Modulo 4: Descrivere ed ordinare le preferenze del

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Modulo 15: L’oligopolio e la concorrenza monopolistica
15.1. Le altre forme di concorrenza imperfetta
In questo modulo concluderemo la discussione intrapresa, relativa ai mercati caratterizzati da
concorrenza imperfetta presentando i casi dell’oligopolio e della concorrenza monopolistica,
ovvero quelle forme di mercato che, come risulterà evidente, meglio di ogni altra che sia
riportata in un manuale di economia si avvicinano ai reali connotati che presentano i mercati
che compongono i sistemi economici moderni.
Definizione 15.1: In un oligopolio la maggior parte delle vendite viene effettuata da poche
imprese, ciascuna in grado di influenzare il prezzo di mercato attraverso le proprie decisioni.
Moltissimi dei mercati all’interno dei quali tutti i giorni “riversiamo” le nostre scelte di
consumo sono sostanzialmente contraddistinti da una condizione di oligopolio. Il settore
automobilistico, quello dei cereali per la prima colazione, quello dei programmi televisivi;
ognuno di questi mercati è dominato da pochi soggetti, i cui nomi ci sono ben noti. Dato che
ogni oligopolista si trova ad affrontare pochi rivali, le sue decisioni hanno solitamente effetti
rilevanti su ciascuno di essi. Nell’intento di massimizzare i propri profitti, egli deve tenere in
considerazione le interazioni con questi soggetti; deve pertanto cercare di prevedere le loro
azioni e le loro reazioni alle decisioni che assume, sapendo peraltro che anche i suoi
competitor si comportano allo stesso modo; ovvero cercano di prevedere le sue azioni e le sue
reazioni alle loro decisioni. Questa fitta rete di interazioni rende estremamente complesso il
problema della massimizzazione del profitto e rende quindi più difficile comprendere il
comportamento dell’oligopolista. La peculiarità della concorrenza monopolistica, al contrario,
si sostanzia nella differenziazione del prodotto.
Definizione 15.2: Nella concorrenza monopolistica, le imprese realizzano prodotti
differenziati. Tali prodotti sono tra loro buoni ma imperfetti sostituti.
La concorrenza monopolistica è particolarmente diffusa nel commercio al dettaglio e nel
settore dei servizi. Nelle grandi città esistono ad esempio molti bar, officine meccaniche,
agenzie immobiliari e parrucchieri, ciascuno dei quali esercita un certo controllo sul proprio
prezzo di vendita. Ma la presenza di molti venditori in questi mercati fa sì che le decisioni
assunte da ciascuno di essi sia difficilmente notata dagli altri, le cui reazioni non costituiscono
quindi un motivo di preoccupazione. Come per la concorrenza perfetta, in concorrenza
monopolistica ciascun partecipante al mercato ritiene, a ragione, di essere troppo piccolo per
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influenzare il comportamento delle altre imprese. Tuttavia gli operatori in concorrenza
monopolistica, a differenza di quelli che agiscono in concorrenza perfetta, godono di una certa
libertà nella determinazione del prezzo.
15.2. L’oligopolio
Nei mercati oligopolistici i comportamenti sono dominati da due forze che agiscono in
direzioni opposte. La prima è l’interesse comune delle imprese alla massimizzazione dei
profitti dell’intero settore attraverso pratiche collusive e azioni concertate, che consentano
loro di comportarsi come un unico monopolista teso alla massimizzazione del profitto.
Definizione 15.3: La collusione è un accordo esplicito o tacito tra le imprese attive in un
settore, accordo relativo alla determinazione dei livelli di produzione e dei prezzi, oppure
inteso a limitare la rivalità tra i concorrenti.
Siamo in presenza di una collusione esplicita quando esiste un accordo effettivo e concreto tra
le imprese, mentre la collusione tacita ha origine da un’intesa non dichiarata apertamente. Al
contrario, si parla di rivalità quando le imprese cercano di strapparsi vicendevolmente quote
di mercato. Si noti che la possibilità di pervenire ad una collusione non elimina sempre e
comunque tutte le forme di rivalità: le imprese in collusione possono infatti accordarsi per
determinare il prezzo (cosa che porta giovamento a tutti), ma non limitare, ad esempio, le
proprie spese in pubblicità o l’introduzione di nuovi prodotti (cosa che porta giovamento solo
alla singola impresa).
