riprende la nozione e il tema del mondo-della-vita formulato da Husserl ma
con l’intenzione di ampliarne la portata. L’impostazione di Husserl, osserva Habermas, pur
rifiutando con decisione ogni psicologismo filosofico, rimane tuttavia ferma alla filosofia del
soggetto, non valorizza il mondo della vita come concetto «che si riferisce alla totalità dei fatti
socio- culturali, in grado perciò di offrire un punto di contatto per la teoria della società». Habermas
critica cioè la «riduzione culturalistica del concetto di mondo vitale» presente nella tradizione
fenomenologica inaugurata da Husserl: collocare il tema del mondo vitale nell’ambito della sola
cultura significa riservarne la portata fondativa solo al sapere formale scientifico razionalmente
definito ed escluderlo o non portarlo al centro delle relazioni comunicative di cui il mondo della vita
costituisce il respiro e il soffio vitale, il patrimonio e il serbatoio inesauribile. In quanto i
procedimenti di intesa non si riducono soltanto al mondo oggettivo formalizzato, ma stanno
all’origine sia del mondo sociale («in quanto totalità delle relazioni interpersonali regolate in modo
legittimo»), sia del mondo soggettivo («in quanto totalità delle esperienze vissute del parlante,
accessibili in modo privilegiato»), Habermas lavora a una definizione del mondo vitale anche e
soprattutto all’interno dello studio delle dinamiche della società e della personalità.
Il mondo-della-vita va richiamato all’attenzione; esso opera certamente nella normalità delle
relazioni quotidiane ma non diventa elemento esplicito di attenzione in quelle relazioni
comunicative. I partecipanti a una conversazione o a un’attività possono prendervi parte in quanto si
riconoscono in un sistema culturale e sociale già strutturato secondo regole, condiviso e usato come
contesto di intesa, essi non sentono dunque il bisogno di mettere a tema il contesto in cui operano.
Solo un ostacolo all’intesa può trasformare un sistema organizzato da «quadro indiscusso nel quale
si pongono i problemi da affrontare» in oggetto esplicito di riflessione. «Dalla prospettiva rivolta
alla situazione il mondo vitale appare come un serbatoio di evidenze o convinzioni incontrollabili
che i partecipanti alla comunicazione utilizzano per i processi cooperativi di interpretazione. Singoli
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elementi, determinate evidenze vengono però mobilitati sotto forma di un sapere consensuale e al
tempo stesso problematizzabile soltanto quando diventano rilevanti per una situazione.»
Impostata con rigorosa coerenza, tale riflessione tende all’esame non solo del contesto di intesa
direttamente messo in discussione, ma della radice prima dei sistemi strutturati e diventati ambiti
senza i quali non è possibile alcuna comunicazione; essa raggiunge quindi il mondo della vita,
finora sfondo non problematizzato dei procedimenti di intesa culturale e pragmatica.
Il mondo vitale ha dunque la forma storica del contesto indispensabile all’intesa e perciò si presenta
come riserva di sapere tramandato e organizzato linguisticamente («è costruito a partire da una
riserva di sapere culturale già da sempre familiare»). Con molte (e ripetute) formule se ne può
indicare la natura, l’origine e la funzione: terreno comune di intesa, tessuto connettivo delle
relazioni comunitari e societarie, patrimonio condiviso per operazioni di senso partecipate…
esso è però anche base per una funzione produttiva, non predeterminata della cultura, della società e
della persona, in grado di superare forme culturali, sociali e personali storicamente fissate (nel
richiamare cultura, società, persona Habermas ricorda la complessità di significato del termine
mondo e la utilizza per la propria analisi le tre dimensioni, raccolte nella parola mondo, evidenziate
da Popper).
La definizione di sistemi culturali condivisi, base per la comunicazione (cultura-natura), il mondo
delle relazioni sociali, presupposto di intesa interpersonale (società), il campo delle esperienze
personali, contesto in cui si definiscono le forme soggettive di attenzione e di orientamento
(persona), diventano il luogo in cui si colloca la nuova riflessione filosofica sul mondo della vita: «i
tratti fondamentali del mondo vitale, fenomenologicamente descritti, possono essere spiegati senza
difficoltà se si introduce il “mondo vitale” come concetto complementare dell’“agire
comunicativo”».
« Ogni atto della comprensione può essere inteso come parte di un processo cooperativo di
interpretazione che mira a definizioni della situazione riconosciute intersoggettivamente. In ciò i
concetti dei tre mondi servono da sistema di coordinate, supposto comune, nel quale i contesti
situazionali possono essere ordinati in modo che si raggiunga l’intesa su ciò che i partecipanti
possono trattare di volta in volta come fatto e come norma valida oppure come esperienza vissuta
soggettiva. A questo punto posso introdurre il concetto di «Lebenswelt» anzitutto come correlato a
processi di intesa. Soggetti che agiscono in modo comunicativo si intendono sempre nell’orizzonte
di un mondo vitale. Il loro mondo vitale si compone di convincimenti di sfondo più o meno diffusi,
sempre aproblematici. Tale sfondo di mondo vitale funge da fonte per definizioni situazionali che
sono presupposte in modo aproblematico dai partecipanti. Nella loro opera di interpretazione gli
appartenenti ad una comunità comunicativa delimitano il mondo oggettivo e il loro mondo sociale
condiviso intersoggettivamente dai mondi soggettivi di singoli e di (altri) collettivi. I concetti del
mondo e le corrispondenti pretese di validità costituiscono l’impalcatura formale con cui gli agenti
in modo comunicativo inquadrano i contesti situazionali di volta in volta problematici, cioè
bisognosi di accordo, nel loro mondo vitale presupposto come aproblematico.
