III Capitolo terzo Commenti e interpretazioni sul problema del Mitsein dopo Essere e tempo 3.1 Intorno a Sein und Zeit In Logik. Die Frage nach der Wahrheit1, vale a dire nel corso di lezioni marburghesi del 1925/26, Heidegger descrive l’aver cura degli altri negli stessi termini di Sein und Zeit. Tra la dimensione inautentica e quella autentica della stessa Fürsorge, e cioè tra la sostituzione dominate della cura dell’altro e la riconsegna dell’altro alla sua determinata cura “liberante” si rende visibile il tentativo dell’autore di fondare ontologicamente la possibilità stessa del vivere autentico con gli altri. “Nel con-essere con gli altri, nel comportamento fondamentale dell’aver-cura [..] bisogna rilevare una fondamentale differenza: l’aver cura può comportarsi in modo tale da togliere all’altro la cura e da mettersi prendendosi cura di lui, al suo posto. Questo comporta che l’altro rinunci a se stesso e si ritiri per accettare quel che gli è stato procurato. [..] Indichiamo questo aver-cura come l’aver-cura subentrante sostituente-alleggerente e dominante. In contrapposizione ad esso, c’è un con-essere con l’altro che non ne prende il posto, né lo sostituisce nella sua situazione o nel suo compito, né lo alleggerisce nelle sue responsabilità, ma lo presuppone con riguardo, per non togliergli la cura, per non sottrarlo cioè a se stesso, al suo esserci più proprio, 1 Trad. it. di M. Ugazio, Logica e il problema della verità, , Mursia, Milano 1986. 188 III anzi per ridargli tutto questo; questo aver-cura non è dominante, ma liberante.”2 Se consideriamo il Mitsein come la struttura fondamentale del preoccuparsi per altri quotidiano e quindi della cura in generale, possiamo definirlo condizione di possibilità, ontologicamente fondata, di una cura inautentica dell’altro. Se infatti il Mitsein rappresenta ancora la relazione quotidiana e anonima, “a cui abbiamo dato il nome di contrapposizione misurante [Abständigkeit]”3 il Mitdasein non può che riferirsi ad un tipo di rapporto autentico con gli altri. La Fürsorge però presenta al suo interno una bidimensionalità intrinseca che la porta per un verso vicina ad un con-essere (Mitsein) inautentico e per altro verso prossima ad un conesserci (Mitdasein) attinente alla sfera dell’autenticità e all’unica forma possibile di relazione “vera” all’altro, che si da nel rispetto del suo essere. Ci siamo già accorti che il Mitsein “inautentico” non corrisponde mai al semplice aver a che fare con le cose, ma si riferisce ad un modo particolare di relazione agli altri in cui già a partire da un ente ritrovo gli altri, come quel «verso cui» l’ente è, all’interno di un «mondo» che resta un esistenziale, essendo appunto una “totalità di rimandi”. Il Mitdasein a sua volta non coincide completamente con l’ambito dell’autenticità e quindi con una dimensione d’intersoggettività positiva in cui ogni Dasein si rapporta agli altri e ne coglie la ricchezza ontologica. Il Mitdasein, che riguarda esclusivamente la relazione ad altri, non emerge innanzitutto e per lo più nel Dasein, ma si scopre sempre, a partire da un altro Dasein. L’esserci riesce a svelarsi a se stesso dopo aver compiuto questo passaggio dall’altro a sé. Il mio 2 3 . M.Heidegger Logik. Die Frage nach der Wahrheit Gesamgaustabe 21, p.148. SuZ,§27, p.163. 189 III essere passa attraverso quel riferimento ultimo della totalità di rimandi costituito dall’altro esserci. Quando Heidegger parla di Mitdasein fa necessariamente riferimento a questa transizione nell’alterità d’altri che è anche la constatazione fondamentale della strutturale relazionalità del Dasein. In Sein und Zeit abbiamo visto come l’apertura intersoggettiva del Mitdasein venga presa in considerazione sotto forma di nesso discorsivo. Il con-esserci diventa qui condizione di possibilità del parlare gli uni agli altri. Heidegger interpreta come con-esserci l’elemento ontologico fondamentale della comunicazione tra un esserci e un altro. In altri termini Heidegger individua una connessione “d’essere” strettissima tra il Mitdasein e la capacità discorsiva. Lo stesso nesso intrinseco tra questi due elementi viene evidenziato anche in Logik. Die Frage nach der Wahrheit come un collegamento che esclude che nel parlare con altri si realizzi una trasmissione di vissuti coscienziali dall’interno di un mondo soggettivo di un individuo verso l’interno di un altro mondo soggettivo di un altro uomo. Il con-essere è già presente in una situazione emotiva comune (Mitbefindlichkeit) ed in una comprensione comune (Mitverstehen). Al «ci» dell’esserci corrisponde il «con»del conessere. Il Mitsein in questo senso acquista un valore propedeutico al’acquisizione dell’autenticità propria del Mitdasein. La condizione di possibilità del discorso e quindi dell’apertura agli altri è data da questo intrinseco rapporto del Mitsein alla cura, e di questa al mondo. La possibilità di dialogare con gli altri fornisce la chiave ontologica per il costituirsi autonomo di relazioni comunicative tra esserci diversi. E per di più è proprio l’articolazione del linguaggio che comporta un essere assieme comprendente che sviluppa la compartecipazione (Teilung) delle differenti situazioni emotive e delle comprensioni specifiche di ciascun esserci. 190 III “L’essenza più propria di quel che si trova nella cura da cui parte la comunicazione, proprio nella cura non è procurabile, ma è pro-curato ogni volta da un altro esserci inteso come cura. Quindi [..] il modo d’essere dell’esserci da cui parte la comunicazione non è un esser-presso, ma un essere-con, una cura condivisa (Mitsorge), più esattamente una cura per, un aver-cura (Fürsorge).”4 Ciò di cui posso parlare con altri mi viene anch’esso procurato dagli altri, come ciò di cui mi curo mi viene esplicitato, chiarito e definito a partire da quell’ultimo rinvio offertomi dalla totalità dei rimandi, che è l’esserci che io non sono, l’altro. Non si tratta quindi di costruire delle categorie a priori kantiane, ma di strutturare in maniera fenomenologica le possibilità che rendono verosimile un con-essere con gli altri che escluda la possibilità di ogni forma di solipsismo. Ci è possibile parlare con gli altri infatti su di un determinato ente perché in quanto esserci siamo già emotivamente situati rispetto a quell’ente, o meglio all’essere di quell’ente, e abbiamo perciò la possibilità dell’apertura ermeneutica di una comprensione comune dello stesso ente o sullo stesso ente. In base al nostro essere in relazione all’ente nella cura, e nel con-essere con l’altro a cui si parla, il nostro interlocutore intrattiene il più delle volte già con l’ente una relazione similare alla mia. E pertanto si trova già in una posizione d’apertura verso di me, verso ciò che io gli dico. Non solo riguardo alle cose, ma anche nei confronti degli altri in quanto Fürsorge, la nostra cura può essere in grado di cogliere il vero, l’essenza dell’esserci, solo a posteriori, e in base a un di più che viene dall’altro esserci. Infatti ciò che rende possibile l’aver cura non è procurabile dal di dentro della stessa cura, a partire da sé, ma ci viene sempre procurato ogni volta che un altro esserci con la sua propria cura, 4 Ivi, p.147. 191 III entra in relazione alla cura del mio essere, vale a dire nell’effettivo incontro. Ho bisogno dell’altro, in sintesi, per capire me stesso, il mondo e l’altro nella sua alterità. Heidegger attribuisce a questo passaggio teoretico un fondamento ontologico che è appunto il con-esserci, quale caratteristica costitutiva non del singolo Dasein preso da solo, bensì nel suo riferimento imprescindibile all’altro esserci come lui. Il Miteinandersprechen di Sein und Zeit è un far sì che si veda insieme, comunicando l’un l’altro, l’ente nella sua determinatezza. E l’ente a cui ci si riferisce non è un oggetto ma è il sé dell’esserci che parla e che si determina soltanto dopo, in seconda battuta, rispetto alla compartecipante comunicazione con l’altro. Si può invece scadere nella chiacchiera quando ad affiorare non è l’essenza dell’ente, ma solo una pretesa di verità, che in realtà nasconde un’incolmabile distanza dalla verità stessa. Contrapposta alla chiacchiera è in Sein und Zeit il silenzio, di cui Heidegger parla nei termini di una libera assunzione del “linguaggio senza parole” che rende evidente la relazione soggiacente con l’altro. “Il silenzio come modo del discorso articola così originariamente la comprensibilità dell’esserci, che da esso trae origine il poter sentire genuino e il poter essere-assieme trasparente.”5 In un corso tenuto a Marburgo poco tempo dopo la pubblicazione di Sein und Zeit nel semestre estivo del 1928, Metaphysische Anfangsgrunde der Logik im Ausgang von Leibniz6, Heidegger si sofferma a discutere la dualità del rapporto Io/Tu. La differenza esistente tra i due poli della relazione in questione nasconde una fondamentale indifferenza 5 6 Heidegger; SuZ. cit. pp. 208-209. GA 26, trad. it. di G. Moretto, Principi Metafisici della logica, Il Melangolo, Genova, 1990. 192 III di senso, una neutralità originaria. Tale indifferenziazione scaturisce dal «Mit» del Mitsein che è ciò che costituisce il nesso tra un Dasein ed un altro Dasein. In questa uguaglianza di principio non si riscontra, almeno in partenza, nessuna forma d’inautenticità, ma un esclusivo modo d’accoglimento dell’altro da parte del soggetto, che nell’accogliere dà inizio anche a se stesso. L’ipseità diventa questo terreno di base comune ad ogni Dasein, questa neutralità di partenza che definisce il Dasein come “voce media”. “L’essere-io non denota affatto l’Io effettivo in quanto distinto dal Tu, l’egoità invece denota quell’essere-io che sta alla base anche del tu e che impedisce proprio di concepire effettivamente il Tu come un alter ego.[..] Per questo per indicare l’esser-io, l’egoità metafisica, io mi servo per lo più dell’espressione ipseità. L’ipse infatti può essere detto alla stessa maniera dell’Io e del Tu: «Io stesso», «Tu stesso».[..] Più volte, fin quasi alla noia, è stato sottolineato che questo ente in quanto esserci è già sempre con altri e già sempre presso l’ente di carattere diverso dall’esserci.[..] Nel proprio scegliere se stesso l’esserci sceglie precisamente il proprio con-essere con gli altri e il proprio essere presso enti diversi dall’esserci. Nell’esplicito scegliere-se-stesso si ha, quanto all’essenza, il pieno auto impegno [..] in quanto esiste.[..] Solo perché in virtù della sua ipseità, può scegliere espressamente se stesso, l’esserci può impegnarsi in favore dell’altro, e solo perché nell’essere per se stesso, può in generale comprendere qualcosa come l’ipse, l’esserci può semplicemente ascoltare un Tu-stesso”7 . Heidegger sembra qui dimostrare il carattere ontologicamente altruistico dell’essenza umana, infatti dal fatto che nel cogliere se stesso ogni esserci non può non cogliere anche gli altri consegue che l’egoismo è costitutivamente impossibile almeno in questo primo momento di confusione dagli altri. Se l’ipseità, che è un qualcosa di comune con gli altri, è ciò che ci vincola al nostro essere autentico o inautentico (che sia), nel possibile gioco di scelte che il nostro essere nel mondo ci offre, significa 7 Ivi, p. 223. 193 III che originariamente non esiste nessun Io e nessun Tu, ma che la differenziazione costituisce un adeguamento quasi dettato dal bisogno di rispondere in prima persona dello stato di cose. Nel momento in cui nasce l’Io si trova a dover fare i conti con se stesso, col mondo e con gli altri, non può astenersi dalla Cura di queste tre dimensioni che sono tutte legate tra loro. L’ipseità pura, metafisica, ha una funzione necessaria per l’impegno sociale della propria egoità in chiave esistenziale. Per promuovere le proprie idee si ha bisogno di pensare responsabilmente in prima persona, al singolare verso il plurale, senza lasciarsi coinvolgere da ciò che gli altri dicono in coro. Solo perché l’esserci esiste come ipseità, è possibile che esso formi una comunità di uomini con-appartenenti l’uno all’altro, non estranei, ma mossi dagli stessi impegni nei confronti della propria cura. Nella sezione seconda di questo corso che s’intitola il problema del fondamento troviamo una parte dedicata al fenomeno del mondo [Das Phänomen der welt], interna al §11; La trascendenza dell’esserci [Die trascenszendez des Dasein]. Qui mi sembra interessante sottolineare l’insistenza heideggeriana nell’esplicitare quanto viene designato con il termine mondo. Per perseguire quest’obiettivo Heidegger si propone di dare uno sguardo alla storia del concetto di mondo, attraverso la quale spera divenga comprensibile la polivalenza sua caratteristica. “Se guardiamo alla filosofia antica, e precisamente ai suoi inizi decisivi (Parmenide ed Eraclito), ci imbattiamo subito in qualcosa di sorprendente. L’espressione greca per indicare il mondo è Кóσμος.[..] che significa «stato», è il termine per indicare il modo d’essere e non l’ente stesso.[…] Nella prima lettera ai Corinzi e in quella ai Galati, quando Paolo parla di mondo vuole dire lo stato e la condizione degli uomini, il modo della loro esistenza e precisamente il loro atteggiamento nei confronti dei beni e delle opere.[…] Secondo Agostino il termine mundus sta per mundi habitatores, gli abitanti del mondo, coloro che si sistemano in esso, ciò però in generale non significa 194 III soltanto che oltre ai monti ed ai fiumi ci sono pure essi, ma questo sistemarsiin è determinato primariamente da certi atteggiamenti fondamentali, da valutazioni, modi di comportarsi e di prendere le cose, dalla «disposizione». 8 Tutto ciò ha il carattere propedeutico alla comprensione dell’esistenziale essere-nel-mondo dell’esserci. Il mondo significa non le cose, non gli enti materiali, bensì lo stato in cui gli uomini si trovano, e le condizioni in cui si vengono a trovare, che comprende anche il loro modo di rapportarsi all’ente. Prima d’intraprendere le analisi di altri testi heideggeriani che cronologicamente seguono Essere e tempo, mi sembra utile prendere in considerazione qui brevemente la concezione di Franco Chiereghin9, il quale soffermandosi sul movimento teoretico del lasciar essere heideggeriano scopre la presenza del Mitsein. “Il lasciar essere infatti non è il puro vuoto conseguente all’estinzione di ogni determinare e di ogni recettività: lasciar essere non significa porsi come uno spettatore indifferente all’alterno avvicendarsi degli oggetti. Lasciar essere è disporsi liberamente all’accesso di qualcosa e, altrettanto liberamente, predisporre la forma che rende possibile l’accesso” 10. In altri termini si tratta di vedere e di scoprire qualcosa che già esiste, che c’è, ma la cui sola presenza non può rendersi manifesta a partire da sé. Infatti l’esserci può riuscire ad ignorare costantemente, anzi è così che avviene il più delle volte, la verità che resta nascosta, vivendo tutta la vita nelle regioni “indiscusse” del quotidiano prendersi cura. In assenza di costrizione quindi assumersi la responsabilità di una scelta volontaria, verso un cambiamento di direzione o verso un 8 Ivi, pp. 203-206. Franco Chiereghin Il problema della verità in Martin Heidegger, Lezioni marburghesi del 1925/26 (Logik. Die Frage nach Wahrheit) e Sein und Zeit; §Libertà e sottomissione (229-233) Edizioni Nuova Vita, Padova, 1982. 10 Ivi, p.231 9 195 III possibile capovolgimento d’orizzonte coincide con l’atto stesso di sottomissione alla scelta. “Liberamente non significa arbitrariamente, ma risolversi a fare agire la condizione dell’accedere-a e insieme sottomettersi ad essa. Tale condizione deve innanzitutto rendere comprensibile non tanto lo stato di presenza immediata dell’oggetto, ma ciò a cui questa rinvia necessariamente[..].La forma a cui il lasciar essere si sottopone liberamente mira a quel nulla di oggettualità che non è l’oggetto prima del suo essere accessibile, né dopo che si è reso accessibile, ma che è il punto in cui non è più un nulla, e tuttavia non è ancora. Tale punto è ciò che è stato individuato come il passare dall’una all’altra delle due opposte determinazioni” 11. Questi passi mi servono per chiarire in che senso Heidegger parli del silenzio, come ciò che offre la possibilità di intravedere il durchsichtige Miteinandersein; vale a dire l’essere assieme trasparente, autentico, privo di vuota chiacchiera, inutili equivoci o semplice curiosità. Lo stare a sentirsi reciproco nel vero discorso, nel parlare autentico, permette un infiltrarsi di silenzi densi di significato che pur essendo senza parole dicono qualcosa. Il momento del passaggio dall’oggettivazione della proposizione al “nulla” di una nuova formulazione che però non è ancora diventata frase permette di sentire l’autentico silenzio, che mette a tacere l’un con l’altro inautentico dell’indifferenza reciproca o della mera presa in considerazione dell’altro, da parte dell’uno, come semplice presenza utilizzabile nel mondo. Assumere su di sé consapevolmente, secondo Chiereghin, la possibilità del darsi del passaggio, del radicale cambiamento di stato, dalla quotidianità inautentica alla comprensione veritativa del con-essere autentico, significa anche essere chiamato ad assumere determinati atteggiamenti pubblici nei confronti degli altri. Una volta che si sceglie liberamente di vivere nell’autentico bisogna saperne assumere il peso, anche se, come 11 Ibidem. 196 III ricorda Chiereghin, Heidegger non parla mai esplicitamente di un’etica intersoggettiva. Gli altri così concepiti non sono più coloro che vengono a procurarmi fastidi e a chiedermi di sostituirli nella loro cura (Fürsorge inautentica), bensì sono coloro che costituiscono per me sempre un incipit per una vita nuova, il punto zero per instaurare nuove connessioni storicolinguistiche, e che in più permettono di lasciar essere il mio essere nella piena consapevolezza di ciò che è, essendo responsabili a loro volta della loro Sorge, e di ciò che questo atto di scelta comporta. Secondo Nancy invece in Heidegger è indubbia la presenza di un'etica, perché altrimenti non si spiegherebbe in che senso sia possibile l'apertura al darsi dell'essere nell'agire pratico. “L'apertura del fare senso è radicalmente impossibile in un modo solipsista. [...] quale che sia la scelta morale, l'altro è essenziale all'apertura. E questa è essenziale al senso che, a sua volta, è l'essenziale dell'agire che fa l'essenza dell'essere”12. In L’etica originaria di Heidegger Nancy stesso scrive infatti: “Certamente l’etica heideggeriana è ben lontana dal mettere l’accento sull’essere il ci con altri che è essenzialmente co-implicato nell’esistenza secondo Essere e tempo [..]. A rigore l’analisi dovrebbe spingersi fino alla singolarità plurale come condizione dell’ek-sistenza. Questa singolarità non è quella dell’individuo, ma quella di ogni evento d’essere nello stesso individuo e nello stesso gruppo”13. 12 J. L. Nancy, L'etica originaria op. cit. Ivi, p.46. Secondo Nancy Heidegger avrebbe dovuto riscrivere un’analitica dell’esserci partendo dal fenomeno del Mitsein, infatti ancora: “Poiché la differenza tra l’essere e l’ente non è una differenza d’essere (non è la differenza tra due generi d’essere dell’ente), essa non è neppure una differenza tra due realtà, ma è la realtà del Dasein in quanto questo è in se stesso, da se stesso, aperto e chiamato ad una relazione essenziale e attiva con il proprio fatto d’essere. La differenza è attiva o pratica; forse è la praxis stessa.[..] Bisognerà portare al linguaggio anche l’essere o il se stesso etico dell’ente non umano. In ogni modo portare al linguaggio è inseparabile da un certo modo di comunicare su cui però Heidegger non si ferma. Non si tratta della comunicazione del messaggio, ma di quella del fare senso in comune. L’etica è il fare senso: Si potrebbe dire che l’etica sarebbe fatica piuttosto che semantica”, p.48. 13 197 III Secondo Nancy in Heidegger, come in Kant, non c’è alcun tipo di soggettivismo, non c’è nessuna libertà di scegliere soggettiva, in cui il bene sia la stessa libertà di scegliere del soggetto. La libertà dell’esserci consiste invece nella sua dignità, nel dover impegnare in ogni sua scelta, ciò che si può chiamare l’oggettività dell’essere (e di conseguenza l’umanità e il mondo) Infatti: “la dignità propria dell’uomo, quella che non dipende da nessuna valutazione soggettiva, deriva dal fatto che l’essere gli si consegna, esponendosi come l’apertura del fare senso. L’uomo non è più né il figlio di Dio né il fine della natura, né il soggetto della storia[..]è l’esistente in cui l’essere si espone come fare-senso”14. Il pensiero di Heidegger anche secondo Ricoeur rientra nell’ambito di un approccio ontologico non privo di sguardo etico nel rapporto con l’alterità, ma malgrado ciò carente nella dimensione morale. La mancanza di tale dimensione è dovuta non al fatto che l’io non tolleri d’uscire al di fuori di sé, e non instauri rapporti con gli altri, ma al fatto che si tratta di un io che non si atteggia con responsabilità personale nei confronti del mondo. L’esserci di Heidegger è già nel mondo, ontologicamente e originariamente, come con-essere. Il conessere è fenomeno originario: pertanto l’apertura heideggeriana all’ intersoggettività deve essere intesa come «un modo d’essere originariamente esistenziale che “sin dal principio” originariamente rende possibile e costituisce in generale la relazione con gli altri». Il Dasein di Heidegger, pur non delineandosi dichiaratamente come persona che dimora nello spazio dell’etica e dell’azione, dimora nel logos, in uno spazio linguistico in cui la voce dell’io non è «straniera» per l’altro. 14 Ivi, pp. 24-26. 198 III Si tratta di una mondo linguistico intersoggettivo condiviso, che però secondo Ricoeur ha più a che fare con la sfera dell’inautentico, che con quella dell’autenticità. La dimensione etica è, secondo Ricoeur, in Heidegger inibita dalla relazione ontologica. Questa situazione di paradosso non può esimerci dal riconoscere la forza della fondazione ontologica della relazione etica in Heidegger. Resta il fatto che proprio questa fortissima radicazione ontologica finisce per opprimere il dispiegamento di una dimensione di responsabilità e decisione per il bene. Così infatti Ricoeur domanda sul come discernere la dimensione dell’autenticità da quella dell’inautenticità: “Ora come distinguere l’inautentico dall’autentico? Attraverso il rapporto che l’inautentico ha con il prendersi cura quotidiano (Besorgen) e che l’autentico ha con la cura (Sorge). Nella cura sta il filo conduttore dell’intera analitica dell’Esserci, e della cura possiamo dire che essa è, senza difficoltà, eticoontologica. Sebbene l’accento principale cada sull’ontologia […] non si può negare che questa ontologia della cura abbia una dimensione etica.” 