La seconda forza che influenza il comportamento degli oligopolisti è l’interesse egoistico
di ogni venditore alla massimizzazione del proprio profitto, anche se ciò potrebbe provocare
una riduzione dei profitti totali del settore. Infatti, è fuori discussione che una grande fetta di
una piccola torta può essere meglio di una piccola fetta di una grande torta. La prima e la
seconda forza danno dunque origine ad un tipica dinamica di mercato oligopolista che può
essere descritta in questo modo. Abbiamo detto che la collusione consente agli oligopolisti di
agire come se fossero un unico soggetto monopolista, sono pertanto in grado di massimizzare
il profitto fissando un prezzo di monopolio superiore al costo marginale (Modulo 14). Questo
tuttavia richiede un rigido controllo dell’accordo collusivo. Per mantenere fisso un
determinato prezzo è necessario che sia prodotta una ben precisa quantità di output totale
all’interno del mercato e che dunque ogni impresa produca una quota ad essa assegnata. A
questo punto si osservi che, una volta fissato il prezzo a livello monopolistico, ciascuna
impresa potrebbe incrementare considerevolmente i propri profitti tradendo l’accordo. In che
modo? Ad esempio, espandendo la produzione oltre la quota assegnatagli, sfruttando l’alto
prezzo monopolistico. Analogamente, riducendo lievemente il prezzo dei propri beni al di
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sotto del prezzo monopolistico si possono sottrarre agli altri soggetti collusi ampie quote di
mercato. La percezione di questi incentivi da parte di ciascuna impresa, tuttavia, tende a far
vacillare l’accordo, comporta una spinta alla riduzione del prezzo di mercato, al limite a livelli
concorrenziali, con il risultato che tutti i venditori stanno peggio che in una situazione in cui i
patti sono mantenuti, sebbene i consumatori e la società nel complesso ne traggono vantaggio.
La possibilità di unirsi per massimizzare il profitto totale del settore conduce comunque gli
oligopolisti a cercare la collusione. Se vi riescono, il mercato in cui operano assomiglia a un
monopolio; eppure, la possibilità per ogni venditore di incrementare la propria frazione dei
profitti del settore attraverso un comportamento di rivalità e di non collusione può spingere
alcune imprese a rifiutare una simile intesa o ad accogliere la tentazione di infrangere gli
accordi collusivi. Se tutti si comportano in modo non collusivo, i profitti di ciascuno
diminuiscono e il prezzo di mercato scende verso il livello concorrenziale. La Figura 15.1
aiuta a schematizzare questa affermazione. È riportata una situazione che in altri contesti è
nota come dilemma del prigioniero e che calza a pennello per spiegare la naturale instabilità
degli accordi collusivi, data dal contrasto tra interesse comune ed egoistico. Si prendano in
considerazione due imprese, A e B. Ciascuna delle due può decidere se adottare la strategia di
fissare un prezzo alto o basso. Se entrambe fissano un prezzo alto, realizzano un profitto pari
a 20 milioni di euro, mentre nel caso di prezzi bassi ottengono 15 milioni. Osserviamo ora che
se l’impresa A fissa un prezzo basso e la B un prezzo alto, nelle casse della prima affluiscono
30 milioni di utile, mentre la seconda otterrà 10 milioni.
Figura 15.1: Dilemma del prigioniero applicato al caso dell’oligopolio
Impresa B
p alto
p basso
Impresa A
p alto
p basso
30
20
20
10
15
10
30
15
Specularmente lo stesso vale per l’impresa B, nel caso in cui fissi un prezzo più basso rispetto
alla A. È evidente che se A e B agiscono di concerto, fisseranno naturalmente un prezzo alto.
Ma cosa accade se ognuna agisce indipendentemente, con l’obiettivo di massimizzare il
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proprio profitto? Se B fissa un prezzo alto, A massimizza i profitti con un prezzo basso. Se B
fissa un prezzo basso, A massimizza i profitti fissando anche in questo caso un prezzo basso.
