Capitolo terzo

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III
Capitolo terzo
Commenti e interpretazioni
sul problema del Mitsein dopo Essere e tempo
3.1 Intorno a Sein und Zeit
In Logik. Die Frage nach der Wahrheit1, vale a dire nel corso di
lezioni marburghesi del 1925/26, Heidegger descrive l’aver cura
degli altri negli stessi termini di Sein und Zeit. Tra la dimensione
inautentica e quella autentica della stessa Fürsorge, e cioè tra la
sostituzione dominate della cura dell’altro e la riconsegna
dell’altro alla sua determinata cura “liberante” si rende visibile il
tentativo dell’autore di fondare ontologicamente la possibilità
stessa del vivere autentico con gli altri.
“Nel con-essere con gli altri, nel comportamento fondamentale dell’aver-cura
[..] bisogna rilevare una fondamentale differenza: l’aver cura può comportarsi
in modo tale da togliere all’altro la cura e da mettersi prendendosi cura di lui,
al suo posto. Questo comporta che l’altro rinunci a se stesso e si ritiri per
accettare quel che gli è stato procurato. [..] Indichiamo questo aver-cura come
l’aver-cura
subentrante
sostituente-alleggerente
e
dominante.
In
contrapposizione ad esso, c’è un con-essere con l’altro che non ne prende il
posto, né lo sostituisce nella sua situazione o nel suo compito, né lo
alleggerisce nelle sue responsabilità, ma lo presuppone con riguardo, per non
togliergli la cura, per non sottrarlo cioè a se stesso, al suo esserci più proprio,
1 Trad. it. di M. Ugazio, Logica e il problema della verità, , Mursia, Milano 1986.
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anzi per ridargli tutto questo; questo aver-cura non è dominante, ma
liberante.”2
Se consideriamo il Mitsein come la struttura fondamentale del
preoccuparsi per altri quotidiano e quindi della cura in generale,
possiamo definirlo condizione di possibilità, ontologicamente
fondata, di una cura inautentica dell’altro. Se infatti il Mitsein
rappresenta ancora la relazione quotidiana e anonima, “a cui
abbiamo
dato
il
nome
di
contrapposizione
misurante
[Abständigkeit]”3 il Mitdasein non può che riferirsi ad un tipo di
rapporto autentico con gli altri.
La Fürsorge però presenta al suo interno una bidimensionalità
intrinseca che la porta per un verso vicina ad un con-essere
(Mitsein) inautentico e per altro verso prossima ad un conesserci (Mitdasein) attinente alla sfera dell’autenticità e all’unica
forma possibile di relazione “vera” all’altro, che si da nel
rispetto del suo essere.
Ci siamo già accorti che il Mitsein “inautentico” non
corrisponde mai al semplice aver a che fare con le cose, ma si
riferisce ad un modo particolare di relazione agli altri in cui già
a partire da un ente ritrovo gli altri, come quel «verso cui» l’ente
è, all’interno di un «mondo» che resta un esistenziale, essendo
appunto una “totalità di rimandi”.
Il Mitdasein a sua volta non coincide completamente con
l’ambito
dell’autenticità
e
quindi
con
una
dimensione
d’intersoggettività positiva in cui ogni Dasein si rapporta agli
altri e ne coglie la ricchezza ontologica. Il Mitdasein, che
riguarda esclusivamente la relazione ad altri, non emerge
innanzitutto e per lo più nel Dasein, ma si scopre sempre, a
partire da un altro Dasein. L’esserci riesce a svelarsi a se stesso
dopo aver compiuto questo passaggio dall’altro a sé. Il mio
2
3
. M.Heidegger Logik. Die Frage nach der Wahrheit Gesamgaustabe 21, p.148.
SuZ,§27, p.163.
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III
essere passa attraverso quel riferimento ultimo della totalità di
rimandi costituito dall’altro esserci. Quando Heidegger parla di
Mitdasein fa necessariamente riferimento a questa transizione
nell’alterità d’altri che è anche la constatazione fondamentale
della strutturale relazionalità del Dasein.
In Sein und Zeit abbiamo visto come l’apertura intersoggettiva
del Mitdasein venga presa in considerazione sotto forma di
nesso discorsivo. Il con-esserci diventa qui condizione di
possibilità del parlare gli uni agli altri. Heidegger interpreta
come con-esserci l’elemento ontologico fondamentale della
comunicazione tra un esserci e un altro. In altri termini
Heidegger individua una connessione “d’essere” strettissima tra
il Mitdasein e la capacità discorsiva. Lo stesso nesso intrinseco
tra questi due elementi viene evidenziato anche in Logik. Die
Frage nach der Wahrheit come un collegamento che esclude
che nel parlare con altri si realizzi una trasmissione di vissuti
coscienziali dall’interno di un mondo soggettivo di un individuo
verso l’interno di un altro mondo soggettivo di un altro uomo. Il
con-essere è già presente in una situazione emotiva comune
(Mitbefindlichkeit)
ed
in
una
comprensione
comune
(Mitverstehen). Al «ci» dell’esserci corrisponde il «con»del conessere. Il Mitsein in questo senso acquista un valore
propedeutico
al’acquisizione
dell’autenticità
propria
del
Mitdasein. La condizione di possibilità del discorso e quindi
dell’apertura agli altri è data da questo intrinseco rapporto del
Mitsein alla cura, e di questa al mondo. La possibilità di
dialogare con gli altri fornisce la chiave ontologica per il
costituirsi autonomo di relazioni comunicative tra esserci
diversi. E per di più è proprio l’articolazione del linguaggio che
comporta un essere assieme comprendente che sviluppa la
compartecipazione (Teilung) delle differenti situazioni emotive
e delle comprensioni specifiche di ciascun esserci.
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III
“L’essenza più propria di quel che si trova nella cura da cui parte la
comunicazione, proprio nella cura non è procurabile, ma è pro-curato ogni
volta da un altro esserci inteso come cura. Quindi [..] il modo d’essere
dell’esserci da cui parte la comunicazione non è un esser-presso, ma un
essere-con, una cura condivisa (Mitsorge), più esattamente una cura per, un
aver-cura (Fürsorge).”4
Ciò di cui posso parlare con altri mi viene anch’esso procurato
dagli altri, come ciò di cui mi curo mi viene esplicitato, chiarito
e definito a partire da quell’ultimo rinvio offertomi dalla totalità
dei rimandi, che è l’esserci che io non sono, l’altro.
Non si tratta quindi di costruire delle categorie a priori kantiane,
ma di strutturare in maniera fenomenologica le possibilità che
rendono verosimile un con-essere con gli altri che escluda la
possibilità di ogni forma di solipsismo. Ci è possibile parlare
con gli altri infatti su di un determinato ente perché in quanto
esserci siamo già emotivamente situati rispetto a quell’ente, o
meglio all’essere di quell’ente, e abbiamo perciò la possibilità
dell’apertura ermeneutica di una comprensione comune dello
stesso ente o sullo stesso ente. In base al nostro essere in
relazione all’ente nella cura, e nel con-essere con l’altro a cui si
parla, il nostro interlocutore intrattiene il più delle volte già con
l’ente una relazione similare alla mia. E pertanto si trova già in
una posizione d’apertura verso di me, verso ciò che io gli dico.
Non solo riguardo alle cose, ma anche nei confronti degli altri in
quanto Fürsorge, la nostra cura può essere in grado di cogliere il
vero, l’essenza dell’esserci, solo a posteriori, e in base a un di
più che viene dall’altro esserci.
Infatti ciò che rende possibile l’aver cura non è procurabile dal
di dentro della stessa cura, a partire da sé, ma ci viene sempre
procurato ogni volta che un altro esserci con la sua propria cura,
4
Ivi, p.147.
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III
entra in relazione alla cura del mio essere, vale a dire
nell’effettivo incontro.
Ho bisogno dell’altro, in sintesi, per capire me stesso, il mondo
e l’altro nella sua alterità. Heidegger attribuisce a questo
passaggio teoretico un fondamento ontologico che è appunto il
con-esserci, quale caratteristica costitutiva non del singolo
Dasein preso da solo, bensì nel suo riferimento imprescindibile
all’altro esserci come lui.
Il Miteinandersprechen di Sein und Zeit è un far sì che si veda
insieme,
comunicando
l’un
l’altro,
l’ente
nella
sua
determinatezza. E l’ente a cui ci si riferisce non è un oggetto ma
è il sé dell’esserci che parla e che si determina soltanto dopo, in
seconda battuta, rispetto alla compartecipante comunicazione
con l’altro. Si può invece scadere nella chiacchiera quando ad
affiorare non è l’essenza dell’ente, ma solo una pretesa di verità,
che in realtà nasconde un’incolmabile distanza dalla verità
stessa. Contrapposta alla chiacchiera è in Sein und Zeit il
silenzio, di cui Heidegger parla nei termini di una libera
assunzione del “linguaggio senza parole” che rende evidente la
relazione soggiacente con l’altro.
“Il silenzio come modo del discorso articola così originariamente la
comprensibilità dell’esserci, che da esso trae origine il poter sentire genuino e
il poter essere-assieme trasparente.”5
In un corso tenuto a Marburgo poco tempo dopo la
pubblicazione di Sein und Zeit nel semestre estivo del 1928,
Metaphysische Anfangsgrunde der Logik im Ausgang von
Leibniz6, Heidegger si sofferma a discutere la dualità del
rapporto Io/Tu. La differenza esistente tra i due poli della
relazione in questione nasconde una fondamentale indifferenza
5
6
Heidegger; SuZ. cit. pp. 208-209.
GA 26, trad. it. di G. Moretto, Principi Metafisici della logica, Il Melangolo, Genova, 1990.
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III
di senso, una neutralità originaria. Tale indifferenziazione
scaturisce dal «Mit» del Mitsein che è ciò che costituisce il
nesso tra un Dasein ed un altro Dasein. In questa uguaglianza di
principio non si riscontra, almeno in partenza, nessuna forma
d’inautenticità, ma un esclusivo modo d’accoglimento dell’altro
da parte del soggetto, che nell’accogliere dà inizio anche a se
stesso. L’ipseità diventa questo terreno di base comune ad ogni
Dasein, questa neutralità di partenza che definisce il Dasein
come “voce media”.
“L’essere-io non denota affatto l’Io effettivo in quanto distinto dal Tu,
l’egoità invece denota quell’essere-io che sta alla base anche del tu e che
impedisce proprio di concepire effettivamente il Tu come un alter ego.[..] Per
questo per indicare l’esser-io, l’egoità metafisica, io mi servo per lo più
dell’espressione ipseità. L’ipse infatti può essere detto alla stessa maniera
dell’Io e del Tu: «Io stesso», «Tu stesso».[..] Più volte, fin quasi alla noia, è
stato sottolineato che questo ente in quanto esserci è già sempre con altri e
già sempre presso l’ente di carattere diverso dall’esserci.[..] Nel proprio
scegliere se stesso l’esserci sceglie precisamente il proprio con-essere con gli
altri e il proprio essere presso enti diversi dall’esserci. Nell’esplicito
scegliere-se-stesso si ha, quanto all’essenza, il pieno auto impegno [..] in
quanto esiste.[..] Solo perché in virtù della sua ipseità, può scegliere
espressamente se stesso, l’esserci può impegnarsi in favore dell’altro, e solo
perché nell’essere per se stesso, può in generale comprendere qualcosa come
l’ipse, l’esserci può semplicemente ascoltare un Tu-stesso”7 .
Heidegger sembra qui dimostrare il carattere ontologicamente
altruistico dell’essenza umana, infatti dal fatto che nel cogliere
se stesso ogni esserci non può non cogliere anche gli altri
consegue che l’egoismo è costitutivamente impossibile almeno
in questo primo momento di confusione dagli altri. Se l’ipseità,
che è un qualcosa di comune con gli altri, è ciò che ci vincola al
nostro essere autentico o inautentico (che sia), nel possibile
gioco di scelte che il nostro essere nel mondo ci offre, significa
7
Ivi, p. 223.
193
III
che originariamente non esiste nessun Io e nessun Tu, ma che la
differenziazione costituisce un adeguamento quasi dettato dal
bisogno di rispondere in prima persona dello stato di cose. Nel
momento in cui nasce l’Io si trova a dover fare i conti con se
stesso, col mondo e con gli altri, non può astenersi dalla Cura di
queste tre dimensioni che sono tutte legate tra loro. L’ipseità
pura, metafisica, ha una funzione necessaria per l’impegno
sociale della propria egoità in chiave esistenziale. Per
promuovere le proprie idee si ha bisogno di pensare
responsabilmente in prima persona, al singolare verso il plurale,
senza lasciarsi coinvolgere da ciò che gli altri dicono in coro.
Solo perché l’esserci esiste come ipseità, è possibile che esso
formi una comunità di uomini con-appartenenti l’uno all’altro,
non estranei, ma mossi dagli stessi impegni nei confronti della
propria cura.
Nella sezione seconda di questo corso che s’intitola il problema
del fondamento troviamo una parte dedicata al fenomeno del
mondo [Das Phänomen der welt], interna al §11; La
trascendenza dell’esserci [Die trascenszendez des Dasein]. Qui
mi sembra interessante sottolineare l’insistenza heideggeriana
nell’esplicitare quanto viene designato con il termine mondo.
Per perseguire quest’obiettivo Heidegger si propone di dare uno
sguardo alla storia del concetto di mondo, attraverso la quale
spera divenga comprensibile la polivalenza sua caratteristica.
“Se guardiamo alla filosofia antica, e precisamente ai suoi inizi decisivi
(Parmenide ed Eraclito), ci imbattiamo subito in qualcosa di sorprendente.
L’espressione greca per indicare il mondo è Кóσμος.[..] che significa «stato»,
è il termine per indicare il modo d’essere e non l’ente stesso.[…] Nella prima
lettera ai Corinzi e in quella ai Galati, quando Paolo parla di mondo vuole
dire lo stato e la condizione degli uomini, il modo della loro esistenza e
precisamente il loro atteggiamento nei confronti dei beni e delle opere.[…]
Secondo Agostino il termine mundus sta per mundi habitatores, gli abitanti
del mondo, coloro che si sistemano in esso, ciò però in generale non significa
194
III
soltanto che oltre ai monti ed ai fiumi ci sono pure essi, ma questo sistemarsiin è determinato primariamente da certi atteggiamenti fondamentali, da
valutazioni, modi di comportarsi e di prendere le cose, dalla «disposizione». 8
Tutto ciò ha il carattere propedeutico alla comprensione
dell’esistenziale
essere-nel-mondo
dell’esserci.