Il mondo vitale immagazzina il lavoro interpretativo svolto dalle generazioni precedenti; esso è il
contrappeso conservatore contro il rischio di dissenso che sorge con ogni processo effettivo
dell’intendersi.» Habermas Jurgen 1981 Teoria dell’agire comunicativo, Il Mulino, Bologna 1986,
pp. 138-140
Osserva Ricciardi Mario (2010 La comunicazione. Maestri e paradigmi, Laterza, Roma – Bari
(Manuali Laterza, p. 162), presentando le tesi di Jurgen Habermas: «Il sistema è guidato dall’agire
strumentale finalizzato al successo, all’efficienza: l’agire sistemico è quindi dominato dal profitto
nella sfera economica e dal potere in sé nella sfera politica. Contro il «sistema» è il «mondo della
vita», caratterizzato dall’agire comunicativo, dalla pluralità dei valori condivisi localmente, dalla
spontaneità delle relazioni umane, dove l’altro non viene «usato», dalle tradizioni nelle quali si è
cresciuti e nelle quali è possibile identificarsi, da numerose manifestazioni dell’agire umano, non
sottoposto agli imperativi dell’azione economica e strategica. Il mondo della vita è “il luogo
trascendentale nel quale parlante ed ascoltatore si incontrano, nel quale possono avanzare
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reciprocamente la pretesa che le loro espressioni si armonizzino con il mondo (quello oggettivo,
sociale e soggettivo) e nel quale essi possono criticare e confermare queste pretese di validità,
esternare il proprio dissenso e raggiungere l’intesa.” [J.Habermas, Teoria dell’agire comunicativo,
vol. II, Il Mulino, Bologna 1986: 714] Questo modello rispecchia una visione alta e nobile della
comunicazione. Fa riferimento ai grandi modelli «classici»: si pensi alla democrazia e al luogo per
antonomasia in cui essa si esprimeva, l’agorà, la piazza di Atene in cui i cittadini potevano
esprimere le proprie idee e confrontarsi con gli altri, il luogo in cui parlare e ascoltare avvenivano
nello stesso tempo e nello stesso spazio. È la condizione ideale dell’oralità, così come descritta da
Walter J.Ong. Il mondo della vita è il grande contenitore di senso in cui si conservano e si
trasmettono i risultati delle interpretazioni delle generazioni precedenti.»
4.3.1. Un noto esempio fornito dallo stesso Habermas: « Il lavoratore anziano in un cantiere che
invia un collega più giovane e di recente assunzione a prendere la birra e pretende che faccia in
fretta, sia di ritorno entro un paio di minuti, parte dal fatto che ai partecipanti (qui il destinatario e i
colleghi che si trovano a portata di voce) la situazione sia chiara: la colazione è il tema, il
rifornimento di bevande è un obiettivo riferito a questo tema; uno dei colleghi più anziani
concepisce il piano di mandare il “nuovo” che, a causa del suo stato, può sottrarsi difficilmente a
tale esortazione. La gerarchia informale del gruppo degli operai nel cantiere costituisce il quadro
normativo nel quale uno può esortare l’altro a fare qualcosa. La situazione di azione è definita
temporalmente dalla pausa di lavoro, spazialmente dalla distanza del bar più vicino rispetto al
cantiere. Se ora la situazione è tale per cui il bar più vicino non può essere assolutamente raggiunto
a piedi in un paio di minuti, se dunque il piano del collega di lavoro più anziano può essere attuato,
nella condizione menzionata, soltanto con l’aiuto di un’auto (o di un altro veicolo) l’interpellato
risponderà forse: “Ma non ho la macchina”». (o.c. p.706)
4.3.2. Un secondo esempio da Fforde Jasper 2003 Il pozzo delle trame perdute, Marcos y marcos,
Milano 2007 p. 159-160:
«Avevi promesso di parlarci dei sottintesi» disse Obb, riprendendo l’insalata.
«Ah, sì» risposi, grata per la distrazione dalla Vavoom. «ll sottinteso è l’azione implicita dietro la
parola scritta. Il testo dice al lettore quello che i personaggi dicono e fanno, mentre le loro
intenzioni e i loro sentimenti restano sottintesi. Il bello è che si tratta di una grammatica condivisa,
scritta nell’esperienza umana: non si può capire senza una buona conoscenza diretta delle persone e
di come interagiscono. Chiaro?»