Ciò significa che, a prescindere dalle decisioni adottate dall’impresa B, la A massimizza il
proprio profitto fissando comunque un prezzo basso. Il calcolo dell’impresa B è esattamente
identico, pertanto anche questa fisserà un prezzo basso. In questo modo, l’equilibrio è
raggiunto nella posizione “A: prezzo basso, B: prezzo basso”. Entrambe ottengono 15 milioni
di profitti ma la situazione di entrambe è peggiore che se fossero riusciti ad agire di concerto
(e soprattutto a mantenere l’accordo rispettandolo). Fortunatamente per loro, sono i
consumatori a trarne vantaggio.
15.3. I diversi comportamenti degli oligopolisti
Come suggerito dalla discussione precedente, gli oligopolisti seguono diversi tipi di
comportamento. In questo paragrafo discuteremo alcuni di questi comportamenti, a
cominciare dalle forme più evidenti di collusione.
La collusione tacita: leadership e stabilità. Visto che solitamente le intese esplicite sui
prezzi raggiunte da gruppi di imprese sono illegali, gli oligopolisti cercano spesso di
cooperare tacitamente, senza concludere accordi espliciti. Questo può avvenire attraverso
l’invio di vari tipi di segnali che le aziende si scambiano reciprocamente. Ad esempio
all’inizio degli anni Cinquanta, negli Stati Uniti, le imprese che producevano cerali per la
prima colazione, si facevano concorrenza inserendo costosi giocattoli all’interno delle
confezioni. Dopo il discorso pronunciato da un dirigente di una grossa impresa, il quale
annunciò che la sua società avrebbe ridotto questa pratica, gli altri produttori si uniformarono
alla scelta e poterono dunque realizzare maggiori profitti risparmiando le spese per i giocattoli.
Un'altra pratica di questo tipo consiste nel comunicare la decisione di aumentare il prezzo con
mesi di anticipo, così da permettere alle altre aziende di manifestare le proprie intenzioni in
proposito. Normalmente, l’impresa che per prima comunica i propri scopi tende ad aggiustare
successivamente le scelte se le altre imprese non adottano variazioni corrispondenti. Un altro
caso simile riguarda i tre maggiori produttori mondiali di sigarette che, dai primi anni Venti
fino alla seconda guerra mondiale, applicarono i medesimi prezzi e riuscirono a evitare
completamente guerre commerciali. Lo strumento adottato, in questo caso, fu la leadership sul
prezzo.1
Definizione 15.4: Nelle situazioni oligopolistiche di leadership sul prezzo, ad una impresa
(leader) viene assegnato tacitamente il ruolo di determinare i prezzi del settore. Le altre
imprese mantengono costanti i prezzi fino a quando l’impresa leader annuncia una
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Fischer, Dornbusch e Schmalensee (1996)
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variazione del proprio; in tal caso esse generalmente la seguono, annunciando una medesima
variazione.
È l’impresa leader a giudicare quando e come dover variare un prezzo. Se la sua valutazione è
corretta, le altre imprese cambiano le proprie mosse e la leader cambia effettivamente il
prezzo nel settore, senza che vi sia stata una vera collusione esplicita. Se le altre imprese non
sono disposte ad adeguarsi, viene posto un veto alla variazione di prezzo, e l’impresa leader
riallinea il proprio comportamento rinunciando all’aumento. L’impresa leader è generalmente
la più grande del settore ma se i suoi annunci vengono troppo spesso bloccati dalle altre
imprese è possibile che ne emerga un’altra. È evidente dunque come nei settori caratterizzati
da queste dinamiche, i prezzi tendono ad essere stabili per periodi relativamente lunghi dato
che l’impresa leader è infatti riluttante a muovere la situazione, perché ciò rischia di
compromettere la sua posizione qualora un annuncio venga bocciato.
La collusione esplicita: i cartelli. Quando le imprese di un settore si incontrano e
raggiungono un accordo esplicito sui prezzi e sulla produzione, formano un cartello. La
costituzione di cartelli è, come abbiamo anticipato, generalmente vietata dalla legge pertanto
si tratta di comportamenti piuttosto rari. Eppure talvolta si formano, e ci può capitare di
leggere alcune notizie del tenore di quella che segue, tratta da Il Sole 24 Ore del 26 febbraio
2009: “L’Antitrust ha multato per complessivi 12,5 milioni il “cartello” delle pasta. Il
Garante ha infatti deliberato che le società [segue un elenco di società del settore] «hanno
posto in essere un’intesa restrittiva della concorrenza finalizzata a concertare gli aumenti del
prezzo di vendita della pasta secca di semola da praticare al settore distributivo»”.