15 La Selbstständigkeit richiama secondo Ricoeur l’autonomia morale di Kant, senza che per ciò Heidegger le conferisca quella priorità pratica nella quotidianità che invece noi lettori ci aspetteremmo. La visione di Ricoeur diventa rilevante per la mia tesi perché come egli stesso dichiara: “Quando Heidegger caratterizza l’esserci come l’essere nel quale ne va della questione dell’essere, egli implica che questo essere sia costituito in modo tale da potersi disinteressare della questione dell’essere. E da qui egli giunge ben presto alla distinzione etica per eccellenza tra autenticità (Eigentlichkeit) ed inautenticità (Uneigentlichkeit)”16. 15 Paul Ricoeur Il problema etico in Essere e tempo, in Heidegger in discussione, a cura di Franco Bianco, Franco Angeli Milano 1992, p.51. 16 Ivi, p.51. 199 III L’ontologia heideggeriana non svilupperebbe però fino in fondo la dimensione etica dell’intersoggettività, perché egli stesso sostiene con forza che non bisogna moralizzare questa distinzione, ma in realtà così dicendo limita la sua stessa analisi sull’esserci. Come nota in modo molto acuto Ricoeur sembra quasi che Heidegger aprendo la strada ad un’etica non tematizzata precluda una morale tematizzata, e sembra che non si soffermi su di essa come un’etica perché la consideri come intrinsecamente legata alla struttura costitutivo - esistenziale della Sorge. 200 III 3.2 Un passo avanti dopo Essere e tempo In Die Grundprobleme der Phänomenologie: I problemi fondamentali della fenomenologia del 1927, Heidegger scrive: “Abbiamo visto in precedenza che l’esserci si comprende anzitutto e per lo più a partire dalle cose; insieme a ciò è compreso anche il con-esserci di altri. Nei rapporti di appagatività è già insita la comprensione del poter-essere dell’esserci come con-esserci con gli altri. L’esserci in quanto tale è essenzialmente aperto al con-esserci di altri. L’esserci fattuale, esplicitamente o meno, è in vista del poter essere-assieme [Miteinander-seinkönnens]. Questo però è possibile soltanto perché l’esserci come tale è per natura determinato dal con-essere con altri Quando diciamo che l’esserci è «in vista di se stesso» noi forniamo una determinazione ontologica dell’esistenza. Questa proposizione esistenziale non pregiudica ancora nulla delle possibilità esistentive.”17 Ciò significa che lo scopo fattuale del Dasein non consiste nell’occuparsi esclusivamente di sé, ma che ontologicamente il suo essere deve autocomprendersi nel se stesso più proprio, ma che per riuscirci ha bisogno degli altri. Solo perché è tale costitutivamente, può con-essere autenticamente con altri esserci, “ solo per questo un altro esserci”, per cui a sua volta ne va del proprio essere, può trovarsi “essenzialmente in un rapporto esistentivo con altri” che supera il carattere del “quotidiano avere a che fare con” per diventare originaria relazione intersoggettiva tra due esserci differenti. “L’esserci non si mantiene anzitutto presso le cose per poi in seguito scoprire in modo casuale tra di esse un ente col suo stesso modo d’essere: al contrario l’esserci in quanto ente per cui ne va di se stesso è co-originariamente conessere con gli altri oltre che un essere presso gli enti intramondani in 17 M. Heidegger; Die Grundprobleme der Phänomenologie op. cit. pp. 419-420 [trad. it p.283]. 201 III generale. Il modo con cui l’esserci incontra questo esserci che è, muove a partire da un mondo già da sempre condiviso con gli altri che è di per sé in ultima istanza gli altri. Il Mitdasein è proprio questa modalità d’incontro. Solo perché l’esserci è costituito preliminarmente dall’essere nel mondo,e dal con-esserci, esso può in modo esistentivo comunicare di fatto qualcosa ad un altro, ma non è valido il passaggio inverso: non è questa fattuale comunicazione esistentiva ciò che permette ad un esserci di avere un mondo in comune con un altro. I diversi modi dell’essere-assieme fattuale costituiscono volta a volta soltanto le possibilità fattuali per l’apertura, più o meno vasta ed autentica del mondo, determinano le diverse possibilità fattuali [faktischen Möglichkeiten] della verifica intersoggettiva [intersubjektiven Bewährung] di ciò che è scoperto e della legittimazione intersoggettiva [intersubjektiven Begründung] dell’accordo [Einstimmigkeit] che caratterizza la comprensione del mondo, e infine stabiliscono le possibilità fattuali per prospettare e indirizzare le possibilità esistentive del singolo Dasein. D’altro canto, non a caso noi abbiamo chiarito ciò che vuol dire mondo in senso ontologico movendo anzitutto dall’ente intramondano, alla cui sfera non appartengono solo l’utilizzabile ed il sussistente ma secondo una comprensione ingenua anche l’esserci di altri. I nostri simili sono anch’essi sussistenti, anch’essi costituiscono il mondo.”18 Qui di seguito Heidegger riprende il concetto paolino di kosmos, secondo cui il mondo esiste solo se l’uomo «ci è». E così continua: “solo in quanto il soggetto è determinato dall’essere nel mondo esso può essere come se stesso, divenire un tu per un altro. Solo perché sono un me stesso esistente posso essere un tu per un altro come se-stesso. La determinazione fondamentale della possibilità del se stesso, l’essere un possibile tu nel con essere con altri si fonda sul fatto che l’esserci come quel se stesso che esso è, è tale da esistere come essere nel mondo. Se la relazione io-tu rappresenta un rapporto privilegiato in seno all’esistenza, essa non può esser conosciuta in modo esistenziale[..] fintantoché non ci si chiede che cosa significhi esistenza in generale”19. 18 19 Ivi, pp.421-422[tr. it. pp.284-285]. Ivi, p. 422 [tr. it. p.285]. 202 III Tutto ciò costituisce un tassello fondamentale per Heideggger per spiegare che l’esserci non è innanzitutto un io-stesso, ma la sua ipseità è fondata sulla trascendenza del suo potersi perdersi o possedersi. Essendo, in altri termini, inizialmente un essere nel mondo in quanto cura questo è “il presupposto perché l’esserci sia con-essere con gli altri nel senso in cui l’io stesso è insieme al tu-stesso. L’esserci non esiste dapprima in qualche modo misterioso per poi compiere l’oltrepassamento al di là di se stesso in direzione di altri o verso un sussistente, ma esistere significa già sempre oltrepassare, o meglio aver oltrepassato. L’esserci è trascendente. [..] La trascendenza al di là dell’esserci, fa sì che esso si rapporti all’ente, si tratti del sussistente, di altri o di se stesso, in quanto ente.” 20 La cura è in sé la trascendenza dell’esserci, il suo essere intersoggettivo, quasi con un carattere pre-ontologico che si rivela solo nel momento della consapevolezza che apre l’esserci all’autenticità, e anche al poter-essere proprio degli altri, non prima né dopo. Hans-Georg Gadamer è uno dei pochi discepoli di Heidegger che ha notato la ricchezza del Mitdasein, e la sua apertura all’alterità. Egli si sofferma a lungo sul concetto d’intersoggettività in Verità e Metodo, la sua opera maggiore, e considera la tematica intersoggettiva una problematica di fondamentale importanza per i suoi tempi, che una volta “entrata nella coscienza comune” grazie al “grande programma husserliano della fenomenologia trascendentale” non ne è più uscita, pur avendo subito con Heidegger una sferzata critica difficilmente superabile. Così Gadamer infatti dichiara: “La critica di Heidegger era la più radicale.[..] Essa riguardava il concetto stesso del fenomeno e della datità corporale dell’oggetto della percezione, 20 Ivi, p. 426[tr. it. p. 287]. 203 III poiché questa viene riferita in ultima analisi, in Husserl, alla certezza apodittica dell’autocoscienza”21. In altre parole Heidegger critica il nocciolo stesso dell’intersoggettività considerandola una soggettività allo specchio, che portava a vedere l’altro esclusivamente come una limitazione di se stesso, e conduceva soltanto ad un rafforzamento dell’io contro l’altro se stesso, alter ego. Anche l’altro rappresenta dunque un semplice oggetto percettivo assimilabile alla fine all’autocoscienza soggettiva. Il concetto di “intersoggettività” agli occhi di Heidegger deriva nel suo stesso contenuto semantico moderno dal medesimo pregiudizio che radica l’essere nella soggettività,e si lega con un debito necessario a tale pregiudizio, sviluppatosi a partire da un impianto latente già nell’ontologia greca (un’ontologia della presenza) esaltato poi, nella sua forza teoretica, da un altro pregiudizio ancora, fornito dal cartesianesimo e dal “postulato della misurabilità della scienza moderna”. Con l’introduzione del concetto della Vorhandenheit, dell’essere semplicemente presente dell’oggetto, del suo essere di fronte a nostra disposizione, e soprattutto con la messa in discussione di questa attraverso la Zuhandenheit, il concetto dell’essere alla mano dell’oggetto, Heidegger riesce ad oltrepassare li impianto husserliano. Perché, se spiegare l’intersoggettività di Husserl, significa ricorrere ad una soggettività imprescindibile, Heidegger elimina il problema alla radice, limando la soggettività del soggetto, de-costruendola. Il soggetto come sappiamo, diventa Dasein, essere nel mondo e con-essere, e si preoccupa della sua Cura che lo libera, se autentica, da una vita anonima tale da appartenere alla sfera della pura presenza. Gadamer inoltre dà risalto alla vicinanza teorica di Heidegger 21 Gadamer, Verità e Metodo 2, § 16, Soggettività e intersoggettività; soggetto e persona (1975) pp.185/208, p.190. 204 III con Agostino, per quanto riguarda l’orizzonte temporale dell’esserci che ne influenza l’essere stesso. “Come Agostino Heidegger crede che l’ora già non è, perché già nella sua identificazione essa si è tolta in quanto passato”. E ciò avviene anche nella coscienza: l’essere dell’esserci non consiste nel tentativo di portarsi di fronte a se stesso nella presa di coscienza di sé, ma è sempre l’essersi già speso nel presente, pur nel suo non esser dato, del futuro. Ciò significa che il soggetto non è in grado di autodefinizioni o di raggiungere una pienezza tale da sentirsi completo in tutto e per tutto, ma esso vive sempre nell’incertezza del domani e del non sapere cosa succederà. Esiste pertanto una esteriorità interna alla vita stessa: ed è l’essere stesso, nella sua più profonda radice, che rende ogni esserci altro da sé, già in sé. “Dapprima sembra che in Essere e tempo l’intersoggettività sia solo un fenomeno marginale nell’autentico modo di essere dell’esserci, e che cada sotto il verdetto dell’inautenticità, della chiacchiera, del man, del “si”, e che trovi quindi il proprio luogo nella tendenza allo scadimento dell’esserci”22: ma in realtà questa è solo una strategia di denuncia dell’impostazione dell’intersoggettività secondo il vecchio modello husserliano. Per escludere il problema inutile e fallimentare della soggettività del soggetto è necessario eliminare alla radice anche quello dell’intersoggettività. Si può parlare di Cura ma non d’intersoggettività, di amore e conessere ma non di inter-relazioni tra soggetti, essendo stati questi già da tutto principio de-soggettivizzati. Nella sfera dell’autentico non si può parlare d’intersoggettività, ma solo nel 22 Ivi, p.192. 205 III “si”, nel mondo della chiacchiera in cui si può parlare di soggetto come di un esistente conforme a quanto si dice di esso. “Ciò non vuole essere certamente una svalutazione del mondo sociale, ma vuole solo far capire che non è un mondo veramente comune quello che si presenta semplicemente nella forma della chiacchiera , del “si”, ecc.; che tutto questo rappresenta invece una forma di scadimento, in cui si nasconde la radicale singolarità del morire e la vera comunanza che si stabilisce con esso.”23 In altre parole esiste una maniera di stare insieme che è aperta dall’esperienza anticipata della morte, e che apre una comunanza autentica con l’altro, non dettata dalla pietà o dalla preoccupazione ma dalla cura che libera [freigebende], e che ci rende compartecipi di una stessa possibilità a-venire che rimuove alla radice il mondo inautentico del Man. Proprio per scardinare il sistema in cui tutti si è insieme ma non sul serio, non veramente, Heidegger, secondo Gadamer, è quasi costretto a prendere poco in considerazione l’altro, in nome della Geworfenheit, come progetto gettato a-venire. La sua stessa avvertenza critica diventa dunque agli occhi di Gadamer, il difetto che ha impedito uno sviluppo adeguato di una intuizione di per sé assai ricca. Secondo Gadamer occorre, in sintesi, andar più a fondo nel tema della finitezza per scorgere il tema dell’alterità: ”Non si tratta solo del fatto che ciascuno è, in via di principio, un essere limitato. Si tratta piuttosto del perché io esperisca la mia propria limitatezza nella contrapposizione dell’altro, e debba continuamente imparare ad esperirla, se debbo poter essere nella condizione di superare i miei limiti”. 24 23 24 Ivi, p.194. Ivi, p.196. 206 III Nella relazione all’altro, e all’alterità in quanto tale, si sviluppa nell’esserci una presa di coscienza della propria limitatezza che è però essa stessa condizione di possibilità del superamento di questi stessi limiti grazie principalmente ad un essere necessariamente condizionato ad imparare continuamente di nuovo dall’esterno,e mai dall’interno del sé. A questa esplicitazione, Heidegger non sarebbe mai giunto. Occorre però dire che, per esempio, in Einleitung in die Philosophie, che corrisponde al corso di lezioni tenute a Friburgo nel semestre invernale del 1928/29 il carattere ontologico del Mitsein viene ripesato da Heidegger fino a rivelarne il carattere puramente interpersonale e a esplicitarne la specifica relazione tra l’io e il tu. Viene infatti ripresa con insistenza la differenza tra il mero stare acconto delle cose (Nebeneinaidersein) e l’essere l’uno con l’altro degli uomini (Miteinandersein) con un esempio molto calzante. Se due escursionisti dopo una salita in montagna si trovassero a contemplare due vette all’orizzonte, non si può di certo sostenere che la vicinanza di queste tra loro sia la stessa di quella dei due uomini. Essendo infatti la prima esclusivamente spaziale non si può assolutamente paragonare alla vicinanza di carattere emotivo degli escursionisti. L’esser con degli uomini tra loro non è assimilabile dunque all’esser-presso degli enti intramondani. Qui Heidegger giunge a dire che l’esser-presso delle cose in un orizzonte comune con noi e anche con gli altri esserci, non può prescindere dalla mediazione della modalità d’incontro con gli altri, perché le cose non possono essere presso tra loro, ma hanno bisogno di un qualcuno che le posizioni attribuendo loro determinati significati o valori, come mezzo per, strumento di o utensile atto a. In modo sorprendente viene qui avanzata l’ipotesi dallo stesso Heidegger che il Mitsein primeggi sull’essere presso degli enti. E per dire ciò Heidegger 207 III utilizza esattamente il termine primato (Vorrang) ad indicare la differenza di livello tra i due ambiti. Per avvalorare la sua intuizione accenna brevissimamente al comportamento degli uomini primitivi che non attribuiscono significati pratici alle cose come siamo abituati a vedere nel mondo attuale, ma personificano spesso la natura, vale a dire si relazionano ad essa a partire da una relazione interpersonale, rivolgendosi ad essa come se questa stessa potesse rispondere. Si viene a creare in questo modo una relazione intersoggettiva a tutti gli effetti. Heidegger sembra smentire in questo modo l’accusa di solipsismo di cui fu sarà fatto oggetto a proposito di Sein und Zeit, innestando nella struttura del Mitsein la dimensione interpersonale che sembrava non essere stata posta sotto la giusta luce in Sein und Zeit. Il problema del Miteinadersein sembra godere qui infatti di una maggiore considerazione da parte di Heidegger. Il suo sottolineare che l’uomo primitivo prima di instaurare un rapporto di tipo strumentale con le cose, istituisce con le cose, una relazione interpersonale come se queste fossero degli esseri viventi personificati, basterebbe a dimostrare che la dimensione che fa da sostrato all’essenza stessa di ogni tipo di essere-con, o di Mitsein, che dir si voglia, è sempre un Miteinandersein. Già Aristotele, come ci ricorda Heidegger in questo testo, parlava dell’uomo come zõon politikòn, come quell’essere vivente che per essere ciò che è vive in comunità con altri esseri umani come lui. Nietzsche invece parlava dell’essere umano come di un animale da gregge per evidenziare quest’aspetto comunitario che svilirebbe il singolo nella sua identità e dignità. Dal punto di vista ontologico, secondo Heidegger, non ci si è mai preoccupati di trattare il problema del relazionarsi dei soggetti tra loro. Chi lo problematizzò per la prima volta fu Leibniz nella Monadologia. In breve Heidegger si serve di Leibniz per far emergere più 208 III chiaramente la determinazione del concetto di Miteinandersein, opponendo a questo il concetto di commercium tra due o più monadi. Leibniz giunge, dalla sua, ad una peculiare concezione del reciproco relazionarsi delle monadi come di sostanze, ognuna delle quali pur essendo identica a se stessa si muove verso l’altra differente da sé i grazia di una vis25 sua propria. Monade infatti significa in greco monas, unità, singolarità, semplicità e quindi anche identità. Il commercio con l’altra monade non è altro che l’assecondare un impulso, un appetito già presente in essa, che la mantiene in unità anche nel rapporto stesso con un'altra monade. Ecco perché ogni monade a partire dal suo specifico punto di vista è in sé già l’universo, essa racchiude in sé il movimento della sostanza del Subiectum, di ciò che giace sotto, che sta in fondo e che lo rende identico a se stesso. Se la monade di Leibniz è un mondo concentrato perché configura l’intero, l’esserci non riceve alcunché dall’esterno non può accogliere in sé nessuna forma di immedesimazione ad un’altra monade, e non ha neppure bisogno di finestre per comunicare con l’esterno, perché si trova già all’esterno. L’esserci non presenta un dentro a cui poter contrapporre un fuori, a si trova già per natura fuori. Si tratta qui di esplicitare una impostazione de-costruttiva della soggettività dell’io, che però non lascia il Dasein abbandonato nel non-senso, ma fa leva sul Miteinandersein come quella struttura pregna di significati comuni, i quali a loro volta come per il neokantismo non si appoggiano mai su determinazioni di carattere psicologico ma su originarie relazioni intersoggettive dalle quali solo a posteriori possono nascere atteggiamenti di genere altruistici o egoistici. Per spiegare bene cosa voglia dire, Heidegger si spinge a dire che anche la differenza maschile/femminile se considerata Più esattamente nell’impulso la monade si procura da sé ciò che ancora non è per essere nel modo in cui è già da sempre in anticipo. Anche se vi possono essere delle monadi più opache ed ottuse, ve ne sono delle altre la cui gradazione si avvicina più a Dio, pensato nel senso della teologia cristiana che non alla cosiddetta “indole corporea”. 25 209 III dal punto di vista del Miteinandersein, non costituisce una vera differenza. L’esserci che noi volta per volta siamo è nel suo prendere parte nel mondo un essere dis-genere, neutro. Quel tratto d’eccedenza che fa di un esserci un essere di natura femminile o maschile è una differenza di natura biologica che no interessa l’essere dell’esserci in quanto tale. L’indole costitutiva dell’essere umano è già sia uomo che donna prima di scoprire d’appartenere definitivamente ad uno dei due generi. Il reciproco essere dis-genere di due esserci (pur essendo in realtà uomini e donne) può esser paragonato al reciproco Miteinandersein di ciascun esserci con gli altri. L’essere umano non si costituisce primariamente come un io isolato ma sempre contemporaneamente come Sein bei, Mitsein, e Selbstsein. Questi tre momenti non sono altro che le tre diramazioni in cui si struttura e prende forma la cura nella sua complessa articolazione in Sein und Zeit. La vita dell’essere umano si basa su una modalità d’apertura, su un “come” che è dato dalla Sorge, in cui la sfera dell’intersoggettività, e quindi quella della comprensione, e del discorso, non può che assumere un posto privilegiato rispetto alle altre due, che sono rispettivamente la sfera del rapportarsi al mondo e dell’avere a che fare con le cose, e quella che si riferisce al sé. Infatti già solo per il fatto che la dimensione del “con” è l’unica delle tre a non esaurirsi da sola, ma esige necessariamente la presenza di un altro essere umano, e quindi possiamo dire dell’alterità stessa, una tale dimensione costituisce il fondamento su cui successivamente poter costruire un mondo e soprattutto un sé. In un saggio del 1929 tradotto in italiano col titolo Sull’essenza del fondamento26, Heidegger illustra il darsi dell’incontro dell’altro sul piano dell’«in vista di» della temporalità. Per comprendere bene quale sia l’ intenzione di Heidegger bisogna 26 M. Heidegger, Wegmarken, Frankfurt am Main, V. Klostermann [Segnavia (1919/1961), trad. it. Di F.Volpi, Adelphi 1987]. 210 III ritornare al capitolo 3° di SuZ, denominato “Il poter-essere un tutto autentico da parte dell’esserci e la temporalità come senso ontologico della cura”. Essendo infatti il tempo il senso della cura, ed essendo la temporalità l’unità originaria della struttura ontologica della Sorge, segue che la complessa articolazione temporale della medesima in “esser già avanti a sé in”, come “esser-presso”, nasconda una connessione a livello teoretico tra l’autenticità dell’esserci, e il tempo finito dell’esistenza. Se la possibilità di comprendere autenticamente il tempo, permette di conoscere l’avanti, il già e il presso, come tre diversi momenti temporali estrinseci alla comprensione ordinaria del Si, la cura non può essere concepita (come vorrebbe invece il tempo ordinario) come un ente che scorre nel tempo. Essa rappresenta un farsi tempo del tempo stesso, il rendersi possibile di un nuovo tempo, questa volta autentico, che si fa tempo a partire dall’esserci già avanti a sé in come essere-presso. Nel progettarsi in avanti infatti l’esserci esce dal tempo dell’orologio, si scinde da tutto ciò che è temporale, rendendo possibile in questo modo un poter-essere proprio, assolutamente indipendente dal tempo oggettivo. Il progettarsi dell’esserci avanti a sé ha certamente da scontrarsi col tempo come estrinseco rispetto a sé, e, ha di conseguenza la necessità di interiorizzarlo, rendendolo intrinseco al proprio progetto d’esistenza. L’esserci pur essendo assolutamente schiavo del tempo in quanto ente gettato nel mondo, ne diventa per certi versi padrone quando diventa progetto, e può farne quindi ciò che desidera; lasciarlo scorrere dinanzi a sé ovvero domarlo in funzione delle proprie esigenze di vita. Il tempo autentico diventa l’esserci stesso che compromesso fin dalla nascita, mette in atto la decisione d’esser consapevole del suo limite. Nell’ Essenza del fondamento, Heidegger sembra sostenere che sia possibile giungere alla temporalità autentica anche grazie alla 211 III partecipazione dell’altro nella cura. La presenza degli altri nella cura sembra voglia essere qui sottolineata per specificare il ruolo dell’in vista di cui l’esserci si muove. Per riuscire ad ottenere una cura autentica bisogna necessariamente passare da uno scontro con gli altri. Sembra che l’in vista di della temporalità autentica racchiuda in sé un arcano, rimasto inspiegato. A mio avviso questo arcano non è altro che la relazione interpersonale tra due esserci. Se il Miteinandersein infatti non riguarda né l’uno né l’altro ma l’essere l’un con l’altro, ciò significa che Heidegger vuole mettere in evidenza la relazione stessa e non il singolo individuo, nella sua determinata percezione psicologica dell’altro, per esempio. Possiamo dire che è vero che dal punto di vista ontologico, per Heidegger, ogni esserci afferra la propria temporalità autentica attraverso l’in vista di (Umwillen von..) che apre e fonda il progetto, ma non dobbiamo dimenticare che è altrettanto vero che esiste una strettissima connessione teoretica tra l’in vista di della temporalità ed ogni effettivo ed autentico aver cura, come in vista di te, di lui, o di qualcosa di determinato. Così si legge: “L’affermazione che l’esserci esiste in vista di sé non implica alcuna finalità egoistica di tipo ontico per un cieco amor proprio dei singoli uomini effettivi. Essa non può dunque venir confutata, riandando al fatto che molti uomini si sacrificano per gli altri, e che in generale gli uomini non vivono solo per sé, a in comunità con altri. Nella nostra tesi non c’è nulla che implichi un isolamento solipsistico dell’esserci o una esaltazione egoistica. Al contrario, essa pone la condizione della possibilità perché l’uomo possa comportarsi o egoisticamente o altruisticamente. Solo perché l’esserci è determinato come tale dall’ ipseità, un io-stesso può comportarsi in rapporto a un tu-stesso”27. Mi sembra che qui Heidegger nell’ Ipseità faccia implicito riferimento al Mitsein. 