Ibb e Obb si guardarono.
«No».
«D’accordo, vi faccio un esempio semplice. Durante una festa, un uomo porge un bicchiere a una
donna e lei lo prende senza dire niente. Che cosa sta succedendo?»
«Lei non è molto educata?» propose Ibb.
«Forse» risposi «ma io mi riferivo a qualche indizio sui loro rapporti».
Obb si grattò la testa e disse: «Non parla perché... mmm... ha perso la lingua in un incidente
industriale provocato dalla negligenza di lui?»
«La stai facendo troppo difficile. Per quale ragione uno non si sentirebbe tenuto a dire ‘grazie’ per
qualcosa?»
«Perché» disse titubante Ibb «si conoscono?»
«Bene. Se durante una festa a porgerti un bicchiere è tua moglie, marito, ragazza o compagno, può
darsi benissimo che lo prendi e basta; se tu fossi un ospite e l’altro fosse il padrone di casa, lo
ringrazieresti. Eccone un’altra: c’è una coppia che cammina per strada, e lei cammina otto passi
dietro a lui».
«Lui ha le gambe più lunghe?» buttò lì Ibb.
«No».
«La loro automobile si è guastata?»
«Hanno litigato» disse Obb entusiasta «e vivono vicino, altrimenti avrebbero preso la macchina».
20
«Potrebbe essere» risposi. «I sottintesi dicono molte cose Ibb, hai preso tu l’ultimo pezzo di
cioccolato dal frigo?»
Ci fu un momento di silenzio.
«No».
«Bene, visto che non hai risposto subito sono abbastanza sicura che sia stata tu».
«Oh!» disse Ibb. «Questo me lo ricorderò».
Bussarono alla porta. »
4.4. Il mondo-della-vita in versione letteraria e in romanzo, contesti disposti a fornire la
narrazione per le tre dimensioni/direzioni di mondo: natura, società, persona.
Le forme in cui il mondo della vita può diventare oggetto specifico di attenzione, di analisi e di
discorso non sono univoche. L’arte del racconto è il modo letterario in cui il mondo vitale, contesto
della comunicazione e delle relazioni sociali, diviene oggetto specifico di attenzione; «la prassi
narrativa del resto - osserva Habermas - non serve soltanto al fabbisogno ovvio di comprensione di
interessati che devono coordinare la propria collaborazione. Essa svolge altresì una funzione per
l’autocomprensione delle persone che devono oggettivare la propria appartenenza al mondo vitale
di cui fanno parte nel loro ruolo attuale di partecipanti alla comunicazione».
La comprensione di concetti nuovi è spesso offerta dall’esame degli ambiti applicativi in cui essi si
rivelano produttivi, da quel produrre emerge con chiarezza crescente la loro natura. Nell’ampia
metafora che attraversa il romanzo di Jasper Fforde (2003), Il pozzo delle trame perdute, la
descrizione drammatica del “mare del testo” può equivalere al tema del mondo-della-vita in
versione letteraria [o può essere una efficace definizione della nostra memoria: “pozzo delle trame
perdute”]; non solo perché, come osserva Habermas, è struttura del narrare, ma diventa l’oggetto
della narrazione stessa, il tessuto materiale indeterminato di ogni progetto di narrazione possibile: il
mare delle trame perdute, l’ardita metafora oggetto di descrizione, ha il potere di richiamare le
acque primordiali della genesi su cui si librava il respiro di Dio prima che il mondo prendesse
forma, e, per contrasto, può richiamare la visione impaurita che si presenta allo sguardo
retrospettivo di W. Benjamin rivolto alla storia in Angelus Novus (scena anch’essa carica di ricordi
biblici).
«Fu un bene che la porta si aprisse verso l’esterno. Se si fosse aperta verso l’interno, non sarei qui a
raccontarlo. Jack rimase in bilico sull’orlo; lo afferrai per una spalla e lo tirai indietro. Della palestra
di Mickey Finn rimaneva solo qualche assicella del pavimento che dopo neanche mezzo metro
diventava prosa descrittiva, con le estremità sfrangiate che sventolavano e battevano come pennoni
al vento. Al di là di questi resti si apriva un abisso vertiginoso su un mare oscuro e sferzato dai
venti, sconquassato da un tifone. Le onde si sollevavano e ricadevano, portando con sé navicelle che
sembravano pescherecci; i marinai in coperta indossavano cerate. Ma nel mare non c’era acqua
come di consueto: qui le onde erano fatte di lettere, alcune raccolte in parole e talvolta in brevi frasi.
Di tanto in tanto una parola o una frase saltava nell’aria, e veniva catturata dai marinai, che
tendevano le reti con lunghe pertiche.
«Maledizione!» disse Jack. «Accidenti e maledizione!»