Il
mondo
significa non le cose, non gli enti materiali, bensì lo stato in cui
gli uomini si trovano, e le condizioni in cui si vengono a trovare,
che comprende anche il loro modo di rapportarsi all’ente.
Prima d’intraprendere le analisi di altri testi heideggeriani che
cronologicamente seguono Essere e tempo, mi sembra utile
prendere in considerazione qui brevemente la concezione di
Franco Chiereghin9, il quale soffermandosi sul movimento
teoretico del lasciar essere heideggeriano scopre la presenza del
Mitsein.
“Il lasciar essere infatti non è il puro vuoto conseguente all’estinzione di ogni
determinare e di ogni recettività: lasciar essere non significa porsi come uno
spettatore indifferente all’alterno avvicendarsi degli oggetti. Lasciar essere è
disporsi liberamente all’accesso di qualcosa e, altrettanto liberamente,
predisporre la forma che rende possibile l’accesso” 10.
In altri termini si tratta di vedere e di scoprire qualcosa che già
esiste, che c’è, ma la cui sola presenza non può rendersi
manifesta a partire da sé. Infatti l’esserci può riuscire ad
ignorare costantemente, anzi è così che avviene il più delle
volte, la verità che resta nascosta, vivendo tutta la vita nelle
regioni “indiscusse” del quotidiano prendersi cura. In assenza di
costrizione quindi assumersi la responsabilità di una scelta
volontaria, verso un cambiamento di direzione o verso un
8
Ivi, pp. 203-206.
Franco Chiereghin Il problema della verità in Martin Heidegger, Lezioni marburghesi del 1925/26 (Logik. Die Frage
nach Wahrheit) e Sein und Zeit; §Libertà e sottomissione (229-233) Edizioni Nuova Vita, Padova, 1982.
10
Ivi, p.231
9
195
III
possibile capovolgimento d’orizzonte coincide con l’atto stesso
di sottomissione alla scelta.
“Liberamente non significa arbitrariamente, ma risolversi a fare agire la
condizione dell’accedere-a e insieme sottomettersi ad essa. Tale condizione
deve innanzitutto rendere comprensibile non tanto lo stato di presenza
immediata dell’oggetto, ma ciò a cui questa rinvia necessariamente[..].La
forma a cui il lasciar essere si sottopone liberamente mira a quel nulla di
oggettualità che non è l’oggetto prima del suo essere accessibile, né dopo che
si è reso accessibile, ma che è il punto in cui non è più un nulla, e tuttavia non
è ancora. Tale punto è ciò che è stato individuato come il passare dall’una
all’altra delle due opposte determinazioni” 11.
Questi passi mi servono per chiarire in che senso Heidegger
parli del silenzio, come ciò che offre la possibilità di intravedere
il durchsichtige Miteinandersein; vale a dire l’essere assieme
trasparente, autentico, privo di vuota chiacchiera, inutili
equivoci o semplice curiosità. Lo stare a sentirsi reciproco nel
vero discorso, nel parlare autentico, permette un infiltrarsi di
silenzi densi di significato che pur essendo senza parole dicono
qualcosa. Il momento del passaggio dall’oggettivazione della
proposizione al “nulla” di una nuova formulazione che però non
è ancora diventata frase permette di sentire l’autentico silenzio,
che mette a tacere l’un con l’altro inautentico dell’indifferenza
reciproca o della mera presa in considerazione dell’altro, da
parte dell’uno, come semplice presenza utilizzabile nel mondo.
Assumere su di sé consapevolmente, secondo Chiereghin, la
possibilità del darsi del passaggio, del radicale cambiamento di
stato, dalla quotidianità inautentica alla comprensione veritativa
del con-essere autentico, significa anche essere chiamato ad
assumere determinati atteggiamenti pubblici nei confronti degli
altri. Una volta che si sceglie liberamente di vivere
nell’autentico bisogna saperne assumere il peso, anche se, come
11
Ibidem.
196
III
ricorda Chiereghin, Heidegger non parla mai esplicitamente di
un’etica intersoggettiva. Gli altri così concepiti non sono più
coloro che vengono a procurarmi fastidi e a chiedermi di
sostituirli nella loro cura (Fürsorge inautentica), bensì sono
coloro che costituiscono per me sempre un incipit per una vita
nuova, il punto zero per instaurare nuove connessioni storicolinguistiche, e che in più permettono di lasciar essere il mio
essere nella piena consapevolezza di ciò che è, essendo
responsabili a loro volta della loro Sorge, e di ciò che questo atto
di scelta comporta.
Secondo Nancy invece in Heidegger è indubbia la presenza di
un'etica, perché altrimenti non si spiegherebbe in che senso sia
possibile l'apertura al darsi dell'essere nell'agire pratico.
“L'apertura del fare senso è radicalmente impossibile in un modo solipsista.
[...] quale che sia la scelta morale, l'altro è essenziale all'apertura. E questa è
essenziale al senso che, a sua volta, è l'essenziale dell'agire che fa l'essenza
dell'essere”12.
In L’etica originaria di Heidegger Nancy stesso scrive infatti:
“Certamente l’etica heideggeriana è ben lontana dal mettere l’accento
sull’essere il ci con altri che è essenzialmente co-implicato nell’esistenza
secondo Essere e tempo [..]. A rigore l’analisi dovrebbe spingersi fino alla
singolarità plurale come condizione dell’ek-sistenza. Questa singolarità non è
quella dell’individuo, ma quella di ogni evento d’essere nello stesso
individuo e nello stesso gruppo”13.
12
J. L. Nancy, L'etica originaria op. cit.
Ivi, p.46. Secondo Nancy Heidegger avrebbe dovuto riscrivere un’analitica dell’esserci partendo dal fenomeno del
Mitsein, infatti ancora: “Poiché la differenza tra l’essere e l’ente non è una differenza d’essere (non è la differenza tra
due generi d’essere dell’ente), essa non è neppure una differenza tra due realtà, ma è la realtà del Dasein in quanto
questo è in se stesso, da se stesso, aperto e chiamato ad una relazione essenziale e attiva con il proprio fatto d’essere. La
differenza è attiva o pratica; forse è la praxis stessa.[..] Bisognerà portare al linguaggio anche l’essere o il se stesso etico
dell’ente non umano. In ogni modo portare al linguaggio è inseparabile da un certo modo di comunicare su cui però
Heidegger non si ferma. Non si tratta della comunicazione del messaggio, ma di quella del fare senso in comune.
L’etica è il fare senso: Si potrebbe dire che l’etica sarebbe fatica piuttosto che semantica”, p.48.
13
197
III
Secondo Nancy in Heidegger, come in Kant, non c’è alcun tipo
di soggettivismo, non c’è nessuna libertà di scegliere soggettiva,
in cui il bene sia la stessa libertà di scegliere del soggetto. La
libertà dell’esserci consiste invece nella sua dignità, nel dover
impegnare in ogni sua scelta, ciò che si può chiamare
l’oggettività dell’essere (e di conseguenza l’umanità e il mondo)
Infatti:
“la dignità propria dell’uomo, quella che non dipende da nessuna valutazione
soggettiva, deriva dal fatto che l’essere gli si consegna, esponendosi come
l’apertura del fare senso. L’uomo non è più né il figlio di Dio né il fine della
natura, né il soggetto della storia[..]è l’esistente in cui l’essere si espone come
fare-senso”14.
Il pensiero di Heidegger anche secondo Ricoeur rientra
nell’ambito di un approccio ontologico non privo di sguardo
etico nel rapporto con l’alterità, ma malgrado ciò carente nella
dimensione morale. La mancanza di tale dimensione è dovuta
non al fatto che l’io non tolleri d’uscire al di fuori di sé, e non
instauri rapporti con gli altri, ma al fatto che si tratta di un io che
non si atteggia con responsabilità personale nei confronti del
mondo.
L’esserci
di
Heidegger
è
già
nel
mondo,
ontologicamente e originariamente, come con-essere. Il conessere è fenomeno originario: pertanto l’apertura heideggeriana
all’ intersoggettività deve essere intesa come «un modo d’essere
originariamente
esistenziale
che
“sin
dal
principio”
originariamente rende possibile e costituisce in generale la
relazione con gli altri». Il Dasein di Heidegger, pur non
delineandosi dichiaratamente come persona che dimora nello
spazio dell’etica e dell’azione, dimora nel logos, in uno spazio
linguistico in cui la voce dell’io non è «straniera» per l’altro.
14
Ivi, pp. 24-26.
198
III
Si tratta di una mondo linguistico intersoggettivo condiviso, che
però secondo Ricoeur ha più a che fare con la sfera
dell’inautentico, che con quella dell’autenticità. La dimensione
etica è, secondo Ricoeur, in Heidegger inibita dalla relazione
ontologica. Questa situazione di paradosso non può esimerci dal
riconoscere la forza della fondazione ontologica della relazione
etica in Heidegger. Resta il fatto che proprio questa fortissima
radicazione ontologica finisce per opprimere il dispiegamento di
una dimensione di responsabilità e decisione per il bene. Così
infatti Ricoeur domanda sul come discernere la dimensione
dell’autenticità da quella dell’inautenticità:
“Ora come distinguere l’inautentico dall’autentico? Attraverso il rapporto che
l’inautentico ha con il prendersi cura quotidiano (Besorgen) e che l’autentico
ha con la cura (Sorge). Nella cura sta il filo conduttore dell’intera analitica
dell’Esserci, e della cura possiamo dire che essa è, senza difficoltà, eticoontologica. Sebbene l’accento principale cada sull’ontologia […] non si può
negare che questa ontologia della cura abbia una dimensione etica.” 15
La Selbstständigkeit richiama secondo Ricoeur l’autonomia
morale di Kant, senza che per ciò Heidegger le conferisca quella
priorità pratica nella quotidianità che invece noi lettori ci
aspetteremmo. La visione di Ricoeur diventa rilevante per la mia
tesi perché come egli stesso dichiara:
“Quando Heidegger caratterizza l’esserci come l’essere nel quale ne va della
questione dell’essere, egli implica che questo essere sia costituito in modo
tale da potersi disinteressare della questione dell’essere. E da qui egli giunge
ben presto alla distinzione etica per eccellenza tra autenticità (Eigentlichkeit)
ed inautenticità (Uneigentlichkeit)”16.
15
Paul Ricoeur Il problema etico in Essere e tempo, in Heidegger in discussione, a cura di Franco Bianco, Franco
Angeli Milano 1992, p.51.
16
Ivi, p.51.
199
III
L’ontologia heideggeriana non svilupperebbe però fino in fondo
la dimensione etica dell’intersoggettività, perché egli stesso
sostiene con forza che non bisogna moralizzare questa
distinzione, ma in realtà così dicendo limita la sua stessa analisi
sull’esserci. Come nota in modo molto acuto Ricoeur sembra
quasi che Heidegger aprendo la strada ad un’etica non
tematizzata precluda una morale tematizzata, e sembra che non
si soffermi su di essa come un’etica perché la consideri come
intrinsecamente legata alla struttura costitutivo - esistenziale
della Sorge.
200
III
3.2 Un passo avanti dopo Essere e tempo
In Die Grundprobleme der Phänomenologie: I problemi
fondamentali della fenomenologia del 1927, Heidegger scrive:
“Abbiamo visto in precedenza che l’esserci si comprende anzitutto e per lo
più a partire dalle cose; insieme a ciò è compreso anche il con-esserci di altri.
Nei rapporti di appagatività è già insita la comprensione del poter-essere
dell’esserci come con-esserci con gli altri. L’esserci in quanto tale è
essenzialmente aperto al con-esserci di altri. L’esserci fattuale, esplicitamente
o meno, è in vista del poter essere-assieme [Miteinander-seinkönnens].
Questo però è possibile soltanto perché l’esserci come tale è per natura
determinato dal con-essere con altri Quando diciamo che l’esserci è «in vista
di se stesso» noi forniamo una determinazione ontologica dell’esistenza.
Questa proposizione esistenziale non pregiudica ancora nulla delle possibilità
esistentive.”17
Ciò significa che lo scopo fattuale del Dasein non consiste
nell’occuparsi esclusivamente di sé, ma che ontologicamente il
suo essere deve autocomprendersi nel se stesso più proprio, ma
che per riuscirci ha bisogno degli altri. Solo perché è tale
costitutivamente, può con-essere autenticamente con altri
esserci, “ solo per questo un altro esserci”, per cui a sua volta ne
va del proprio essere, può trovarsi “essenzialmente in un
rapporto esistentivo con altri” che supera il carattere del
“quotidiano avere a che fare con” per diventare originaria
relazione intersoggettiva tra due esserci differenti.
“L’esserci non si mantiene anzitutto presso le cose per poi in seguito scoprire
in modo casuale tra di esse un ente col suo stesso modo d’essere: al contrario
l’esserci in quanto ente per cui ne va di se stesso è co-originariamente conessere con gli altri oltre che un essere presso gli enti intramondani in
17
M. Heidegger; Die Grundprobleme der Phänomenologie op. cit. pp. 419-420 [trad. it p.283].
201
III
generale. Il modo con cui l’esserci incontra questo esserci che è, muove a
partire da un mondo già da sempre condiviso con gli altri che è di per sé in
ultima istanza gli altri. Il Mitdasein è proprio questa modalità d’incontro.
Solo perché l’esserci è costituito preliminarmente dall’essere nel mondo,e dal
con-esserci, esso può in modo esistentivo comunicare di fatto qualcosa ad un
altro, ma non è valido il passaggio inverso: non è questa fattuale
comunicazione esistentiva ciò che permette ad un esserci di avere un mondo
in comune con un altro. I diversi modi dell’essere-assieme fattuale
costituiscono volta a volta soltanto le possibilità fattuali per l’apertura, più o
meno vasta ed autentica del mondo, determinano le diverse possibilità fattuali
[faktischen Möglichkeiten] della verifica intersoggettiva [intersubjektiven
Bewährung] di ciò che è scoperto e della legittimazione intersoggettiva
[intersubjektiven Begründung] dell’accordo [Einstimmigkeit] che caratterizza
la comprensione del mondo, e infine stabiliscono le possibilità fattuali per
prospettare e indirizzare le possibilità esistentive del singolo Dasein.
