Dibattito sul forum con il professor Pierluigi Lecis All'inizio della sua spiegazione, ha dato per scontato che la genetica in negativo, ossia levare determinate predisposizioni a malattie genetiche, non crea problemi a livello morale, in quanto questa genetica in negativo è ben vista da tutti... ma è proprio così? E se la futura "creatura" invece non fosse d'accordo perchè magari ritiene che soffrire (per una qualsiasi malattia) sia una cosa necessaria (per esempio, in una persona fortemente cristiana, in cui la componente della sofferenza è presente)? Inoltre, sempre ricollegandoci a ciò, chi è l'autorità che può ritenere di sapere e decidere il volere della futura "creatura"? Domanda posta da Claudio Andrea Saiu, liceo scientifico A. Pacinotti Questa prima domanda è molto interessante; posso ribadire che in generale la terapia genica non suscita obiezioni etiche e controversie di principio. Tutte le posizioni accreditate nel dibattito bioetico, compresa quella di Habermas, considerano moralmente accettabile la terapia genica somatica (su cellule somatiche già 'specializzate', per esempio del midollo osseo, presenti nell'adulto); neppure l'ipotesi di terapia genica per via germinale suscita obiezioni di principio, nonostante sia assai più delicata, e ben lontana da un livello di sperimentazione che consenta di applicarla all'uomo. Anche nel mondo cattolico, dal quale provengono le maggiori riserve e cautele, non ci sono condanne o chiusure pregiudiziali. La terapia genica germinale è quella più carica di insidie in quanto praticata sulle prime cellule non ancora differenziate dell'embrione (quelle totipotenti, capaci di generare non solo cellule specializzate dei vari tessuti e organi, ma anche le cellule germinali, responsabili della riproduzione, dunque atte a trasmettere anche all'eventuale prole il tratto genetico manipolato a scopo terapeutico). L'etica cattolica, pur tra diverse sfumature e orientamenti, pone però un vincolo ed un dovere assoluto, il rispetto della sacralità della vita dal momento del concepimento e la considerazione dell'embrione come persona, soggetto del diritto inviolabile a non essere manipolato come semplice 'materiale biologico' per esperimenti che ne mettano a rischio la sopravvivenza o l'identità genetica individuale. Non è lecita la produzione di embrioni per scopi sperimentali, commerciali o industriali, ma è lecito l'intervento volto a tutelare la salute o la vita sugli embrioni. La questione circa il significato cristiano della sofferenza dunque non va posta a questo livello (mi pare che non lo faccia nessuna delle varianti del pensiero cristiano); qui il problema vero è la difficoltà di distinguere nei casi concreti la genetica terapeutica da quella migliorativa. Come ho detto anche nella conversazione, il nodo è molto grosso e le cristalline distinzioni concettuali, di Habermas o di altri, in questo non sono risolutive. La linea tra genetica negativa e positiva non è netta né sicura. Questa è una difficoltà obiettiva delle posizioni deontologiche, che vogliono difendere principi assolutamente vincolanti partendo da concetti generali. Lo stesso problema della sofferenza assume rilievo se collegato alla domanda su chi ha l'autorità di stabilire, anche per altri, di giudicare che cosa è una vita meritevole di essere vissuta; non è facile spiegare perché qualcuno possa interpretare o anticipare la volontà del nascituro a questo riguardo. Il criterio del consenso virtuale e anticipato in base ai 'nostri' criteri attuali, entro certi limiti più sostenibile per il caso di malattie gravissime, se applicato alla domanda su che cosa sia una vita meritevole di essere vissuta (con o senza malattie) è facilmente esposto all'accusa di un paternalismo che certo viola il principio di reciprocità delle relazioni interpersonali. Avrei una domanda per il prof. Lecis. Habermas fa suo il razionalismo di Kant. Salva la moralità kantiana tenendo conto delle critiche. Quali sono queste critiche e in che modo ne tiene conto? Domanda posta da Francesca Isola, liceo scientifico A. Pacinotti La domanda di Francesca è molto 'intrigante'; anche se non è di taglio bioetico, è filosofica a tutto tondo e porta su questioni molto importanti. Tenterò di fare un quadro sintetico. La morale