«Che cos’è?» chiesi mentre le lettere che componevano la parola “sassofono” schizzavano verso di
noi, trasformandosi in un vero sassofono quando superarono la soglia, e colpivano con uno schianto
la struttura di metallo delle scale. Nuvole di lettere nel cielo sopra il mare in tempesta contenevano
segni di punteggiatura che vorticavano minacciosi. A tratti un fulmine cadeva in mare e le lettere
ruotavano vicino al punto colpito, formando spontaneamente delle parole.
«Il Mare del testo!» urlò Jack sopra la furia delle onde. Cercammo di chiudere la porta sfidando la
bufera, mentre un grammassita passava in volo gridando forte “Gark!” e infilzava abilmente un
verbo che era balzato fuori dal mare al momento sbagliato.
Spingemmo con tutto il nostro peso la porta e la chiudemmo. Il vento calò, il tuono divenne un
rombo lontano. Raccolsi il sassofono ammaccato.
«Non immaginavo che il Mare del testo esistesse davvero» dissi ansimando. «Pensavo che fosse
21
Solo un concetto astratto».
«Oh no, è reale, eccome» spiegò Jack raccogliendo il cappello «reale come qualsiasi altra cosa
quaggiù. Il Mar Letteraneo è alla base di tutta la prosa scritta in caratteri latini. Da qualche parte è
collegato con l’Oceano Cirillico, ma noi chiedermi come. Lo sai che cosa significa, vero?» Fforde
Jasper 2003 Il pozzo delle trame perdute, Marcos y marcos, Milano 2007 p. 245-246
4.5. il mondo-della-vita a rischio pregiudizio (situazioni di crisi del mondo della vita).
Habermas, ragionando sul tema mondo-della-vita ricorda come: «Dalla prospettiva rivolta alla
situazione il mondo vitale appare come un serbatoio di evidenze o convinzioni incontrollabili che i
partecipanti alla comunicazione utilizzano per i processi cooperativi di interpretazione. Singoli
elementi, determinate evidenze vengono però mobilitati sotto forma di un sapere consensuale e al
tempo stesso problematizzabile soltanto quando diventano rilevanti per una situazione.»
Contesto materiale di intesa, il mondo-della-vita come serbatoio per lo più irriflesso (a meno di
intoppi) di strumenti di orientamento culturale, estetico, teorico e pratico, conserva in sé
indistintamente e per lo più acriticamente e sulla base del ricordo tutto ciò che è stato espresso
(come accade al “mare del testo” nel Pozzo delle trame perdute, come accade al linguaggio
quotidiano spontaneo). Ospita dunque al proprio interno anche l’ampia dose di stereotipi e
pregiudizi di cui ha bisogno, nei fatti, il discorso all’intero delle comuni relazioni sociali quotidiane
e nei rischi di dinamiche totalitarie presenti nei processi di crisi della democrazia.
4.5.1. È nota la funzione indispensabile del pregiudizio e dello stereotipo nel permettere un
comportamento culturale. Enunciati riguardanti condizioni contingenti sono possibili se non si
richiede, in ogni situazione, di dover porre tutto sotto esame e di dover fornire una dimostrazione
totale. Stereotipi e pregiudizi diventano anzi “precomprensioni” indispensabili per poter vedere,
ragionare e prendere posizione su quanto accade. [argomento ripreso poi in Storie del velo]
4.5.1.1. È nota anche la forza del pregiudizio e dello stereotipo e in essa si trova la ragione del loro
ricorrere. Ciò che viene detto e non preso in considerazione, non tematizzato e non sostenuto da
prove, è affermato con spesso inconsapevole disinvoltura sulla base della sua condivisa ovvietà. Si
tratta di convinzioni diffuse, senso comune, modi di osservare e dire sui quali si afferma esistere il
consenso universale, per i quali dunque non sembra esistere l’obbligo morale della prova da parte di
chi afferma e giudica. Il meccanismo in azione che, in tale prassi, rischia di sfuggire è duplice: 1.
che l’universale consenso non è un fatto che si riscontra e si registra ma che viene costruito
attraverso l’affermazione della sua esistenza (è l’enunciato “esiste un consenso universale” a
costruire un “consenso universale”); 2. il mondo-della-vita perde la propria funzione di serbatoio
aperto di strumenti e viene progressivamente trasformato in visione del mondo (dalla fisica all’etica,
dalla chimica alla sociologia … fino ai discorsi quotidiani sul clima e sui prezzi) consegnata a
enunciati il cui valore è legato alla condivisione creata dalla forza del ripetere; l’incoerenza interna
alle visioni del mondo affidate agli stereotipi è destinata a non sollevare preoccupazioni mentali e
morali a fronte del beneficio e dalla “serenità” procurata da una conversazione che si fonda su
pregiudizi non provati e non utili (anzi nocivi) ma condivisi.
4.5.1.2. Il campo dei media (mezzi di informazione quotidiana) è un contesto sociologicamente
prezioso per esaminare forme, ricorrenze e scopi della costruzione di notizie che si fondano e
creano contemporaneamente stereotipi e pregiudizi. «Le notizie diffondono stereotipi e pregiudizi?»