Per comprendere analiticamente il vantaggio di costituire un cartello consideriamo due casi
opposti: innanzitutto supponiamo che un’industria sia costituita da molte imprese
concorrenziali tutte uguali, ciascuna delle quali non fissa il prezzo. Poi ipotizziamo invece che
tutte le imprese si uniscano per formare un cartello. La Figura 15.2 mostra la struttura dei
costi di una impresa singola. La curva di offerta dell’industria, abbiamo visto, è data dalla
somma delle curve di offerta (di costo marginale) di tutte “le singole” imprese operanti
nell’industria. La curva di domanda dell’intera industria è contrassegnata da D. L’output
concorrenziale, che chiameremo QC, è dato dall’intersezione tra la curva di offerta e la curva
di domanda (punto A). Ciascuna singola impresa contribuisce a QC con una quantità qC e il
prezzo di mercato è pC.2 Perché conviene alle imprese costituire un cartello e ridurre l’output
rispetto al livello concorrenziale per esercitare un potere di controllo sul prezzo? Vediamo che
in corrispondenza dell’output concorrenziale il costo marginale del cartello è maggiore dei
ricavi marginali.
2
Denotiamo con Q maiuscolo l’output di mercato per distinguerlo da quello della singola impresa.
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Figura 15.2: Il cartello
Impresa singola
Industria
p
p
Cm
pM
pC
Cm/O
B
C
A
CM
Rm
qM qC qE
q
QM
Qc
D
Q
Pertanto l’interesse del cartello è di ridurre l’output partendo dal livello concorrenziale; ma di
quanto? La risposta è finché i costi marginali non eguagliano i ricavi marginali, condizione
che garantisce la massimizzazione dei profitti. L’output va dunque ridotto fino a raggiungere
QM, decisione questa che spinge il prezzo fino a pM (punto B). Dato che il cartello è composta
da un certo numero di imprese tutte uguali, questo comporta ridurre per ciascuna la propria
produzione fino a qM. A ben vedere, ricordando il modulo precedente, ci troviamo nella
medesima condizione di massimizzazione del profitto del monopolista. Questo traduce la
nostra precedente osservazione: il vantaggio del cartello risiede nella possibilità da parte
delle aziende di comportarsi congiuntamente come se fossero una singola impresa
monopolistica, spartendosi dunque i profitti di monopolio.
Tuttavia, una volta ottenuti i benefici del cartello, si configura chiaramente l’incentivo
della singola impresa a deviare aumentando l’output fino alla condizione di massimizzazione
del “proprio” profitto, ovvero fino a qE, ovvero quel livello di produzione che garantisce
l’uguaglianza tra il prezzo pM e il suo costo marginale (punto C). Questo infatti consente alla
singola impresa di ottenere profitti maggiori di quelli ottenuti dalla spartizione dei profitti di
monopolio derivanti dal cartello. In questo modo viene meno l’elemento fondamentale che
consente al cartello di stare insieme, ovvero il controllo coordinato dell’output che permette di
controllare il prezzo. Quando questo atteggiamento è assunto da tutti i membri, il cartello
vacilla fino a crollare sotto i colpi delle singole scelte delle imprese, ciascuna interessata ad
aumentare per lucrare maggiori profitti dal prezzo monopolistico. Questo riporta la situazione
alla condizione concorrenziale da cui siamo partiti.
La rappresentazione analitica che abbiamo fornito, rivela come la costituzione di cartelli
rappresenti un chiaro vantaggio per chi ne fa parte. Gli incentivi a scartellare sono tuttavia
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notevoli in condizioni normali. A questo proposito, possono essere individuati una serie di
fattori ambientali che facilitano la costituzione e l’attuazione di queste pratiche.