dell'imperativo categorico ha subito sollevato obiezioni contro il suo formalismo (le più forti e sistematiche da parte di Hegel) e il suo fondarsi esclusivamente sull'intenzione del soggetto. La legge morale è 'vuota', non ci dice che cosa è giusto, doveroso o buono in concreto. Ci dice solo di agire come se la massima della nostra azione dovesse valere come legge universale. Perciò non può dare risposte in caso di conflitto tra norme o valori coinvolti nella stessa situazione (come nell'esempio che ho citato a Villacidro: non mentire, non tradire gli amici, intese come principi assoluti, da rispettare sempre e comunque, ci porterebbero a situazioni insolubili, in cui qualunque scelta risulterebbe moralmente criticabile o inaccettabile. Anche l'interpretazione della sacrosanta norma 'non uccidere' creerebbe forti difficoltà nel quadro di questa concezione). Un altro punto di discussione e critica ricorrente è il rigorismo kantiano; un'azione è moralmente significativa solo se condotta con l'intenzione di obbedire ad una pura legge razionale, indipendente da qualunque inclinazione, motivazione, interesse 'soggettivo'. Non rubare per paura dei carabinieri, non è un'azione morale (è solo legale, conforme al diritto penale). A molti questa è sembrata una morale per 'arcangeli', non per uomini concreti, in carne ed ossa, nella pienezza della loro vita ed anche una forma di falsa autonomia morale; il suo presupposto è una scissione netta ed un conflitto insanabile tra ragione e impulsi, un dualismo (con radici platoniche) tra il mondo sensibile-fenomenico e il mondo intelligibile, tra vita naturale e vita morale dell'uomo. Ne deriva l'immagine di un uomo non integro e veramente autonomo, ma diviso, lacerato tra due 'regni' inconciliabili: alla fine la ragione, proprio in quanto comanda e impone doveri assoluti, non è che un nuovo padrone dell'uomo, questa volta interno, non più esterno; essa non fa che 'interiorizzare' la dipendenza dell'uomo da potenze che lo rendono schiavo e impoveriscono la sua vita. Lo stesso ideale di autonomia del soggetto morale che Kant teorizzava (nella legge morale io mi autodetermino mediante la ragione) risulterebbe compromesso da questa nuova forma di repressione interna delle energie vitali dell'individuo, e sconfinerebbe in una forma mascherata di servitù. Devo sorvolare sulle implicazioni di queste critiche nel pensiero contemporaneo, da Nietzsche a Freud, per non farla troppo lunga ed arrivare per questa via sino a Habermas. Il quale ha tenuto ampiamente conto di queste critiche, ma ha dato particolare rilievo ad un'altro carattere e limite della morale kantiana, il suo fondamentale individualismo. La elaborazione della legge morale e la giustificazione della sua universalità è descritta da Kant come un processo strettamente 'monologico', cioè non dialogico: la ragione è una facoltà individuale capace per se stessa di determinare la volontà, il volere razionale che guida l'azione morale può essere costruito in foro interno. L'interazione tra molti soggetti, la sfera delle relazioni intersoggettive (interpersonali) non è un fattore costitutivo delle decisioni morali; l'individuo può arrivare da solo alla scelta giusta e alla scoperta del suo dovere morale, la ricerca del consenso e dell'intesa con altri è semmai una conseguenza, ma non una condizione necessaria per fondare le norme morali. Ora, come abbiamo visto dalla distinzione tra agire strategico e agire comunicativo, un ideale dialogico e comunicativo è alla base dell'etica di Habermas; il quale perciò propone un'interpretazione riformata dell'imperativo categorico come test di universalizzabilità delle norme morali. Quando una norma o un'azione sono giuste? quando si fondano sull'intesa comunicativa, cioè sul consenso razionale, liberamente espresso da tutti gli interessati, da tutti i soggetti coinvolti, attraverso un processo di comunicazione simmetrica, senza posizioni dominanti e senza inganno reciproco. La ragione non è una facoltà individuale, ma un processo dialogico e argomentativo in cui si cerca di comunicare per stabilire intese mediante l'argomentazione migliore (dunque in un processo non compromesso da differenze di potere e da calcoli egoistici di interesse 'orientati al successo'; non sviluppato secondo