(un rimando: si tratta del quesito e dell’analisi svolta nel capitolo sesto dell’opera: Caniglia Enrico
2009 La notizia. Come si racconta il mondo in cui viviamo, Laterza Roma-Bari
4.5.2. Totalitarismi in democrazia. Già Platone, nella Repubblica, metteva in luce come la
democrazia, nella sua crisi e nel suo degenerare, possa dar luogo a regimi totalitari. Una serie di
studi, coordinati da Massimo Recalcati (Recalcati Massimo (a cura di) 2007 Forme contemporanee
del totalitarismo, Bollati Boringhieri, Torino) prende in esame le forme e le dinamiche proprie del
contemporaneo “Totalitarismo postideologico”. Viene richiamata la tattica del progetto politico
totalitario, la cui efficacia è legata alla capacità di incidere sul mondo della vita fino a crearne uno
del tutto nuovo ed assimilato (4.5.2.1.) Ma, il tramonto storico di totalitarismi ideologici non segna
22
la fine del totalitarismo; prende vita e vigore un totalitarismo non ideologico che, soprattutto nel
contesto dello spettacolo, promuovendo una partecipazione e una presenza giocata per lo più
sull’applauso e sul consenso passivo, determina in forme quotidiane sempre più invasive e
accompagnate da plauso, la distruzione del mondo-della-vita come sede di possibilità e di scelta
(4.5.2.2.).
4.5.2.1. «Due libri tra loro assai diversi, entrambi pubblicati all’indomani della fine del secondo
conflitto mondiale, presentano una diagnosi identica per il male assoluto che ha appena devastato
l’Europa. Il primo è stato scritto nel 1947 da un filologo e storico delle idee, studioso della cultura
francese, Victor Klemperer, un ebreo miracolosamente sopravvissuto alla catastrofe abbattutasi sul
suo popolo (o, almeno, su quel popolo nel quale è costretto a riconoscersi proprio grazie
all’accanimento assassino di cui è stato, senza distinzione, vittima). Il suo titolo, non privo, come
vedremo, di una triste ironia, è un logo, un marchio, una sigla: (in nota: LTI. La lingua del Terzo
Reich. Taccuino di un filologo, La Giuntina, Firenze 1988) È l’acronimo di Lingua tertii imperi, la
lingua del Terzo Reich. Il secondo, pubblicato nel 1949, è 1984 di George Orwell, scrittore,
combattente repubblicano nella guerra civile spagnola, dove assiste agli orrori del comunismo
staliniano (il massacro degli anarchici). In appendice, questa distopia socialista contiene un saggio
sulla «neolingua» del Socing (il «socialismo oceanico»). La neo-lingua è una lingua artificiale
progettata dal Partito non solo per «dirigere» il pensiero secondo le sue intenzioni, ma soprattutto
per rendere impossibile a priori l’articolazione di una divergente visione del mondo.
«In neolingua — scrive Orwell — solo di rado era possibile seguire un pensiero eretico spingendosi
oltre la percezione che si trattava, per l’appunto, di un pensiero eretico: oltre quel punto, le parole
che sarebbero servite ad esprimerlo semplicemente non esistevano.»
La domanda alla quale Klemperer, con il suo saggio in forma di diario, vuole rispondere è la stessa
domanda che si pone Orwell, sebbene il primo abbia di mira il nazismo, il secondo lo stalinismo.
Essa chiede, semplicemente: com’è potuto accadere? […] Delle cause ultime di questo avvento dal
carattere perversamente religioso Klemperer e Orwell offrono una lettura di tipo epidemico o
infettivo. Il virus però è colto da entrambi nel linguaggio. Language is a virus, per citare il titolo di
una bella canzone di Laurie Anderson. Ma meglio sarebbe dire che il virus per entrambi è trasmesso
dallo speech. Non il linguaggio-sistema, infatti, non il linguaggio-codice, ma la lingua parlata, la
lingua della comunicazione quotidiana, la parole che ha luogo tra questi parlanti reali, è l’ambito
dell’incubazione, dell’infezione e della propagazione irresistibile del virus. «Il nazismo — scrive
Klemperer — s’insinuava nella carne e nel sangue della folla attraverso le singole parole, le
locuzioni, le forme delle frasi ripetute milioni di volte».
La propaganda esplicita, per quanto martellante fino all’ossessività, da sola non è in grado di
spiegare nulla. Per essere efficace la propaganda presuppone un ambiente cognitivo, un eco-sistema
linguistico, già predisposto ad accoglierla e a trasformarla in prassi quotidiana, in senso comune. La
lingua è la nostra seconda natura, è l’aria che respiriamo fin dalla nascita in quanto esseri culturali.