D’altro canto, non a caso noi abbiamo chiarito ciò che vuol dire mondo in
senso ontologico movendo anzitutto dall’ente intramondano, alla cui sfera
non appartengono solo l’utilizzabile ed il sussistente ma secondo una
comprensione ingenua anche l’esserci di altri. I nostri simili sono anch’essi
sussistenti, anch’essi costituiscono il mondo.”18
Qui di seguito Heidegger riprende il concetto paolino di kosmos,
secondo cui il mondo esiste solo se l’uomo «ci è». E così
continua:
“solo in quanto il soggetto è determinato dall’essere nel mondo esso può
essere come se stesso, divenire un tu per un altro. Solo perché sono un me
stesso esistente posso essere un tu per un altro come se-stesso. La
determinazione fondamentale della possibilità del se stesso, l’essere un
possibile tu nel con essere con altri si fonda sul fatto che l’esserci come quel
se stesso che esso è, è tale da esistere come essere nel mondo. Se la relazione
io-tu rappresenta un rapporto privilegiato in seno all’esistenza, essa non può
esser conosciuta in modo esistenziale[..] fintantoché non ci si chiede che cosa
significhi esistenza in generale”19.
18
19
Ivi, pp.421-422[tr. it. pp.284-285].
Ivi, p. 422 [tr. it. p.285].
202
III
Tutto ciò costituisce un tassello fondamentale per Heideggger
per spiegare che l’esserci non è innanzitutto un io-stesso, ma la
sua ipseità è fondata sulla trascendenza del suo potersi perdersi
o possedersi. Essendo, in altri termini, inizialmente un essere nel
mondo in quanto cura questo è
“il presupposto perché l’esserci sia con-essere con gli altri nel senso in cui
l’io stesso è insieme al tu-stesso. L’esserci non esiste dapprima in qualche
modo misterioso per poi compiere l’oltrepassamento al di là di se stesso in
direzione di altri o verso un sussistente, ma esistere significa già sempre
oltrepassare, o meglio aver oltrepassato. L’esserci è trascendente. [..] La
trascendenza al di là dell’esserci, fa sì che esso si rapporti all’ente, si tratti del
sussistente, di altri o di se stesso, in quanto ente.” 20
La cura è in sé la trascendenza dell’esserci, il suo essere
intersoggettivo, quasi con un carattere pre-ontologico che si
rivela solo nel momento della consapevolezza che apre l’esserci
all’autenticità, e anche al poter-essere proprio degli altri, non
prima né dopo.
Hans-Georg Gadamer è uno dei pochi discepoli di Heidegger
che ha notato la ricchezza del Mitdasein, e la sua apertura
all’alterità.
Egli
si
sofferma
a
lungo
sul
concetto
d’intersoggettività in Verità e Metodo, la sua opera maggiore, e
considera la tematica intersoggettiva una problematica di
fondamentale importanza per i suoi tempi, che una volta “entrata
nella coscienza comune” grazie al “grande programma
husserliano della fenomenologia trascendentale” non ne è più
uscita, pur avendo subito con Heidegger una sferzata critica
difficilmente superabile. Così Gadamer infatti dichiara:
“La critica di Heidegger era la più radicale.[..] Essa riguardava il concetto
stesso del fenomeno e della datità corporale dell’oggetto della percezione,
20
Ivi, p. 426[tr. it. p. 287].
203
III
poiché questa viene riferita in ultima analisi, in Husserl, alla certezza
apodittica dell’autocoscienza”21.
In
altre
parole
Heidegger
critica
il
nocciolo
stesso
dell’intersoggettività considerandola una soggettività allo
specchio, che portava a vedere l’altro esclusivamente come una
limitazione di se stesso, e conduceva soltanto ad un
rafforzamento dell’io contro l’altro se stesso, alter ego. Anche
l’altro rappresenta dunque un semplice oggetto percettivo
assimilabile alla fine all’autocoscienza soggettiva. Il concetto di
“intersoggettività” agli occhi di Heidegger deriva nel suo stesso
contenuto semantico moderno dal medesimo pregiudizio che
radica l’essere nella soggettività,e si lega con un debito
necessario a tale pregiudizio, sviluppatosi a partire da un
impianto latente già nell’ontologia greca (un’ontologia della
presenza) esaltato poi, nella sua forza teoretica, da un altro
pregiudizio ancora, fornito dal cartesianesimo e dal “postulato
della misurabilità della scienza moderna”. Con l’introduzione
del concetto della Vorhandenheit, dell’essere semplicemente
presente dell’oggetto, del suo essere di fronte a nostra
disposizione, e soprattutto con la messa in discussione di questa
attraverso la Zuhandenheit, il concetto dell’essere alla mano
dell’oggetto, Heidegger riesce ad oltrepassare li impianto
husserliano. Perché, se spiegare l’intersoggettività di Husserl,
significa
ricorrere
ad
una
soggettività
imprescindibile,
Heidegger elimina il problema alla radice, limando la
soggettività del soggetto, de-costruendola. Il soggetto come
sappiamo, diventa Dasein, essere nel mondo e con-essere, e si
preoccupa della sua Cura che lo libera, se autentica, da una vita
anonima tale da appartenere alla sfera della pura presenza.
Gadamer inoltre dà risalto alla vicinanza teorica di Heidegger
21
Gadamer, Verità e Metodo 2, § 16, Soggettività e intersoggettività; soggetto e persona (1975) pp.185/208, p.190.
204
III
con Agostino, per quanto riguarda l’orizzonte temporale
dell’esserci che ne influenza l’essere stesso.
“Come Agostino Heidegger crede che l’ora già non è, perché già nella sua
identificazione essa si è tolta in quanto passato”.
E ciò avviene anche nella coscienza: l’essere dell’esserci non
consiste nel tentativo di portarsi di fronte a se stesso nella presa
di coscienza di sé, ma è sempre l’essersi già speso nel presente,
pur nel suo non esser dato, del futuro. Ciò significa che il
soggetto non è in grado di autodefinizioni o di raggiungere una
pienezza tale da sentirsi completo in tutto e per tutto, ma esso
vive sempre nell’incertezza del domani e del non sapere cosa
succederà. Esiste pertanto una esteriorità interna alla vita stessa:
ed è l’essere stesso, nella sua più profonda radice, che rende
ogni esserci altro da sé, già in sé.
“Dapprima sembra che in Essere e tempo l’intersoggettività sia solo un
fenomeno marginale nell’autentico modo di essere dell’esserci, e che cada
sotto il verdetto dell’inautenticità, della chiacchiera, del man, del “si”, e che
trovi quindi il proprio luogo nella tendenza allo scadimento dell’esserci”22:
ma in realtà questa è solo una strategia di denuncia
dell’impostazione dell’intersoggettività secondo il vecchio
modello husserliano. Per escludere il problema inutile e
fallimentare della soggettività del soggetto è necessario
eliminare alla radice anche quello dell’intersoggettività. Si può
parlare di Cura ma non d’intersoggettività, di amore e conessere ma non di inter-relazioni tra soggetti, essendo stati questi
già
da
tutto
principio
de-soggettivizzati.
Nella
sfera
dell’autentico non si può parlare d’intersoggettività, ma solo nel
22
Ivi, p.192.
205
III
“si”, nel mondo della chiacchiera in cui si può parlare di
soggetto come di un esistente conforme a quanto si dice di esso.
“Ciò non vuole essere certamente una svalutazione del mondo sociale, ma
vuole solo far capire che non è un mondo veramente comune quello che si
presenta semplicemente nella forma della chiacchiera , del “si”, ecc.; che
tutto questo rappresenta invece una forma di scadimento, in cui si nasconde
la radicale singolarità del morire e la vera comunanza che si stabilisce con
esso.”23
In altre parole esiste una maniera di stare insieme che è aperta
dall’esperienza anticipata della morte, e che apre una
comunanza autentica con l’altro, non dettata dalla pietà o dalla
preoccupazione ma dalla cura che libera [freigebende], e che ci
rende compartecipi di una stessa possibilità a-venire che
rimuove alla radice il mondo inautentico del Man. Proprio per
scardinare il sistema in cui tutti si è insieme ma non sul serio,
non veramente, Heidegger, secondo Gadamer, è quasi costretto a
prendere poco in considerazione l’altro, in nome della
Geworfenheit, come progetto gettato a-venire. La sua stessa
avvertenza critica diventa dunque agli occhi di Gadamer, il
difetto che ha impedito uno sviluppo adeguato di una intuizione
di per sé assai ricca. Secondo Gadamer occorre, in sintesi, andar
più a fondo nel tema della finitezza per scorgere il tema
dell’alterità:
”Non si tratta solo del fatto che ciascuno è, in via di principio, un essere
limitato. Si tratta piuttosto del perché io esperisca la mia propria limitatezza
nella contrapposizione dell’altro, e debba continuamente imparare ad
esperirla, se debbo poter essere nella condizione di superare i miei limiti”. 24
23
24
Ivi, p.194.
Ivi, p.196.
206
III
Nella relazione all’altro, e all’alterità in quanto tale, si sviluppa
nell’esserci una presa di coscienza della propria limitatezza che
è però essa stessa condizione di possibilità del superamento di
questi stessi limiti grazie principalmente ad un essere
necessariamente condizionato ad imparare continuamente di
nuovo dall’esterno,e mai dall’interno del sé. A questa
esplicitazione, Heidegger non sarebbe mai giunto.
Occorre però dire che, per esempio, in Einleitung in die
Philosophie, che corrisponde al corso di lezioni tenute a
Friburgo nel semestre invernale del 1928/29 il carattere
ontologico del Mitsein viene ripesato da Heidegger fino a
rivelarne il carattere puramente interpersonale e a esplicitarne la
specifica relazione tra l’io e il tu. Viene infatti ripresa con
insistenza la differenza tra il mero stare acconto delle cose
(Nebeneinaidersein) e l’essere l’uno con l’altro degli uomini
(Miteinandersein) con un esempio molto calzante. Se due
escursionisti dopo una salita in montagna si trovassero a
contemplare due vette all’orizzonte, non si può di certo
sostenere che la vicinanza di queste tra loro sia la stessa di
quella dei due uomini. Essendo infatti la prima esclusivamente
spaziale non si può assolutamente paragonare alla vicinanza di
carattere emotivo degli escursionisti. L’esser con degli uomini
tra loro non è assimilabile dunque all’esser-presso degli enti
intramondani. Qui Heidegger giunge a dire che l’esser-presso
delle cose in un orizzonte comune con noi e anche con gli altri
esserci, non può prescindere dalla mediazione della modalità
d’incontro con gli altri, perché le cose non possono essere presso
tra loro, ma hanno bisogno di un qualcuno che le posizioni
attribuendo loro determinati significati o valori, come mezzo
per, strumento di o utensile atto a. In modo sorprendente viene
qui avanzata l’ipotesi dallo stesso Heidegger che il Mitsein
primeggi sull’essere presso degli enti. E per dire ciò Heidegger
207
III
utilizza esattamente il termine primato (Vorrang) ad indicare la
differenza di livello tra i due ambiti. Per avvalorare la sua
intuizione accenna brevissimamente al comportamento degli
uomini primitivi che non attribuiscono significati pratici alle
cose come siamo abituati a vedere nel mondo attuale, ma
personificano spesso la natura, vale a dire si relazionano ad essa
a partire da una relazione interpersonale, rivolgendosi ad essa
come se questa stessa potesse rispondere. Si viene a creare in
questo modo una relazione intersoggettiva a tutti gli effetti.
Heidegger sembra smentire in questo modo l’accusa di
solipsismo di cui fu sarà fatto oggetto a proposito di Sein und
Zeit, innestando nella struttura del Mitsein la dimensione
interpersonale che sembrava non essere stata posta sotto la
giusta luce in Sein und Zeit. Il problema del Miteinadersein
sembra godere qui infatti di una maggiore considerazione da
parte di Heidegger. Il suo sottolineare che l’uomo primitivo
prima di instaurare un rapporto di tipo strumentale con le cose,
istituisce con le cose, una relazione interpersonale come se
queste fossero degli esseri viventi personificati, basterebbe a
dimostrare che la dimensione che fa da sostrato all’essenza
stessa di ogni tipo di essere-con, o di Mitsein, che dir si voglia, è
sempre un Miteinandersein. Già Aristotele, come ci ricorda
Heidegger in questo testo, parlava dell’uomo come zõon
politikòn, come quell’essere vivente che per essere ciò che è
vive in comunità con altri esseri umani come lui. Nietzsche
invece parlava dell’essere umano come di un animale da gregge
per evidenziare quest’aspetto comunitario che svilirebbe il
singolo nella sua identità e dignità. Dal punto di vista
ontologico, secondo Heidegger, non ci si è mai preoccupati di
trattare il problema del relazionarsi dei soggetti tra loro. Chi lo
problematizzò per la prima volta fu Leibniz nella Monadologia.
In breve Heidegger si serve di Leibniz per far emergere più
208
III
chiaramente la determinazione del concetto di Miteinandersein,
opponendo a questo il concetto di commercium tra due o più
monadi. Leibniz giunge, dalla sua, ad una peculiare concezione
del reciproco relazionarsi delle monadi come di sostanze,
ognuna delle quali pur essendo identica a se stessa si muove
verso l’altra differente da sé i grazia di una vis25 sua propria.
Monade infatti significa in greco monas, unità, singolarità,
semplicità e quindi anche identità. Il commercio con l’altra
monade non è altro che l’assecondare un impulso, un appetito
già presente in essa, che la mantiene in unità anche nel rapporto
stesso con un'altra monade. Ecco perché ogni monade a partire
dal suo specifico punto di vista è in sé già l’universo, essa
racchiude in sé il movimento della sostanza del Subiectum, di
ciò che giace sotto, che sta in fondo e che lo rende identico a se
stesso. Se la monade di Leibniz è un mondo concentrato perché
configura l’intero, l’esserci non riceve alcunché dall’esterno non
può accogliere in sé nessuna forma di immedesimazione ad
un’altra monade, e non ha neppure bisogno di finestre per
comunicare con l’esterno, perché si trova già all’esterno.