La capacità di aumentare i prezzi dell’industria. Le imprese decidono di
partecipare al cartello solo se sono convinte che quest’ultimo porti ad un aumento del
prezzo e che questo prezzo possa essere mantenuto elevato. La presenza di perfetti
sostituti dei beni prodotti o l’agevole accesso di altre imprese che vogliono giovarsi
della presenza di prezzi elevati sono fattori che impediscono al cartello di disporre di
questa capacità;
Punizioni attese. I cartelli si formano solo se i membri non prevedono che le autorità
governative li individuino e applichino le sanzioni previste dalla legge. L’aspettativa
di pagare multe salate, diminuisce l’incentivo a costituire un accordo di cartello;
Bassi costi organizzativi. Adottare pratiche comuni che permettano di aumentare i
prezzi, senza che inoltre tali accordi siano scoperti dalle autorità, necessita di un
continuo e intenso lavoro organizzativo. Il cartello dunque non verrà costituito se il
costo iniziale di queste azioni di coordinamento è troppo alto. Si noti che in generale,
maggiore è il numero dei partecipanti maggiore è lo sforzo da dover compiere per
coordinare e sintetizzare le singole strategie.
Il cartello moderno più famoso, e per una decina d’anni più funzionante, è stato certamente
quello costituito dall’OPEC, ovvero la Organization of Petroleum Exporting Countries;
l’organizzazione dei paesi esportatori di petrolio. L’OPEC fu istituito nel 1960 ma iniziò
l’attività nel 1973. Successivamente operò come un cartello, attraverso riunioni regolari
dedicate alla determinazioni dei prezzi da praticare sui mercati internazionali. Per un certo
periodo il prezzo mondiale del petrolio è rimasto vicino al prezzo deciso dall’OPEC, ma
all’inizio degli anni Ottanta ha cominciato a scendere e nei primi mesi del 1986 l’accordo
dell’OPEC sui prezzi è crollato. Cosa è avvenuto? Il cartello mostrò capacità di riuscita
relativamente alle due note crisi petrolifere del 1973-1974 e nel 1979-1980. Con la politica di
controllo della produzione, gli introiti dei paesi OPEC, nel decennio scarso tra il 1973 e il
1980, aumentarono del 340%. All’indomani dei primi aumenti di prezzo, molti economisti si
dissero certi che l’accordo di cartello non avrebbe retto davanti agli incentivi che i membri
dell’OPEC avevano nello scartellare. In un primo momento questo non avvenne. Si ritiene
che ciò sia stato dovuto al ruolo dominante svolto dall’Arabia Saudita. Ma i paesi OPEC non
erano certamente i soli ad esportare petrolio. Intorno agli anni Ottanta, nell’intento di trarre
vantaggio dai prezzi alti, i paesi non-OPEC (Stati Uniti, Gran Bretagna, Messico, Norvegia e
l’allora Unione Sovietica) aumentarono notevolmente la produzione per incrementare i propri
profitti. Questo indusse i paesi OPEC a ridurre di quasi il 45% la propria produzione (80% nel
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caso dell’Arabia Saudita) al fine di tenere alto il prezzo del petrolio e non farlo crollare a
seguito della sovrapproduzione. Nei primi mesi del 1986 l’Arabia Saudita comprese che
l’accordo di cartello non rispondeva più ai propri interessi e decise di incrementare la
produzione, facendo crollare il prezzo del petrolio. 3
15.4. La concorrenza monopolistica
Volgiamo ora l’attenzione all’elemento della differenziazione del prodotto. Abbiamo detto
che la teoria della concorrenza monopolistica descrive una situazione in cui sono presenti
numerosi beni e ciascuna impresa produce un bene che è uno stretto sostituto degli altri.
Pensiamo per esempio a imprese che competono vendendo, entro un ambito spaziale limitato,
servizi leggermente differenti tra loro; oppure che producano varietà molto simili di beni.
Tutti sanno che la pasta è buona, ma non tutti sono d’accordo su quale sia la migliore. La
curva di domanda di ciascun pastificio è pertanto inclinata negativamente. Il fatto che la curva
di domanda di ogni singola impresa sia a pendenza negativa, in ragione della differenziazione
del prodotto, è l’elemento che contraddistingue la concorrenza monopolistica dalla
concorrenza perfetta. 4 Se una impresa che opera in regime di concorrenza monopolistica
abbassa il prezzo, la quantità domandata del suo prodotto aumenta, perché alcuni consumatori
abbandonano i prodotti di altri suoi concorrenti per rivolgersi ai prodotti di quell’impresa. Ma
dato che i prodotti sono tra loro differenziati, non tutti i consumatori decideranno per questo
cambiamento di rotta, come avverrebbe in condizione di concorrenza perfetta. In concorrenza
monopolistica, una impresa può variare il prezzo per massimizzare i profitti, ma dato che
ciascuna impresa è troppo piccola per influenzare in misura determinante il mercato, ognuna
ritiene che i concorrenti non reagiscano alle proprie decisioni di prezzo.