Un filologo e linguista tedesco, nutritosi della filosofia idealista del linguaggio (da Hamann a
Humboldt), sa bene che la lingua non è veicolo se non derivatamente. La lingua è lo «spirito
oggettivo» di Hegel. La lingua è il medio, l’ambito della mediazione fondamentale. E la sorgente
della «donazione» originaria, è lei che «ci dà» il mondo, è lei che fornisce l’orizzonte di senso nel
quale le cose del mondo si manifestano. I significati, nella loro determinatezza (ad esempio la
parola «ebreo» o la parola «psico-reato»), prendono rilievo su di uno sfondo dato per scontato, che,
indipendentemente dal suo contenuto, ogni atto comunicativo continuamente e silenziosamente
ribadisce. Non vi sarà perciò virus più potente di quello che in questo sfondo antepredicativo e
sempre operante trova l’habitat più consono alla sua proliferazione.
Il «mistero» dell’«avvento» è tutto racchiuso nella capacità performativa della lingua vivente. […]
Ora, che altro sancisce la mia competenza comunicativa (il mio saper fare a comunicare) se non la
mia partecipazione a un luogo comune anticipatamente condiviso? Questa mirabile arte celata nella
natura umana testimonia la mia obbediente adesione a presupposti comuni condivisi che nella
comunicazione in atto restano sempre nella latenza, ma che circolano incessantemente e in forma
23
imperativa in ogni dire effettuale. L’incompetenza comunicativa definisce invece la mia esclusione
dal luogo comune. Ne fa fede il folle, il quale, non avendo più orecchio per la differenza essenziale
del senso (taciuto) dal significato (espresso), è escluso dal luogo comune a causa della sua
incompetenza pragmatica. […] La neolingua progettata dal Partito per esorcizzare ogni pensiero
eretico è comica nel senso bergsoniano della parola. Per l’autore del Riso l’effetto comico era legato
a una meccanizzazione del vivente, coincideva con un certo automatismo antivitale. Secondo
Orwell il punto più alto di realizzazione della neolingua è l’«ocoparlare»: «Per le finalità della vita
quotidiana era indubbiamente necessario, o almeno lo era talvolta, riflettere prima di parlare, ma un
membro del Partito, quando veniva sollecitato a emettere un giudizio etico o politico, doveva essere
in grado di sputar fuori le opinioni corrette con lo stesso automatismo con cui una mitragliatrice
spara i suoi proiettili». Ronchi Rocco, Parlare in neolingua. Come si fabbrica una lingua totalitaria
in Recalcati Massimo (a cura di) 2007 Forme contemporanee del totalitarismo, Bollati Boringhieri,
Torino p. 44, 45-46, 52, 55.
4.5.2.2. «L’ipotesi che abbiamo seguito qui è che la sfera del senso, nel regime dello Spettacolo,
venga inghiottita dalla sfera dell’assenso. Ciò significa che tutto quel che non si presta all’assenso
(all’applauso) arretra progressivamente, ma irresistibilmente, nella sfera del non-senso. […] Il
compito della filosofia è piuttosto, a monte, quello di ridurre i margini del non-senso e allargare i
margini del senso. E per ottemperare al proprio compito, la filosofia deve ogni volta revocare in
questione l’incondizionato in cui senza saperlo ci muoviamo. Il che significa, nell’età dello
Spettacolo, valicare il muro del senso come assenso, il nostro incondizionato. Questa operazione
non corrisponde a una distruzione, ma a una sorta di liquefazione. Non si tratta di opporsi ad
alcunché, insomma, si tratta semmai di interrogare e interrogarsi. Si tratta di interrogare
l’incondizionato che noi stessi incorporiamo — un incondizionato che detta le condizioni di
possibilità così come le condizioni di impossibilità dell’esperienza umana, della nostra esperienza
dell’umano — allo scopo di diluire l’impossibilità in nuove, diverse possibilità.» Tarizzo Davide
2007 Applauso. L’impero dell’assenso, in Recalcati Massimo (a cura di) 2007 p.104
4.6. nel mondo della vita: oltre la rappresentazione. La svolta contenuta nell’introduzione del
mondo della vita come base: il nuovo contesto e l’inizio dell’esperienza in uscita dall’involucro e
vincolo della rappresentazione.
O «La rovina della rappresentazione [Vorstellung]» Ricoeur Paul 2004 Percorsi del
riconoscimento (Parcours de la reconnaissance), Raffaello Cortina, Milano 2005 (il cap.III da p.
65)
4.6.1. la “rivoluzione copernicana”, il radicale cambiamento di metodo e l’impostazione della
filosofia su basi trascendentali hanno nella rappresentazione e nella sua centralità la propria base.