L’esserci non presenta un dentro a cui poter contrapporre un
fuori, a si trova già per natura fuori. Si tratta qui di esplicitare
una impostazione de-costruttiva della soggettività dell’io, che
però non lascia il Dasein abbandonato nel non-senso, ma fa leva
sul Miteinandersein come quella struttura pregna di significati
comuni, i quali a loro volta come per il neokantismo non si
appoggiano mai su determinazioni di carattere psicologico ma
su originarie relazioni intersoggettive dalle quali solo a
posteriori possono nascere atteggiamenti di genere altruistici o
egoistici. Per spiegare bene cosa voglia dire, Heidegger si spinge
a dire che anche la differenza maschile/femminile se considerata
Più esattamente nell’impulso la monade si procura da sé ciò che ancora non è per essere nel modo in cui è già da
sempre in anticipo. Anche se vi possono essere delle monadi più opache ed ottuse, ve ne sono delle altre la cui
gradazione si avvicina più a Dio, pensato nel senso della teologia cristiana che non alla cosiddetta “indole corporea”.
25
209
III
dal punto di vista del Miteinandersein, non costituisce una vera
differenza. L’esserci che noi volta per volta siamo è nel suo
prendere parte nel mondo un essere dis-genere, neutro. Quel
tratto d’eccedenza che fa di un esserci un essere di natura
femminile o maschile è una differenza di natura biologica che
no interessa l’essere dell’esserci in quanto tale. L’indole
costitutiva dell’essere umano è già sia uomo che donna prima di
scoprire d’appartenere definitivamente ad uno dei due generi. Il
reciproco essere dis-genere di due esserci (pur essendo in realtà
uomini
e
donne)
può
esser
paragonato
al
reciproco
Miteinandersein di ciascun esserci con gli altri. L’essere umano
non si costituisce primariamente come un io isolato ma sempre
contemporaneamente come Sein bei, Mitsein, e Selbstsein.
Questi tre momenti non sono altro che le tre diramazioni in cui
si struttura e prende forma la cura nella sua complessa
articolazione in Sein und Zeit. La vita dell’essere umano si basa
su una modalità d’apertura, su un “come” che è dato dalla Sorge,
in cui la sfera dell’intersoggettività, e quindi quella della
comprensione, e del discorso, non può che assumere un posto
privilegiato rispetto alle altre due, che sono rispettivamente la
sfera del rapportarsi al mondo e dell’avere a che fare con le
cose, e quella che si riferisce al sé. Infatti già solo per il fatto che
la dimensione del “con” è l’unica delle tre a non esaurirsi da
sola, ma esige necessariamente la presenza di un altro essere
umano, e quindi possiamo dire dell’alterità stessa, una tale
dimensione costituisce il fondamento su cui successivamente
poter costruire un mondo e soprattutto un sé.
In un saggio del 1929 tradotto in italiano col titolo Sull’essenza
del fondamento26, Heidegger illustra il darsi dell’incontro
dell’altro sul piano dell’«in vista di» della temporalità. Per
comprendere bene quale sia l’ intenzione di Heidegger bisogna
26
M. Heidegger, Wegmarken, Frankfurt am Main, V. Klostermann [Segnavia (1919/1961), trad. it. Di F.Volpi, Adelphi
1987].
210
III
ritornare al capitolo 3° di SuZ, denominato “Il poter-essere un
tutto autentico da parte dell’esserci e la temporalità come senso
ontologico della cura”. Essendo infatti il tempo il senso della
cura, ed essendo la temporalità l’unità originaria della struttura
ontologica della Sorge, segue che la complessa articolazione
temporale della medesima in “esser già avanti a sé in”, come
“esser-presso”, nasconda una connessione a livello teoretico tra
l’autenticità dell’esserci, e il tempo finito dell’esistenza. Se la
possibilità di comprendere autenticamente il tempo, permette di
conoscere l’avanti, il già e il presso, come tre diversi momenti
temporali estrinseci alla comprensione ordinaria del Si, la cura
non può essere concepita (come vorrebbe invece il tempo
ordinario) come un ente che scorre nel tempo. Essa rappresenta
un farsi tempo del tempo stesso, il rendersi possibile di un
nuovo tempo, questa volta autentico, che si fa tempo a partire
dall’esserci già avanti a sé in come essere-presso. Nel
progettarsi
in
avanti
infatti
l’esserci
esce
dal
tempo
dell’orologio, si scinde da tutto ciò che è temporale, rendendo
possibile in questo modo un poter-essere proprio, assolutamente
indipendente dal tempo oggettivo. Il progettarsi dell’esserci
avanti a sé ha certamente da scontrarsi col tempo come
estrinseco rispetto a sé, e, ha di conseguenza la necessità di
interiorizzarlo, rendendolo intrinseco al proprio progetto
d’esistenza. L’esserci pur essendo assolutamente schiavo del
tempo in quanto ente gettato nel mondo, ne diventa per certi
versi padrone quando diventa progetto, e può farne quindi ciò
che desidera; lasciarlo scorrere dinanzi a sé ovvero domarlo in
funzione delle proprie esigenze di vita. Il tempo autentico
diventa l’esserci stesso che compromesso fin dalla nascita, mette
in atto la decisione d’esser consapevole del suo limite. Nell’
Essenza del fondamento, Heidegger sembra sostenere che sia
possibile giungere alla temporalità autentica anche grazie alla
211
III
partecipazione dell’altro nella cura. La presenza degli altri nella
cura sembra voglia essere qui sottolineata per specificare il ruolo
dell’in vista di cui l’esserci si muove. Per riuscire ad ottenere
una cura autentica bisogna necessariamente passare da uno
scontro con gli altri. Sembra che l’in vista di della temporalità
autentica racchiuda in sé un arcano, rimasto inspiegato. A mio
avviso questo arcano non è altro che la relazione interpersonale
tra due esserci. Se il Miteinandersein infatti non riguarda né
l’uno né l’altro ma l’essere l’un con l’altro, ciò significa che
Heidegger vuole mettere in evidenza la relazione stessa e non il
singolo individuo, nella sua determinata percezione psicologica
dell’altro, per esempio. Possiamo dire che è vero che dal punto
di vista ontologico, per Heidegger, ogni esserci afferra la propria
temporalità autentica attraverso l’in vista di (Umwillen von..)
che apre e fonda il progetto, ma non dobbiamo dimenticare che
è altrettanto vero che esiste una strettissima connessione
teoretica tra l’in vista di della temporalità ed ogni effettivo ed
autentico aver cura, come in vista di te, di lui, o di qualcosa di
determinato.
Così si legge:
“L’affermazione che l’esserci esiste in vista di sé non implica alcuna finalità
egoistica di tipo ontico per un cieco amor proprio dei singoli uomini effettivi.
Essa non può dunque venir confutata, riandando al fatto che molti uomini si
sacrificano per gli altri, e che in generale gli uomini non vivono solo per sé, a
in comunità con altri. Nella nostra tesi non c’è nulla che implichi un
isolamento solipsistico dell’esserci o una esaltazione egoistica. Al contrario,
essa pone la condizione della possibilità perché l’uomo possa comportarsi o
egoisticamente o altruisticamente. Solo perché l’esserci è determinato come
tale dall’ ipseità, un io-stesso può comportarsi in rapporto a un tu-stesso”27.
Mi sembra che qui Heidegger nell’ Ipseità faccia implicito
riferimento al Mitsein.
27
Ibidem, 1967, tr. it. pp.113-114.
212
III
Mi chiedo adesso perché il mandato di costruire una società
autentica lo abbia in Essere e tempo il popolo, e non sia invece il
frutto di una decisione responsabile dell’esserci che veda
all’interno della propria scelta l’altro in prima istanza. Il
concetto di comunità, e il riferimento alla problematica del Noi
la ritrovo in Logik als die Frage nach dem Wesen der Sprache
del ’34. Qui Martin Heidegger scrive:
“a proposito del concetto di «noi » abbiamo mostrato che non lo si deve
intendere come plurale. [..] La nostra domanda «chi siamo noi stessi?»
poggia sul modo in cui di volta in volta siamo il nostro esser-se-stesso.”28
Nella maggioranza dei casi si tratta di una domanda pacifica,
alla quale si risponde con la definizione di un gruppo a cui si
appartiene o del quale ci si sente parte integrante. Secondo
Heidegger si è soliti rifiutare questa domanda per una
inconsapevole incapacità di darvi una adeguata risposta, per il
fatto che ci si trova quasi sempre in una perdita del se stesso che
include una caduta della propria essenza nella “non essenza”. Il
se-stesso di ciascun esserci deve aver necessariamente qualcosa
in comune con l’essere del noi, perché se non si tratta di una
pluralità come semplice somma di più singolarità, dobbiamo
assicurarci che si costituisca una relazione irriducibile tra il
singolo io e il gruppo che ne rappresenti il nocciolo. A questa
relazione Heidegger dà il nome di decisione a sottolineare la
spinta che deve compiere l’io per spingersi fuori di sé verso
l’appartenenza condivisa ad un Noi comune, che prende il nome
di popolo. Si tratta di una decisione d’amicizia che non si fonda
mai su una sterile vicinanza esteriore o d’interessi, ma si basa su
un’armonia di comunione nel mondo che regola la distanza, e
comprende l’alterità irriducibile tra più individui come una
ricchezza irrinunciabile.
28
M.Heidegger. Op. cit. pp. 80-81.
213
III
“L’amicizia nasce solo con la più grande possibilità in ogni singolo di
autonomia interiore, che beninteso è completamente diversa dall’egoismo.
Nonostante il distacco dei singoli commisurato alla decisione si attua qui
un’armonia celata, la cui celatezza è essenziale. Questa armonia è in fondo
sempre un mistero”29.
Nel momento in cui abbiamo capito con la decisione quale sia la
direzione da intraprendere per far essere se-stesso il nostro
proprio essere è lì che è già scattata anche la decisione sul noi,
dal momento che abbiano contemporaneamente afferrato quella
idea di noi, alla quale prima eravamo estranei per mancanza di
trasparenza. Il problema fondamentale è quello di riuscire a
comprendere, di riuscire a sollevarci dalla preoccupazione
quotidiana per andare al di là verso noi-stessi. Il se-stesso passa
nel noi stesso necessariamente, non può non darsi un se stesso
che non ricada rapidamente nella determinazione di un noi in cui
possiamo dire di essere noi stessi pienamente, in cui “parliamo
gli uni con gli altri e abbiamo attuato una determinazione del noi
completamente diversa rispetto a quella tradizionale.”30 Bisogna
a questo punto rispondere alla domanda sull’essenza di questo
popolo che noi stessi siamo per non cadere nuovamente
nell’errore in cui crediamo di aver “deciso” già senza in realtà
averlo mai fatto.
“Questa domanda ci mette di fronte all’ulteriore domanda: «siamo davvero
noi questo popolo che noi siamo?» Questa domanda sembra davvero
sorprendente. Come può qualcosa che è non essere quel che è?[…] Come
stanno le cose quanto a noi stessi? Non abbiamo forse l’impareggiabile
vantaggio di poter deviare dalla nostra essenza ed esserle infedeli, di poter
29
30
Ivi. pp. 86-87.
Ivi, p. 84.
214
III
perdere noi stessi ed approdare nella non-essenza della nostra essenza per
restare a lungo in essa?”31
In tal modo la domanda sul nostro essere veramente il popolo di
cui dichiariamo di far parte, sulla nostra eventuale identità ad
una collettività che ci supera e ci attribuisce anche dei ruoli
sociali risulta essere “inaggirabile nel grado più alto”, e urgente
tanto al tempo del nazionalsocialismo, tanto all’oggi. Chi siamo
noi? Noi siamo chi? In quale modo abbiamo deciso di far aderire
il nostro noi al nostro essere noi-stessi? Dobbiamo porci il
dubbio che si pone Heidegger stesso: è possibile che “noi siamo
chi siamo in quel modo in cui forse non siamo noi”32? In questa
domanda “questo «forse» non è facoltativo”33, perché è
denotativo di un dubbio radicale sul chi siamo nel nostro essere
in comunione, sul cosa in cui ci siamo trasformati, sulla
comprensione ultima della decisione, perché è infatti possibile,
come Heidegger ci ha insegnato che l’essere può ricadere nel
suo non essere, “senza sprofondare per questo motivo nel
nulla”34. Noi in un certo senso siamo facili prede di quel Si, di
quel Man che ci salva dalla decisione, de-responsabilizzandoci.
L’essere inserito di H. per esempio nell’accadimento educativo
della sua università è un atto decisionale, frutto di una
riflessione sul se-stesso che lo condusse alla collaborazione col
regime nazista. Discutibilissima scelta che lo costrinse a nette
prese di posizioni, e a successive attuazioni consone al Noi di
cui dichiarava di far parte, ma assolutamente a-morali e
ingiustificabili, come la storia ci ha insegnato. Avrebbe forse
dovuto riflettere sulla sua decisione un po’ più a lungo? Avrebbe
dovuto capire che il suo se-stesso non poteva farsi trascinare da
31
Ivi, pp.100-101.
Ivi, p.102.
33
Ibidem.
34
Ibidem.
32
215
III
una simile follia di gruppo? Come avrebbe potuto acquisire una
tale consapevolezza della sua decisione che mirasse al Bene
comune e non verso il Noi collettivo del suo tempo? Come
avrebbe potuto Heidegger scagliarsi contro di esso partendo
dalle sue stesse riflessioni se non appoggiando la sua decisione
alla proàiresis aristotelica? “Questo decidersi, questo esserdecisi, -scrive Heidegger- è un chiudersi di fronte all’accadere
piuttosto che un dischiudere questo accadere”35. Si sente nelle
parole di Heidegger la forza di volontà di reagire, la presenza di
quel necessario sentimento d’opposizione e di ribellione al suo
tempo, ma questa stessa di fatto non fu molto ascoltata. Non si
ribellò mai Heidegger all’adempimento di quegli obblighi che
gli venivano imposti dall’alto. L’aver utilizzato appositamente la
parola
Überantwortung
per
denominare
l’esser-rimesso
dell’esserci storico al suo destino di Popolo, rivela il suo
autoconvincimento giustificativo ad un Essere effettivo al quale
bisogna rispondere necessariamente e il cui mandato non può
essere sbagliato, seppur del tutto inesplicabile. Notiamo qui che
a questo essere-rimesso all’essere viene dato il nome di cura
quando ancora l’essere era quello dell’esserci e non proveniva
esteriormente dalla sua e-sistenza ma dal suo essere fattuale e
storico. Heidegger stesso scrive:
“Quest’interpretazione dell’essenza dell’esserci umano come Cura è stata
fraintesa in ogni possibile direzione. La flemma compiaciuta del piccolo
borghese ha ritenuto che l’esserci umano non potesse essere contenuto in
qualcosa di tanto torbido come la cura.[…] Secondo alcuni altri la concezione
dell’esserci come cura sarebbe espressione di una tormentosa ed angosciosa
«visione del mondo»[…] il loro suggerimento è di tenere l’atteggiamento
«eroico». Qualcun altro ancora si scontra ancora con l’eccessiva
35
Ivi. p. 111.