il modello delle azioni 'strategiche', in cui si usano cose, eventi e persone come mezzi utili o efficaci per realizzare scopi 'privati'). La formazione della legge morale è un processo non interno ad ogni individuo, ma pubblico e discorsivo (basato sulla regola del discorso pratico: tra tesi rivali 'vince' quella meglio argomentata e informata). L'etica del genere umano di Habermas si basa su due punti fondamentali: - l'idea di poter essere se stessi che ci rimanda alle argomentazioni di Kierkegaard - l'idea di relazioni interpersonali simmetriche e paritetiche. E' sufficientemente argomentata? Ed inoltre non potrebbe essere argomentata in un altro modo più realistico (esempio il più forte sul più debole)? Domanda posta da Roberta Podda, liceo scientifico A. Pacinotti La domanda di Roberta può essere, a dire il vero, interpretata in diversi modi, ma in ogni caso apre un terreno invitante, suddiviso in due aree subordinate. Provo a scegliere la linea che mi sembra utile per una risposta unitaria. Certo la proposta di un'etica di genere è criticabile e probabilmente Habermas non la argomenta in modo esauriente o esente da obiezioni. Si può dubitare che esista un'etica di genere che metta in luce principi validi per tutti gli uomini in quanto tali (e non in quanto appartenenti ad una certa comunità o contesto storico-culturale). Alimentano questo dubbio tutte le tesi relativistiche e antinaturalistiche (in gran parte provenienti dal campo delle scienze etnoantropologiche), per le quali norme e valori morali sono strettamente dipendenti dal particolare ambiente in cui si formano e non possono valere al di fuori dei suoi confini. In questa prospettiva le differenze etiche (di giudizio e di comportamento morale) sono decisamente più importanti delle somiglianze tra individui e popoli. La posizione di Habermas è che, al di là delle differenze storicoculturali, l'approccio dialogico dell'etica comunicativa consente comunque di stabilire razionalmente e in maniera vincolante come meglio giustificati i principi umanistici di un'etica di genere che tutela l'indisponibilità della vita, anche della vita embrionale, contro usi puramente strumentali volti a soddisfare scopi e calcoli di interesse egoistico. Mediante un processo discorsivo-argomentativo pubblico volto a stabilire intese motivate da buone ragioni, non dalla forza e dall'inganno o manipolazione delle coscienze, si possono stabilire e giustificare razionalmente principi e diritti universalmente validi ed estensibili a tutti gli uomini. Questa posizione si contrappone nettamente ad ogni argomento antiegualitario, fosse pure basato sulla presunta differenza naturale (comunque intesa) tra il più forte e il più debole. Sono molti i sostenitori della 'legge del più forte' (dal Trasimaco della Repubblica di Platone all'amoralismo di Nietzsche - che però è una posizione molto complessa e meriterebbe un'analisi a parte, a varie forme di darwinismo sociale, alle ideologie razziste nel XIX e XX secolo); spesso si appellano ad una legge di natura che giustificherebbe la disuguaglianza in quanto il più forte è il più adatto alla sopravvivenza nella lotta per la vita, il più adatto al comando etc. Dalla natura o da situazioni di fatto come la disuguaglianza politica tra chi governa e chi è governato si ricaverebbe la definizione di ciò che è giusto o buono e doveroso. Questa tesi nasconde un 'trucco': per stabilire che cosa è giusto e ha valore, non basta descrivere ciò che avviene in natura o anche nella società. Ciò che presentiamo come una semplice descrizione contiene già una nascosta valutazione positiva, un'approvazione di ciò che descriviamo come naturale. Insomma volgiamo solo 'santificare' come naturale ciò che a noi sembra giusto e positivo. Dire che cosa avviene o anche spiegarne le cause non è la stessa cosa che 'giustificarlo' o dire che è giusto buono, che incarna un valore. Per stabilire un valore occorre esibire ragioni e non semplicemente descrivere uno stato di fatto e le sue cause. Che la capacità di adattamento, la 'forza' biologica o comunque la superiore capacità di sopravvivenza non siano criteri per giudicare il valore di un'azione o di una persona può essere argomentato in molti modi. Ne cito uno che mi sembra efficace e interessante, basato