27 Ibidem, 1967, tr. it. pp.113-114. 212 III Mi chiedo adesso perché il mandato di costruire una società autentica lo abbia in Essere e tempo il popolo, e non sia invece il frutto di una decisione responsabile dell’esserci che veda all’interno della propria scelta l’altro in prima istanza. Il concetto di comunità, e il riferimento alla problematica del Noi la ritrovo in Logik als die Frage nach dem Wesen der Sprache del ’34. Qui Martin Heidegger scrive: “a proposito del concetto di «noi » abbiamo mostrato che non lo si deve intendere come plurale. [..] La nostra domanda «chi siamo noi stessi?» poggia sul modo in cui di volta in volta siamo il nostro esser-se-stesso.”28 Nella maggioranza dei casi si tratta di una domanda pacifica, alla quale si risponde con la definizione di un gruppo a cui si appartiene o del quale ci si sente parte integrante. Secondo Heidegger si è soliti rifiutare questa domanda per una inconsapevole incapacità di darvi una adeguata risposta, per il fatto che ci si trova quasi sempre in una perdita del se stesso che include una caduta della propria essenza nella “non essenza”. Il se-stesso di ciascun esserci deve aver necessariamente qualcosa in comune con l’essere del noi, perché se non si tratta di una pluralità come semplice somma di più singolarità, dobbiamo assicurarci che si costituisca una relazione irriducibile tra il singolo io e il gruppo che ne rappresenti il nocciolo. A questa relazione Heidegger dà il nome di decisione a sottolineare la spinta che deve compiere l’io per spingersi fuori di sé verso l’appartenenza condivisa ad un Noi comune, che prende il nome di popolo. Si tratta di una decisione d’amicizia che non si fonda mai su una sterile vicinanza esteriore o d’interessi, ma si basa su un’armonia di comunione nel mondo che regola la distanza, e comprende l’alterità irriducibile tra più individui come una ricchezza irrinunciabile. 28 M.Heidegger. Op. cit. pp. 80-81. 213 III “L’amicizia nasce solo con la più grande possibilità in ogni singolo di autonomia interiore, che beninteso è completamente diversa dall’egoismo. Nonostante il distacco dei singoli commisurato alla decisione si attua qui un’armonia celata, la cui celatezza è essenziale. Questa armonia è in fondo sempre un mistero”29. Nel momento in cui abbiamo capito con la decisione quale sia la direzione da intraprendere per far essere se-stesso il nostro proprio essere è lì che è già scattata anche la decisione sul noi, dal momento che abbiano contemporaneamente afferrato quella idea di noi, alla quale prima eravamo estranei per mancanza di trasparenza. Il problema fondamentale è quello di riuscire a comprendere, di riuscire a sollevarci dalla preoccupazione quotidiana per andare al di là verso noi-stessi. Il se-stesso passa nel noi stesso necessariamente, non può non darsi un se stesso che non ricada rapidamente nella determinazione di un noi in cui possiamo dire di essere noi stessi pienamente, in cui “parliamo gli uni con gli altri e abbiamo attuato una determinazione del noi completamente diversa rispetto a quella tradizionale.”30 Bisogna a questo punto rispondere alla domanda sull’essenza di questo popolo che noi stessi siamo per non cadere nuovamente nell’errore in cui crediamo di aver “deciso” già senza in realtà averlo mai fatto. “Questa domanda ci mette di fronte all’ulteriore domanda: «siamo davvero noi questo popolo che noi siamo?» Questa domanda sembra davvero sorprendente. Come può qualcosa che è non essere quel che è?[…] Come stanno le cose quanto a noi stessi? Non abbiamo forse l’impareggiabile vantaggio di poter deviare dalla nostra essenza ed esserle infedeli, di poter 29 30 Ivi. pp. 86-87. Ivi, p. 84. 214 III perdere noi stessi ed approdare nella non-essenza della nostra essenza per restare a lungo in essa?”31 In tal modo la domanda sul nostro essere veramente il popolo di cui dichiariamo di far parte, sulla nostra eventuale identità ad una collettività che ci supera e ci attribuisce anche dei ruoli sociali risulta essere “inaggirabile nel grado più alto”, e urgente tanto al tempo del nazionalsocialismo, tanto all’oggi. Chi siamo noi? Noi siamo chi? In quale modo abbiamo deciso di far aderire il nostro noi al nostro essere noi-stessi? Dobbiamo porci il dubbio che si pone Heidegger stesso: è possibile che “noi siamo chi siamo in quel modo in cui forse non siamo noi”32? In questa domanda “questo «forse» non è facoltativo”33, perché è denotativo di un dubbio radicale sul chi siamo nel nostro essere in comunione, sul cosa in cui ci siamo trasformati, sulla comprensione ultima della decisione, perché è infatti possibile, come Heidegger ci ha insegnato che l’essere può ricadere nel suo non essere, “senza sprofondare per questo motivo nel nulla”34. Noi in un certo senso siamo facili prede di quel Si, di quel Man che ci salva dalla decisione, de-responsabilizzandoci. L’essere inserito di H. per esempio nell’accadimento educativo della sua università è un atto decisionale, frutto di una riflessione sul se-stesso che lo condusse alla collaborazione col regime nazista. Discutibilissima scelta che lo costrinse a nette prese di posizioni, e a successive attuazioni consone al Noi di cui dichiarava di far parte, ma assolutamente a-morali e ingiustificabili, come la storia ci ha insegnato. Avrebbe forse dovuto riflettere sulla sua decisione un po’ più a lungo? Avrebbe dovuto capire che il suo se-stesso non poteva farsi trascinare da 31 Ivi, pp.100-101. Ivi, p.102. 33 Ibidem. 34 Ibidem. 32 215 III una simile follia di gruppo? Come avrebbe potuto acquisire una tale consapevolezza della sua decisione che mirasse al Bene comune e non verso il Noi collettivo del suo tempo? Come avrebbe potuto Heidegger scagliarsi contro di esso partendo dalle sue stesse riflessioni se non appoggiando la sua decisione alla proàiresis aristotelica? “Questo decidersi, questo esserdecisi, -scrive Heidegger- è un chiudersi di fronte all’accadere piuttosto che un dischiudere questo accadere”35. Si sente nelle parole di Heidegger la forza di volontà di reagire, la presenza di quel necessario sentimento d’opposizione e di ribellione al suo tempo, ma questa stessa di fatto non fu molto ascoltata. Non si ribellò mai Heidegger all’adempimento di quegli obblighi che gli venivano imposti dall’alto. L’aver utilizzato appositamente la parola Überantwortung per denominare l’esser-rimesso dell’esserci storico al suo destino di Popolo, rivela il suo autoconvincimento giustificativo ad un Essere effettivo al quale bisogna rispondere necessariamente e il cui mandato non può essere sbagliato, seppur del tutto inesplicabile. Notiamo qui che a questo essere-rimesso all’essere viene dato il nome di cura quando ancora l’essere era quello dell’esserci e non proveniva esteriormente dalla sua e-sistenza ma dal suo essere fattuale e storico. Heidegger stesso scrive: “Quest’interpretazione dell’essenza dell’esserci umano come Cura è stata fraintesa in ogni possibile direzione. La flemma compiaciuta del piccolo borghese ha ritenuto che l’esserci umano non potesse essere contenuto in qualcosa di tanto torbido come la cura.[…] Secondo alcuni altri la concezione dell’esserci come cura sarebbe espressione di una tormentosa ed angosciosa «visione del mondo»[…] il loro suggerimento è di tenere l’atteggiamento «eroico». Qualcun altro ancora si scontra ancora con l’eccessiva 35 Ivi. p. 111. 216 III accentuazione del tratto pratico-sostituibile e rimpiange una sufficiente considerazione dell’uomo contemplativo e meditativo” 36. La cura va intesa invece nel suo carattere di esposizione costante alla temporalità del suo proprio aver-da-essere, nel suo non possedersi mai appieno, del suo continuo progettarsi, della sua frequente occupazione mondana. “L’essere dell’esserci in quanto cura è il fondamento della possibilità dell’ipseità dell’essere dell’uomo. Diviene ora chiaro perché il carattere del se stesso non consiste nella riflessione dell’io, del soggetto; infatti il se stesso è proprio la disintegrazione dell’egoità e della soggettività attraverso la temporalità.[…] Bisogna quindi che l’esserci sia di volta in volta nostro. mio, tuo. Dopo la disintegrazione integrale dell’egoità e della soggettività, dire l’esserci è sempre mio non può più significare che questo esserci sia ricondotto al singolo io e da lui occupato in esclusiva, ma dire l’esserci è sempre mio vuol dire che il mio essere è trasmesso al con-gli-altri e per-glialtri. Io stesso allora sono per il solo fatto di essere storicamente, nell’apertura decidente della storia”37. Si tratta di una distruzione del soggetto della metafisica trascendentale kantiana, che si appoggia su una precomprensione linguistica del mondo che lega ogni esserci all’altro e li fa essere compartecipi di una comune storia. Se la domanda sul chi dell’esserci è trasferita sul noi, resta quest’ultima sempre legata all’essere storico del tempo in cui quel determinato noi si è realizzato con un determinato agire pratico. Ed essendo la cura l’essenza fondativa del nostro essere, la nostra libertà si manifesta nel nostro attuare storico volta per volta paradossalmente dettata dall’assunzione della decisione volontaria. In base ai possibili e differenti modi d’essere del nostro essere si definisce anche l’essere di quel noi di cui facciamo parte. L’inaggirabilità dell’essere storico dell’esserci è 36 37 Ivi, pp. 226,227. Ivi, p. 228. 217 III proprio questa sua libertà “condizionata” che deve fare i conti con gli altri, con il suo voler star con o contro di essi. “Libertà non è fare e non fare senza vincoli, ma affermazione dell’inaggirabilità dell’essere, assunzione dell’essere storico nella volontà commisurata del sapere”38. Di qui Heidegger però compie un passaggio indebito, a mio avviso, che è causa del suo allineamento al regime: “ Cura della libertà dell’essere storico è in sé legittimazione della potenza dello Stato inteso come compagine essenziale di un mandato storico” 39. L’Essere perde il suo carattere di storicità diventa quasi astorico, trasformandosi in un dover-essere che di conseguenza non può non essere ascoltato. Chi ascolta il suo mandato non deve far altro che obbedire ai suoi comandi, non può far altro che legittimare il suo potere ed anche il suo strapotere, lo Stato diventa necessario per essenza, dal momento che corrisponde all’essere storico/destinale del popolo dell’essere. Il sapere nella sua complessità si trasforma in quel lavoro servile sottomesso e passivo in cui la verità dell’essere diventa anche la verità dell’esserci finalmente compresa e afferrata nella sua complessità. Heidegger stesso aveva scritto a Sartre nell’immediato dopoguerra per sottolineare che L’essere e il nulla costituiva una “comprensione così immediata della propria filosofia quale mai finora gli era capitato d’incontrare” arrivando addirittura ad apprezzare la critica sartriana sul con-essere. Sartre infatti farebbe rientrare il Mitsein heideggeriano nell’idea di Sorge, di “cura”, in cui si effettuerebbe una riconversione 38 39 Ivi, p.229. Ibidem. 218 III soggettivistica al sé e non si darebbe pertanto un’autentica dimensione d’intersoggettività, in cui il Dasein, proiettandosi fuori, non sarebbe più riconducibile all’interiorità della coscienza ma sarebbe solo un essere-per-l’altro. Sartre affronta il concetto di Mitsein nella terza sezione dell’opera sopra citata riconoscendone tutta l’originalità, e attribuisce, però, ad esso un vizio di forma che gli risulta del tutto invalicabile. Ad Heidegger Sartre riconosce il merito di aver oltrepassato lo schema psicologico husserliano e quello storicistico hegeliano, nella misura in cui concepisce il Mitsein non come un semplice accostamento tra due o più individui ma come quel presupposto originario che resta intrinseco al Dasein, trasformandone le caratteristiche. Così scrive: “Sembra che Heidegger, in Essere e tempo, abbia tratto profitto dalle meditazione dei suoi predecessori ed abbia profondamente sentito questa duplice necessità: 1) che la relazione delle «realtà umane» deve essere una relazione d’essere; 2) che questa relazione deve far dipendere le «realtà umane» le une dalle altre, nel loro essere essenziale. [..] Con il suo modo brusco e un poco barbaro di tagliare i nodi gordiani, piuttosto che tendere a scioglierli, egli risponde alla domanda posta con una pura e semplice definizione. Egli ha scoperto parecchi momenti -inseparabili, salvo che per astrazione- nell’«essere-nel-mondo» che caratterizza la realtà umana. I momenti sono «mondo» «essere in» ed «essere». Ha descritto il mondo come ciò per cui la realtà umana si fa annunciare ciò che è; l’«essere-in» l’ha definito come Befindlichkeit e Verstand; rimane da parlare dell’essere, cioè del modo nel quale la realtà umana è il suo essere nel mondo. Ci dice che è il Mitsein, cioè l’essere-con. Così la caratteristica d’essere della realtà umana è di essere il proprio essere con gli altri. Non si tratta di un caso; io non sono prima, perché una contingenza mi faccia poi incontrare gli altri; si tratta di una struttura essenziale del mio essere”40. In altre parole non si tratta del riconoscimento di un rapporto reciproco con una realtà altra esterna alla mia, ma è solo J.P. Sartre, L’essere e il nulla; La condizione umana secondo l’esistenzialismo; trad. Di Giuseppe del Bo, Revisione a cura di F. Fergnani e M. Lazzari; Net Nuove edizioni tascabili; p.290. 40 219 III chiarendo la precomprensione ontologica che ciascun esserci ha di sé, che riesce a cogliere all’interno del suo essere l’esserecon-altri. La relazione con gli altri risulta costitutiva del mio essere dopo un esame approfondito del mio essere. La novità di Heidegger è dunque l’aver compreso che l’altro non è oggetto, tra gli utensili del mondo, ma che l’essere del soggetto è già un essere per l’altro, nel senso che non si da l’essere del Dasein se non in relazione originaria agli altri. Infatti Sartre stesso aggiunge: “Non bisogna peraltro intendere questo essere-con come una pura collateralità passivamente ricevuta dal mio essere. Essere, secondo Heidegger, significa essere le proprie possibilità, cioè farsi essere. L’esserecon è quindi un modo d’essere in cui io mi faccio essere. Che ciò sia vero è provato dal fatto che io sono responsabile del mio essere per altri in quanto lo realizzo liberamente nell’autenticità o nell’inautenticità” 41. Posso decidermi liberamente di realizzare il mio essere-con nella forma del si come se fossi un riflesso impersonale del mondo. “Così io mi faccio annunciare come chiunque dal complesso indicatore di utensili che mi indica come un «Worumwillen»”42. La mia unicità d’essere viene ad essere il prototipo del mezzo interscambiabile, che non guarda a sé così come non guarda ad altri. E qui s’innesta la critica sartriana. Pur avendo infatti scorto nel Dasein heideggeriano un essere che implica l’essere per altri nel suo essere, ritrova in esso la possibilità d’essere autenticamente ed elevare con sé anche gli altri solo attraverso l’influenza del richiamo della coscienza (Ruf des Gewissens) che con risolutezza riesce a portare responsabilmente verso 41 42 Ivi, p.291. Ibidem. 220 III l’autentico. In questo modo Heidegger compierebbe un salto logico illegittimo dal livello ontico all’ontologico, che lo costringerebbe a riconsiderare la relazione con altri aprioristicamente, e così ad esaurire ogni contingente ed effettiva possibilità d’incontro con altri. Essendo l’esistenza degli altri un fatto contingente ed irriducibile (come afferma Sartre: gli altri s’incontrano non si costituiscono), questo “fatto” deve manifestarsi sotto l’aspetto della necessità contingente dello stesso tipo delle necessità di fatto43. La relazione heideggeriana tra il singolo esserci e gli altri, appare a Sartre invece, inserita in astratto nel concetto di Mitsein, per il fatto stesso che definisce in modo a priori il rapporto dell’esserci con gli altri esserci come lui. In breve, possiamo dire con Sartre che Heidegger anziché rendere più facile una relazione tra me e un altro, rende radicalmente impossibile ogni esperienza effettiva, e ogni legame concreto del mio essere con quello di un altro: “L’esistenza di un con-essere ontologico e conseguentemente a priori, rende impossibile qualsiasi legame ontico con una realtà umana concreta che sorga per sé come un trascendente assoluto”44. Senza dubbio il maggior debito sartriano nei confronti di Heidegger resta la concezione di un esistenza fuori di sé, strutturalmente alienata, scissa in base al proprio aver-da-essere, e soprattutto distante de sé verso gli altri. La realtà umana heideggeriana esiste fuori di sé, ma non bisogna dimenticare che questa «esistenza fuori di sé», costituisce proprio la definizione del sé. E che «la fuga fuori di sé», che insegna a vedere il mondo come una pura distanza da sé a sé, è già una forma nascosta di «fuga verso di sé». Il tentativo heideggeriano di far uscire il sé dalla solitudine sembra a Sartre fallire quando egli Se gli altri devono poter esser dati ciò «deve avvenire mediante un’apprensione diretta che lasci all’incontro il suo carattere di fatticità». Ivi, p. 295. 44 Ibid. 43 221 III usa due forme diverse per descrivere la relazione con gli altri che risultano essere l’una incompatibile con l’altra, che sono l’essere «fuori di sé verso gli altri», e l’essere «fuori di sé negli altri»: in mezzo alle sue ek-stasi la realtà umana rimane sola. Dire infatti che l’esserci è con-essere per struttura ontologica, perché il con-essere si appoggia sulla struttura di base del mio essere-nel-mondo è come dire che è «con» per natura, cioè in modo essenziale ed universale. Se quindi il con-essere ontologico (Mitdasein) potesse servire da fondamento al conessere ontico (Mitsein) bisognerebbe dimostrare che il conessere effettivo con qualcun’altro rappresenta una forma costitutiva del mio essere autentico. Ma ciò è secondo Sartre impossibile da dimostrare prendendo come punto di vista il pensiero heideggeriano, perché l’altro di Heidegger resta astratto: “è unselbstständig, e non ha in nessun modo in sé il potere di diventare quest’altro” qui, con questo nome e cognome. Con le parole di Sartre stesso, ciò significa che: “L’immagine empirica che può meglio simboleggiare l’intuizione heideggeriana, non è quella della lotta; ma quella della squadra. Il rapporto originario dell’altro con la mia coscienza non è il tu ed io, è il noi, e il conessere […] è la sorda esistenza in comune del vogatore con la sua squadra, quell’esistenza che il ritmo dei remi o i movimenti regolari del timoniere renderanno sensibile ai rematori e che il fine comune da raggiungere, la barca o la jole da superare, […] renderanno loro manifesta. […] La relazione del «Mit-sein» non può servirci a risolvere il problema psicologico concreto del riconoscimento d’altri”45 . Il Mitsein heideggeriano è, in sintesi secondo Sartre, una forma di «solitudine in comune» che distrugge qualsiasi manifestarsi effettivo di un legame concreto tra una ‘realtà umana’ e l’altra. La valutazione di Sartre, che ho voluto mantenere isolata per la sua particolarità, ha anche il sapore di un aspro rimprovero e 45 Ivi, pp. 292-293. 222 III s’innesta perfettamente nella tendenza di base che lega tra loro, come si vedrà nel prossimo paragrafo, alcune delle più dure ma imprescindibili critiche al Mitsein heideggeriano. 223 III 3.3 Il con-essere (il Mitsein, il Miteinandersein e il Mitdasein) di Heidegger nell’interpretazione critica Il tentativo heideggeriano di fondare con la sua analitica esistenziale una «filosofia prima» conduce molti dei suoi allievi a una sorta di rovesciamento del progetto “ontologico” dell’esserci. La fine del percorso di pensiero che scaturisce dalla problematica del Mitsein è scandita da una scelta politica che porta Heidegger a compromettersi gravemente con il regime nazista. Questa “caduta” di Heidegger spinge molti dei suoi allievi a ricostruire un’ontologia fondamentale, ricominciando dall’analisi del con-essere, che non è né l’uno, né l’altro esserci, ma ogni esserci a partire dall’altro. Uno degli alunni che più degli altri fece propria questa esigenza di riequilibrare il discorso heideggeriano e di superarne il limite fu Karl Löwith. Egli in Das Individuum in der Rolle des Mitmenschen. Ein Beitrag zur Anthropoligischen Grundlegung der ethischen Probleme,46 del 1928, rimprovera a Heidegger di aver indagato soltanto la dimensione del Mitsein quotidiano, relegandola nell’inautenticità del Man, e di aver tralasciato l’aspetto dialogico-intersoggettivo della stessa quotidianità. Heidegger pur essendo partito su una pista privilegiata che gli aveva permesso di scoprire la fatticità della vita nella sua natura più intima (quella del Mitsein), agli occhi di Löwith, si lascia troncare la strada dall'urgenza dell'ontologizzazione che invece di condurlo in direzione dell'intersoggettività, lo porta a rituffarsi nel mare di quella stessa metafisica da cui aveva tentato invano di sfuggire. Löwith, di contro, nel suo scritto mira a sottolineare che il Miteinandersein autentico rappresenta il cuore concettuale e allo stesso tempo il compimento naturale del 46 Trad. it.“L’individuo nel ruolo del prossimo, un contributo alla fondazione antropologica dei problemi etici”. 