Consideriamo il caso di un settore con un numero fisso di imprese. Come nel caso del
monopolio, ciascuna impresa si comporta da monopolista; considera la propria domanda
(inclinata negativamente) come data e sceglie il prezzo con cui massimizza il profitto. Nel
breve periodo questo permette ad ogni impresa di realizzare profitti positivi. In Figura
15.3/sinistra, questi sono rappresentati dall’area del rettangolo contraddistinto con la lettera A
(area in verde). Il problema si pone in modo assai differente guardando al lungo periodo, dato
che nessuno impedisce l’entrata di nuove imprese concorrenti. La curva di domanda di ogni
impresa, in concorrenza monopolistica, dipende dal numero, oltre che dal prezzo, dei sostituti
del suo prodotto. Tanto maggiore è il numero di questo tipo di beni, tanto minori sono i loro
prezzi, tanto più ridotta è la domanda del prodotto di una impresa. Se nel breve periodo le
imprese esistenti stanno conseguendo profitti, altre imprese cercheranno di entrare nel settore.
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Fischer, Dornbusch e Schmalensee (1996)
Si invita a ragionare su come venga meno in questo caso il presupposto di omogeneità dei beni di un mercato
concorrenziale.
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Figura 15.3: La concorrenza monopolistica
Breve periodo
Lungo periodo
p
p
Cm
pE
Cm
CM
CM
pE=CM
A
Rm
qE
D
Rm
q
qE
D
q
Pur con prodotti differenziati, nuove imprese saranno attratte, almeno, fintanto che le imprese
in attività ottengono dei profitti. Con l’ingresso dei concorrenti e l’aumento del numero dei
beni sostituti disponibili, le curve di domanda delle imprese esistenti si spostano verso sinistra
(Figura 15.3/destra). L’ingresso di concorrenti continua fino a quando tutte le imprese sono
state spinte al livello di profitto nullo, in altri termini quando il prezzo eguaglia il costo medio.
Data la nuova curva di domanda, l’impresa per massimizzare il profitto, produce il nuovo
livello di output qE, sempre relativamente all’uguaglianza tra ricavo marginale e costo
marginale. Il prezzo fissato, pE è maggiore del costo marginale ma i profitti realizzati
dall’impresa sono comunque nulli, dato che la curva di domanda è tangente alla curva del
costo medio. Questo determina il blocco dell’afflusso di nuovi concorrenti.
15.5. Considerazioni conclusive
Disporre di una grande varietà di prodotti, richiede processi molto costosi: la società pertanto
deve scegliere di produrre solo una parte dell’enorme numero di beni e servizi concepibili.
Esaminiamo un gruppo di beni teoricamente producibili che siano sostituti l’uno con l’altro e
immaginiamo che esistano rendimenti di scala crescenti per bassi livelli di produzione (come
abbiamo ipotizzato fin dalla teoria della produzione nel Modulo 7.). Se producessimo una
ampissima varietà di beni, i costi di produzione sarebbero molto alti, perché riusciremmo a
realizzare solo quantità limitate e non otterremmo completamente il beneficio delle economie
di scala. Nella maggior parte dei mercati è probabilmente più utile limitare il numero di beni
prodotti, bilanciando queste scelte con lo sfruttamento delle economie di scala, che
consentono di produrre quantità notevoli di ogni bene a costi medi inferiori. La teoria della
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concorrenza monopolistica illustra quindi il trade-off tra varietà e contenimento dei costi. In
concorrenza monopolistica, l’equilibrio di lungo periodo del mercato si colloca nel punto in
corrispondenza del quale ciascuna impresa pratica un prezzo pari al costo medio, ma il costo
medio non è al suo livello minimo, che sappiamo essere la condizione di equilibrio di lungo
periodo nel caso della concorrenza perfetta, e si verifica nel punto in cui costo medio e
marginale si incontrano (si veda la Figura 15.3). Inoltre, il prezzo supera il costo marginale.