«Da questo punto di vista il testo canonico è la Prefazione (Vorrede) alla seconda edizione della
Critica della ragion pura (B del 1787). Qui, il punto vista trascendentale viene introdotto come un
blocco unitario e a titolo di una rivoluzione sul piano filosofico paragonabile a quella di Copernico
in cosmologia. Qui, possiamo assistere all’irruzione di un vero e proprio evento di pensiero. Il tono
non è meno deciso e imperioso di quello usato da Descartes nel Discorso, e la delusione di fronte
allo spettacolo della metafisica in frantumi è la medesima. Ed ecco, improvvisa, la domanda che si
“ammette” essere il rovesciamento costitutivo dell’atto fondatore della filosofia critica: “Finora si
ammetteva che ogni nostra conoscenza dovesse regolarsi sugli oggetti: ma tutti i tentativi di stabilire
qualcosa di a priori su questi ultimi mediante dei concetti — qualcosa con cui venisse estesa la
nostra conoscenza — a causa di quel presupposto sono finiti in niente” (B XVI). Segue il richiamo
all’esempio di Copernico che rovescia i rapporti tra la terra e il sole: “Si può tentare qualcosa di
simile riguardo all’intuizione degli oggetti” (B XVII). È questo il contesto in cui la parola
Vorstellung, rappresentazione, entra in scena quale termine emblematico del gesto filosofico che si
annuncia anzitutto come richiesta di “ammissione”, poi come “tentativo”. L’alternativa che si offre
a partire dall’ipotesi rivoluzionaria consiste nel sapere che l’oggetto si regola non “sulla natura degli
oggetti” bensì “sulla natura della nostra facoltà intuitiva” (ibidem). Ed ecco in che modo la parola
24
“rappresentazione” fa la sua comparsa: affinché le intuizioni diventino conoscenze, “devo riferirle,
in quanto rappresentazioni, a un qualcosa come oggetto, e devo determinare quest’ultimo per loro
tramite” (ibidem). Il termine Vorstellung diviene così l’emblema del “cambiamento di metodo nel
modo di pensare” (B XVIII), che Kant riassume in una formula: “Riguardo alle cose conosciamo a
priori solo ciò che noi stessi poniamo in esse” (ibidem). E, più sotto: “Questo tentativo di
trasformare il modo di procedere seguito finora dalla metafisica, e cioè il tentativo di compiere in
essa una rivoluzione totale seguendo l’esempio dei geometri e dei ricercatori della natura, è ciò in
cui consiste il compito di questa critica della ragion pura speculativa” (B XXII).
Sulla scia di questo gesto viene così incoronato il termine “rappresentazione”. La condanna della
pretesa della ragione a conoscere l’incondizionato è il corollario obbligato di questo rovesciamento,
e la parola “rappresentazione” è posta come un marchio a suggellare quel gesto di eliminazione con
il quale si decidono le sorti del dogmatismo: “Ora, nel caso ammettessimo che la nostra conoscenza
di esperienza si regoli sugli oggetti come cose in se stesse, troveremmo che l’incondizionato non si
può affatto pensare senza contraddizione; nel caso invece ammettessimo che non è la nostra
rappresentazione delle cose — quali ci vengono date — a regolarsi su di esse come cose in se
stesse, ma che al contrario sono questi oggetti, in quanto fenomeni, a regolarsi sul nostro modo di
rappresentarli, troveremmo che la contraddizione viene a cadere.” (B XX)
In un sol colpo, con la scomparsa della contraddizione, l’ipotesi viene trasformata in tesi: “Così,
dunque, quello che all’inizio avevamo ammesso come un semplice tentativo si mostra nella sua
fondatezza” (ibidem). È oramai all’interno del grande cerchio disegnato dalla rappresentazione che
si giocano i rapporti tra intelletto e sensibilità, ai quali abbiamo dedicato tutte le nostre analisi, e che
si svolgono le operazioni di sintesi rispetto alle quali l’immaginazione produttiva figura quale terzo
termine. Quello che abbiamo appena chiamato cerchio della rappresentazione altro non è se non la
figurazione grafica del rovesciamento copernicano, il quale consente che siano gli “oggetti, in
quanto fenomeni, a regolarsi sul nostro modo di rappresentarli” (ibidem). Uscire dal kantismo
significa allora rifiutare il rovesciamento copernicano e, col medesimo gesto, uscire dal cerchio
magico della rappresentazione. Con questo gesto, l’esperienza fondamentale dell’essere-nel-mondo
Viene a porsi quale riferimento ultimo di tutte le esperienze particolari suscettibili di stagliarsi su
tale sfondo.» (Ricoeur 2004 p.68)
4.6.2. uscire dalla rappresentazione e avviare un cammino completamente diverso: a partire da
Husserl, dal “mondo-della-vita” Lebenswelt.
«Prima di abbozzare i primi lineamenti di una precisa filosofia del riconoscimento, vorrei
richiamarmi a qualche testo di riferimento in cui si può cogliere l’instaurarsi di un gesto filosofico
opposto rispetto a quello che aveva scelto quale proprio termine emblematico la rappresentazione.
Piuttosto di balzare precipitosamente nell’ontologia fondamentale di Heidegger, cercherò il mio
primo punto di appoggio nella Krisis di Husserl. Anche in questo caso, il filosofo si richiama a una
filosofia trascendentale nella quale l’ego è il portatore di un progetto di costituzione in cui si
esplicita l’atto fondamentale di donazione di senso (Sinngebung); ma, relativamente alla “crisi delle
scienze europee”, egli caratterizza sin dal primo momento la propria filosofia come “espressione
della crisi radicale della vita dell’umanità europea”. È soltanto nella terza e ultima parte che egli si
confronta con Kant e con la sua scelta fondamentale; si tratta della parte intitolata “La via di
accesso alla filosofia trascendentale fenomenologica attraverso la riconsiderazione (Rückfrage) del
mondo-della-vita già dato”. Questa rottura viene a collocarsi nel contesto di tale riconsiderazione.