su un'ipotesi realistica: dopo una catastrofe nucleare, gli scarafaggi, per la loro resistenza alle radiazioni nucleari, risulterebbero certamente più forti e adatti alla sopravvivenza rispetto agli uomini. Credo che non molti di noi sarebbero disposti a sostenere che questo è un criterio per giudicare il valore degli scarafaggi rispetto agli uomini. In generale, non è affatto detto che ciò che meglio si conforma a leggi naturali evolutive sia anche giusto, doveroso e buono, o dotato di valore morale. L'esempio è paradossale, ma mi sembra molto efficace nel mostrare, contro i 'naturalisti', che la forza e la capacità di sopravvivenza non sono automaticamente, da sole, un valore; e che per attribuire valore (morale, religioso, politico, artistico etc.) ad una cosa, ad un'azione, ad una persona, non basta descrivere come è fatta o come si è formata e sopravvive nel suo ambiente. Bisogna anche prendere posizione in base ad altri criteri e fonti di giudizio. vorrei sapere su quali argomentazioni di Kierkegaard si fonda l'idea di poter essere se stessi di Habermas e perché si fonda su tali argomentazioni. Domanda posta da Nicole Orrù, liceo scientifico A. Pacinotti Vorrei anche io chiedere delucidazioni in merito alla trattazione fatta da Habermas alle pp. 9 e 10 dell'etica kierkegaardiana, da lui definita nel contempo religioso-teologica e postmetafisica. Domanda posta da Ettore Martinez, professore del liceo scientifico A. Pacinotti Il testo di Habermas (alle pp. 9 e sgg. della prima conferenza, dal titolo Astensione giustificata) affronta chiaramente la questione del poter-essere-se-stessi in Kierkegaard. Con intuizione teorica acuta e anticipatrice, il filosofo danese formula un concetto oggi ancora molto influente, in piena epoca post-metafisica, dice Habermas. In senso stretto epoca post-metafisica è quella in cui la filosofia e le grandi religioni universali (cristianesimo, islamismo, induismo etc.) non sono più in grado di fornire un'immagine del mondo che assicura risposte universalmente condivise nel campo della conoscenza, della morale e dei valori in genere. Viviamo in un'epoca di pluralismo etico e comunicazione globale, in società multiculturali in cui si incontrano e si scontrano diverse visioni della vita, della società, della storia. Non ci sono giudici imparziali, istanze o autorità superiori in grado di dire in concreto che cosa è giusto, bene, bello, vero; meno che mai ha compiti 'fondazionali' così forti la filosofia, che in passato ha invece esercitato questa pretesa sotto forma di dottrina dell'essere e dei suoi principi ultimi (tradizione aristotelica, per esempio), o sotto forma di critica della ragione, con i suoi principi universali e necessari (tradizione kantiana). Oggi la 'ragione' deve essere più cauta e può al massimo indicare le forme procedurali di una discussione in cui liberamente, per quanto possibile, senza dominio e senza inganno, si confrontano diverse immagini del mondo, tradizioni culturali, scelte morali. La filosofia può dire come comunicare (discutere) razionalmente su ciò che è vero, buono, bello etc., come risolvere razionalmente, con la più libera e spregiudicata discussione pubblica i conflitti, senza l'uso della forza o dell'inganno, con risorse argomentative e buone ragioni; ma non può asserire direttamente che cosa è concretamente vero, giusto o buono. Che cosa ha a che fare Kierkegaard con tutto ciò? Le sue tesi sono un tassello importante di un'etica post-metafisica, anche se avvolte in una forma decisamente teologica e legate alla forza di una genuina esperienza religiosa, non meramente intellettuale. L'idea del poter-essere-se-stessi è l'idea che l'individuo possa scegliere se stesso, progettare e costruire la sua storia di vita, assumersi in prima persona il carico di obblighi e responsabilità verso altri, decidere che cosa vuol essere, fare e divenire, secondo una sua misura individuale, che lo fa diverso da tutti gli altri. Possiamo distinguere tre aspetti di questa scelta: 1) la decisione su ciò che vuole essere è autonoma, ma non meramente conoscitiva, implica un impegno, un mettersi in gioco di tutta la persona, non solo delle possibilità di comprensione razionale. Conta la dimensione affettiva, le emozioni, il senso di colpa, la