224 III Mitsein. Se secondo Heidegger l'uomo nel suo prendersi cura mondano si relaziona essenzialmente in una triplice direzione, a se stesso, agli altri, e alle cose, ciò non significa che per diventare se stesso l’esserci debba abbandonare gli altri e il mondo. Scrive così Löwith: “a differenza di qualcosa d'altro, gli altri sono contraddistinti perché esistono secondo il mio stesso modo d'essere, nella stessa maniera di me stesso. Benché siano altri, essi sono miei simili. [..] L'essere altro degli altri diventa esplicito nella misura in cui io sono consapevole di me stesso in una maniera tale che con ciò, tutti gli altri al di fuori di me diventano meri co-uomini”47. Se in un primo momento Heidegger distingue nettamente gli altri dalle cose, in un secondo momento non attribuisce loro la giusta importanza definendoli «co-uomini», ossia facendoli rientrare nella categoria di tutti gli altri al di fuori di me. E facendo riferimento sempre al suo maestro Löwith continua: “il curarsi degli altri è antropologicamente più originario di ogni prendersi cura di ciò che è utilizzabile, poiché ogni prendersi cura nasce dalla cura per se stessi e per gli altri”48. L’intuizione heideggeriana della co-originarietà dell’esserci e dell’altro come lui, viene utilizzata da Löwith per una critica a Ludwig Feuerbach, il quale pur avendo già pensato la relazione intrinseca tra l’io e il tu49 non la esplicita come invece è in grado di fare il suo maestro attraverso il concetto di Mitsein: 47 K. Löwith Das Individuum in der rolle des Mitmenchen, trad. ita. a cura di Agostino Cera, Alfredo Guida Editore, Napoli, 2007;§10 Analisi del mondo del con in quanto degli altri sezione 1 l'essere l'uno con l'altro come tale; pp. 123124. 48 Ivi, p.131. 49 Di Feuerbach, Löwith critica l’ incapacità di sostanziare in termini filosofici la decisiva intuizione sul rapporto tra l’io e il tu. 225 III “Che io non possa diventare a me proprio né a partire da me stesso né dal mondo naturale, ma soltanto da “te” e che “tu” il mio intero autentico mondo, per cui (wozu) io esisto era l’idea preminente dei Principi di Feuerbach”50. Feuerbach punta immediatamente, secondo Löwith, all’accentuazione del mondo del con come del mondo di un io e di un tu, ma ciò che li congiunge resta sempre una “e” di congiunzione indeterminabile. Heidegger invece a differenza di Feuerbach tematizza in termini filosofici il con-essere nella Fürsorge, ma si dimentica d’interpretarlo a partire dal modo quotidiano dell’essere nel mondo come «premuroso aver cura»: besorgende Fürsorge51. Löwith percepisce l’incidenza del Mitsein sul piano ontologico, ma vuole riscattare il piano della quotidianità del con-essere, facendo leva sull’aspetto psicologico dell’essere l’un con l’altro. Infatti così scrive: “Coloro che parlano l’un-con-l’altro di qualcosa si comprendono «autenticamente», per di più, non sulla base di ciò che è espresso, bensì oltre il senso esplicito del discorso ed attraverso esso. Ciò che le loro parole intenzionali dicono soltanto in maniera titubante oppure dissimulano, gli si svela nell’involontaria espressione del volto e della voce. Senza il presupposto di questo muto comprendersi, gli uomini non si comprenderebbero neppure nelle loro parole, giacché la comunicazione simpatetica è più originaria di ogni aver cura l’uno per l’altro e parlare l’unocon-l’altro”52. Löwith sottolinea qui l’importanza della comunicazione simpatetica, e quindi dell’ Einfühlung rispetto all’aver-cura. Egli stabilisce, pertanto, in modo chiarissimo, un primato dell’unione psicologico-simpatetica di ogni uomo con l’altro sulla struttura ontologica della Sorge heideggeriana. Per questo motivo la 50 Ivi, p.123. Ivi, p.132. 52 Ivi, p.197. 51 226 III possibilità autentica del Miteinandersein, secondo Löwith, in Sein und Zeit è del tutto ignorata infatti sostiene: “Già il principio ontologico formale:Esserci come essere-nel-mondo, risulta predeterminato in maniera privativa dalla inessenzialità esistentiva del mondo come mondo-del-con. Di conseguenza, per quel concetto di esistenza che è sin dall’inizio lo scopo della ricerca, il mondo dell’essere l’un-con-l’altro risulta esistentivamente insignificante. Nella misura in cui l’esserci, per il quale ne va di se stesso, esiste «autenticamente» come «di volta in volta proprio», per lui l’essere l’uno con l’altro si determina in maniera privativa come un essere l’uno con l’altro generale, «pubblico», all’interno del quale il singolo può generalizzarsi e sgravarsi di se stesso. Nel «si» l’esserci come «si-stesso» (manselbst), si sgrava di sé come Se stesso. La possibilità autenticamente positiva dell’esser l’uno-con-l’altro, l’essere nell’un-l’altro della prima e seconda persona, di io e tu, viene dunque ignorata. In tal modo, in realtà, anche la prima persona in generale non è più una «persona» [..], ma un «unico» per eccellenza”53. Secondo Löwith, in breve, l’esserci si riprende dallo smarrimento nel Si non perché si lasci determinare come Io attraverso un Tu ma perché attraverso un radicale isolamento strappa se stesso dalla pubblicità generalizzante del Man. Heidegger non passa mai al concetto di “persona”, ma resta fermo a quello d’individuo perché secondo Löwith quando “ognuno dei due è persona è in primo luogo determinato riflessivamente come persona dell’altro. In un rapporto resosi autonomo in tal modo non è più decidibile alternativamente chi abbia l’iniziativa, poiché mentre l’uno si regola in primo luogo sull’altro anche l’altro già si regola in primo luogo su di lui. Un tale rendersi autonomo del «l’un-l’altro», possibile in linea di principio, di regola non regge i rapporti umani, tuttavia si mostra quotidianamente reale nella sua possibilità”54. 53 54 Ivi, p.154. Ivi, p.158. 227 III Ma ad Heidegger, secondo Löwith, interessa studiare ciò che regge i rapporti e non le loro manifestazioni effettive nel quotidiano. Il §21 s’intitola L’ambiguità di un “rilascio”(Freigabe) dell’altro, e sottolinea il riconoscimento da parte di Löwith di una certa ambivalenza della freigebende Fürsorge. L’altro heideggeriano è visto da Löwith come colui che grazie alla Fürsorge può esser portato ad essere se stesso e nello stesso tempo può essere rilasciato. Proprio in virtù dello stesso movimento che rende possibile l’autonomia dell’altro, l’esserci si mantiene a sua volta libero (freihält) dall’altro. Esattamente Löwith afferma: “Il rilascio toglie a se stesso proprio quella libertà che è pronto a dare all’altro. Ma nella misura in cui all’aver-cura che rilascia si fa incontro effettivamente l’idea di libertà dell’altro si realizza un rapporto autonomo che presuppone che al «poter-essere» di volta in volta proprio corrisponda, da sé, il poter-essere di n altro. In generale, questa libertà può essere «data» all’altro, soltanto a patto che egli se la lasci dare e la accetti. Il ragionevole fine del rilascio si può realizzare esclusivamente sulla base del presupposto di un esserci ugualmente disposto, ossia di un esserci per il quale, nello stesso senso di un se stesso «ne va di se stesso». La comunanza, dunque, risulta la condizione di possibilità anche di una maniera d’essere esistentivamente isolata. [..] Il rilascio che rilascia un altro [..] predetermina l’altro come alter ego rispetto al rilascio stesso. Il rilascio pretende assolutamente l’altro come suo e nel momento in cui dà a lui stesso la libertà […] gli sottrae la sua libertà nel momento stesso in cui gliela attribuisce, nel contempo priva se stesso della possibilità di un libero rapporto con l’altro” 55. Il Mitsein risulta essere un modo d’essere in comune assolutamente isolante, e il rapporto tra l’io e il tu è un rilascio riflettente in cui l’ Io credendo di lasciar il Tu libero si libera a sua volta dal rapporto stesso e quindi dall’alterità. 55 Ivi. pp.155-56. 228 III Inoltre la modalità fondamentale in cui si realizzerebbe il Miteinandersein è costituita secondo Löwith dal Miteinandersprechen, vale a dire dal dialogo tra l'uno e l'altro. Avvalendosi infatti delle intuizioni di Humbolt sulla originaria formazione del duale, egli arriva all'isolamento di una forma di responsabilità, come se fosse una capacità di dare all'altro, col proprio dire, una risposta assolutamente estranea al pensiero del suo maestro. “Io non sono autenticamente appellabile attraverso il mondo extraumano, bensì attraverso i miei simili, il mondo del con e le sue oggettivazioni.” 56. Secondo Karl Löwith57 il mondo heideggeriano non appartiene alla sfera interna di un soggetto esistente per sé, e il soggetto, inoltre, non appartiene alla sfera esterna di un mondo esistente in sé. Nonostante una simile negazione, la soggettività più propria del Dasein possiede un privilegio: essa ha un’innegabile preminenza, dal momento che è di sua pertinenza sostenere la mondità del mondo. Quest’ultimo alla fine uscirà “sconfitto” dall’analitica esistenziale, perché è l’Esserci a dominarlo. Anche se non è possibile dimenticare che lo stesso essere dell’esserci si troverebbe perennemente in una dipendenza ontica dal mondo stesso, mantenendo così il suo carattere ambivalente. In ogni caso, però, l’essere del Dasein resta quel modo d’essere che determina l’essere degli enti in quanto enti e che si manifesta nascondendosi dietro gli enti cui però concede l’ingresso alla presenza. E così nello stesso atto del concedere la presenza si nasconde e attraverso questo suo nascondimento si dis-vela. Solo il Dasein ha la capacità di “concedere” la presenza,e ciò avviene in un modo indiretto, cioè facendo appello alla sua 56 Ivi, p.176. Karl Löwith nel 1930 insegnò filosofia presso l’università di Marburgo, dove, due anni prima, nel 1928 conseguì la libera docenza con una dissertazione di carattere fenomenologico sulla fondazione dei problemi etici, il suo relatore fu Martin Heidegger. 57 229 III costituzione ek-statica, che gli permette di trascendere se stesso, e di accogliere l’essere che si dà, l’essere in quanto essere. Löwith, in questo testo, che resta la dissertazione teorica più determinante per lo sviluppo successivo del suo pensiero58, tenta di rovesciare questa posizione del mondo e sostiene, contrariamente ad Heidegger, che esso non può darsi all’interno di un Io strutturalmente aperto agli altri, ma deve essere al contrario un fondamento dell’Io a partire dagli altri. Il mondo non rappresenta perciò la determinazione ontologica dell’esserci in virtù della sua struttura esistenziale di essere-nel-mondo, ma è l’intreccio di relazioni che discendono dalla dialettica originaria tra l’io e l’altro. Proprio nella reciprocità dei rapporti personali tra un io e un tu si verrebbe a costituire, secondo Löwith, un mondo. L’intersoggettività di un mondo così concepito troverebbe la sua origine in un tratto etico, in una relazione dal carattere principalmente etico, che non lascerebbe più posto alla relazione heideggeriana di un singolo esserci che si affaccia dalla finestra più alta della torre del suo castello per porsi di fronte al mondo e guardarlo nella sua totalità. Il mondo heideggeriano gli risulta completamente estraneo se non viene inserito in una mera categoria conosciuta dall’esserci sotto il nome del concetto di mondità. Ciò significa, secondo Löwith, che il mondo configura per l’esserci un modo di comprendere se stesso, come un suo modo di darsi a sé, in forza del suo “comprendere” il concetto stesso di mondità. In sintesi, la struttura eccessivamente formale del «con» heideggeriano, secondo Löwith, non consente di scoprire gli altri sul piano della quotidianità, e cioè di incontrarli realmente. 58 Il resto dei suoi lavori e dei suoi scritti e infatti caratterizzato da considerazioni di carattere storiografico che mirano a dimostrare come la storia della filosofia si sia soffermata erroneamente sulla interpretazione del mondo a partire dall’uomo e mai sul mondo in quanto tale. La determinazione del mondo per Karl Lӧwith non può essere ontologica se prima non è etica. Qualsiasi produzione di senso della physis, non deriva solo dal “comprendere” ma da un’ermeneutica fenomenologica della Natura dal carattere fondamentalmente etico. 230 III Un’altra diretta allieva di Heidegger fu Hannah Arendt che ci restituisce con il suo lavoro filosofico l’idea di una natura umana capace “di comprendere ed essere compresa dagli altri” con un chiaro riferimento critico al Mitsein heideggeriano. Appare di rilevanza centrale il saggio del 1946 What is Existenz philosophy? in cui la Arendt esprime la necessità di criticare aspramente Heidegger mettendo in campo la valenza autentica del Mitsein per criticare una sorta di spinta all’onnipotenza del Selbst heideggeriano. L’arroganza dell’esserci heideggeriano (data solo dalla possibilità di cogliere nella morte il proprio autentico essere nell’isolamento dagli altri) viene considerata come una forma di estremo egocentrismo, che mostra tutta la propria infondatezza uscendo nel mondo e soprattutto nel contatto con gli altri. Così scrive la Arendt: “La caratteristica più essenziale di questo Sé sta nel suo assoluto egoismo, nella sua radicale separazione dagli altri. L’anticipazione della morte come possibilità esistenziale è stata introdotta per raggiungere ciò; perché soltanto nella morte l’uomo raggiunge l’assoluto Principium individuationis. Soltanto la morte lo separa dal contesto dei suoi simili, da quel contesto in cui egli assume un ruolo pubblico, perdendo di vista l’obiettivo del diventare un sé autentico [..] grazie all’esperienza della morte come Nulla egli ha la possibilità di dedicarsi esclusivamente ad essere un sé e di liberarsi una volta e per tutte del mondo circostante” 59. L’impresa heideggeriana fallirebbe, secondo la Arendt, perché lungi da una rifondazione dell’ontologia, egli ci offre alla fine di Essere e tempo una semplice ipostatizzazione delle idee di Popolo e Terra fondati su singoli «Sé» isolati, non liberamente consapevoli che scelgono e si determinano in relazione ad una “coscienza propria” che non è possibile distinguere bene dall’anonimità del mondo inautentico del Man. 59 Ivi, p.48. 231 III La filosofia dell’esperienza di Heidegger, e la sua ermeneutica della fattività legittima una sussunzione delle azioni umane sotto le stesse categorie filosofiche della metafisica che lui stesso vuole superare. Sotto una nuova filosofia dell’esistenza si nasconde, secondo Arendt, lo stesso presupposto che possiamo riassumere nel to gar auto esti noein kai einai60 che si ripercuote in tutta la storia della filosofia da Parmenide ad Hegel, riducendo il reale ad una mera estensione del soggetto pensante61. Per colpa di questo pregiudizio Heidegger si lascia inoltre investire dalla visione malinconica kirkegardiana62 del rifugio narcisistico nel soggetto (Dasein) concepito come la sola potenza in grado -paradossalmente- di dare un senso alla realtà a partire dal pensiero della morte. Nel paragrafo The self as all and nothing63, nello stesso testo sopra citato, la Arendt misura Heidegger col tentativo kantiano di riformulare l’antico concetto di essere, in base all’irriducibilità del reale al razionale. Vediamo come secondo la Arendt, Heidegger pur muovendo da intenzioni che sono simili a quelle di Kant (sia nella riformulazione del concetto dell’essere con quello del tempo o della temporalità, sia nella volontà di liberare la filosofia dalla tradizione metafisica) alla fine del suo percorso giunge ad un’equazione tra essere e nulla in cui il Dasein ritorna ed essere come lo era stato per la metafisica il Summum ens. Se il Dasein è quell’ente la cui essenza è la stessa sua esistenza, esso non si distingue più da quell’ente sommo in cui essenza ed esistenza vengono a coincidere in cui il suo vivere è già hegelianamente atto e presenza. Ma nonostante tutto ciò la nozione aristotelica di Il pensiero e l’essere sono lo stesso, sono identici. L’unico che riesce ad opporsi a tale tendenza è, secondo la Arendt, Immanuel Kant: “L’unità di Essere e Pensiero presupponeva la coincidenza prestabilita di essenza ed esistenza. Questa unità venne distrutta da Kant, il vero, anche se clandestino, fondatore della nuova filosofia: colui che ne è rimasto fino ad oggi il suo re segreto”, in What is Existenz philosophy?, p.38. 62 Hannah Arendt scrive infatti che per Kierkegaard “Il pensiero della morte diventa azione, in esso l’uomo rende se stesso un soggetto ritirandosi dal mondo e dalla vita quotidiana degli altri uomini.” in What is Existenz philosophy?, p.44. 63 Ivi, p. 46. 60 61 232 III Prudenza64, che gioca un ruolo importantissimo in Sein und Zeit, assume anche un peso notevole nel giudizio complessivo della Arendt. Jacques Taminiaux65 insiste sulla opposizione heideggeriana tra mondo pubblico e privato, facendola coincidere con quella tra sfera dell’autenticità e quella dell’inautenticità, e sostiene inoltre che il pensiero della Arendt sia stato a tal punto influenzato dalla polemica con Heidegger da ritrovare il punto nodale di tutta la sua riflessione nell’intenzione di ridar voce all’agire politico in senso stretto e in netta opposizione con la tesi assunta da Heidegger su questo preciso tema, ossia nell’intenzione di recuperare il senso autentico del carattere pubblico e sociale della práxis aristotelica. “L’esistenza -scrive la Arendt portando così all’estremo il contrasto con Heidegger- può realizzarsi soltanto nello stare insieme degli uomini in un mondo comune dato. Nel concetto di comunicazione si trova radicato, L’Etica Nicomachea rappresenta per Heidegger infatti una sorta di Essere e Tempo ante litteram, dal momento che rappresenta quella svolta della filosofia dalla mera osservazione della natura come oggetto trascrivibile in un “contenuto logico” allo studio esperienziale del mondo della vita e dell’esistenza in sé. In questa prospettiva gioca un ruolo di fondamentale importanza la prospettiva ermeneutica che Heidegger importa da Aristotele, enfatizzandola, in virtù della distinzione tra Praxis e Pόiesis. Heidegger sottolinea come nella pόiesis a cui corrisponde né più né meno che la tékne, ossia il saper fare, l’arché, il principio dell’ente prodotto si situa nell’ eidόs dell’agente che lo produce, vale a dire del soggetto produttore, corrispondendo così al modello, alla forma e all’idea che pre-esiste all’oggetto perché esiste già nella mente del costruttore. Ciò nondimeno, il télos e cioè il compimento ultimo di questo ente finito, non risiede nell’artefice che lo pensa e lo realizza, dal momento che il suo érgon, il risultato di questo sapere tecnico sperimentale, si dissocia dalla fonte iniziale da cui è stato partorito per diventare assolutamente indipendente da essa, e inoltre diventando a sua volta un mezzo per altri fini, si inserisce in una specie di catena di produzione in cui il soggetto di partenza non ha più alcuna importanza, dissolvendosi nel punto zero della catena. Heidegger non utilizza infatti questa coppia concettuale aristotelica per descrivere il darsi dell’esserci come ermeneuticamente aperto al mondo nella sua fatticità ma si serve di quella concezione della práxis che lega strettamente all’azione pratica un principio come fine che diventa la stella lucente della sua concezione della Sofía, il perno su cui poggia la sua concezione del Biόs theoreticόs. Nell’analitica del Dasein heideggeriano la Sofía si spoglia dei suoi caratteri più meramente teoretici e nozionistici per fare spazio alla sola práxis. In questo senso la Sofía aristotelica si trasformerebbe in mera phrόnesis all’interno dell’ontologia fondamentale di Heidegger, essendo quest’ultima l’unica possibilità di comprensione dell’esistenza intesa come práxis. Secondo questa impostazione heideggeriana che comporta una nuova visione della filosofia come “esperienziale” la práxis si dispiega dal e sul soggetto per renderlo capace di scoprirsi da sé, che così rimarrebbe escluso dalla molteplicità e pubblicità del sociale cui corrisponderebbe il mondo della tékne in cui il fine risulta irriconoscibile a partire dall’esserci. 65 Jacques Taminiaux, dichiara anche che Heidegger dirigendo il Biόs theoreticόs verso un solipsismo estraneo alla trattazione politica dello stagirita invece di dar forza alla prassi aristotelica, in un certo senso la riduce fino a farla scomparire del tutto perché la concepisce speculativamente come un concettoe non più a partite dall’incontro con gli altri; in La fille de Thrace et le penseur professionnel; Arendt et Heidegger; p.30, Paris Editions Payot, 1992. 64 233 III sebbene non completamente sviluppato un nuovo concetto di umanità come condizione dell’esistenza dell’uomo”66. Ma nel 1954 in Concern with politics, un saggio lasciato inedito, l’autrice testimonia una riconsiderazione della filosofia heideggeriana, soprattutto per quanto riguarda il concetto dell’In der Welt sein67. L’idea di una nuova filosofia non può più prescindere dopo Heidegger infatti, dall’appropriazione del concetto di mondo elaborata in Sein und Zeit, come co-esistere, nella reciproca delimitazione delle relazioni umane verso un interno che è il “tra di loro” e verso un fuori che è rappresentato dal mondo del fare di ogni giorno. Col definire l’esistenza umana come un esistere nel mondo, Heidegger “attribuisce rilevanza filosofica a quelle strutture della vita quotidiana che sono completamente incomprensibili se l’uomo non è inteso come un essere con-altri”68. Ad Heidegger è così riconosciuta una posizione particolare all’interno della storia del pensiero della filosofia in generale, per il fatto di aver finalmente evidenziato un misconoscimento indebito nei confronti dell’aspetto mondano e plurale dell’esistenza in quanto tale. La riflessione heideggeriana sembrerebbe essere ai suoi occhi una acquisizione teorica della quale è impossibile ormai fare a meno e che consumerebbe una drastica rottura col pensiero metafisico tradizionale che non teneva in alcuna considerazione la pluralità dell’essere degli uomini. La Arendt situa questa novità di spessore nel concetto di 66 Hannah Arendt in What is Existenz philosophy?p. 55-56. Se in What is Existenz philosophy? Per Hannah Arendt la sola filosofia in grado di far rivivere la socialità dell’essere dell’uomo come l’unica condizione originaria e secondo la maieutica socratica costitutiva della politica, era Karl Jaspers, già in Concern with politics scrive: I limiti della filosofia di Jaspers in termini politici sono i limiti di tutta la filosofia della sua storia: considerare l’uomo al singolare, laddove la politica non sarebbe neppure esistente se gli uomini non esistessero al plurale”. p.023258, tr. it. parziale in L’interesse per la filosofia nel recente pensiero filosofico europeo in Aut Aut, 1990, p.45. 68 Ibidem. 