216
III
accentuazione del tratto pratico-sostituibile e rimpiange una sufficiente
considerazione dell’uomo contemplativo e meditativo” 36.
La cura va intesa invece nel suo carattere di esposizione costante
alla temporalità del suo proprio aver-da-essere, nel suo non
possedersi mai appieno, del suo continuo progettarsi, della sua
frequente occupazione mondana.
“L’essere dell’esserci in quanto cura è il fondamento della possibilità
dell’ipseità dell’essere dell’uomo. Diviene ora chiaro perché il carattere del
se stesso non consiste nella riflessione dell’io, del soggetto; infatti il se stesso
è proprio la disintegrazione dell’egoità e della soggettività attraverso la
temporalità.[…] Bisogna quindi che l’esserci sia di volta in volta nostro. mio,
tuo. Dopo la disintegrazione integrale dell’egoità e della soggettività, dire
l’esserci è sempre mio non può più significare che questo esserci sia
ricondotto al singolo io e da lui occupato in esclusiva, ma dire l’esserci è
sempre mio vuol dire che il mio essere è trasmesso al con-gli-altri e per-glialtri. Io stesso allora sono per il solo fatto di essere storicamente,
nell’apertura decidente della storia”37.
Si tratta di una distruzione del soggetto della metafisica
trascendentale kantiana, che si appoggia su una precomprensione linguistica del mondo che lega ogni esserci
all’altro e li fa essere compartecipi di una comune storia. Se la
domanda sul chi dell’esserci è trasferita sul noi, resta
quest’ultima sempre legata all’essere storico del tempo in cui
quel determinato noi si è realizzato con un determinato agire
pratico. Ed essendo la cura l’essenza fondativa del nostro essere,
la nostra libertà si manifesta nel nostro attuare storico volta per
volta paradossalmente dettata dall’assunzione della decisione
volontaria. In base ai possibili e differenti modi d’essere del
nostro essere si definisce anche l’essere di quel noi di cui
facciamo parte. L’inaggirabilità dell’essere storico dell’esserci è
36
37
Ivi, pp. 226,227.
Ivi, p. 228.
217
III
proprio questa sua libertà “condizionata” che deve fare i conti
con gli altri, con il suo voler star con o contro di essi.
“Libertà
non è fare e non fare senza vincoli, ma affermazione
dell’inaggirabilità dell’essere, assunzione dell’essere storico nella volontà
commisurata del sapere”38.
Di qui Heidegger però compie un passaggio indebito, a mio
avviso, che è causa del suo allineamento al regime:
“ Cura della libertà dell’essere storico è in sé legittimazione della potenza
dello Stato inteso come compagine essenziale di un mandato storico” 39.
L’Essere perde il suo carattere di storicità diventa quasi astorico, trasformandosi in un dover-essere che di conseguenza
non può non essere ascoltato. Chi ascolta il suo mandato non
deve far altro che obbedire ai suoi comandi, non può far altro
che legittimare il suo potere ed anche il suo strapotere, lo Stato
diventa necessario per essenza, dal momento che corrisponde
all’essere storico/destinale del popolo dell’essere. Il sapere nella
sua complessità si trasforma in quel lavoro servile sottomesso e
passivo in cui la verità dell’essere diventa anche la verità
dell’esserci
finalmente
compresa
e
afferrata
nella
sua
complessità.
Heidegger stesso aveva scritto a Sartre nell’immediato
dopoguerra per sottolineare che L’essere e il nulla costituiva una
“comprensione così immediata della propria filosofia quale mai
finora gli era capitato d’incontrare” arrivando addirittura ad
apprezzare la critica sartriana sul con-essere.
Sartre infatti farebbe rientrare il Mitsein heideggeriano nell’idea
di Sorge, di “cura”, in cui si effettuerebbe una riconversione
38
39
Ivi, p.229.
Ibidem.
218
III
soggettivistica al sé e non si darebbe pertanto un’autentica
dimensione d’intersoggettività, in cui il Dasein, proiettandosi
fuori, non sarebbe più riconducibile all’interiorità della
coscienza ma sarebbe solo un essere-per-l’altro. Sartre affronta
il concetto di Mitsein nella terza sezione dell’opera sopra citata
riconoscendone tutta l’originalità, e attribuisce, però, ad esso un
vizio di forma che gli risulta del tutto invalicabile. Ad Heidegger
Sartre riconosce il merito di aver oltrepassato lo schema
psicologico husserliano e quello storicistico hegeliano, nella
misura in cui concepisce il Mitsein non come un semplice
accostamento tra due o più individui ma come quel presupposto
originario che resta intrinseco al Dasein, trasformandone le
caratteristiche. Così scrive:
“Sembra che Heidegger, in Essere e tempo, abbia tratto profitto dalle
meditazione dei suoi predecessori ed abbia profondamente sentito questa
duplice necessità: 1) che la relazione delle «realtà umane» deve essere una
relazione d’essere; 2) che questa relazione deve far dipendere le «realtà
umane» le une dalle altre, nel loro essere essenziale. [..] Con il suo modo
brusco e un poco barbaro di tagliare i nodi gordiani, piuttosto che tendere a
scioglierli, egli risponde alla domanda posta con una pura e semplice
definizione. Egli ha scoperto parecchi momenti -inseparabili, salvo che per
astrazione- nell’«essere-nel-mondo» che caratterizza la realtà umana. I
momenti sono «mondo» «essere in» ed «essere». Ha descritto il mondo come
ciò per cui la realtà umana si fa annunciare ciò che è; l’«essere-in» l’ha
definito come Befindlichkeit e Verstand; rimane da parlare dell’essere, cioè
del modo nel quale la realtà umana è il suo essere nel mondo. Ci dice che è il
Mitsein, cioè l’essere-con. Così la caratteristica d’essere della realtà umana è
di essere il proprio essere con gli altri. Non si tratta di un caso; io non sono
prima, perché una contingenza mi faccia poi incontrare gli altri; si tratta di
una struttura essenziale del mio essere”40.
In altre parole non si tratta del riconoscimento di un rapporto
reciproco con una realtà altra esterna alla mia, ma è solo
J.P. Sartre, L’essere e il nulla; La condizione umana secondo l’esistenzialismo; trad. Di Giuseppe del Bo, Revisione a
cura di F. Fergnani e M. Lazzari; Net Nuove edizioni tascabili; p.290.
40
219
III
chiarendo la precomprensione ontologica che ciascun esserci ha
di sé, che riesce a cogliere all’interno del suo essere l’esserecon-altri. La relazione con gli altri risulta costitutiva del mio
essere dopo un esame approfondito del mio essere. La novità di
Heidegger è dunque l’aver compreso che l’altro non è oggetto,
tra gli utensili del mondo, ma che l’essere del soggetto è già un
essere per l’altro, nel senso che non si da l’essere del Dasein se
non in relazione originaria agli altri. Infatti Sartre stesso
aggiunge:
“Non bisogna peraltro intendere questo essere-con come una pura
collateralità passivamente ricevuta dal mio essere. Essere, secondo
Heidegger, significa essere le proprie possibilità, cioè farsi essere. L’esserecon è quindi un modo d’essere in cui io mi faccio essere. Che ciò sia vero è
provato dal fatto che io sono responsabile del mio essere per altri in quanto lo
realizzo liberamente nell’autenticità o nell’inautenticità” 41.
Posso decidermi liberamente di realizzare il mio essere-con
nella forma del si come se fossi un riflesso impersonale del
mondo.
“Così io mi faccio annunciare come chiunque dal complesso indicatore di
utensili che mi indica come un «Worumwillen»”42.
La mia unicità d’essere viene ad essere il prototipo del mezzo
interscambiabile, che non guarda a sé così come non guarda ad
altri. E qui s’innesta la critica sartriana. Pur avendo infatti scorto
nel Dasein heideggeriano un essere che implica l’essere per altri
nel suo essere, ritrova in esso la possibilità d’essere
autenticamente ed elevare con sé anche gli altri solo attraverso
l’influenza del richiamo della coscienza (Ruf des Gewissens) che
con risolutezza riesce a portare responsabilmente verso
41
42
Ivi, p.291.
Ibidem.
220
III
l’autentico. In questo modo Heidegger compierebbe un salto
logico illegittimo dal livello ontico all’ontologico, che lo
costringerebbe
a
riconsiderare
la
relazione
con
altri
aprioristicamente, e così ad esaurire ogni contingente ed
effettiva possibilità d’incontro con altri. Essendo l’esistenza
degli altri un fatto contingente ed irriducibile (come afferma
Sartre: gli altri s’incontrano non si costituiscono), questo “fatto”
deve manifestarsi sotto l’aspetto della necessità contingente
dello stesso tipo delle necessità di fatto43. La relazione
heideggeriana tra il singolo esserci e gli altri, appare a Sartre
invece, inserita in astratto nel concetto di Mitsein, per il fatto
stesso che definisce in modo a priori il rapporto dell’esserci con
gli altri esserci come lui. In breve, possiamo dire con Sartre che
Heidegger anziché rendere più facile una relazione tra me e un
altro, rende radicalmente impossibile ogni esperienza effettiva, e
ogni legame concreto del mio essere con quello di un altro:
“L’esistenza di un con-essere ontologico e conseguentemente a priori, rende
impossibile qualsiasi legame ontico con una realtà umana concreta che sorga
per sé come un trascendente assoluto”44.
Senza dubbio il maggior debito sartriano nei confronti di
Heidegger resta la concezione di un esistenza fuori di sé,
strutturalmente alienata, scissa in base al proprio aver-da-essere,
e soprattutto distante de sé verso gli altri. La realtà umana
heideggeriana esiste fuori di sé, ma non bisogna dimenticare che
questa «esistenza fuori di sé», costituisce proprio la definizione
del sé. E che «la fuga fuori di sé», che insegna a vedere il
mondo come una pura distanza da sé a sé, è già una forma
nascosta di «fuga verso di sé». Il tentativo heideggeriano di far
uscire il sé dalla solitudine sembra a Sartre fallire quando egli
Se gli altri devono poter esser dati ciò «deve avvenire mediante un’apprensione diretta che lasci all’incontro il suo
carattere di fatticità». Ivi, p. 295.
44
Ibid.
43
221
III
usa due forme diverse per descrivere la relazione con gli altri
che risultano essere l’una incompatibile con l’altra, che sono
l’essere «fuori di sé verso gli altri», e l’essere «fuori di sé negli
altri»: in mezzo alle sue ek-stasi la realtà umana rimane sola.
Dire infatti che l’esserci è con-essere per struttura ontologica,
perché il con-essere si appoggia sulla struttura di base del mio
essere-nel-mondo è come dire che è «con» per natura, cioè in
modo essenziale ed universale. Se quindi il con-essere
ontologico (Mitdasein) potesse servire da fondamento al conessere ontico (Mitsein) bisognerebbe dimostrare che il conessere effettivo con qualcun’altro rappresenta una forma
costitutiva del mio essere autentico. Ma ciò è secondo Sartre
impossibile da dimostrare prendendo come punto di vista il
pensiero heideggeriano, perché l’altro di Heidegger resta
astratto: “è unselbstständig, e non ha in nessun modo in sé il
potere di diventare quest’altro” qui, con questo nome e
cognome. Con le parole di Sartre stesso, ciò significa che:
“L’immagine
empirica
che
può
meglio
simboleggiare
l’intuizione
heideggeriana, non è quella della lotta; ma quella della squadra. Il rapporto
originario dell’altro con la mia coscienza non è il tu ed io, è il noi, e il conessere […] è la sorda esistenza in comune del vogatore con la sua squadra,
quell’esistenza che il ritmo dei remi o i movimenti regolari del timoniere
renderanno sensibile ai rematori e che il fine comune da raggiungere, la barca
o la jole da superare, […] renderanno loro manifesta. […] La relazione del
«Mit-sein» non può servirci a risolvere il problema psicologico concreto del
riconoscimento d’altri”45 .
Il Mitsein heideggeriano è, in sintesi secondo Sartre, una forma
di «solitudine in comune» che distrugge qualsiasi manifestarsi
effettivo di un legame concreto tra una ‘realtà umana’ e l’altra.
La valutazione di Sartre, che ho voluto mantenere isolata per la
sua particolarità, ha anche il sapore di un aspro rimprovero e
45
Ivi, pp. 292-293.
222
III
s’innesta perfettamente nella tendenza di base che lega tra loro,
come si vedrà nel prossimo paragrafo, alcune delle più dure ma
imprescindibili critiche al Mitsein heideggeriano.
223
III
3.3 Il con-essere (il Mitsein, il Miteinandersein e il
Mitdasein) di Heidegger nell’interpretazione critica
Il tentativo heideggeriano di fondare con la sua analitica
esistenziale una «filosofia prima» conduce molti dei suoi allievi
a una sorta di rovesciamento del progetto “ontologico”
dell’esserci. La fine del percorso di pensiero che scaturisce dalla
problematica del Mitsein è scandita da una scelta politica che
porta Heidegger a compromettersi gravemente con il regime
nazista. Questa “caduta” di Heidegger spinge molti dei suoi
allievi a ricostruire un’ontologia fondamentale, ricominciando
dall’analisi del con-essere, che non è né l’uno, né l’altro esserci,
ma ogni esserci a partire dall’altro.