Se un numero minore di imprese realizzasse livelli produttivi più elevati, e fissasse un prezzo
pari al costo medio, i prezzi e i costi unitari sarebbero più bassi; ma esisterebbe una minore
varietà rispetto a quella che caratterizza il punto di equilibrio della concorrenza monopolistica
e non dobbiamo dimenticare che i consumatori assegnano un certo valore sia alla varietà che
all’esistenza di prezzi bassi.
Le economie di mercato riescono a guidare la giusta scelta tra maggiore varietà e minori
costi unitari? Guardando nei negozi non si può non pensare, a volte, che la varietà sia
eccessiva, che i produttori sprechino risorse per produrre molti tipi quasi identici di alcuni
prodotti. Tuttavia gli studiosi delle discipline economiche non sono stati in grado di dire se la
varietà prodotta sia troppa o troppo poca. Con l’aumento delle dimensioni di un mercato, si
riducono i costi necessari per assicurare una data varietà di prodotti. La crescita dell’economia
e l’aumento della ricchezza degli abitanti, rendono utile ampliare la varietà perché cresce la
domanda di tutti i beni. In un paese molto povero, in molti mercati può esserci domanda
sufficiente ad acquistare la produzione di una sola impresa (monopolio). Con la crescita
dell’economia, e la conseguente espansione della domanda dei consumatori, c’è spazio per
l’ingresso di altre imprese e le strutture di mercato si evolvono verso la concorrenza
monopolistica, offrendo ai consumatori i benefici della varietà.
La varietà è spesso sostenuta e alimentata nelle preferenze dei consumatori attraverso la
pubblicità. La pubblicità locale viene acquistata soprattutto dai dettaglianti, la pubblicità
nazionale da produttori e imprese di servizi il cui campo d’azione si estende su tutto il paese.
È difficile argomentare teorie generali in tema di pubblicità, dato che questa si esplica sotto
forme molto diverse tra loro. Gran parte della pubblicità che vediamo in televisione sembra
puro spreco di denaro e non contenere alcuna informazione utile sul prodotto pubblicizzato.
D’altro canto, molta pubblicità fornisce informazioni sulla disponibilità e sui prezzi dei beni e
servizi, per ottenere le quali i consumatori dovrebbero altrimenti investire risorse. Sembra che
in alcuni mercati la pubblicità faccia addirittura lievitare i prezzi. Il detersivo per i piatti che
non è pubblicizzato viene infatti venduto ad un prezzo inferiore rispetto ai prodotti di uguale
composizione che tuttavia sono oggetto di promozione pubblicitaria. In altri casi, però, la
pubblicità serve al consumatore per identificare e valutare i prodotti concorrenti, e quindi
tende a ridurre i prezzi.
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Un tema cruciale e molto discusso a vari livelli è se e quanto la pubblicità sia in grado di
influenzare i gusti dei consumatori. È davvero la pubblicità, come molti sostengono, a farci
diventare gli “avidi consumatori” che siamo, nonostante le nostre naturali inclinazioni?
Oppure è semplicemente la natura umana che lascia spazio ai cosiddetti bisogni indotti e ci
rende consumatori di beni anche superflui? 5 La pubblicità segue o provoca i cambiamenti
della società? Sono domande importanti, perché solitamente noi giudichiamo un sistema
economico in base alla sua capacità di soddisfare i nostri bisogni. Ma se una funzione del
sistema è quella di creare i nostri desideri, non ci reca molto conforto sapere che questi
desideri sono soddisfatti attraverso un mercato che alloca in maniera efficiente domanda e
offerta. Se siamo indotti ad acquistare un telefono cellulare che sia in grado di emettere 150
suonerie differenti da una campagna pubblicitaria che ci fa credere che sia irrinunciabile per
la nostra esistenza, probabilmente non ci interessa la capacità dell’economia di offrirci questo
bene. Come il monopolio e l’oligopolio, e a differenza della concorrenza perfetta, anche la
concorrenza monopolistica non conduce ad una allocazione delle risorse interamente
efficiente.6
5
6
Cfr. Modulo 1, pag. 3.
Fischer, Dornbusch e Schmalensee (1996).