67 234 III Welt e in quello di Zeitlichkeit. L’intrecciarsi di una strutturazione mondana dell’essere degli uomini con la temporalità intesa come storicità consente di depurare la storia dalla pesantezza della presenza dello spirito e dell’Assoluto hegeliano e della ragione descarteana. La filosofia con Heidegger apre la strada alla Geschichtlichkeit a quella prospettiva necessaria negli anni successivi alla prima guerra mondiale per ridare voce e rilevanza ai cosidetti affari umani. Così dichiara infatti la Arendt: “Il vero rappresentante di questa tendenza, rimane Heidegger che già in Sein und Zeit, ha definito la storicità in termini ontologici e non antropologici, ed è più recentemente pervenuto ad una concezione secondo la quale storicità significa essere inviati al proprio cammino, voler assumere su di sé questo compito, cosicché per Heidegger la storia umana coincide con la storia che si rivela in questa storia dell’essere [Seinsgeschichte], e come dice lui stesso ci siamo lasciati alle spalle l’arroganza di ogni assoluto. Il filosofo si è lasciato alle spalle la pretesa di essere saggio e di poter disporre di criteri eterni per giudicare gli affari della città. Infatti tale pretesa alla saggezza potrebbe essere giustificata solo da una posizione esterna alla sfera degli affari umani e potrebbe essere legittimata solo dalla prossimità della filosofia all’assoluto. Il filosofo dopo aver perduto lo schema dei cosiddetti tradizionali valori non intende più ristabilire quelli vecchi né cercarne di nuovi” 69. Nel tentativo di abbattere ogni forma d’idealismo e di realismo, allo stesso tempo, resta prigioniero, secondo la Arendt, di una volontà d’essere dell’esserci che viene a coincidere con una storia autoreferenziale, in cammino verso la realizzazione del proprio autentico sé. Gli altri, pur rimanendo i garanti del “mondo”, coloro che effettivamente riconoscono tacitamente le cose di cui è costituito il nostro mondo come tale, non rientrano mai a pieno titolo nella individuale crescita dell’esserci verso se stesso. Il filosofo, per questi motivi, non è più colui che una 69 Ivi, pp. 34-35. 235 III visione privilegiata sugli affari della città e che interagisce con essa, né più mantiene quest’interesse, ma è colui che ancora si rende conto dei rapporti che regolano il mondo e le cose che formano il mondo per raggiungere un obbiettivo egoistico che è l’aquisizione personalissimo se-stesso nella più piena autenticità. La Arendt renderà omaggio ad Heidegger come il pensatore che ha contribuito in maniera definitiva a dare una fisionomia spirituale al nostro secolo in Heidegger ist achtzig Jahre alt70, giustificando anche quello che aveva sempre considerato fosse stato il suo errore più grande, l’infatuazione per il nazismo, riducendola ad un breve momento di debolezza71, causato da una specie di deformazione professionale paragonabile all’avvicinamento politico di Platone alla tirannide. Ciò nonostante la Arendt percepisce una regressione del pensiero heideggeriano dopo la Kehre, considerando la Seinsgeschichte come né più né meno che una riproposizione, anche se un po’ più sofisticata, della Weltgeschichte hegeliana, e quindi una ripresa dell’identità platonica di pensiero ed essere72. La Arendt pertanto, se per un verso rende manifesto il proprio debito per altro verso non può tacere l’insoddisfazione che le viene dal pensiero heideggeriano dopo la Kehre, che sembra 70 Versione tedesca Heidegger ist achtzig Jahre alt «Merkur», XXIII, n.10, 1969, pp.893-902; Trad. ita. Heidegger a ottant’anni, in Micromega n.2, 1988, pp.165-179. La versione americana è Martin Heidegger at eighty, «New York Review of Book», XXI,1971, pp.50-54 Qui la Arendt definisce Heidegger come ribelle alle maniere accademiche e come colui che riuscì a far diventare la filosofia da mero oggetto d’erudizione a cosa del pensiero (p. 170/171). 71 Il coinvolgimento heideggeriano nella storia del partito nazista risulta patetico agli occhi della Arendt e senza dubbio riconducibile ad una totale inesperienza del filosofo rispetto agli affari politici e alla sua pretesa tipicamente “filosofica” che il mondo degli uomini debba seguire necessariamente le regole del pensiero. 72 Heidegger, secondo la Arendt, aveva rifiutato la volontà di potenza di Nietzeche perché la aveva interpretata come una violento desiderio di dominio e di egemonia sul mondo, la quale trovava la sua realizzazione piena nell’Io metafisico della Soggettività. Per questo sostituì tale volontà con la nozione di Gelassenheit, di lasciar essere, che manifesta un atteggiamento capovolto rispetto alla prima. Con la speculazione sul senso dell’essere contenuta nella lettera sull’umanismo, per esempio Heidegger non de-soggettivizza le posizioni assunte dall’ Ich denke della scia cartesiana- hegeliana. Anzi se Hegel mantiene la differenza tra la sfera della contingenza delle azioni concrete degli uomini e quella del Geist assoluto che sembra muoversi dietro le quinte del palcoscenico della vita umana, Heidegger appare ancora più astratto quando fonde insieme l’Essere con la storia dei suoi mutamenti “storici”, cioè con le movimentate vicende messe in atto dal pensiero umano. “Il pensatore che si è disavvezzato a volere per lasciar essere è in realtà il se stesso autentico di Essere e Tempo che ora ascolta la chiamata dell’Essere anziché la chiamata della coscienza” H. Arendt The life of the mind, cit. p187, tr. it. p.513. 236 III tradire le conquiste di partenza e spingere necessariamente ad un superamento radicale della sua filosofia, verso un oltre cui lo stesso Heidegger non è saputo arrivare. Se infatti la distanza tra agire e pensare viene ridotta a zero dall’ultimo Heidegger, e la prassi viene così ridotta all’attività speculativa del theoréin, sembra che egli si dimentichi delle esigenze iniziali che avevano motivato la sua ricerca e che egli non porti a compimento quelle stesse istanze di rottura con la tradizione metafisica che erano state fondamentali per lui fino alla pubblicazione di Sein und Zeit. Heidegger si salverebbe, però, da questa ricaduta all’indietro, secondo la Arendt, in un testo del 1946 intitolato Der Spruch des Anaximander73, in cui si mostrerebbe una nuova concezione del rapporto ontologico tra l’Essere e l’ente. In base alle seguenti parole di Heidegger esplicative del detto di Anassimandro, la Arendt interpreta fenomenologicamente la cosiddetta differenza ontologica: “Da ciò da cui per le cose è la generazione, sorge anche la dissoluzione verso di esso, secondo il necessario: esse si rendono infatti reciprocamente giustizia e ammenda per l’ingiustizia secondo l’ordine del tempo” 74. In questo modo heideggeriano d’affrontare il detto s’insinua una concezione del sorgere e del perire delle cose umane che porterebbe ad un vero e proprio capovolgimento del rapporto tra l’essere e l’ente. Infatti non è più l’evento del darsi dell’essere a risultare importante quanto piuttosto il divenire dei vari momenti del tempo umano fatto di enti. 73 In esso Heidegger intravede per la Germania appena uscita e sconfitta dalla guerra la possibilità di una nuova rinascita, il testo è stato incluso in Id.,Holzwege, Frankfurt, Klostermann,1950, tr. it Sentieri interrotti, Firenze, La Nuova Italia, 1968, pp.299/348. 74 Nei Sentieri interrotti Heidegger riporta la traduzione del Detto di Anassimandro di Nietzsche che mi sembra opportuno riportare qui di seguito: “Là dove le cose hanno il loro nascimento debbono anche andare a finire, secondo la necessità. Esse debbono infatti fare ammenda ed esser giudicate per la loro ingiustizia, secondo l’ordine del tempo.” Ivi, p.307. 237 III In altre parole è come se il non-essere nascosto dell’ente assumesse qui un primato rispetto all’essere nascosto dell’essere. “ La chiarezza accordata all’ente oscura la luce dell’essere”75, perché è l’Essere stesso che si ritrae nel suo svelarsi come ente. La Arendt riportando Heidegger ad un livello di tragicità proprio della esperienza greca della verità crede che, seppur Heidegger abbia cercato di fuggire la temporalità finita dell’esserci in uno spazio eterno di permanente presenza, alla fine non vi sia riuscito del tutto, riscattando in questo modo il piano degli affari umani. Grazie al ritrarsi dell’Essere gli enti si trovano ad essere sviati nell’ erramento, in cui torna ad essere possibile il “libero arbitrio”. Scrive Heidegger: “Senza erramento non vi sarebbe alcuna connessione da destino a destino, non ci sarebbe storia”76. Nell’erramento non c’è posto per la Seinsgeschichte, secondo la Arendt. In realtà è chiaro che si tratta in questo caso di una volontà estrema, da parte della Arendt, di salvare a tutti i costi il pensiero di Heidegger, mentre in verità nel continuum storico questi privilegia quei momenti di transizione tra un’epoca e l’atra in cui si manifesterebbe l’Essere, sospendendo diacronicamente la linearità del tempo umano. Ma questo la Arendt non sembra volerlo far pesare nel giusto modo. Per capire in modo più chiaro il tentativo arendtiano riporto un passo dei Sentieri interrotti in cui si evince lo stretto rapporto tra tempo ed essere, tra l’epoca dell’erramento e la storia del mondo: “Dalla epocalità dell’essere deriva la natura epocale del suo destino in cui è la storia autentica del mondo ogni qualvolta l’essere si mantiene in sé nel suo destino, ed e-viene improvvisamente ed imprevedibilmente un mondo. Ogni epoca della storia del mondo è un’epoca dell’erramento. L’essenza epocale 75 76 Ivi, p.314. Ibidem. 238 III dell’essere rientra nel carattere segretamente temporale dell’essere, e caratterizza l’essenza del tempo, pensata nell’essere. […] Il carattere estatico dell’esserci è per noi la prima apprensione della corrispondenza del carattere epocale dell’esssere. L’essenza epocale dell’esserci istituisce l’essenza estatica dell’esserci. L’ex-sistenza dell’uomo sopporta l’estaticità dell’essere e ne salvaguarda l’epocalità, all’essenza della quale appartiene il ci, e quindi l’esserci”77. L’esserci nel suo essere si trova sempre in tal modo esposto all’erramento, abbandonato al carattere temporale del suo essere ‘a-venire’ nel tempo, in cui ogni forma di «permanere» diventa vuota rappresentazione. Ridare forza alla relazione esistente tra la praxis aristotelica e la vita fattizia, presente in Heidegger sotto mentite spoglie nella struttura della temporalità78, è ciò che cerca di sottolineare la nostra Arendt. L’interpretazione del senso aristotelico della praxis rappresenta per lei la maggiore scoperta di tutto il pensiero del maestro nel suo insieme. Seppur in modo latente o in forma di mera contrapposizione il pensiero del Mitsein heideggeriano influisce molto sulla filosofia politica della Arendt. La dimensione arendtiana della conformazione pubblica del mondo-in-comune resta scandito dalla modalità della 77 Ivi, pp. 314-15. Simona Forti in Hannah Arendt tra filosofia e politica scrive: Vorrei sottolineare ancora una volta come quest’ultimo confronto che Hannah Arendt instaura con Martin Heidegger non ci metta tanto di fronte ad una proposta interpretativa quanto piuttosto al particolare modo in cui l’autrice elabora l’eredità heideggeriana. “Se il criterio per decifrare queste pagine fosse quello della certezza ermeneutica non si potrebbe fare a meno di notare l’arbitrarietà e la disinvoltura con la quale si avventura nell’esegesi dei testi del filosofo tedesco[..]. Ella ci lascia soltanto intuire che si riferisce alla Seingeschichte e alla storia della Seinsvergessenheit come se per Heidegger esse equivalessero ad una nostalgia per un darsi dell’essere nella sua pienezza”. Sull’altro piatto della bilancia possiamo porre Jacques Derrida che interpreta il detto di Anassimandro in una direzione opposta rispetto a quella arendtiana. Se per la Arendt infatti, questo rappresentava la testimonianza di una nuova apertura esegetica dell’intero pensiero di Heidegger, per Derrida costituirà il prediletto punto di forza contro cui scagliarsi nella famosa conferenza del 1968 intitolata La différance, per dimostrarne la vuotezza di fondamento. Secondo Derrida infatti non si arriva con Heidegger neppure a suggerire una via alternativa rispetto alla metafisica tradizionale, perché il riaccostamento tra pensiero ed essere è secondo lui evidente, si tratta piuttosto di una riaffermazione vigorosa del potere violento interno alla sola nozione, per esempio, di differenza ontologica, che instaura la persistenza della presenza dell’identità della differenza, o in altri termini, dello stesso nel diverso. In particolare Derrida sottolinea la tendenza heideggeriana di cercare a tutti i costi di trovare una soluzione al problema dell’origine della differenza di essere ed ente a partire quasi da una parola comune integra e pura non intaccata dai successivi scadimenti, che avrebbe permesso di pensare l’essere come tempo [Zeitlichkeit] e non più nel tempo o al di là di esso come eternità. 78 239 III pluralità che rappresenta il segno di una contingenza inalienabile. Il tratto distintivo della Arendt rispetto al Conessere heideggeriano risulta la necessità di condividere “più punti di vista” in uno stesso popolo. Nell’ipotesi assurda in cui sulla terra non dovesse restare che un solo popolo: “se in quel popolo tutti finissero per vedere e comprendere tutto da un’unica prospettiva [..] allora il mondo in senso storico-politico finirebbe e gli uomini rimarrebbero sulla terra privi di mondo”79. In conclusione possiamo affermare che il carattere di “mondo” arendtiano coglie fino in fondo il carattere di compartecipazione interno al Mitsein heideggeriano -che la mia tesi vuole dimostrare- e tenta anche di sciogliere alcuni dei nodi teorici più ardui e intrinsecamente contraddittori, come per esempio la tematica del Volk, in esso presenti. La distinzione tra essere-nelmondo e con-essere, in sintesi, indicano rispettivamente l’appartenenza al mondo e la pluralità, che rappresentano i due caratteri che contraddistinguono, secondo la Arendt, l’analisi heideggeriana di Sein und Zeit. Riducendo l’essere-nel-mondo alla figura del con-esserci (Mitdasein) si conferisce ad esso la possibilità del darsi (in esso) della dimensione esistenziale di una comunità originaria, il cui primato ontologico occulta la pluralità di cui essa stessa si nutre. Il con-esserci autentico della cosiddetta comunità originaria in qualsiasi modo la si pensi, cancella, secondo la Arendt, il tratto esistenziale della pluralità (originariamente non comunitario). Non esiste una pluralità che poggi su un mondo comune a priori, o che si riposi su uno stesso punto di vista, o su un’appartenenza ad un mondo già costituito. Il carattere esistenziale della pluralità, in definitiva, non la caratterizza in Heidegger tanto come un Mitdasein, quanto piuttosto come un Si anonimo, che la condiziona e vincola. 79 H. Arendt, Che cos’è la politica?, Ed. it. a cura di U. Ludz, Einaudi, Torino, 2006; p. 83. 240 III Anche Edith Stein, pur non essendo stata allieva diretta di Heidegger, nota come la Arendt un’incidenza fondante del Mitsein sul piano ontologico dell’esserci. Secondo Edith Stein, infatti, l'essere con è già un essere l'uno con l'altro, il Mitsein contiene già in sé il Mitdasein e non viceversa. Alla comprensione dell'essere dell'esserci appartiene già quella dell'altro. In Heidegger e l'esistenzialismo la Stein riporta le parole dello Heidegger di Essere e tempo per poi interpretarle in questa direzione: “L'essere per la morte si fonda nella cura. L'esserci in quanto gettato essere nel mondo, è già da sempre consegnato alla propria morte[...]. La diversione quotidiana e deiettiva davanti alla morte è l'essere per la morte inautentico. Ma l'inautenticità ha alla sua base l'autenticità possibile” 80. E continua la Stein: Il progetto esistenziale di un essere per la morte autentico non è un avere a che fare con un possibile nel senso di prendersi cura della sua realizzazione [...]. Il prendersi cura equivarrebbe in questo caso al suicidio, e non è ciò che gli interessa in questo momento. Egli cerca qui di farci capire che il prendersi cura del mondo al modo del Si quotidiano che ha a che fare con un appagamento proveniente dall'utilizzazione di un bene, non è il rapporto adeguato “perché l'essere per la morte non concerne la realizzazione della morte” ma del soggetto stesso. In altri termini la Stein vede da un lato una inconfutabile presenza del con-esserci come base della socialità dell'io, dall'altra però critica la prospettiva heideggeriana. Nel momento in cui l'esserci, per essere se stesso veramente, non può mai far conto sugli altri ma sempre e solo su se stesso, la socialità si riduce a una comunità di singoli esserci. In La filosofia esistenziale di Martin Heidegger Stein scrive: 80E. Stein, La filosofia esistenziale di Martin Heidegger, intro. di A. Brancaforte, HERDER Roma, p.135. 241 III “L’essere nel mondo è caratterizzato come prendersi cura (Besorgen) (nei molteplici significati di realizzare, concludere, procurarsi qualcosa, temere). Anche il conoscere è un modo del prendersi cura. Si falsificherebbe il suo carattere originario se lo so interpretasse come un rapporto tra enti in quanto presenti (soggetto e oggetto). Esso è un modo dell’essere-in e precisamente non quello fondamentale, ma una variante dell’essere-in originario. L’originario è un « andare intorno » alle cose per cui esse non sono solo viste come qualcosa di semplicemente presente (Vorhandenes), ma come strumento da utilizzare per qualche cosa (materiale, arnese, oggetto d’uso): come qualcosa di utilizzabile (Zuhandenen). Ognuna di esse è intesa come qualcosa « per… »; la visione che scopre questo « per » è la visione ambientale (Umsicht). […] Solo quando una cosa si mostra come inutilizzabile dà nell’occhio e si pone davanti in contrasto con ciò che è necessario e non è a portata di mano.” 81 Riassumendo, la Stein qui cerca di sottolineare il carattere anomalo del conoscere heideggeriano assimilandolo ad una modalità del prendersi cura, e a noi serve questo passaggio per capire come qualcosa che seppure sia già da sempre connaturato alla vita dell’uomo risulta essere visibile solo quando esso viene a mancare, e ciò succede anche rispetto agli altri, ci si rende conto della necessità di un prendersi cura diverso quando sorge una difficoltà rispetto al prendersi cura in atto, vale a dire rispetto alla maniera stessa di rapportarsi alle cose. Invece nella inoffensività e “scontatezza” delle cose di cui ci occupa tutti i giorni non si comprende l’urgenza di una nuova possibilità, finche esse stesse rimangono così senza dare nell’occhio. “Il difetto di utilizzabilità o l’essere inutilizzabile diventa un « richiamo » che conduce dal singolo all’« insieme degli strumenti » e al « mondo ». Il prendersi cura avviene sempre già sulla base di una confidenza con il mondo. L’esserci comprende se stesso come ente nel mondo e comprende la « significatività » del mondo. Esso ha un certo suo modo di stare con tutte queste cose, e perciò « ci si contenta », cioè « si lasciano le cose libere », 81 Ivi, pp. 30-31. 242 III finché esse non invitano proprio ad afferrarle e a trasformarle. Ogni strumento ha nell’insieme degli strumenti il suo posto e una regione alla quale appartiene: esso « si trova al suo posto » ossia « giace qua »”. Grazie all’unità della totalità di appagatività, tutti i posti si racchiudono insieme in una unità. Anche l’esserci è spaziale. Ma questa spazialità non significa che abbia un posto in una spazio oggettivo, né un posto come un qualcosa di utilizzabile. Esso è definito mediante un disallontanamento [Ent-fernung] e orientamento direttivo [Ausrichtung]. Dis-allontanamento (cioè toglimento della distanza) significa che esso ci porta nelle prossime vicinanze sotto forma dell’utilizzabile. Orientamento direttivo significa che esso ha varie direzioni nel mondo che lo circonda e perciò s’imbatte in tutto ciò che è spaziale. Con ciò per il mondo non è delimitato lo spazio. Lo spazio non è nel soggetto, né il mondo è in esso. “Esso appartiene al mondo come qualcosa che lo struttura. In un atteggiamento dell’esserci in cui esso ha lasciato il comportamento originario del prendersi cura e ancora osserva, egli può essere sottoposto a scomposizione ed essere visto come un puro spazio omogeneo.”82 L’altro esserci si incontra con un meccanismo analogo: se mi accorgo dell’altro è perché non fa parte del sistema, rompe lo schema, esce fuori dal gruppo. Ma ciò può avvenire solo se la mia cura ha già fatto il salto verso l’autentico lasciandosi alle spalle il mondo dell’inautenticità con la sua corrispondente cura. Questo prendersi cura originario, è quello che non ha nulla a che fare con l’utilizzabilità delle cose ma rappresenta quell’atteggiamento di scoperta che invece corrisponde con l’esistenza fattiva. 82 Ivi, p. 32. 243 III “All’esserci appartiene un essere-con altri enti che hanno anch’essi la forma dell’esserci. Questo non è un incontrarsi di diversi soggetti esistenti in quanto esser presenti, ma un essere l’uno con l’altro che è già presupposto all’atto di venire a conoscenza e alla comprensione. Alla comprensione dell’essere dell’esserci appartiene la comprensione dell’altro.[..] Così l’esserci fin da principio è in con-esserci nel mondo.”83 Qui è esplicita la posizione della Stein, il Miteinandersein è implicitamente contenuto già nel Mitsein, ciò significa che non è possibile che l’esserci si dia a se stesso senza una previa apertura all’altro, o ancora meglio, non è possibile che lui stesso sia “autenticamente” senza la presenza altra dell’altro come apertura, e come più originaria responsabilità rispetto all’ avere a che fare con altri nel mondo degli utilizzabili. L’esserci è, comunque, sempre considerato dapprima nella quotidianità, in quanto essere-nel-mondo, prendentesi cura e per questo motivo Stein dichiara: “All’esserci appartiene un essere-con gli altri enti che hanno anch’essi la forma dell’esserci. Questo non è un incontrarsi di diversi soggetti esistenti ma un essere l’uno per l’altro che è già presupposto per un conoscersi e un comprendersi (empatia). La comprensione degli altri appartiene alla comprensione dell’esserci. [..] Così l’esserci sin dal principio è con-esserci nel mondo”84. Ciò significa che, per la Stein, il con-esserci autentico (Mitdasein), seppur empaticamente connotato, agisce da fondamento del quotidiano con-essere (Mitsein) e non viceversa. Più chiaramente Stein scrive: “Il suo soggetto- e il soggetto dell’Esserci quotidiano in generale- non è il proprio Sé, ma un Si [Man]: non è una somma di soggetti, neppure un genere 83 Ivi, pp. 32-33. E. Stein, La ricerca della verità. Dalla fenomenologia alla filosofia cristiana, a cura di Angela Ales Bello, Città nuova editrice, p.158. 