Uno degli alunni che più degli altri fece propria questa esigenza
di riequilibrare il discorso heideggeriano e di superarne il limite
fu Karl Löwith. Egli in Das Individuum in der Rolle des
Mitmenschen. Ein Beitrag zur Anthropoligischen Grundlegung
der ethischen Probleme,46 del 1928, rimprovera a Heidegger di
aver indagato soltanto la dimensione del Mitsein quotidiano,
relegandola nell’inautenticità del Man, e di aver tralasciato
l’aspetto dialogico-intersoggettivo della stessa quotidianità.
Heidegger pur essendo partito su una pista privilegiata che gli
aveva permesso di scoprire la fatticità della vita nella sua natura
più intima (quella del Mitsein), agli occhi di Löwith, si lascia
troncare la strada dall'urgenza dell'ontologizzazione che invece
di condurlo in direzione dell'intersoggettività, lo porta a
rituffarsi nel mare di quella stessa metafisica da cui aveva
tentato invano di sfuggire. Löwith, di contro, nel suo scritto mira
a sottolineare che il Miteinandersein autentico rappresenta il
cuore concettuale e allo stesso tempo il compimento naturale del
46
Trad. it.“L’individuo nel ruolo del prossimo, un contributo alla fondazione antropologica dei problemi etici”.
224
III
Mitsein. Se secondo Heidegger l'uomo nel suo prendersi cura
mondano si relaziona essenzialmente in una triplice direzione, a
se stesso, agli altri, e alle cose, ciò non significa che per
diventare se stesso l’esserci debba abbandonare gli altri e il
mondo. Scrive così Löwith:
“a differenza di qualcosa d'altro, gli altri sono contraddistinti perché esistono
secondo il mio stesso modo d'essere, nella stessa maniera di me stesso.
Benché siano altri, essi sono miei simili. [..] L'essere altro degli altri diventa
esplicito nella misura in cui io sono consapevole di me stesso in una maniera
tale che con ciò, tutti gli altri al di fuori di me diventano meri co-uomini”47.
Se in un primo momento Heidegger distingue nettamente gli
altri dalle cose, in un secondo momento non attribuisce loro la
giusta importanza definendoli «co-uomini», ossia facendoli
rientrare nella categoria di tutti gli altri al di fuori di me. E
facendo riferimento sempre al suo maestro Löwith continua:
“il curarsi degli altri è antropologicamente più originario di ogni prendersi
cura di ciò che è utilizzabile, poiché ogni prendersi cura nasce dalla cura per
se stessi e per gli altri”48.
L’intuizione heideggeriana della co-originarietà dell’esserci e
dell’altro come lui, viene utilizzata da Löwith per una critica a
Ludwig Feuerbach, il quale pur avendo già pensato la relazione
intrinseca tra l’io e il tu49 non la esplicita come invece è in grado
di fare il suo maestro attraverso il concetto di Mitsein:
47
K. Löwith Das Individuum in der rolle des Mitmenchen, trad. ita. a cura di Agostino Cera, Alfredo Guida Editore,
Napoli, 2007;§10 Analisi del mondo del con in quanto degli altri sezione 1 l'essere l'uno con l'altro come tale; pp. 123124.
48
Ivi, p.131.
49
Di Feuerbach, Löwith critica l’ incapacità di sostanziare in termini filosofici la decisiva intuizione sul rapporto tra l’io
e il tu.
225
III
“Che io non possa diventare a me proprio né a partire da me stesso né dal
mondo naturale, ma soltanto da “te” e che “tu” il mio intero autentico mondo,
per cui (wozu) io esisto era l’idea preminente dei Principi di Feuerbach”50.
Feuerbach
punta
immediatamente,
secondo
Löwith,
all’accentuazione del mondo del con come del mondo di un io e
di un tu, ma ciò che li congiunge resta sempre una “e” di
congiunzione indeterminabile. Heidegger invece a differenza di
Feuerbach tematizza in termini filosofici il con-essere nella
Fürsorge, ma si dimentica d’interpretarlo a partire dal modo
quotidiano dell’essere nel mondo come «premuroso aver cura»:
besorgende Fürsorge51. Löwith percepisce l’incidenza del
Mitsein sul piano ontologico, ma vuole riscattare il piano della
quotidianità
del
con-essere,
facendo
leva
sull’aspetto
psicologico dell’essere l’un con l’altro. Infatti così scrive:
“Coloro
che
parlano
l’un-con-l’altro
di qualcosa
si comprendono
«autenticamente», per di più, non sulla base di ciò che è espresso, bensì oltre
il senso esplicito del discorso ed attraverso esso. Ciò che le loro parole
intenzionali dicono soltanto in maniera titubante oppure dissimulano, gli si
svela nell’involontaria espressione del volto e della voce. Senza il
presupposto
di
questo
muto
comprendersi,
gli
uomini
non
si
comprenderebbero neppure nelle loro parole, giacché la comunicazione
simpatetica è più originaria di ogni aver cura l’uno per l’altro e parlare l’unocon-l’altro”52.
Löwith sottolinea qui l’importanza della comunicazione
simpatetica, e quindi dell’ Einfühlung rispetto all’aver-cura. Egli
stabilisce, pertanto, in modo chiarissimo, un primato dell’unione
psicologico-simpatetica di ogni uomo con l’altro sulla struttura
ontologica della Sorge heideggeriana. Per questo motivo la
50
Ivi, p.123.
Ivi, p.132.
52
Ivi, p.197.
51
226
III
possibilità autentica del Miteinandersein, secondo Löwith, in
Sein und Zeit è del tutto ignorata infatti sostiene:
“Già il principio ontologico formale:Esserci come essere-nel-mondo, risulta
predeterminato in maniera privativa dalla inessenzialità esistentiva del mondo
come mondo-del-con. Di conseguenza, per quel concetto di esistenza che è
sin dall’inizio lo scopo della ricerca, il mondo dell’essere l’un-con-l’altro
risulta esistentivamente insignificante. Nella misura in cui l’esserci, per il
quale ne va di se stesso, esiste «autenticamente» come «di volta in volta
proprio», per lui l’essere l’uno con l’altro si determina in maniera privativa
come un essere l’uno con l’altro generale, «pubblico», all’interno del quale il
singolo può generalizzarsi e sgravarsi di se stesso. Nel «si» l’esserci come
«si-stesso» (manselbst), si sgrava di sé come Se stesso. La possibilità
autenticamente positiva dell’esser l’uno-con-l’altro, l’essere nell’un-l’altro
della prima e seconda persona, di io e tu, viene dunque ignorata. In tal modo,
in realtà, anche la prima persona in generale non è più una «persona» [..], ma
un «unico» per eccellenza”53.
Secondo Löwith, in breve, l’esserci si riprende dallo
smarrimento nel Si non perché si lasci determinare come Io
attraverso un Tu ma perché attraverso un radicale isolamento
strappa se stesso dalla pubblicità generalizzante del Man.
Heidegger non passa mai al concetto di “persona”, ma resta
fermo a quello d’individuo perché secondo Löwith quando
“ognuno dei due è persona è in primo luogo determinato riflessivamente
come persona dell’altro. In un rapporto resosi autonomo in tal modo non è
più decidibile alternativamente chi abbia l’iniziativa, poiché mentre l’uno si
regola in primo luogo sull’altro anche l’altro già si regola in primo luogo su
di lui. Un tale rendersi autonomo del «l’un-l’altro», possibile in linea di
principio, di regola non regge i rapporti umani, tuttavia si mostra
quotidianamente reale nella sua possibilità”54.
53
54
Ivi, p.154.
Ivi, p.158.
227
III
Ma ad Heidegger, secondo Löwith, interessa studiare ciò che
regge i rapporti e non le loro manifestazioni effettive nel
quotidiano.
Il §21 s’intitola L’ambiguità di un “rilascio”(Freigabe)
dell’altro, e sottolinea il riconoscimento da parte di Löwith di
una certa ambivalenza della freigebende Fürsorge. L’altro
heideggeriano è visto da Löwith come colui che grazie alla
Fürsorge può esser portato ad essere se stesso e nello stesso
tempo può essere rilasciato. Proprio in virtù dello stesso
movimento che rende possibile l’autonomia dell’altro, l’esserci
si mantiene a sua volta libero (freihält) dall’altro. Esattamente
Löwith afferma:
“Il rilascio toglie a se stesso proprio quella libertà che è pronto a dare
all’altro. Ma nella misura in cui all’aver-cura che rilascia si fa incontro
effettivamente l’idea di libertà dell’altro si realizza un rapporto autonomo che
presuppone che al «poter-essere» di volta in volta proprio corrisponda, da sé,
il poter-essere di n altro. In generale, questa libertà può essere «data»
all’altro, soltanto a patto che egli se la lasci dare e la accetti. Il ragionevole
fine del rilascio si può realizzare esclusivamente sulla base del presupposto di
un esserci ugualmente disposto, ossia di un esserci per il quale, nello stesso
senso di un se stesso «ne va di se stesso». La comunanza, dunque, risulta la
condizione di possibilità anche di una maniera d’essere esistentivamente
isolata. [..] Il rilascio che rilascia un altro [..] predetermina l’altro come alter
ego rispetto al rilascio stesso. Il rilascio pretende assolutamente l’altro come
suo e nel momento in cui dà a lui stesso la libertà […] gli sottrae la sua
libertà nel momento stesso in cui gliela attribuisce, nel contempo priva se
stesso della possibilità di un libero rapporto con l’altro” 55.
Il
Mitsein risulta essere un modo d’essere in comune
assolutamente isolante, e il rapporto tra l’io e il tu è un rilascio
riflettente in cui l’ Io credendo di lasciar il Tu libero si libera a
sua volta dal rapporto stesso e quindi dall’alterità.
55
Ivi. pp.155-56.
228
III
Inoltre la modalità fondamentale in cui si realizzerebbe il
Miteinandersein
è
costituita
secondo
Löwith
dal
Miteinandersprechen, vale a dire dal dialogo tra l'uno e l'altro.
Avvalendosi infatti delle intuizioni di Humbolt sulla originaria
formazione del duale, egli arriva all'isolamento di una forma di
responsabilità, come se fosse una capacità di dare all'altro, col
proprio dire, una risposta assolutamente estranea al pensiero del
suo maestro.
“Io non sono autenticamente appellabile attraverso il mondo extraumano,
bensì attraverso i miei simili, il mondo del con e le sue oggettivazioni.” 56.
Secondo Karl Löwith57 il mondo heideggeriano non appartiene
alla sfera interna di un soggetto esistente per sé, e il soggetto,
inoltre, non appartiene alla sfera esterna di un mondo esistente
in sé. Nonostante una simile negazione, la soggettività più
propria del Dasein possiede un privilegio: essa ha un’innegabile
preminenza, dal momento che è di sua pertinenza sostenere la
mondità del mondo. Quest’ultimo alla fine uscirà “sconfitto”
dall’analitica esistenziale, perché è l’Esserci a dominarlo. Anche
se non è possibile dimenticare che lo stesso essere dell’esserci si
troverebbe perennemente in una dipendenza ontica dal mondo
stesso, mantenendo così il suo carattere ambivalente. In ogni
caso, però, l’essere del Dasein resta quel modo d’essere che
determina l’essere degli enti in quanto enti e che si manifesta
nascondendosi dietro gli enti cui però concede l’ingresso alla
presenza. E così nello stesso atto del concedere la presenza si
nasconde e attraverso questo suo nascondimento si dis-vela.
Solo il Dasein ha la capacità di “concedere” la presenza,e ciò
avviene in un modo indiretto, cioè facendo appello alla sua
56
Ivi, p.176.
Karl Löwith nel 1930 insegnò filosofia presso l’università di Marburgo, dove, due anni prima, nel 1928 conseguì la
libera docenza con una dissertazione di carattere fenomenologico sulla fondazione dei problemi etici, il suo relatore fu
Martin Heidegger.
57
229
III
costituzione ek-statica, che gli permette di trascendere se stesso,
e di accogliere l’essere che si dà, l’essere in quanto essere.
Löwith, in questo testo, che resta la dissertazione teorica più
determinante per lo sviluppo successivo del suo pensiero58, tenta
di rovesciare questa posizione del mondo e sostiene,
contrariamente ad Heidegger, che esso non può darsi all’interno
di un Io strutturalmente aperto agli altri, ma deve essere al
contrario un fondamento dell’Io a partire dagli altri. Il mondo
non rappresenta perciò la determinazione ontologica dell’esserci
in virtù della sua struttura esistenziale di essere-nel-mondo, ma è
l’intreccio di relazioni che discendono dalla dialettica originaria
tra l’io e l’altro. Proprio nella reciprocità dei rapporti personali
tra un io e un tu si verrebbe a costituire, secondo Löwith, un
mondo. L’intersoggettività di un mondo così concepito
troverebbe la sua origine in un tratto etico, in una relazione dal
carattere principalmente etico, che non lascerebbe più posto alla
relazione heideggeriana di un singolo esserci che si affaccia
dalla finestra più alta della torre del suo castello per porsi di
fronte al mondo e guardarlo nella sua totalità. Il mondo
heideggeriano gli risulta completamente estraneo se non viene
inserito in una mera categoria conosciuta dall’esserci sotto il
nome del concetto di mondità. Ciò significa, secondo Löwith,
che il mondo configura per l’esserci un modo di comprendere se
stesso, come un suo modo di darsi a sé, in forza del suo
“comprendere” il concetto stesso di mondità. In sintesi, la
struttura eccessivamente formale del «con» heideggeriano,
secondo Löwith, non consente di scoprire gli altri sul piano della
quotidianità, e cioè di incontrarli realmente.
58
Il resto dei suoi lavori e dei suoi scritti e infatti caratterizzato da considerazioni di carattere storiografico che mirano a
dimostrare come la storia della filosofia si sia soffermata erroneamente sulla interpretazione del mondo a partire
dall’uomo e mai sul mondo in quanto tale. La determinazione del mondo per Karl Lӧwith non può essere ontologica se
prima non è etica. Qualsiasi produzione di senso della physis, non deriva solo dal “comprendere” ma da un’ermeneutica
fenomenologica della Natura dal carattere fondamentalmente etico.
230
III
Un’altra diretta allieva di Heidegger fu Hannah Arendt che ci
restituisce con il suo lavoro filosofico l’idea di una natura
umana capace “di comprendere ed essere compresa dagli altri”
con un chiaro riferimento critico al Mitsein heideggeriano.