Kant “non si rende affatto conto che egli, nella sua filosofia, si basa su un suolo di presupposti
inindagati […] che contribuiscono a determinare il senso dei suoi problemi” (La crisi delle scienze
europee, p. 133). Husserl chiama questo suolo “il mondo circostante quotidiano della vita
considerata come ‘ente’, in cui tutti noi, e anche ‘io’ in quanto filosofo, esistiamo coscienzialmente:
non meno le scienze, in quanto fatti culturali inclusi in questo mondo, e gli scienziati e le loro
teorie” (ibidem, p. 134). E, all’interno di questo contesto, vengono elaborati i concetti di
Leiblichkeit, con la distinzione tra Leib e Kòrper, corpo proprio e corpo, di Lebenswelt, di
Zusammenleben (ibidem, pp. 137-138).
25
Come scrive Lévinas in un articolo pubblicato in occasione del centenario della nascita di Husserl,
possiamo affermare che nell’ultima filosofia di Husserl si annuncia “la rovina della
rappresentazione”. È dall’interno stesso del tema principale della fenomenologia husserliana, il
tema dell’intenzionalità, che Lévinas fa sorgere la tematica, colta allo stato nascente, che annuncia
“la rovina della rappresentazione” (Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, pp. 141 sgg).
Questa tematica è la tematica dell’implicito, del potenziale non visto, delle fughe verso orizzonti
non padroneggiati, sino dentro alla percezione compresa come presenza presso le cose: “Questo
senso implicito e questa struttura di orizzonte fanno sì che ogni ‘significato’ con cui si investe il
cogito supera in ogni istante ciò che, nell’istante medesimo, è dato come esplicitamente
intenzionato” (ibidem, p. 147). “Questo oltrepassamento dell’intenzione nell’intenzione stessa”
rovina l’idea di una relazione tra soggetto e oggetto tale che l’oggetto vi sarebbe “in ogni istante,
precisamente come il soggetto lo pensa attualmente” (ibidem). Così, anche a proposito delle
strutture della logica pura, “Husserl mette in questione la sovranità della rappresentazione” (ibidem,
p. 148), insomma “ciò che concerne le forme pure di ‘qualcosa in generale’ che non implicano
alcun sentimento, in cui nulla si offre alla volontà e che, tuttavia, rivelano la loro verità solo se
vengono ricollocate nel loro orizzonte” (ibidem). “Superare l’intenzione nell’intenzione stessa”
(ibidem, p. 149); in questo gesto si consuma la rottura con l’ipotesi kantiana nel momento stesso del
suo affacciarsi. Sarà ancora necessario passare dall’idea di orizzonte implicato dall’intenzionalità
all’idea di situazione del soggetto e di soggetto in situazione; ma per lo meno “si apre la strada alla
filosofia del corpo proprio, in cui l’intenzionalità rivela la sua vera natura, poiché il suo movimento
verso il rappresentato si radica in tutti gli orizzonti impliciti — non rappresentati — dell’esistenza
incarnata” (ibidem, p. 150).» (Ricoeur 2004 p.70)
Conclusione realizzata per ripresa e circolare: congiunzione di inizio e fine (il respiro di dio
sulle acque prime, il mondo-della-vita pre-sistema).
Il mondo-della-vita, in quanto nella sua nozione di mondo ospita le direzioni “classiche” del
pensiero (filosofico e no), la natura, la società, la persona, ma le avvicina a partire dal fondamento
materiale e ancora indeterminato di ogni loro possibile tematizzazione e sviluppo, richiama e
rimanda alla situazione delle origini, mitica (quindi sempre presente), di una materialità ancora
indeterminata su cui aleggia con intenti creativi il respiro di Dio (Genesi) o l’arte del Demiurgo
(Timeo); è il mondo-della-vita disponibile alla formalizzazione.
La possibilità di recuperare il proprio respiro culturale contro l’asfissia soffocante dei sistemi teorici
dominanti, irrigiditi dal loro successo, intolleranti e ciechi (pretendono infatti di riferire a sé il
carattere di realtà), è offerta dal ritorno al mondo-della-vita che è certo luogo in cui ciò che è
prodotto nel tempo (e anche in quei sistemi) è conservato ed è patrimonio irrinunciabile scientifico,
sociale e personale di orientamento e di intesa, ma è materiale a disposizione di un camminare; su
quella riserva è il nostro spirito (respiro, anima e vita) che si affaccia e si apre al campo delle
possibilità. Quel mondo della vita assume i tratti di una materialità ancora indeterminata,
disponibile alla formalizzazione come quella prima materia su cui aleggia con intenti creativi il
respiro di Dio (Genesi) o l’arte del Demiurgo (Timeo).
26