84 244 III o un modo, ma- così come il vero e proprio Sé viene momentaneamente nascosto dal Si- che è un essenziale esistenziale [wesenhaftes Existential].”85 Esserci vuol dire essere «ci» e questo significa in definitiva un esser qui in rapporto ad un esser lì: apertura verso un mondo spaziale, significa inoltre « Esserci per se stesso ». Questa apertura [Erschlossenheit] viene assunta come senso del «discorso sul lumen naturale nell’uomo »: essa « non significa altro che la struttura ontologico-esistenziale di questo ente, significa che esso è in modo tale da essere il suo Ci. Che esso è illuminato significa: che in quanto essere nel mondo è luminoso in se stesso e non riceve quindi, la luce da un altro ente, ma che è esso stesso l’illuminazione». La luce dell’illuminazione procede esclusivamente da se stesso anche se si mantiene una costitutiva apertura all’altro qui questa stessa sembra essere riportata in secondo piano rispetto alla solipsistica capacità individuale di far luce. L’angoscia di fronte a questo suo essere solo nel mondo (come solus ipse) produce un movimento in avanti che supera addirittura la morte per eterizzarsi in una nuova dimensione di cura, basata questa volta sul desiderio e sulla dimensione della volontà. Secondo la Stein si verifica un primo momento di ricezione della luce e in un secondo momento un’acquisizione della cura dell’altro, che possiamo considerare in linea con il movimento heideggeriano che si muove dal Si al Mitdasein autentico. “L’essere avanti a se stesso viene chiamato col nome di Cura ed è il fondamento di ogni preoccupazione e sollecitudine, di ogni desiderio e volontà, di ogni tendenze ed impulso”86. E ancora: “la peculiarità della Cura come essere dell’Esserci in cui esso è se stesso anticipatamente e per il quale manca sempre ancora qualche cosa 85 86 Ibid. Ivi, p. 37. 245 III del suo essere, sembra concludere la possibilità di abbracciare l’esserci nella sua totalità. Si deve quindi dimostrare che la morte è afferrabile e con ciò l’Esserci in quanto intero è anch’esso afferrabile. L’esperienza della morte degli altri non è una vera e propria esperienza della morte. Noi sperimentiamo il loro non essere più nel mondo, un trapasso dall’esserci a qualcosa che assomiglia al puro essere presente, che però non coincide con esso, perché non rimane solo una cosa corporea, neanche una pura cosa nonvivente, giacché da parte nostra è presente un essere-con e una premura per il defunto. E il cessare d’esistere è solo un cessare d’esistere per noi; non viene afferrato dalla parte del morente, non sperimentiamo il morire dell’altro. Mentre nell’essere-nel-mondo, nel senso del prendersi cura, è largamente possibile la sostituzione di una persona con un’altra, il morire non può essere assunto da nessun’altro. In quanto finire dell’esserci esso di per sé è un esistenziale e se è afferrato, può esserlo solo in quanto il mio proprio morire è mio e non di altri.”87 Attraverso la morte è possibile ricostruire una possibile unità dell’esserci che si ritrova come un tutto a partire da sé dopo essersi perso fuori di sé. Così l’esserci si comprende come cura come esistenza fattiva come lavoro e come movimento verso un’origine che è anche la fine e che quindi permette l’eternizzarsi del movimento, perché chiude il circolo del Sé. Tant’è vero che : “Il vero e proprio essere per la morte non è un voler render disponibile che si prende cura[..]; esso ha davanti agli occhi il non-poter essere come pura possibilità nella quale esso si colloca in anticipo come nella sua più propria possibilità che esso deve assumersi da se stesso, sciolta da ogni relazione, che gli disvela, il suo autentico essere e nello stesso tempo l’inautenticità dell’essere medio e l’autentico poter essere dell’altro”88 Addirittura l’Io si assume il compito di indirizzare l’altro verso la retta via, senza mai poter essere l’altro. L’unità dell’Io prende il nome di Cura, secondo la Stein, nessuna alterità quindi, ma 87 88 Ivi; p. 40. Ivi; p. 42. 246 III solo un venire incontro dell’esserci a se stesso autocomprendentesi. Alla fine, infatti “nell’essere con insieme con gli altri, l’esserci ha parte alla storicità della comunità. Destino e storicità sono essere per la morte. Con ciò tutta la storia ha il suo centro di gravità nel futuro che viene nascosto solo dalla storicità inautentica.”89 Il destino diventa l’ultrapotenza del tacito, angoscioso , autoprogettarsi sul proprio esser in colpa, che richiede la cura , quale condizione ontologica della sua possibilità. Se l’esserci è nella quotidianità, ha una particolare cura che comprende le tre estasi di passato presente e futuro, che sforano in una temporalità originaria e dunque in un poter-essere autentico che include l’altro. “Il primo esserci nel quale l’essere umano si trova gettato non è quello solitario, bensì il comunitario: l’essere-con. L’essere umano conformemente al suo essere è originariamente sia individuo sia che essere comunitario, ma temporalmente la sua vita individuale e cosciente inizia più tardi di quella comunitaria. Egli agisce con gli altri e secondo ciò che vede fare agli altri, e da ciò è guidato e sostenuto”90. Esiste dunque, secondo la Stein, un co-originario essere con gli altri dell’esserci che innanzitutto e per lo più presenta un carattere neutro, perché può trasformarsi sia in un essere inautentico, o, come dice l’autrice, falso (unechten), sia in un essere “vero”, che consiste nel diventare uno dei membri di una piccola cerchia, di una comunità di spiriti guida, che sono coloro che danno il tono (Tonangebenden), contrapposti a coloro che, invece, non sanno tirarsi fuori dal gruppo (Gefolgschaft). 89 90 Ivi; p.51. E. Stein, La ricerca della verità, cit. p.184. 247 III Più drastica la riflessione sul Mitsein di Stefano Bancalari e Guido Bruni, che notano soprattutto in Sein und Zeit e nelle lezioni che seguono, un passaggio radicale da parte di Heidegger alla tematica della differenza ontologica, che pregiudica definitivamente la dimensione del «Mit». Stefano Bancalari studia la Vorlesung sul Sofista in cui Heidegger scrive che “Essere non significa altro che un poter essere l’un con l’altro”, attribuendo in tal modo al Miteinandersein una valenza ontologica non indifferente. La κοινωνία platonica viene interpretata come Miteinandersein, quest’ultimo termine viene gradualmente sostituito col termine Mitwelt a sottolineare, secondo Bancalari, l’indistinzione tipicamente platonica tra la prospettiva ontologica e quella antropologica. Sappiamo infatti che il mondo del con include in sé anche i rapporti con gli enti semplicemente presenti, il Miteinandersein è specificamente riferito all’essere insieme gliuni-con-gli-altri di più Dasein. Nella considerazione dialettica fondamentale dei tre generi sommi (essere/moto/quiete) che Platone affronta nel Sofista, la κοινωνία diventa condizione di possibilità del vero. Heidegger attribuisce così alla stessa κοινωνία un senso d’essere ad essa estrinseco ma tanto ben definito da condurci a sostenere la sua attendibilità. Heidegger rivela infatti che nel dire questi tre generi, ognuno di essi è contemporaneamente se stesso ed anche altro rispetto agli altri. Si sente la necessità di annoverare tra i generi sommi altri due generi, ταυτóν ed έτερον, in forza di quel “dire” che non è nulla di diverso dal linguaggio. Stabilito che i generi sono cinque e non tre, si impone la necessità d’affrontare un'altra questione, ossia quella del loro reciproco poter-essere l’un-con-l’altro. La κοινωνία platonica viene tradotta da Heidegger col termine Gemeinschaft, a sottolinearne già di tutto principio l’ambiguità del contenuto semantico che questa comporta. Essendo essa ciò 248 III che si pone tra ciò che è mutevole (κίνησις) e ciò che è in quanto αεί óν (στάσις), la κοινωνία si precisa come δΰναμις κοινωνίας, in quanto possibilità del Miteinandersein91. Ecco che“κοινωνία significa dunque essere per un altro (zu einem Anderen) ed essere con esso (mit ihm) e in riferimento a questo essere altro essere con l’uno”92. Heidegger incentra così il suo studio sull’ έτερον, perché nella sua stessa natura è intrinseco un πρóς τι, un riferimento imprescindibile a ciò che esso non è e quindi rispetto al quale può dirsi altro. Ciò significa che proprio nel concetto di altro e direi meglio d’alterità va cercata quella possibilità di comunità che permette ai diversi generi di entrare in relazione gli uni con gli altri. Infatti “attraverso la prova [Aufweis] della diversità dell’ Altro dall’ Essere, dal Moto, dalla Quiete e dallo Stesso, il concetto di Altro diventa in generale trasparente”93. Questa trasparenza costituisce in altri termini una valenza positiva del suo potere di negazione , per il fatto che si può dire qualcosa se questa non è quell’altra cosa, e non è quell’altra ancora. Nasce una nuova formulazione del non, che Heidegger attribuisce giustamente a Platone, e che consente di superare il non senso implicito nel concetto di “non essere” inteso come opposizione assoluta all’essere. L’intreccio tra essere, apparenza, e non essere sembra così risolto da Heidegger a partire da un Non originario che corrisponde alla tematica dell’alterità in quanto tale. Il non infatti anziché nascondere il vero diventa manifestativo, fa vedere qualcosa94. Anche il discorso falso si determinerebbe come un interpellare qualcosa come qualcos’altro, cioè come qualcosa che non è. Il falso tuttavia non è semplicemente una contingenza del discorso, un errore nel parlare, ma viene fuori da una cattiva gestione della 91 Platon:Sophistes, GA 19, p.479. Ivi, p. 478. 93 Ivi, p. 543. 94 Tale scoperta platonica è ritenuta da Heidegger fondamentale per la fenomenologia, ossia per quel tipo di ricerca che si muove principalmente e unicamente in esibizioni, e verrà teorizzata più ampiamente nel VII capitolo di SuZ. 92 249 III distanza, di quella alterità che regola la definizione della cosa. Anche il discorso vero infatti è un mostrare l’ente a partire da qualcosa che esso non è. La possibilità originaria che ci si possa domandare se qualcosa sia in quanto qualcosa che esso non sia, rappresenta la condizione di possibilità del logos stesso, del linguaggio in quanto tale. Il dire stesso si basa su questa possibilità d’interpellare l’ente come un qualcosa che possa essere altro da ciò che sembra essere. Nel caso del falso si determinerebbe l’ente in modo occultante e non svelante. Heidegger pertanto radicalizza l’intuizione platonica dando al senso del termine Anderes un significato d’alterità assoluto. Affinchè l’ente si esibisca nel linguaggio deve essere stato fatto un percorso che lo abbia condotto a distanza da sé, grazie all’alterità e all’estrinsecità di ciò che esso non è, a partire dalla quale esso può essere compreso nel suo dispiegarsi come visibilità d’essere. In questo senso ogni ente non può darsi che come Schein. In questo complicato intreccio possiamo attribuire al non originario una valenza di con che tiene insieme e insieme separa nella compromissione nella manifestazione col nascondimento l’uno dall’altro gli enti tra loro. Di fronte a ciò Bancalari sostiene che Heidegger indietreggi, perché a suo modo di vedere Heidegger dovrebbe spingersi fino all’esplicito riconoscimento del Mit come origine di quel non, fenomenologicamente produttivo, occultante e allo stesso tempo svelante la differenza ontologica. Così, per esempio, scrive in L’altro e l’esserci: “Nonostante questo appaia come l’esito più rigoroso del pensiero heideggeriano del con [..] nei testi heideggeriani è sempre presente una tendenza opposta a risolvere l’intreccio, a scindere il nesso dell’essere e dell’apparenza da quello della differenza ontologica per preservare uno 250 III spazio di visibilità tra Sein e Seindes libero dal nascondimento, a separare insomma non e con.”95 Nel quarto capitolo de L'eclissi dell' “altro”di Guido Bruni, intitolato La solitudine davanti alla violenza dell'apparire in cui la Mitwelt viene ad essere interpretata in senso negativo, si sostiene l'indiscussa predominanza della sfera della Selbstwelt su quella della Umwelt e della Mitwelt. Qui gli scorge, infatti, a partire dai Grundprobleme der Phänomenologie la quotidianità, come detentrice di superflui sensi comuni, schierandosi a favore della Zugespitztheit del Leben auf die Selbstwelt. E così egli scrive: “Negli anni di Sein und Zeit sono proprio «gli altri» in quanto Man, innanzitutto, la forza che s'oppone a quello schiudimento, l'etere e in qualche modo anche l'origine d'ogni esistere nella non-verità”96. Ne deriva, secondo Bruni, una decisiva perdita di peso della Fürsorge. É infatti nella significatività nel mondo che si dischiude la com-presenza degli altri, in quanto portatori del senso comune di ogni vicissitudine del vivere di ogni giorno, ma questa secondo Bruni in Essere e tempo non presenta queste caratteristiche. Infatti Bruni scrive: “il momento del Besorgen, della cura degli essenti ‘non conformi all'esserci’ manterrà nell'andamento delle indagini heideggeriane quel collegamento organico alla più profonda realtà della Erschlossenheit dell'essente nel suo essere, che il Mitsein avrà invece smarrito”97. Anche riguardo alla conferenza del 1924 Der Begriff der Zeit, Bruni, pur sottolineando il legame tra il Besorgen e il Bancalari, L’altro e l’esserci; cit. p.94. 96 Guido Bruni, Heidegger e l'Essere come fatticità, il primato della celatezza, volume II, Ermeneutica// 6, Biblioteca di Teoria, Edizioni ETS, Pisa, 1999, Conclusionii;§ 4 ; 1: il concetto di Selbstwelt, p.345. 97 Ivi, p.355. 95 251 III Mitainander (non assimilabile alla famosa Kehre), tende poi a svalutare la sfera del con-essere cosicché: l'esserci come essere nel mondo diventa nel contempo Mit-einander-sein. “Il con che ci lega agli altri è modo apriorico d'ogni esistere come tale, perciò e solo perciò colui che esiste può condividere con altri lo stesso mondo, incontrarli e anche essere per loro; da forma il mit si fa condizione (omologata però a molte altre! ) d'un apparire” 98. La posizione del fenomeno dell'altro resta sempre connessa alla tematica del linguaggio: è interessante avvertire la presenza del Miteinandersein sempre in riferimento allo Sprechen: “sich aussprechendes mit einem Anderen uber etwas sprechen”99. L'essenza piena del linguaggio è proprio il discorrere con altri sulle cose, più propria ancora della potenza della Verweisung [rimando] che più tardi in Sein und Zeit prenderà un posto assai rilevante. Bruni vede addirittura un progressivo declino del Mitsein heideggeriano verso il Si omologante. L'essere con gli altri inizia a proporsi come il suo “non sostare presso di sé nel pensiero precorritore della morte”100 Heidegger infatti scrive: “Ich bin mit den Anderen, und die Anderen mit den Anderen ebenso”101 Io sto con gli altri così come fanno anche gli altri: gli altri diventano detentori del quotidiano vivere comune senza una piena consapevolezza di sé da parte degli esserci in questione. Una suggestiva interpretazione degli sviluppi del Mitsein heideggeriano dopo Sein und Zeit è quella svolta in chiave giuridico-politica da Bruno Romano. Egli trova una connessione rilevante tra il Mitsein e la tematica della noia trattata da Heidegger nel corso tenuto nel semestre invernale del 98 Ivi, p.356. 99 M. Heidegger, Der Begriff der Zeit, cit. p.13. 100 Bruni, Heidegger e l’essere come fatticità, cit. p.358. 101 M. Heidegger, Der Begriff der Zeit, cit. p.13. 252 III 1929/30102, grazie alla quale in modo indiretto troviamo una conferma del “darsi insieme” che precede nell’esserci il formarsi del sé, di particolare valore in riferimento all’aspetto politicogiuridico dell’essere-con-altri. Così Romano scrive: “Heidegger descrive tre modalità di noia: l’essere annoiato da un qualcosa definito, l’annoiarsi in una situazione [..] ed infine il venire presi dalla noia che riduce ciascuno ad un «indifferente nessuno». L’analisi heideggeriana di queste tre modalità di noia mostra che ad esse è comune il darsi insieme - sia pure con intensità distinte103- di tre elementi: L’«essere trattenuto», l’ «essere svuotato» e l’«ingannare il tempo»”104. Questa tripartizione ricorda quella della cura di Essere e tempo Il parallelo con il Man di cui Heidegger parla in Essere e tempo è facile a farsi, dal momento che come nel Si il Dasein perde la propria autenticità disperdendosi nel mondo degli utilizzabili in cui si fa ciò che gli altri fanno, si dice ciò che gli altri dicono e si pensa ciò che gli altri pensano, giungendo ad essere un nessuno tra nessuno. Così, anche nell’ingannare il tempo, lo svuotarsi di questo, il suo ridursi ad un intervallo insensato impedisce all’esserci l’esercizio della differenza di sé dagli altri e costringe infine ciascuno ad esaurirsi come in-differente105. La vuotezza dell’intervallo di tempo invade il chi dell’esserci, perché viene incontrato come nulla-della-differenza, e in quanto tale il suo se 102M. Heidegger, Die Grundbegriffe der Metaphysik. Welt- Endlichkeit- Eisamkeit (WS 1929/30), 1983. Nella prima forma di noia l’origine dell’essere annoiati è un’entità definita; viene fatto da Heidegger stesso l’esempio del treno, il cui ritardo qualifica il tempo come intervallo, trattenendolo nell’attesa. Nella seconda, l’origine del disagio è da riscontrare in una situazione particolare come può essere quella che si viene a creare con un invito a cena non desiderato. In questo caso si assiste ad uno svuotamento del proprio tempo a cui viene sottratta la possibilità del progetto. Nella terza forma di noia, la noia raggiunge il suo punto massimo, la sua origine non si ritrova più in una entità o in una situazione nella sua interezza, per il fatto che ciascuno viene visto come imprigionato in un tempo vuoto, e incontrato come un indifferente nessuno. 104 Bruno Romano, Heidegger, l’essere con gli altri e il diritto; Dal moderno verso il postmoderno;in La ricezione italiana di Martin Heidegger, a cura di M.M. Olivetti, Biblioteca dell’archivio di filosofia, CEDAM, 1989, Padova. pp.467- 468. 105 Ivi, p.469. 103 253 III stesso è consumato dal tempo. In questa terza e più compiuta forma di noia si assiste ad un essere in relazione gli uni con gli altri caratterizzato dall’impotenza, e dall’essere soggetti ad un potere che costringe. Così afferma Bruno Romano: “Questa qualificazione «pubblica», giuridico - politica, della noia compiuta è leggibile esplicitamente in Heidegger che la interpreta […] come costrizione all’impotenza” 106. Questo soffermarsi di Heidegger sulla dimensione del compimento della noia sembra sottolineare un sotterraneo interessamento alla vita pubblica che si presenta come una costrizione nell’impotenza di esserci svuotati e neutri107. Tutto ciò comporta anche un interrogarsi di Heidegger sull’incidenza dell’esistere con gli altri nella formazione della terza modalità della noia. E da questo studio emerge una distinzione utile per la comprensione della sua visione dell’organizzazione della vita pubblica nell’assetto giuridico-politico della società. Per questo Heidegger distingue il tempo della rappresentazione da quello della noia. Il primo deve essere considerato come quello che storicamente si è dato nella modernità108 da Cartesio in poi, il secondo come quello che dai suoi tempi sembrava sopraggiungere e incalzare le società umane, ove tutti sono un «indifferente nessuno». Nel tempo della noia ci si ritrova ad essere abbandonati a noi stessi, ma 106 Ivi, pp. 469,470. Bruno Romano mostra qui come questa chiarificazione heideggeriana sia in realtà una previsione su quella che oggi viene spesso chiamata condizione postmoderna, in cui ad essere annunciato non è più il tempo del soggetto ma quello del post-soggetto, costretto ad assistere al proprio annichilimento e a quello degli altri uomini come lui, ed in cui a dominare è lo spettacolo, vale a dire una presentazione di immagini prodotte senza alcuna riferibilità ad un chi. 108 A cui corrisponde un assetto giuridico-politico in cui qualcuno esercita la sua soggettività come il potere che impedisce agli altri l’esercizio della loro soggettività. 107 254 III “ciò che ci abbandona a noi stessi si mostra essere [..] non l’insieme delle cose, ma gli altri uomini, così che l’origine della noia compiuta è da interpretare come avente natura relazionale, intersoggettiva” 109. E continua Romano: “elemento costitutivo della noia è, per Heidegger, l’esser- trattenuto nel tempo come intervallo, dilatazione del presente, ossia nel venir meno dell’incidere del «fuori da se stesso», ove il fuori è quanto libera dal coincidere con il presente. Questo incidere liberante segna il nesso tra tempo e linguaggio e lo indica ambientato nella relazione tra gli esistenti in quanto parlanti. Il nesso ora in discussione si può leggere nell’interpretazione heideggeriana del passo essenziale della metafisica occidentale, che incontra «l’ente come ente». [..] Il «come» nomina il «non» dell’ente incontrato che indica la connessione che salda, nella relazione con gli altri, linguaggio e tempo”110. Il poter dire il come dell’ente significa anche il poter dire il suo come non è, e anche il suo non identificarsi con esso, la sua differenza sia rispetto all’ente sia rispetto alla situazione che lo ambienta e contestualizza. Dire il come rappresenta il modo specifico dell’essere umano che grazie a questa possibilità/capacità è in grado di temporalizzare il suo tempo e di decidere sul proprio poter-essere che ha sempre da venire. Questo non coincidere con l’ente si può fare ragione solo nel linguaggio, in cui il tempo può temporalizzarsi, può farsi personalizzato e proprio dell’essenza del singolo esserci. Ma sia nel tempo della rappresentazione che in quello della noia assistiamo al “darsi dell’ inessenzialità dell’altro esistente nella sua alterità reale. In entrambe le direzioni, ciascun esistente non muove dall’essenzialità dell’altro”111. Essendo quindi la Qui Romano sottolinea però che Heidegger nell’interpretazione della noia compiuta ne coglie l’origine nel fatto che le cose e non gli altri ci hanno abbandonato a noi stessi, svuotandoci e rendendoci un indifferente nessuno cit. pp. 471472. 110 Ivi, pp.472-473. 111 Ivi, p. 476. 109 255 III temporalità l’originario fuori di sé, per Heidegger ciò significa proporre una via alternativa ai due ordini sopradetti, e cioè che la non coincidenza dell’esserci con il presente che lo definisce incastrandolo- lo fa essere libero, lo slega dalle maglie del presente, e lo fa essere il suo proprio poter-essere autonomamente temporalizzantesi. “L’espressione «fuori di sé» sollecita ad interrogarsi sulla distinzione tra la comprensione «volgare» del tempo e il temporalizzarsi dell’esistente. La risposta è avviata dall’analisi del tempo dell’orologio ed è rivolta alla questione sulla qualità dell’essere-con-gli-altri. Nella lettura dell’orologio, ciascuno non è interessato -dice Heidegger- né all’orologio, né all’ora come ad un qualcosa di presente, ma al tempo- per, nel senso che c’è ancora tempoper, o non c’è più tempo per (G:A: b. 24, p.391). [..] In questa direzione Heidegger dice che nell’incontrare il tempo, l’uomo mostra che «ne va di se stesso» perché [..] l’esistente si temporalizza nella «possibilità» oppure l’esistente si temporalizza nella caduta della possibilità nel succedersi dell’ora in un indefinito poi della «capacità»” 112. Il soggetto è tale se è sospeso tra la possibilità di guadagnare la propria esistenza e quella di perderla. Heidegger insiste molto in Essere e tempo sull’essenzialità per l’esistente del rinvio agli altri come sorgente di possibilità d’autenticazione. Scrive Heidegger infatti: “Gli altri non vengono pensati come aggiungentisi alle cose innanzitutto semplicemente-presenti” perché -egli afferma- “il con-essere determina essenzialmente l’esserci anche qualora, in linea di fatto, un altro non fosse né presente né percepito” e ancora: “L’essere in rapporto all’altro [..], in virtù del con-essere, è di già in atto con l’essere dell’esserci (GA, b. 2, pp.157ss). La qualità del rinvio ad altri è espressa così molto sinteticamente ma non esclusa nel processo di costituzione dell’esistente. Dichiara Romano: 112 Ivi, p. 477. 