Appare di rilevanza centrale il saggio del 1946 What is Existenz
philosophy? in cui la Arendt esprime la necessità di criticare
aspramente Heidegger mettendo in campo la valenza autentica
del Mitsein per criticare una sorta di spinta all’onnipotenza del
Selbst heideggeriano. L’arroganza dell’esserci heideggeriano
(data solo dalla possibilità di cogliere nella morte il proprio
autentico essere nell’isolamento dagli altri) viene considerata
come una forma di estremo egocentrismo, che mostra tutta la
propria infondatezza uscendo nel mondo e
soprattutto nel
contatto con gli altri. Così scrive la Arendt:
“La caratteristica più essenziale di questo Sé sta nel suo assoluto egoismo,
nella sua radicale separazione dagli altri. L’anticipazione della morte come
possibilità esistenziale è stata introdotta per raggiungere ciò; perché soltanto
nella morte l’uomo raggiunge l’assoluto Principium individuationis. Soltanto
la morte lo separa dal contesto dei suoi simili, da quel contesto in cui egli
assume un ruolo pubblico, perdendo di vista l’obiettivo del diventare un sé
autentico [..] grazie all’esperienza della morte come Nulla egli ha la
possibilità di dedicarsi esclusivamente ad essere un sé e di liberarsi una volta
e per tutte del mondo circostante” 59.
L’impresa heideggeriana fallirebbe, secondo la Arendt, perché
lungi da una rifondazione dell’ontologia, egli ci offre alla fine di
Essere e tempo una semplice ipostatizzazione delle idee di
Popolo e Terra fondati su singoli «Sé» isolati, non liberamente
consapevoli che scelgono e si determinano in relazione ad una
“coscienza propria” che non è possibile distinguere bene
dall’anonimità del mondo inautentico del Man.
59
Ivi, p.48.
231
III
La filosofia dell’esperienza di Heidegger, e la sua ermeneutica
della fattività legittima una sussunzione delle azioni umane sotto
le stesse categorie filosofiche della metafisica che lui stesso
vuole superare. Sotto una nuova filosofia dell’esistenza si
nasconde, secondo Arendt, lo stesso presupposto che possiamo
riassumere nel to gar auto esti noein kai einai60 che si ripercuote
in tutta la storia della filosofia da Parmenide ad Hegel,
riducendo il reale ad una mera estensione del soggetto
pensante61. Per colpa di questo pregiudizio Heidegger si lascia
inoltre investire dalla visione malinconica kirkegardiana62 del
rifugio narcisistico nel soggetto (Dasein) concepito come la sola
potenza in grado -paradossalmente- di dare un senso alla realtà a
partire dal pensiero della morte. Nel paragrafo The self as all
and nothing63, nello stesso testo sopra citato, la Arendt misura
Heidegger col tentativo kantiano di riformulare l’antico concetto
di essere, in base all’irriducibilità del reale al razionale.
Vediamo come secondo la Arendt, Heidegger pur muovendo da
intenzioni che sono simili a quelle di Kant (sia nella
riformulazione del concetto dell’essere con quello del tempo o
della temporalità, sia nella volontà di liberare la filosofia dalla
tradizione metafisica) alla fine del suo percorso giunge ad
un’equazione tra essere e nulla in cui il Dasein ritorna ed essere
come lo era stato per la metafisica il Summum ens. Se il Dasein
è quell’ente la cui essenza è la stessa sua esistenza, esso non si
distingue più da quell’ente sommo in cui essenza ed esistenza
vengono a coincidere in cui il suo vivere è già hegelianamente
atto e presenza. Ma nonostante tutto ciò la nozione aristotelica di
Il pensiero e l’essere sono lo stesso, sono identici.
L’unico che riesce ad opporsi a tale tendenza è, secondo la Arendt, Immanuel Kant: “L’unità di Essere e Pensiero
presupponeva la coincidenza prestabilita di essenza ed esistenza. Questa unità venne distrutta da Kant, il vero, anche se
clandestino, fondatore della nuova filosofia: colui che ne è rimasto fino ad oggi il suo re segreto”, in What is Existenz
philosophy?, p.38.
62
Hannah Arendt scrive infatti che per Kierkegaard “Il pensiero della morte diventa azione, in esso l’uomo rende se
stesso un soggetto ritirandosi dal mondo e dalla vita quotidiana degli altri uomini.” in What is Existenz philosophy?,
p.44.
63
Ivi, p. 46.
60
61
232
III
Prudenza64, che gioca un ruolo importantissimo in Sein und Zeit,
assume anche un peso notevole nel giudizio complessivo della
Arendt.
Jacques Taminiaux65 insiste sulla opposizione heideggeriana tra
mondo pubblico e privato, facendola coincidere con quella tra
sfera dell’autenticità e quella dell’inautenticità, e sostiene inoltre
che il pensiero della Arendt sia stato a tal punto influenzato dalla
polemica con Heidegger da ritrovare il punto nodale di tutta la
sua riflessione nell’intenzione di ridar voce all’agire politico in
senso stretto e in netta opposizione con la tesi assunta da
Heidegger su questo preciso tema, ossia nell’intenzione di
recuperare il senso autentico del carattere pubblico e sociale
della práxis aristotelica.
“L’esistenza -scrive la Arendt portando così all’estremo il contrasto con
Heidegger- può realizzarsi soltanto nello stare insieme degli uomini in un
mondo comune dato. Nel concetto di comunicazione si trova radicato,
L’Etica Nicomachea rappresenta per Heidegger infatti una sorta di Essere e Tempo ante litteram, dal momento che
rappresenta quella svolta della filosofia dalla mera osservazione della natura come oggetto trascrivibile in un “contenuto
logico” allo studio esperienziale del mondo della vita e dell’esistenza in sé. In questa prospettiva gioca un ruolo di
fondamentale importanza la prospettiva ermeneutica che Heidegger importa da Aristotele, enfatizzandola, in virtù della
distinzione tra Praxis e Pόiesis. Heidegger sottolinea come nella pόiesis a cui corrisponde né più né meno che la tékne,
ossia il saper fare, l’arché, il principio dell’ente prodotto si situa nell’ eidόs dell’agente che lo produce, vale a dire del
soggetto produttore, corrispondendo così al modello, alla forma e all’idea che pre-esiste all’oggetto perché esiste già
nella mente del costruttore. Ciò nondimeno, il télos e cioè il compimento ultimo di questo ente finito, non risiede
nell’artefice che lo pensa e lo realizza, dal momento che il suo érgon, il risultato di questo sapere tecnico sperimentale,
si dissocia dalla fonte iniziale da cui è stato partorito per diventare assolutamente indipendente da essa, e inoltre
diventando a sua volta un mezzo per altri fini, si inserisce in una specie di catena di produzione in cui il soggetto di
partenza non ha più alcuna importanza, dissolvendosi nel punto zero della catena. Heidegger non utilizza infatti questa
coppia concettuale aristotelica per descrivere il darsi dell’esserci come ermeneuticamente aperto al mondo nella sua
fatticità ma si serve di quella concezione della práxis che lega strettamente all’azione pratica un principio come fine che
diventa la stella lucente della sua concezione della Sofía, il perno su cui poggia la sua concezione del Biόs theoreticόs.
Nell’analitica del Dasein heideggeriano la Sofía si spoglia dei suoi caratteri più meramente teoretici e nozionistici per
fare spazio alla sola práxis. In questo senso la Sofía aristotelica si trasformerebbe in mera phrόnesis all’interno
dell’ontologia fondamentale di Heidegger, essendo quest’ultima l’unica possibilità di comprensione dell’esistenza
intesa come práxis. Secondo questa impostazione heideggeriana che comporta una nuova visione della filosofia come
“esperienziale” la práxis si dispiega dal e sul soggetto per renderlo capace di scoprirsi da sé, che così rimarrebbe
escluso dalla molteplicità e pubblicità del sociale cui corrisponderebbe il mondo della tékne in cui il fine risulta
irriconoscibile a partire dall’esserci.
65
Jacques Taminiaux, dichiara anche che Heidegger dirigendo il Biόs theoreticόs verso un solipsismo estraneo alla
trattazione politica dello stagirita invece di dar forza alla prassi aristotelica, in un certo senso la riduce fino a farla
scomparire del tutto perché la concepisce speculativamente come un concettoe non più a partite dall’incontro con gli
altri; in La fille de Thrace et le penseur professionnel; Arendt et Heidegger; p.30, Paris Editions Payot, 1992.
64
233
III
sebbene non completamente sviluppato un nuovo concetto di umanità come
condizione dell’esistenza dell’uomo”66.
Ma nel 1954 in Concern with politics, un saggio lasciato inedito,
l’autrice
testimonia
una
riconsiderazione
della
filosofia
heideggeriana, soprattutto per quanto riguarda il concetto dell’In
der Welt sein67. L’idea di una nuova filosofia non può più
prescindere dopo Heidegger infatti, dall’appropriazione del
concetto di mondo elaborata in Sein und Zeit, come co-esistere,
nella reciproca delimitazione delle relazioni umane verso un
interno che è il “tra di loro” e verso un fuori che è rappresentato
dal mondo del fare di ogni giorno. Col definire l’esistenza
umana come un esistere nel mondo, Heidegger
“attribuisce rilevanza filosofica a quelle strutture della vita quotidiana che
sono completamente incomprensibili se l’uomo non è inteso come un essere
con-altri”68.
Ad Heidegger è così riconosciuta una posizione particolare
all’interno della storia del pensiero della filosofia in generale,
per il fatto di aver finalmente evidenziato un misconoscimento
indebito
nei
confronti
dell’aspetto
mondano
e
plurale
dell’esistenza in quanto tale. La riflessione heideggeriana
sembrerebbe essere ai suoi occhi una acquisizione teorica della
quale è impossibile ormai fare a meno e che consumerebbe una
drastica rottura col pensiero metafisico tradizionale che non
teneva in alcuna considerazione la pluralità dell’essere degli
uomini. La Arendt situa questa novità di spessore nel concetto di
66
Hannah Arendt in What is Existenz philosophy?p. 55-56.
Se in What is Existenz philosophy? Per Hannah Arendt la sola filosofia in grado di far rivivere la socialità dell’essere
dell’uomo come l’unica condizione originaria e secondo la maieutica socratica costitutiva della politica, era Karl
Jaspers, già in Concern with politics scrive: I limiti della filosofia di Jaspers in termini politici sono i limiti di tutta la
filosofia della sua storia: considerare l’uomo al singolare, laddove la politica non sarebbe neppure esistente se gli
uomini non esistessero al plurale”. p.023258, tr. it. parziale in L’interesse per la filosofia nel recente pensiero filosofico
europeo in Aut Aut, 1990, p.45.
68
Ibidem.
67
234
III
Welt e in quello di Zeitlichkeit. L’intrecciarsi di una
strutturazione mondana dell’essere degli uomini con la
temporalità intesa come storicità consente di depurare la storia
dalla pesantezza della presenza dello spirito e dell’Assoluto
hegeliano e della ragione descarteana. La filosofia con
Heidegger apre la strada alla Geschichtlichkeit a quella
prospettiva necessaria negli anni successivi alla prima guerra
mondiale per ridare voce e rilevanza ai cosidetti affari umani.
Così dichiara infatti la Arendt:
“Il vero rappresentante di questa tendenza, rimane Heidegger che già in Sein
und Zeit, ha definito la storicità in termini ontologici e non antropologici, ed
è più recentemente pervenuto ad una concezione secondo la quale storicità
significa essere inviati al proprio cammino, voler assumere su di sé questo
compito, cosicché per Heidegger la storia umana coincide con la storia che si
rivela in questa storia dell’essere [Seinsgeschichte], e come dice lui stesso ci
siamo lasciati alle spalle l’arroganza di ogni assoluto. Il filosofo si è lasciato
alle spalle la pretesa di essere saggio e di poter disporre di criteri eterni per
giudicare gli affari della città. Infatti tale pretesa alla saggezza potrebbe
essere giustificata solo da una posizione esterna alla sfera degli affari umani e
potrebbe essere legittimata solo dalla prossimità della filosofia all’assoluto. Il
filosofo dopo aver perduto lo schema dei cosiddetti tradizionali valori non
intende più ristabilire quelli vecchi né cercarne di nuovi” 69.
Nel tentativo di abbattere ogni forma d’idealismo e di realismo,
allo stesso tempo, resta prigioniero, secondo la Arendt, di una
volontà d’essere dell’esserci che viene a coincidere con una
storia autoreferenziale, in cammino verso la realizzazione del
proprio autentico sé. Gli altri, pur rimanendo i garanti del
“mondo”, coloro che effettivamente riconoscono tacitamente le
cose di cui è costituito il nostro mondo come tale, non rientrano
mai a pieno titolo nella individuale crescita dell’esserci verso se
stesso. Il filosofo, per questi motivi, non è più colui che una
69
Ivi, pp. 34-35.
235
III
visione privilegiata sugli affari della città e che interagisce con
essa, né più mantiene quest’interesse, ma è colui che ancora si
rende conto dei rapporti che regolano il mondo e le cose che
formano il mondo per raggiungere un obbiettivo egoistico che è
l’aquisizione
personalissimo
se-stesso
nella
più
piena
autenticità.
La Arendt renderà omaggio ad Heidegger come il pensatore che
ha contribuito in maniera definitiva a dare una fisionomia
spirituale al nostro secolo in Heidegger ist achtzig Jahre alt70,
giustificando anche quello che aveva sempre considerato fosse
stato il suo errore più grande, l’infatuazione per il nazismo,
riducendola ad un breve momento di debolezza71, causato da
una
specie
di
deformazione
professionale
paragonabile
all’avvicinamento politico di Platone alla tirannide. Ciò
nonostante la Arendt percepisce una regressione del pensiero
heideggeriano dopo la Kehre, considerando la Seinsgeschichte
come né più né meno che una riproposizione, anche se un po’
più sofisticata, della Weltgeschichte hegeliana, e quindi una
ripresa dell’identità platonica di pensiero ed essere72.
La Arendt pertanto, se per un verso rende manifesto il proprio
debito per altro verso non può tacere l’insoddisfazione che le
viene dal pensiero heideggeriano dopo la Kehre, che sembra
70
Versione tedesca Heidegger ist achtzig Jahre alt «Merkur», XXIII, n.10, 1969, pp.893-902; Trad. ita. Heidegger a
ottant’anni, in Micromega n.2, 1988, pp.165-179. La versione americana è Martin Heidegger at eighty, «New York
Review of Book», XXI,1971, pp.50-54 Qui la Arendt definisce Heidegger come ribelle alle maniere accademiche e
come colui che riuscì a far diventare la filosofia da mero oggetto d’erudizione a cosa del pensiero (p. 170/171).