disperazione, l'angoscia; 2) la scelta implica un momento di radicale interiorità e solitudine, un ritrarsi dell'individuo in se stesso, in cui vengono meno tutti gli appigli esterni, come convenzioni, tradizioni, costumi, legami comunitari; 3) la scelta non è puramente soggettiva ed arbitraria, non ha il carattere di un capriccio contingente e mutevole di cui non si risponde che a se stessi. Si tratta di una scelta responsabile che trova sfondo e forza nell'esperienza religiosa. La relazione creaturale con Dio, vissuta in questa atmosfera, diversa dall'afferrare razionalmente una verità o una legge, di impegno totale, emozionale e pratico, rischioso, senza garanzie di riuscita, non diminuisce, ma garantisce e rende possibile l'autonomia e la libertà della scelta. Conta non tanto il contenuto, ma la forma, il modo della scelta, che è quello di un'assunzione in prima persona di decisioni e responsabilità; senza conformarsi passivamente e in modo meccanico ad un ordine o disegno esterno precostituito, ad un disegno pre-stabilito, ad una forza esterna superiore, la società, le tendenze del corso storico etc. Dio non offre di queste garanzie, lascia l'uomo libero di fronte alle sue responsabilità, nell'orizzonte anche drammatico del possibile, di possibilità tra cui dobbiamo scegliere in modo autentico, cioè autonomo, senza protezioni. Dobbiamo rispondere di persona, attivamente di ciò che decidiamo di essere. La scelta etica, tanto più se rafforzata e stabilizzata da un genuino rapporto con il trascendente ha altre interessanti implicazioni 'esistenziali': essa comporta un salto di qualità radicale nel nostro modo di essere. La scelta ci fa uscire da una vita dispersa, frammentata e dominata dalle routine, in cui lasciarsi andare passivamente, conformisticamente alle spinte esterne, agli eventi che si succedono e ci colpiscono casualmente, alle cose così come vengono; e ci traspone in una dimensione in cui invece le cose, gli eventi, gli incontri con altri assumono un senso unitario, in base al piano di vita che ci diamo. La nostra vita non è un'accozzaglia casuale di eventi, ma una storia in cui le varie parti si raccordano fra loro con una certa coerenza secondo una certa direzione, una vicenda il cui senso dipende da noi, da come accettiamo, interpretiamo il nostro passato e vi innestiamo un progetto aperto sul futuro, su che cosa vogliamo essere. Il fattore tempo (la direzione che collega il nostro passato, il presente ed il futuro tramite le nostre decisioni) diventa molto importante nello sviluppo di una vita che non ci è imposta, ma al contrario costruiamo attivamente. Kierkegaard (in Aut Aut, per esempio) delinea così in chiave filosofico-teologica un ideale morale di autonomia e autorealizzazione della persona che può confluire, secondo Habermas, nella prima componente di un'etica comunicativa radicata in un'etica di genere: la componente per cui ci sentiamo 'autori indivisi' della nostra storia di vita, attivi e responsabili, non condizionati da disegni, decisioni o interferenze esterne, tanto meno da decisioni eugenetiche unilaterali e irreversibili di genitori o medici che violino la spontaneità del nostro sviluppo biologico prenatale. Naturalmente Habermas non accetta il fondo teologico dell'etica kierkegaardiana, ma non lo considera incompatibile con la sua posizione laica circa l'intuizione morale di noi stessi come persone autonome. Si può laicamente sostenere che l'individuo si trova a dover scegliere se stesso attivamente e responsabilmente di fronte all'insieme intersoggettivamente condiviso di credenze e valori che la comunità gli trasmette attraverso i diversi meccanismi di socializzazione, a cominciare dall'apprendimento linguistico. L'individuo moralmente autonomo deve rilegittimare, fare suoi e scegliere consapevolmente i contenuti della tradizione, oppure modificarli, criticarli e respingerli: dipende solo da lui fare scelte autentiche e responsabili e realizzare un suo stile individuale nel quadro della vita in comune. Nessuna scelta naturalmente avviene in uno spazio socialmente e culturalmente vuoto; la nostra libertà non è assoluta, e di fronte al quadro della vita comune abbiamo lo stesso tipo di responsabilità che l'individuo kierkegaardiano si prende di fronte al suo dio.