256 III “Nel dire l’ «ente come l’ente» si manifesta che la differenza dell’esistererispetto al non umano perché non si dà nell’essere, non è semplicemente data, ma è da guadagnare in una ripresa mai compiuta, che apre alla dimensione dell’alterità. L’esistente si scopre in un cominciamento che continuamente viene esistito nel riprendere il nesso tra linguaggio, temporalizzarsi, e qualità della relazione con gli altri esistenti. Si delinea così l’alternativa tra due visioni completamente distinte degli altri: gli altri sono essenziali nel cominciamento dell’esistere, inteso quale continuo riprendere il «non» dell’ente, il «come» nel senso indicato, oppure gli altri semplicemente si danno già e sempre nel manifestarsi dell’esistere. Nella prima direzione gli altri si incidono come esistenti; nella seconda ipotesi gli altri semplicemente ci sono, perché l’uomo non può astrarre dal suo esser-con-gli-altri, [..]. In questa seconda ipotesi però, gli altri non sono essenziali all’inizio del riguadagnarsi continuo dell’esistente, ma solo compaiono nel suo manifestarsi”113. In altri termini, se gli altri costituiscono fondamento della cura del mondo nel continui riprendersi della deiezione nel mondo, possiamo dire che l’intersoggettività gioca un ruolo forte all’interno della filosofia heideggeriana, altrimenti no. Ma essendo gli altri essenziali al con- essere nel suo darsi originario ciò significa che, a mio avviso, non possiamo far rientrare gli altri nella seconda direzione propostaci da Romano, bensì nella prima. In più Romano afferma che l’essere fuori di sé dell’esserci si dispiega nel linguaggio, in quanto è il movimento stesso del dire l’ «ente come ente» per gli altri, “secondo un muovere dagli altri che non è il semplice con-essere gli altri, ma è il prendere la parola dagli altri, è per ciascuno il suo «fuori da se stesso», in quanto è l’assunzione del «fuori da se stesso» dell’altro. Per il suo darsi solo nella relazione, il linguaggio viene dall’altro per volgersi all’altro. Per il suo svolgimento comune con il dire il «non» dell’ente il temporalizzarsi si dispiega in un fuori di sé ove il fuori è verso gli altri, e non 113 Ivi, p.479. 257 III indifferentemente verso le cose o gli altri. La cose in quanto tali, non sono nella direzione del dire, del linguaggio [..] che per lo stesso Heidegger è una possibilità proprio a partire dal relazionarsi all’ente come tale (GA 29/30, p.433).”114 Considerando il temporalizzarsi dell’esserci a partire da quel “tempo- per” che comprende gli altri e con essi il linguaggio si dà un esistere con gli altri che non li concepisce come semplicemente-presenti, ma in tutta la radicalità della loro alterità. Il reciproco rapportarsi degli uni agli altri fa essere il nostro trovarci “fuori di noi” verso questi altri e a partire da quest’ultimi. La temporalizzazione del mio proprio essere nella contemporaneità del suo venire dagli altri e prospettarsi in funzione degli altri, verso di essi, è l’unica via giusta, l’unica autentica. Il semplice oltrepassamento del mondo delle cose e degli altri del Si che prescinde dalla relazionalità del linguaggio sarebbe uno sprofondare nel non-senso e nel nulla di un vuoto tempo che annoia. Se invece l’oltrepassamento di sé avviene verso sé, e la qualità di questo oltrepassare “appartiene all’esistere -dichiara Romano-, se ne dispiega il radicarsi nel nesso che salda il tempo e il linguaggio nell’inizio intersoggettivo di ogni ripresa del se-stesso. […] Il trascendere, che Heidegger individua come la specificità dell’esistente rispetto al non-umano, si chiarisce così non secondo l’uni-direzionalità del trascendere oltrepassare verso, ma secondo un non coincidere che si accende con il venire-da, con il muovere dagli altri, secondo una ricostituzione continua della soggettività nell’intersoggettività.” 115 L’essere oltre-se-stesso va interpretato come un essere al di fuori di sé verso gli altri a partire da essi. Il Si viene superato perché riconosciuto nella sua falsità e perché non permette il riprendersi il mondo nelle sue “particolari generalità nel dire con gli altri”. L’intersoggettività, infine, nella lettura di Romano appare 114 115 Ivi, p.480. Ivi, pp. 481-482. 258 III primeggiare sulla soggettività, definita come un “noncoincidere” del singolo soggetto con lo sfondo comunitario da cui proviene. Gli studi fin qui riuniti vanno ancora integrati con la critica di un particolare interprete di Heidegger che ha acquistato un ruolo fondamentale per l’intero percorso di ricerca. Levinas, essendo stato il punto d’avvio della mia tesi è diventato anche per il suo sviluppo una delle figure di riferimento più importanti, che non posso tralasciare in questo paragrafo dedicato all’interpretazione critica del Mitsein/Mitdasein heideggeriano. Secondo la critica di Levinas infatti, la distinzione heideggeriana tra ciò che esiste e la sua esistenza, la cosiddetta «differenza ontologica» tra l’ontico e l’ontologico, produce un rovesciamento della gerarchia in favore di un essere in generale, di un puro senso “verbale” dell’essere. L’accusa di Levinas mira a smascherare il carattere neutrale di quest’essere, che costituisce l’esistenza dell’esistente, che, essendo stato privato di ogni specificazione, diventa puro nulla, perché non specifica più nulla «che è». Ritornare dall’esistenza all’esistente diviene allora un programma filosofico tendente a restituire il primato strappato all’ontico dall’ontologico e allo stesso tempo tendente a denunciare nella filosofia heideggeriana una costitutiva impossibilità verso un’effettiva apertura alla questione dell’altro. Se Heidegger pone, secondo Levinas, il tragico dell’esistenza nella sua finitezza, e di conseguenza “in quel nulla in cui l’uomo si getta nella misura in cui esiste”116, l’angoscia diviene il segno di un perdersi dell’esistente nell’anonimato dell’essere. L’idea levinasiana della “neutralità” dell’essere heideggeriano, porta il filosofo francese a una lettura critica dell’essere-per-la-morte. Il carattere autoreferenziale dell’essere-per-la-morte heideggeriano che 116 sembra guidare, secondo Levinas, l’interpretazione E. Levinas, Dall’esistenza all’esistente, cit. p.13. 259 III dell’esistenza umana come un’estasi verso la fine117 viene rovesciato in un voler vivere la morte degli altri al loro posto, in un desiderio volontario di morire per l’altro. L’essere-con-altri heideggeriano viene inserito esclusivamente all’interno della dimensione di perdita del sé preoccuparsi. A questa visione nell’anonimo quotidiano indifferente e anonima dell’alterità Levinas oppone un Io sempre “in ostaggio” dell’altro, già responsabile dell’altro prima di deciderlo. Secondo Levinas, che rifiuta la definizione dell’altro come neutro essere, l’altro si manifesta come abisso e come alterità radicale, non integrabile, e non raggiungibile. L’accesso fenomenologico levinasiano all’altro distrugge l’immanenza dell’intenzionalità, e allo stesso tempo apre la possibilità di un rapporto nuovo con l’altro che impone all’ Io di dimenticarsi del proprio Sé, di sacrificarsi a partire dalla relazione d’”Infinizione” Io-tu. Anche quando prende forma una relazione tra due individui basata sull’amore, nella quale possiamo inserire anche la forma autentica della Fürsorge (che pur non essendo stata sviluppata aveva tutti gli elementi per dar adito a discorsi di questo tipo), non si tratta mai di una fusione tra i due termini del rapporto, infatti tra di essi si mantiene costante un’alterità radicale che non può essere dominata né dall’uno né dall’altro. L’altro all’interno della relazione resta sempre l’altro, e non si muta mai in mio. Anche nell’amore che potrebbe sembrare il punto massimo di congiungimento sia spirituale che fisico di due esistenze, si assiste ad un eterno differenziarsi in due e ad un persistere di un Unicum scisso nella sua stessa intimità, quindi già all’origine diviso in una coppia. Questa scissione dell’ identità provoca una sofferenza, una ferita interna, una profonda 117 Ivi, p.14. 260 III fenditura per la quale non esiste cura. Rispetto ad essa si rimane impotenti. Levinas non vede nessuna dimensione etica dentro la dimensione ontologica del con-esserci, relegandolo all’inautenticità, e condannandolo così a rappresentare una collettività priva di qualsiasi forma di comunione. Abbiamo però cercato di far comprendere come Heidegger nella Fürsorge esprima in modo perfetto la natura ambigua e ambivalente della forza unitiva che governa più esserci tra loro e che può essere sia autentica che inautentica: può «lasciar essere» oppure «dominare». Nel soffermarsi su questa ambiguità Heidegger esplicita uno strutturale fondarsi dell’atteggiamento inautentico su quello autentico, e di conseguenza un venir meno della stessa ambivalenza, qui l’alterità compare in un ruolo decisivo. Per riprendere il caso prima esaminato, l’aver-cura della Fürsorge autentica appare una chiave interpretativa valida anche per la relazione amorosa, in cui non è mai possibile acquietarsi, perché seppure gli ‘esserci’ tra loro sembrano legati da una connessione “autentica”, anche questa non è possibile afferrarla e dominarla una volta e per tutte. In questa particolare forma di “cura” si mantiene proprio quell’alterità radicale della relazione che invece Levinas non sembra scorgere. Nella prima sezione di Totalità e infinito la fenomenologia del desiderio levinasiana parla del desiderio metafisico come tensione verso una cosa totalmente altra, verso il totalmente altro118 e si sofferma sull’intenzionalità che non può essere soddisfatta come un bisogno dalla cosa desiderata, ma che si presenta a se stessa sempre come non adeguata perché comprende la totale esteriorità dell’altro, comprende dentro sé l’impossibilità stessa di una qualche soddisfazione. 118 E. Levinas, Totalità e infinito, cit. p.31. 261 III L’altro definito nel desiderio metafisico come Altri (Altrui), a sottolineare il suo essere assoluto, non può mai essere visto del tutto: ecco perché Levinas chiama il desiderio anche desiderio dell’invisibile. Sappiamo che la visione tradizionalmente ha sempre rappresentato lo strumento attraverso cui potere effettuare l’adeguazione tra la cosa e il pensiero, vale a dire tra l’intenzione conoscitiva del soggetto e il suo riempimento oggettivo. Allora parlare di desiderio dell’invisibile significa parlare di alterità non come semplice negazione dell’Io da parte dell’altro, che così rappresenterebbe semplicemente il suo contrario, all’interno di un sistema a sé stante, ma legare l’intenzionalità del desiderio a un termine che non lo riempie, ma lo alimenta con un incessante trascendenza. Così scrive Levinas: “L’Io e l’Altro sono tra loro in rapporto e nello stesso tempo si assolvono da questo rapporto, restando assolutamente separati” 119. In un certo senso il legame che tiene uniti l’io e l’altro balza alla luce nella misura in cui il più importante carattere dell’alterità è l’infinità dell’altro, grazie alla quale si apre una relazione che è allo stesso tempo impossibilità della relazione, impossibilità di misura, impossibilità di limitazione. Questa posizione però è solo apparentemente estranea ad Heidegger. Ritroviamo infatti, mi sembra, la stessa paradossalità teoretica anche nel Mitdasein heideggeriano se ne concepiamo il suo tratto essenziale nell’«aver cura» liberante, che, potremmo dire, “assolve” l’altro esserci dal rapporto. I confini della dimensione dell’alterità non sono dunque delimitabili né in Heidegger né in Levinas. Constatiamo la presenza di una forte corrispondenza teoretica tra i due termini della relazione Io-altri, che per Heidegger implica, come abbiamo visto, la necessità di mantenere la 119 119 E. Levinas, Totalità e infinito, cit. p.103. 262 III dimensione dell’alterità nell’orizzonte finito dalla gettatezza, che impedisce l’inclusione totale dell’altro, così come in Levinas corrisponde alla messa in campo dell’etica e del suo avere a che fare con la stessa sofferenza fisica, col vero e proprio patire causato dall’irruzione dell’altro che impedisce non solo il dominio, ma qualunque possibilità di strutturare in totalità la relazione stessa. Levinas conferisce drasticamente uno statuto etico al suo pensiero: esso non deve più avere nulla a che fare con i concetti della ‘filosofia’, e deve, invece, fare i conti con la presa di coscienza da parte dell’Io dell’impossibilità di una costituzione di sé su cui non insista la costante chiamata dell’altro nei miei confronti. Malgrado me, non posso non ascoltare, non posso non attendere al dovere a cui l’altro mi obbliga, non posso non soggiacere ai suoi comandi, non posso non dipendere da lui, non posso non essere responsabile di lui. Per Heidegger, invece, l’importante è sottolineare che l’uomo non può esistere alla maniera della semplice presenza: “L’unico essere al mondo capace di porre in questione il proprio essere, per essere in grado di saperlo fare non può esistere al modo delle cose” 120. In questo modo viene in primo piano la ripresa di sé e sembra completamente irrilevante la relazione ad altri. Ma in realtà proprio la libertà che definisce la natura ontologica dell’essere umano è in Heidegger lo spazio in cui si rivela la relazione con altri. L’Essere-nel-mondo (In-der-Welt-sein) che costituisce il modo d’essere dell’esserci, descrive per un verso questa libertà nello spazio di una relazione con il mondo degli utilizzabili, ma si comprende nella sua portata solo alla luce della Fürsorge autentica, cioè di un autentico Mitdasein. 120 Marisa Ercoleo, La libertà dei filosofi e la mela di Adamo, edizioni Novecento, Palermo, 1992, p.62. 263 III È vero anche che in Heidegger il pervenire dell’esserci al suo “poter-essere più proprio è incondizionato”121 sembra attribuibile solo attraverso un distacco della cura dal quotidiano. Questa attenzione di Heidegger verso la solitudine della coscienza, priva degli altri, che sembra rivoltarsi nuda verso se stessa e guardarsi allo specchio della sua ipseità, porta Emmanuel Levinas a trascurare una delle acquisizioni fondamentali dell’analitica di Sein und Zeit e cioè il superamento della concezione monadica del soggetto, perché a suo modo di vedere Heidegger aprirebbe il soggetto al mondo e agli altri solonella forma difettiva della deiezione. L’analisi heideggeriana sul soggetto ha, invece, già superato la visione di un Io solitario. La genesi della struttura esistenziale dell’ In-derWelt-sein mostra non solo che il soggetto non è mai dato senza mondo, ma anche che non esisterebbe come soggetto se non fosse in rapporto agli altri: “L’espressione Esserci non sta punto a significare che questo ente è innanzitutto nella non-relazione ad altri e che solo secondariamente può anche essere con gli altri”122 L’Esserci heideggeriano non costituisce un mondo a sé, ma è già da sempre facente parte di un tutto in cui si inserisce e vive. Il soggetto non si aliena nel con-essere, quale suo modo difettivo e inautentico, come invece sostiene Levinas, ma si fa carico di un con-esserci autentico e, oserei dire, anche etico in relazione all’altro. Il soggetto heideggeriano trova lo spazio per uscire dal mondo delle cose e della quotidianità, e dunque da un’esistenza inautentica non per librarsi al di sopra del mondo, ma per raggiungere un luogo abitato dal Mitdasein autentico. Concepire 121 122 M. Heidegger, SZ, cit. p. 490. SZ, §26, cit. p.133. 264 III proprio il Mitdasein come l’unico trampolino di lancio che renda possibile l’apertura ermeneutica del Dasein agli altri, al mondo e a sé anche nell’essere-per-la-morte è stato un passaggio importante per la mia ricerca. Si può al più sostenere che una tendenza alla mera antitesi tra autenticità ed inautenticità tenta ad assumere, poi, in Heidegger una potenzialità negativa, tale da estremizzare le conseguenze della Geworfenheit, e troncare la strada al possibile sviluppo della Fürsorge autentica, richiudendo l’esserci nella sua gettatezza e cercando un superamento di essa solo nella comprensione del proprio poteressere autentico. Questa concentrazione dell’esserci sul proprio essere fa si che Levinas scorga nell’ossessione heideggeriana sul pensiero dell’Essere solo il colore neutro dell’il y a, portatore di una esistenza senza esistente, di una vita senza soggetto, di un essere senza un chi è. In realtà, però, quando Heidegger si sofferma sulla Jemeinigkeit che sostiene l’esistere è sempre proprietà di qualcuno, al punto che l’esistere senza esistente gli sembrerebbe assurdo. Ma l’«esser-sempre-mio» non annuncia un solipsismo come ultimo orizzonte dell’analitica esistenziale. Questo sembra, invece, il pregiudizio di Levinas, per il quale egli contesta la modalità di base dell’esser-con-altri del Dasein, intendendo la preposizione mit di Mitsein come segno di una relazione in cui i soggetti sono tra loro affiancati, côte a côte, in un gruppo, come affascinati e ammaliati da un terzo termine che non è altro che l’Essere in tutta la sua anonimità. Per parte nostra, abbiamo invece visto che l’analisi del Mitsein avviene all’interno della più ampia modalità della Cura e si prefigura come l’atteggiamento che fonda il rapporto di ciascun uomo al «mondo». Questo, come abbiamo visto, è a sua volta costituito da una serie di rimandi e rinvii che fanno sorgere in 265 III ultima istanza una relazione comunitaria, già imprescindibile nell’orizzonte del Besorgen, all’interno del commercio con gli enti intramondani. L’incontro con gli altri viene in tal modo ridotto, a prima vista, alla sfera dell’utilizzabilità, del fine pratico, e della convenienza personale. L’altro è così conosciuto, visualizzato e compreso non per se stesso, ma per un utile. Questa è poi la ragione per cui l’uomo stesso può diventare cosa tra cose, facente parte del mondo degli oggetti di cui ci si prende cura per ottenerne un tornaconto. Ma, come abbiamo visto nel corso della nostra esposizione questo stesso rischio è incardinato nella specificità della Fürsorge, che definisce l’incontro con gli altri esserci, inquadrandolo in una duplice possibilità, dalla quale emerge il tema del carattere fondamentalmente etico dell’autenticità. L’esserci autentico rifiuta il comportamento del Si, in cui l’arbitrio degli altri, in generale, decide delle sue possibilità quotidiane. Siffatto modo inautentico di con-essere (il solo preso in considerazione da Levinas), di stare insieme ‘impropriamente’, dissolve completamente il singolo esserci nel modo di un essere comune che crea uno stato di indistinzione e d’irrilevanza in cui ognuno è come l’altro e nessuno più è se stesso. Solo in questo stato di individui senza individualità che non si distinguono più dalle cose, il Man può esercitare indisturbato la propria dittatura. Se il Mitdasein si esaurisse in questa dimensione, si potrebbe accettare l’accusa di sordità all’alterità portata avanti da Levinas contro il con-essere heideggeriano. Ogni dimensione intersoggettiva, se concepita nello stadio del Man, può infatti produrre soltanto totalitarismi, e può avere ripercussioni etiche pericolose. Levinas non coglie, però, l’intrinseca ambiguità presentata da Heidegger nell’essere dell’esserci allo stesso tempo rivolto al Si ed al Sé. L’esperienza dell’angoscia non ha in realtà nulla in comune con la sensazione 266 III nullificante della nausea sartriana, ma apre l’esserci al Sé allontanandolo dal Si, e in questo dischiude all’esserci la propria più specifica cura, che è l’«aver-cura» del proprio e dell’altrui esserci. L’attenzione posta da Heidegger sul pensiero dell’Essere, in conclusione, costituisce per Levinas solo un’apparente “evasione” da quella sfera di ricerca che egli ritiene tipica del lògos occidentale della modernità, dal momento che la tradizione metafisica si era soffermata insistentemente sullo studio dell’Essere e dei suoi principi. La continua presenza, in Heidegger, della tematica dell’Essere diverrebbe, dunque, tanto soffocante e nauseante, da essere inquadrata come il y a, come un’angosciante presenza nullificante totalmente incolore. In particolare la neutralità del pensiero dell’Essere porta ad annullare la stessa essenza umana, la sua più propria maniera d’essere e il suo profondo radicamento nel mondo, e cioè la socialità. La struttura esistenziale in cui la socialità ha luogo è, secondo la sua filosofia, la relazione del faccia a faccia tra due soggetti. La vicinanza con l’altro non risiede all’interno di un “Noi”, dentro una collettività di esseri simili. L’altro non è neppure semplicemente al mio fianco, o reso complice nel fare in modo da essere lui e io autori di qualche cosa in comune. L’altro si situa all’interno di una relazione asimmetrica e la rende possibile. La relazione che nasce tra “te e me” nel faccia a faccia non si colloca al livello della reciprocità biunivoca. Non si tratta di un vìs a vìs che passi indifferentemente da “me a te” o da “te a me”, ma costituisce una relazione paradossale, in cui io sono il punto di partenza insostituibile, e da me si muove verso l’altro, senza ritorno. L’asimmetria si manifesta non quando mi avvicino all’altro ma solo quando mi pongo dinanzi al suo volto, di fronte ad esso. Solo allora il soggetto in prima persona si sente chiamato, percepisce una costrizione che lo ossessiona, e 267 III lo porta a farsi carico dell’altro e ad esserne responsabile. Il soggetto così da attivo diventa passivo, e lascia che l’altro lo domini, senza possibilità alcuna di omissione. Tutto ciò avviene, secondo Levinas, nell’ambito della quotidianità, della vita di ogni giorno, costituito da “altri” più che da oggetti. Le cose infatti che si incontrano nel mondo proprio come altro rispetto al proprio non comportano da parte nostra uno sforzo etico, non chiedono di essere aiutate, non hanno bisogno di noi. L’altro invece ci impegna completamente e ci assorbe nel suo mondo, tanto da sconvolgere e distruggere del tutto il nostro. Secondo Levinas proprio nel mondo del quotidiano si incontra l’altro da sé, non nella presunta sfera autentica del Dasein heideggeriano che dopo un cammino di pensiero riesce a liberarsi dalla quotidianità e dal rapporto nefasto col mondo degli enti e degli altri per relazionarsi alla fine alla sua propria esistenza per se stesso e per sé solo. La critica levinasiana, essendo la più feroce, ha comunque il merito di esigere un approfondimento quanto mai accurato di quei contenuti che riguardano la sfera del Mitdasein e della Fürsorge autentici nella filosofia heideggeriana. C’è però un altro aspetto interessante, che si può sottolineare con Franco Camera. Egli ritrova, invece, in Martin Heidegger ed Emmanuel Levinas una sintonia a partire dalla comune nozione d’ermeneutica123. Da una parte la riconduzione del comprendere all’essere del Dasein, nel suo poter-essere finito, e dall’altro il movimento del trascendente e il pensare filosoficamente «al di là dell’essere», attraverso un pensiero «che dice altrimenti» possono essere ricondotte ad un atto d’ hermeneuein. La tesi, secondo la quale 123 F. Camera, L’ermeneutica fra Heidegger e Levinas, Morcelliana, Genova 2001. 268 III “in ogni uomo si rivela una parola di senso che non è lui a darsi, ma che richiede d’essere ascoltata, interpretata e tradotta nel contesto della propria vita”, significa interpretare l’annuncio, dopo aver ascoltato il massaggio. Ma anche qui “si tratta di una parola misteriosa che trascende il singolo e lo chiama a rispondere oltre se stesso in un orizzonte comunitario di carattere dialogico”124. Nella concezione levinasiana, secondo Camera, l’esposizione al visage d’autruì rende l’io spregevole a se stesso, e, destandolo dal sonno narcisistico in cui si era rifugiato, anche degno di odio [le moi haïssable]. L’incontro con il volto dell’altro offre la possibilità d’accesso ad una vita responsabile e «adulta» paragonabile al cammino dell’esserci heideggeriano che in Sein und Zeit nel momento in cui viene chiamato a rispondere del suo poter-essere più proprio deve necessariamente indirizzare la sua cura verso l’autenticità, e quindi anche verso un Mitdasein, che lasci essere l’altro e non lo imprigioni, vinto dal desiderio del possesso, dentro il dominio del suo ego. L’alterità dell’altro, seppur in forme diverse, viene in questo modo a costituire parte integrante del sistema filosofico sia di Heidegger, che di Levinas. La relazione con l’altro in quanto tale, secondo Camera in entrambi i casi, apre uno spazio ermeneutico d’infinità non assimilabile ad una forma epistemica o ad una qualsiasi forma di scienza immanentistica. L’alterità, pertanto, resta sempre più comprensibile attraverso le posizioni dell’etica. Quest’ultima riflessione ci sarà ora utile per l’ultimo passo che intendiamo compiere. 124 Ivi, p.10. 269 III 3.4 Gadamer e Ricoeur: potenzialità e insufficienze del conessere/con-esserci heideggeriano Hans Georg Gadamer, nel momento nel quale, anche con qualche accento autocritico, si è più interessato all’ambito della cosiddetta intersoggettività, ha riconosciuto in Essere e tempo la presenza, pur marginale, del fenomeno intersoggettivo nell’autentico modo d’essere dell’esserci. “Heidegger ha ben saputo che l’esserci è anche con-essere e ha considerato, in Essere e tempo, il con-essere come una costituzione ugualmente originaria dell’esserci. L’esserci è originariamente altrettanto ‘con-essere’ quanto esserci. Ma quel che è visto in tal modo nell’orizzonte della questione dell’essere esclude nell’impostazione heideggeriana il problema della soggettività in modo talmente radicale che ‘l’altro’ non può in tal modo neanche essere problematizzato. ‘Esserci’ non è naturalmente soggettività. Così Heidegger ha sostituito nella sua problematica il concetto della soggettività, con il concetto della Sorge, della cura. Tuttavia proprio in tal punto risulta chiaro che l’altro viene così ad essere considerato solo in una prospettiva marginale e unilaterale”125. In queste osservazioni si nota innanzitutto la comprensione gadameriana della centralità del con-essere. Perseguendo nell’opera di dissolvimento della tradizione ed essendosi schierato in netta opposizione ad Husserl e al suo pregiudizio ontologico-fenomenologico, Heidegger rifiuta il termine soggettività e con esso quello d’intersoggettività. Inquadrare l’esserci come con-essere significa racchiudere in esso la compartecipazione “estatica” con l’altro nel mondo. La cura diventa così il concetto unificante di una soggettività 125 H.G. Gadamer, Soggettività ed intersoggettività, soggetto e persona, in Id. Verità e metodo 2, trad. it. a cura di R. Dottori, Bompiani, Milano2001, p. 194. 270 III decostruita che parte dall’incontro con l’altro, e attraversa il mondo nella totalità dei suoi significati, per raggiungere solo successivamente un sé. Nonostante a prima vista il con essere sembri trovare il proprio luogo nella tendenza allo scadimento dell’esserci, e così cadere sotto il verdetto dell’inautenticità, essendo l’originario essere-assieme regolato dalla chiacchiera e dal Si in cui la maschera dell’essere l’uno-per-l’altro nasconde l’esser l’uno contro l’altro, tuttavia Heidegger parla di Fürsorge verso gli altri. Come sostiene giustamente Gadamer, la Fürsorge acquista quel significato particolare che Heidegger chiamava il prendersi cura che libera (freigebende), in cui l’aggettivo indica specificamente ciò di cui si tratta: “il vero prendersi cura non è il provvedere all’altro, quanto piuttosto il porre l’altro nel suo autentico essere se stesso - rispetto a un prendersi cura dell’altro che vorrebbe togliergli la cura del proprio esserci”126. A questo punto Gardamer si chiede quanto l’altro influisce nell’elaborazione complessiva di Essere e tempo e si risponde con il ricordo di una domanda posta allo stesso Heidegger sulla questione, che trovo piuttosto importante riportare qui di seguito. “Era l’anno 1943, allorché, in un lavoro poi pubblicato nelle Kleine Schriften, cercai, distanziandomi da Heidegger, di mostrare come il comprendere dell’altro possegga un proprio significato, in via di principio. Nel modo in cui Heidegger aveva sviluppato il problema, nella preparazione della questione dell’essere, e aveva elaborato la struttura del comprendere come la vera e propria struttura fondamentale dell’esserci, l’altro poteva rivelarsi nella sua propria esistenza come una limitazione di me stesso. […] Quando esposi questa obiezione ad Heidegger, egli fece dapprima cenno di assentire, di buon grado, ma poi rispose: ‘Si, ma che ne è della Geworfenheit, della gettatezza dell’esserci?’ Evidentemente Heidegger intendeva dire che quel 126 Ivi, p.195. 271 III che io cercavo di far valere, si trovava già in lui, nel fatto che l’esistere dell’esserci non è solo progetto, ma anche gettatezza del progetto”127. Heidegger ha in mente l’urgenza di risolvere il problema paradossale dell’essere dell’esserci che si da come progetto gettato, e che non può mai fino in fondo scegliere d’esistere autenticamente, essendo stato già scagliato in un mondo inautentico che in un certo senso lo affetta fin dall’origine. Scrive ancora Gadamer: “In tale getto noi non siamo neanche questo essere singolo, e non sappiamo neanche chi siamo ‘noi’, ad esempio noi come questa generazione”. Qui è chiaro il riferimento al carattere storico-temporale di un ‘noi’ che ha perso la rotta, e che attanagliato dalla Geworfenheit si perde nella limitatezza delle proprie esperienze quotidiane. L’altro e il rispettivo con-essere perde così d’importanza nella mente di Heidegger, preoccupata a risolvere l’eterno, dialettico gioco della disuguaglianza tra inautenticità e autenticità che dopo la ‘svolta’ sarà precisata e riassunta nella ‘differenza ontologica’. Per voler concludere con le parole di Gadamer: “Heidegger, dopo il ripudio della sua concezione trascendentale, a cui era rimasto attaccato in Essere e tempo, ha abbandonato ancor più radicalmente la dimensione della soggettività, ed ha anzi espulso dai propri tentativi del pensare addirittura il concetto del comprendere e quello dell’ermeneutica, dopo la Kehre”128. Secondo Gadamer, dunque, la prospettiva teorica heideggeriana della Geworfenheit costituisce già una coscienza delle possibilità d’inclusione dell’altro, che tuttavia spinge Heidegger a non tematizzare adeguatamente la Fürsorge. Un’ontologizzazione dell’alterità, che Heidegger peraltro aveva già strutturato nella Fürsorge autentica, lo avrebbe infatti portato a perdere il 127 128 Ibidem. Ivi, p. 197. 272 III carattere ontico-contingente della gettatezza. La genialità heideggeriana sta nell’esplicitazione del tratto di gettatezza dell’esistenza del Dasein. L’esserci, seppur mantenendo la possibilità di realizzare un progetto proprio, è sempre gettato nell’esistenza. Il riconoscimento dell’essere-affetto dell’esserci, o meglio dell’essere perduto nel mondo del prendersi cura, poggia, secondo Gadamer, su una radicale concezione dell’alterità, che inscrive l’altro dentro l’impossibilità di scelta del soggetto rispetto all’effettività dell’esistenza. Gadamer comprende così grazie ad Heidegger quanto le visioni storicistiche di Dilthey abbiano appiattito il ruolo dell’alterità, e le sue implicazioni etico-politiche. Tuttavia produrre una decostruzione totale della soggettività, significa anche per Heidegger far saltare qualsiasi orientamento intersoggettivo sul Mitdasein, per cedere il posto ad una ri-formulazione dell’essere dell’esserci come ‘progetto gettato’. Gadamer si accorge in tal modo che nell’attenzione heideggeriana sul Mitdasein l’altro non viene considerato mai come un limite, ma costituisce il limite per eccellenza che costringe tacitamente l’esserci a rituffarsi nel mare della Geworfenheit, per comprendere l’essenza dell’alterità più radicale con quella Verità (Aléteia) ontologica che non si può mai afferrare, o possedere, ma si può cogliere solo nel suo ritrarsi. La preoccupazione di Heidegger sembra così spostarsi sulla necessità di spiegare il mantenimento della cura autentica che lascia essere l’esserci nel soggiorno dell’autenticità. Paul Ricoeur, che accosto a Gadamer per la sua acuta ermeneutica del senso autentico del Mitsein heideggeriano, in Sé come un altro e soprattutto in un saggio intitolato Il problema etico in ‘Essere e tempo’ si relaziona alla dimensione etica dell’opera heideggeriana partendo da lontano, vale a dire dal significato che il termine ha in Spinoza. 273 III “L’etica di Spinoza è un’etica grazie ad un carattere di percorso che un frammento della sostanza compie per far ritorno al tutto; percorso che avviene ad un tempo senza confusione tra modo finito e sostanza e senza alcuna pretesa d’autonomia dell’uno rispetto all’altra. In un senso analogo possiamo dire che Essere e tempo è un’etica: la questione dell’essere domina tutta l’opera ma è l’oblio dell’essere a matterla in movimento. Possiamo considerare la riconquista dell’essere contro l’oblio come il tratto etico fondamentale dell’intera opera, poiché l’oblio ha un luogo e questo luogo è l’essere che noi siamo- l’esserci, […] Quando Heidegger caratterizza l’esserci come l’essere nel quale ne va della questione dell’essere, egli implica che questo essere sia costituito in modo tale da potersi disinteressare della questione dell’essere. E da qui egli giunge ben presto alla distinzione tra autenticità (Eigentlichkeit) e inautenticità (Uneigentlichkeit).”129 Pur essendo ontologico l’orientamento dominante di Sein und Zeit, secondo Ricoeur, non si può negare la forza etica dell’opera. Direi anche che Ricoeur sostiene una marcata valenza etica nell’impostazione ontologica della possibilità della decisione dell’esserci, cogliendo un alto contenuto di ‘responsabilità individuale’ nella analoga scelta dell’ aver-daessere che corrisponde da parte dell’esserci ad una determinazione “d’essere” autenticamente o inautenticamente. Ciò nonostante è possibile deplorare anche una effettiva “carenza morale” dell’opera, dovuta ad un irrigidimento ontologico di tematiche quali “la giustizia”, “il rispetto”, “l’interdizione”, “l’obbligazione”, “il bene ed il male” che ha impedito lo svilupparsi ed il precisarsi di una morale in maniera esplicita. Ricoeur pone l’accento anche sulla distinzione tra l’autentico e l’inautentico, cogliendo il ruolo fondamentale svolto dalla cura in questo rapporto. Attraverso la relazione che l’inautentico ha con il prendersi cura quotidiano (Besorgen) e che l’autentico ha con la cura (Sorge-Fürsorge) si stabilisce una 129 P. Ricoerur, Il problema etico in Essere e tempo, in Heidegger in discussione, a cura di F. Bianco, Franco Angeli. 274 III “distinzione gerarchica tale che il prendersi cura può essere legittimamente considarato come una caduta della cura”130. “Si noterà che nella cura è contenuto, per lo meno implicitamente, il riferimento all’altro. In questo senso Heidegger non cade nella trappola dell’egologia e si guarda bene dal passare attraverso le aporie del solipsismo trascendentale alla maniera di Husserl. Si potrà osservare che la struttura del con-essere trova un vero e proprio sviluppo soltanto sul piano della quotidianità”131. L’etica accompagna, secondo Ricoeur, da vicino ogni passo ontologico di Essere e tempo tanto che l’originario ontologicamente è anche l’autentico in senso etico. Ciò nonostante “Heidegger ha ben poco da dire sul Mitsein autentico in quanto si sforza di dissociare l’ipseità dall’anonimato”, perché il con-essere è innanzitutto e per lo più riscontrabile nell’inautentico e quotidiano prendersi cura. Sembra a Ricoeur che Heidegger voglia ‘colpevolizzare’ il concetto di Verfallen, di caduta nel prendersi cura, e con ciò costruire una gerarchia tra autenticità ed inautenticità offrendoci una demarcazione d’ambiti dalla marcata significazione etica, e così facendo elevare un muro che non può essere più demolito. La Fürsorge autentica rappresenta la sola forma d’aver-cura volto agli altri, che essendo costitutivamente “cura che lascia essere” gli altri nella loro propria cura si stabilizza nell’autenticità costituendo il fulcro della crescita morale dell’esserci che in questo modo impara ad esistere con gli altri, rispettandoli nel loro essere. Tutto ciò però resta “non detto” o almeno non esplicato, nell’opera. La Fürsorge, quindi, rappresenta l’elemento ontologico più intrinsecamente etico fondativo per l’unitario percorso di comprensione condivisa (o 130 131 Ivi, p. 51; Cfr. J. Taminiaux, Lecture de l’ontologie fondamentale. Essais sur Heidegger, Millon, Grenoble,1989. Ivi, p.54. 275 III di cura) dell’essere dell’esserci, che racchiude in sé soprattutto l’alterità degli altri esserci lasciati essere nel loro proprio essere. Il mantenimento del proprio se-stesso nell’altalenare di prendersi cura (Besorgen) e cura (Sorge) non viene attribuito, come ci aspetteremmo in base alla distinzione gerarchica tra inautenticità e autenticità, alla Fürsorge, ma alla “chiamata della coscienza: “Non che la referenza all’altro faccia interamente difetto, ma l’altro è implicato soltanto rispetto al Si ed al piano inautentico del prendersi cura:«La chiamata concerne il Si stesso (Das Man Selbst) del con-essere con gli altri prendendo cura». La dominante resta lo sradicamento del se-stesso dal Si: in breve, la coscienza convoca il se-stesso delll’esserci ad evitare di perdersi nel Si.”132 La chiamata della coscienza “che viene da me e tuttavia sopra di me” (aus mir und doch über mir) si mette in moto dopo il riconoscimento di una forma di colpevolezza effettuato da parte dell’esserci che non ha nulla a che fare con l’idea di essere in colpa verso qualcuno, responsabile o debitore verso un altro. L’esigenza di Heidegger si orienta nella direzione del riconoscimento della nullità dell’esserci “considetato dall’angolatura della sua fatticità”. L’essere fondamento di una nullità (Grundsein einer Nichtigkeit) diventa il fondamento ontologico che scardina qualsiasi presa etica della tematica della colpa, della coscienza e della decisione che ad essa fa seguito. In più, se consideriamo la comprensione, e l’assunzione del proprio essere in colpa, che Ricoeur denomina “attestazione”, e il riconoscimento dell’esposizione agli altri come momento di passività massima dell’esserci all’inautenticità del quotidiano (chiamato ingiunzione) arriviamo alle stesse conclusioni ricoeuriane, secondo le quali Heidegger separerebbe ogni fondo 132 Ivi, p.58. 276 III etico-morale dalla strutturale aspirazione al vivere «bene» propria del Dasein. “Separata dalla richiesta dell’altro e da qualsiasi determinazione propriamente morale, la decisione permane completamente indeterminata così come la chiamata a cui sembra rispondere. […] A questa demoralizzazione della coscienza, bisognerebbe opporre una concezione che associ strettamente il fenomeno dell’ingiunzione a quello dell’attestazione L’essere ingiunto costituirebbe allora il momento dell’alterità propria al fenomeno della coscienza, in conformità alla metafora della voce. Ascoltare la voce della coscienza significherebbe essere ingiunto dall’altro. Si renderebbe così giustizia alla nozione di colpa (dette) che Heidegger ha ontologgizzato troppo presto a spese della dimensione etica del diventar colpevole (endettement)”133. La posizione ricoeuriana sul Mitsein è quindi riassumibile nella evidenziazione di un’inaspettata manchevolezza delle sue implicazioni ‘morali’ rispetto ad elementi ‘etici’ che Heidegger stesso aveva già fornito con la tematizzazione della Fürsorge. Attribuire ad Heidegger, come ho cercato di fare nello sviluppo della tesi, la comprensione del nesso tra etica e ontologia nella Fürsorge autentica, da lui stesso formulata ma troppo frettolosamente abbandonata, significa uscire dal paradosso della coscienza giocato all’interno della “contaminazione” tra inautenticità e autenticità, o come sostiene Ricoeur, salvarsi dall’indeterminazione della decisione, e dalla carenza morale della chiamata alle possibilità più proprie dell’esserci. Seppur Ricoeur nomini tale carenza morale, sottolinea allo stesso tempo la «forza etica» di Essere e tempo, che io stesso ho cercato di accentuare in questo percorso di tesi già riscoprendo nell’esser-sempre-mio dell’esserci heideggeriano un esistenziale radicato nell’essere dell’altro esserci. La comprensione autentica dell’esserci di riscopre come effettivamente frutto dell’incontro 133 Ivi, p.61. 277 III con l’altro. Nell’incontro con gli ‘enti’ il cui essere è il conesserci (gli altri), infatti si costituisce «in vista di sé», a partire dal suo essere che gli si mostra in prima istanza essere già in vista degli altri, in quanto con-essere. Proprio nel capitolo intitolato Gewissen della seconda sezione di Essere e tempo, che ha suscitato nella mia ricerca un momento di riflessione in più, Heidegger, secondo Ricoeur, descrive perfettamente il momento d’alterità che contraddistingue la coscienza. Questa stessa alterità costituisce il momento di massima costruzione della stessa ipseità, nella misura in cui il sé è reso cosciente e capace di riprendersi dall’anonimato del Si: “Questa implicazione della coscienza nell’opposizione fra il sé ed il Si, non esclude un’altra forma di rapporto tra essere-sé ed essere-con, nella misura in cui, da una parte, il Si è già una modalità inautentica dell’essere-con e in cui d’altra parte, questo ritrarsi nel foro interiore offre all’altro il faccia a faccia che egli è in diritto di attendersi, e cioè precisamente il se-stesso”134. Nel fenomeno della coscienza, che è una chiamata (Ruf) esterna e interna allo stesso tempo ci aspetteremmo che l’acquisizione dell’autenticità contribuisca in qualche modo a spiegare la dialettica interna alla Fürsorge tra il lasciar essere che libera l’altro per un verso, e l’aver-cura che domina l’altro per altro verso. Questa delucidazione avrebbe potuto lasciar trapelare la vera essenza etica, e di conseguenza anche la responsabilità morale, che scaturisce dalla comprensione della differenza tra i due modi d’essere, che possiamo anche chiamare a questo punto ‘comportamenti’. Il poter-essere autentico attestato dalla coscienza non è invece segnato da alcuna competenza a distinguere il bene dal male. La coscienza sembra essere un prodotto perfetto della filosofia di Nietzsche, nella misura in cui non si può parlare di una ‘buona’ o di una ‘cattiva’ coscienza ma 134 Paul Ricoeur, Sé come un altro, § Verso quale Ontologia? Jaca Book, Milano 1999, p 458. 278 III solo di una forma di coscienza che si ‘situa al di là del bene e del male’, sostiene Ricoeur. In verità la nozione di ‘cattiva coscienza’ è dallo stesso Heidegger tacciata di «ordinarietà», in quanto fenomeni come il rimorso e il pentimento, per esempio, fanno parte di una coscienza inautentica ancora prigioniera del Si. La ‘buona coscienza’ verrebbe invece a coincidere con la cura autentica in cui anche il Mitdasein degli altri sarebbe conaperto nell’essere dell’esserci. In sintesi è possibile affermare con Ricoeur che Heidegger non sviluppa le forme autentiche dell’essere-con non solo perché non vuole spingere la sua ontologia verso l’etica, ma soprattutto perché coglie, come già abbiamo visto in Gadamer, nella condizione deietta (déchue) del Dasein uno scoglio insormontabile. “Il riconoscimento della passività, del non-dominio”, dell’esser-convocato dell’esserci, orienta Heidegger “verso una meditazione sulla nullità” che affetta l’essere nel mondo, dall’angolatura della sua interna effettività”135. La chiamata che concerne anche il Man-Selbst del Mitsein degli altri, secondo la mia ipotesi di ricerca che si appoggia molto sulle interpretazioni ricoeuriane, avrebbe potuto portare Heidegger a sviluppare un «voler-aver-coscienza» dal carattere dichiaratamente etico-morale che a sua volta avrebbe permesso di formulare un Mitdasein autentico, sulla scia dei connotati autentici della Fürsorge, in cui la condivisione del ‘mondo’ come insieme di rimandi e significati sarebbe stata anch’essa una forma di scelta volontaria che rende liberi (freigebende). Dove c’è un «noi» già costituito, troviamo spesso la presenza di una qualsiasi forma di legge. Anche secondo Aristotele infatti la politéia136 (la legge costituzionale) è in un certo senso la vita della città [bíos poleos]137 e si fonda sulla nozione di nómos 135 Ivi, p. 466. Il termine deriva da polis attraverso polites, ed esprime insieme ai verbi politeuo/politeuomai «l’essere cittadino». 137 Anche Isocrate, (Panetenaico, 138, cfr Areopagito, 13-14), aveva definito la politéia anima della città psyché poleos. 136 279 III (Politica IV, 1295a). Il termine nómos è importante notare come sia etimologicamente legato al verbo némein (che letteralmente significa distribuire in parti uguali) e al concetto di condivisione138. La pólis, intesa come l’insieme dei suoi cittadini, viene equiparata ad un organismo umano, di cui la politéia costituisce, quindi, il principio vitale. La condivisione della stessa legge costituisce il passo primario per la formazione di una spazio comune, di un «noi» collettivo. Volendo costruire un parallelo tra il carattere politico-istituzionale della politéia e il carattere sociale del Mitdasein, possiamo dire che come quest’ultimo deve “per funzionare” essenzialmente far leva sulla valenza autentica della Fürsorge, (che lascia essere l’altro e non lo domina per altri fini), il primo deve anch’esso appoggiarsi sullo stesso principio interno all’aver-cura autentico se vuole far prevalere il bene comune, piuttosto che il benessere del singolo. L’aspetto etico sotterraneo al Mitdasein heideggeriano è ciò che, malgrado sia rimasto «non detto», manifesta tutta la sua forza “vitale” in relazione all’essenza sociale radicata nella realtà umana che si realizza pienamente nell’appartenenza ad un Noi. 138 Cfr. voce:νεμω; Pierre Chantraine, Dictionnaire étymologique de la langue greque, histoire des mots, Klincksieck. 280