71
Il coinvolgimento heideggeriano nella storia del partito nazista risulta patetico agli occhi della Arendt e senza dubbio
riconducibile ad una totale inesperienza del filosofo rispetto agli affari politici e alla sua pretesa tipicamente “filosofica”
che il mondo degli uomini debba seguire necessariamente le regole del pensiero.
72
Heidegger, secondo la Arendt, aveva rifiutato la volontà di potenza di Nietzeche perché la aveva interpretata come
una violento desiderio di dominio e di egemonia sul mondo, la quale trovava la sua realizzazione piena nell’Io
metafisico della Soggettività. Per questo sostituì tale volontà con la nozione di Gelassenheit, di lasciar essere, che
manifesta un atteggiamento capovolto rispetto alla prima. Con la speculazione sul senso dell’essere contenuta nella
lettera sull’umanismo, per esempio Heidegger non de-soggettivizza le posizioni assunte dall’ Ich denke della scia
cartesiana- hegeliana. Anzi se Hegel mantiene la differenza tra la sfera della contingenza delle azioni concrete degli
uomini e quella del Geist assoluto che sembra muoversi dietro le quinte del palcoscenico della vita umana, Heidegger
appare ancora più astratto quando fonde insieme l’Essere con la storia dei suoi mutamenti “storici”, cioè con le
movimentate vicende messe in atto dal pensiero umano. “Il pensatore che si è disavvezzato a volere per lasciar essere è
in realtà il se stesso autentico di Essere e Tempo che ora ascolta la chiamata dell’Essere anziché la chiamata della
coscienza” H. Arendt The life of the mind, cit. p187, tr. it. p.513.
236
III
tradire le conquiste di partenza e spingere necessariamente ad un
superamento radicale della sua filosofia, verso un oltre cui lo
stesso Heidegger non è saputo arrivare. Se infatti la distanza tra
agire e pensare viene ridotta a zero dall’ultimo Heidegger, e la
prassi viene così ridotta all’attività speculativa del theoréin,
sembra che egli si dimentichi delle esigenze iniziali che avevano
motivato la sua ricerca e che egli non porti a compimento quelle
stesse istanze di rottura con la tradizione metafisica che erano
state fondamentali per lui fino alla pubblicazione di Sein und
Zeit.
Heidegger si salverebbe, però, da questa ricaduta all’indietro,
secondo la Arendt, in un testo del 1946 intitolato Der Spruch
des Anaximander73, in cui si mostrerebbe una nuova concezione
del rapporto ontologico tra l’Essere e l’ente. In base alle
seguenti parole di
Heidegger esplicative del detto di
Anassimandro, la Arendt interpreta fenomenologicamente la
cosiddetta differenza ontologica:
“Da ciò da cui per le cose è la generazione, sorge anche la dissoluzione verso
di esso, secondo il necessario: esse si rendono infatti reciprocamente giustizia
e ammenda per l’ingiustizia secondo l’ordine del tempo” 74.
In questo modo heideggeriano d’affrontare il detto s’insinua una
concezione del sorgere e del perire delle cose umane che
porterebbe ad un vero e proprio capovolgimento del rapporto tra
l’essere e l’ente. Infatti non è più l’evento del darsi dell’essere a
risultare importante quanto piuttosto il divenire dei vari
momenti del tempo umano fatto di enti.
73
In esso Heidegger intravede per la Germania appena uscita e sconfitta dalla guerra la possibilità di una nuova
rinascita, il testo è stato incluso in Id.,Holzwege, Frankfurt, Klostermann,1950, tr. it Sentieri interrotti, Firenze, La
Nuova Italia, 1968, pp.299/348.
74
Nei Sentieri interrotti Heidegger riporta la traduzione del Detto di Anassimandro di Nietzsche che mi sembra
opportuno riportare qui di seguito: “Là dove le cose hanno il loro nascimento debbono anche andare a finire, secondo la
necessità. Esse debbono infatti fare ammenda ed esser giudicate per la loro ingiustizia, secondo l’ordine del tempo.” Ivi,
p.307.
237
III
In altre parole è come se il non-essere nascosto dell’ente
assumesse
qui
un
primato
rispetto
all’essere
nascosto
dell’essere. “ La chiarezza accordata all’ente oscura la luce
dell’essere”75, perché è l’Essere stesso che si ritrae nel suo
svelarsi come ente. La Arendt riportando Heidegger ad un
livello di tragicità proprio della esperienza greca della verità
crede che, seppur Heidegger abbia cercato di fuggire la
temporalità finita dell’esserci in uno spazio eterno di
permanente presenza, alla fine non vi sia riuscito del tutto,
riscattando in questo modo il piano degli affari umani. Grazie al
ritrarsi dell’Essere gli enti si trovano ad essere sviati nell’
erramento, in cui torna ad essere possibile il “libero arbitrio”.
Scrive Heidegger: “Senza erramento non vi sarebbe alcuna
connessione da destino a destino, non ci sarebbe storia”76.
Nell’erramento non c’è posto per la Seinsgeschichte, secondo la
Arendt. In realtà è chiaro che si tratta in questo caso di una
volontà estrema, da parte della Arendt, di salvare a tutti i costi il
pensiero di Heidegger, mentre in verità nel continuum storico
questi privilegia quei momenti di transizione tra un’epoca e
l’atra
in
cui
si
manifesterebbe
l’Essere,
sospendendo
diacronicamente la linearità del tempo umano. Ma questo la
Arendt non sembra volerlo far pesare nel giusto modo. Per
capire in modo più chiaro il tentativo arendtiano riporto un
passo dei Sentieri interrotti in cui si evince lo stretto rapporto tra
tempo ed essere, tra l’epoca dell’erramento e la storia del
mondo:
“Dalla epocalità dell’essere deriva la natura epocale del suo destino in cui è
la storia autentica del mondo ogni qualvolta l’essere si mantiene in sé nel suo
destino, ed e-viene improvvisamente ed imprevedibilmente un mondo. Ogni
epoca della storia del mondo è un’epoca dell’erramento. L’essenza epocale
75
76
Ivi, p.314.
Ibidem.
238
III
dell’essere rientra nel carattere segretamente temporale dell’essere, e
caratterizza l’essenza del tempo, pensata nell’essere. […] Il carattere estatico
dell’esserci è per noi la prima apprensione della corrispondenza del carattere
epocale dell’esssere. L’essenza epocale dell’esserci istituisce l’essenza
estatica dell’esserci. L’ex-sistenza dell’uomo sopporta l’estaticità dell’essere
e ne salvaguarda l’epocalità, all’essenza della quale appartiene il ci, e quindi
l’esserci”77.
L’esserci nel suo essere si trova sempre in tal modo esposto
all’erramento, abbandonato al carattere temporale del suo essere
‘a-venire’ nel tempo, in cui ogni forma di «permanere» diventa
vuota rappresentazione.
Ridare forza alla relazione esistente tra la praxis aristotelica e la
vita fattizia, presente in Heidegger sotto mentite spoglie nella
struttura della temporalità78, è ciò che cerca di sottolineare la
nostra Arendt. L’interpretazione del senso aristotelico della
praxis rappresenta per lei la maggiore scoperta di tutto il
pensiero del maestro nel suo insieme. Seppur in modo latente o
in forma di mera contrapposizione il pensiero del Mitsein
heideggeriano influisce molto sulla filosofia politica della
Arendt. La dimensione arendtiana della conformazione pubblica
del mondo-in-comune resta scandito dalla modalità della
77
Ivi, pp. 314-15.
Simona Forti in Hannah Arendt tra filosofia e politica scrive: Vorrei sottolineare ancora una volta come quest’ultimo
confronto che Hannah Arendt instaura con Martin Heidegger non ci metta tanto di fronte ad una proposta interpretativa
quanto piuttosto al particolare modo in cui l’autrice elabora l’eredità heideggeriana. “Se il criterio per decifrare queste
pagine fosse quello della certezza ermeneutica non si potrebbe fare a meno di notare l’arbitrarietà e la disinvoltura con
la quale si avventura nell’esegesi dei testi del filosofo tedesco[..]. Ella ci lascia soltanto intuire che si riferisce alla
Seingeschichte e alla storia della Seinsvergessenheit come se per Heidegger esse equivalessero ad una nostalgia per un
darsi dell’essere nella sua pienezza”. Sull’altro piatto della bilancia possiamo porre Jacques Derrida che interpreta il
detto di Anassimandro in una direzione opposta rispetto a quella arendtiana. Se per la Arendt infatti, questo
rappresentava la testimonianza di una nuova apertura esegetica dell’intero pensiero di Heidegger, per Derrida costituirà
il prediletto punto di forza contro cui scagliarsi nella famosa conferenza del 1968 intitolata La différance, per
dimostrarne la vuotezza di fondamento. Secondo Derrida infatti non si arriva con Heidegger neppure a suggerire una via
alternativa rispetto alla metafisica tradizionale, perché il riaccostamento tra pensiero ed essere è secondo lui evidente, si
tratta piuttosto di una riaffermazione vigorosa del potere violento interno alla sola nozione, per esempio, di differenza
ontologica, che instaura la persistenza della presenza dell’identità della differenza, o in altri termini, dello stesso nel
diverso. In particolare Derrida sottolinea la tendenza heideggeriana di cercare a tutti i costi di trovare una soluzione al
problema dell’origine della differenza di essere ed ente a partire quasi da una parola comune integra e pura non
intaccata dai successivi scadimenti, che avrebbe permesso di pensare l’essere come tempo [Zeitlichkeit] e non più nel
tempo o al di là di esso come eternità.
78
239
III
pluralità che rappresenta il segno di una contingenza
inalienabile. Il tratto distintivo della Arendt rispetto al Conessere heideggeriano risulta la necessità di condividere “più
punti di vista” in uno stesso popolo. Nell’ipotesi assurda in cui
sulla terra non dovesse restare che un solo popolo:
“se in quel popolo tutti finissero per vedere e comprendere tutto da un’unica
prospettiva [..] allora il mondo in senso storico-politico finirebbe e gli uomini
rimarrebbero sulla terra privi di mondo”79.
In conclusione possiamo affermare che il carattere di “mondo”
arendtiano coglie fino in fondo il carattere di compartecipazione
interno al Mitsein heideggeriano -che la mia tesi vuole
dimostrare- e tenta anche di sciogliere alcuni dei nodi teorici più
ardui e intrinsecamente contraddittori, come per esempio la
tematica del Volk, in esso presenti. La distinzione tra essere-nelmondo e con-essere, in sintesi, indicano rispettivamente
l’appartenenza al mondo e la pluralità, che rappresentano i due
caratteri che contraddistinguono, secondo la Arendt, l’analisi
heideggeriana di Sein und Zeit. Riducendo l’essere-nel-mondo
alla figura del con-esserci (Mitdasein) si conferisce ad esso la
possibilità del darsi (in esso) della dimensione esistenziale di
una comunità originaria, il cui primato ontologico occulta la
pluralità di cui essa stessa si nutre. Il con-esserci autentico della
cosiddetta comunità originaria in qualsiasi modo la si pensi,
cancella, secondo la Arendt, il tratto esistenziale della pluralità
(originariamente non comunitario). Non esiste una pluralità che
poggi su un mondo comune a priori, o che si riposi su uno stesso
punto di vista, o su un’appartenenza ad un mondo già costituito.
Il carattere esistenziale della pluralità, in definitiva, non la
caratterizza in Heidegger tanto come un Mitdasein, quanto
piuttosto come un Si anonimo, che la condiziona e vincola.
79
H. Arendt, Che cos’è la politica?, Ed. it. a cura di U. Ludz, Einaudi, Torino, 2006; p. 83.
240
III
Anche Edith Stein, pur non essendo stata allieva diretta di
Heidegger, nota come la Arendt un’incidenza fondante del
Mitsein sul piano ontologico dell’esserci.
Secondo Edith Stein, infatti, l'essere con è già un essere l'uno
con l'altro, il Mitsein contiene già in sé il Mitdasein e non
viceversa. Alla comprensione dell'essere dell'esserci appartiene
già quella dell'altro. In Heidegger e l'esistenzialismo la Stein
riporta le parole dello Heidegger di Essere e tempo per poi
interpretarle in questa direzione:
“L'essere per la morte si fonda nella cura. L'esserci in quanto gettato essere
nel mondo, è già da sempre consegnato alla propria morte[...]. La diversione
quotidiana e deiettiva davanti alla morte è l'essere per la morte inautentico.
Ma l'inautenticità ha alla sua base l'autenticità possibile” 80.
E continua la Stein: Il progetto esistenziale di un essere per la
morte autentico non è un avere a che fare con un possibile nel
senso di prendersi cura della sua realizzazione [...]. Il prendersi
cura equivarrebbe in questo caso al suicidio, e non è ciò che gli
interessa in questo momento. Egli cerca qui di farci capire che il
prendersi cura del mondo al modo del Si quotidiano che ha a che
fare con un appagamento proveniente dall'utilizzazione di un
bene, non è il rapporto adeguato “perché l'essere per la morte
non concerne la realizzazione della morte” ma del soggetto
stesso. In altri termini la Stein vede da un lato una inconfutabile
presenza del con-esserci come base della socialità dell'io,
dall'altra però critica la prospettiva heideggeriana. Nel momento
in cui l'esserci, per essere se stesso veramente, non può mai far
conto sugli altri ma sempre e solo su se stesso, la socialità si
riduce a una comunità di singoli esserci. In La filosofia
esistenziale di Martin Heidegger Stein scrive:
80E. Stein, La filosofia esistenziale di Martin Heidegger, intro. di A. Brancaforte, HERDER
Roma, p.135.
241
III
“L’essere nel mondo è caratterizzato come prendersi cura (Besorgen) (nei
molteplici significati di realizzare, concludere, procurarsi qualcosa, temere).
Anche il conoscere è un modo del prendersi cura. Si falsificherebbe il suo
carattere originario se lo so interpretasse come un rapporto tra enti in quanto
presenti (soggetto e oggetto). Esso è un modo dell’essere-in e precisamente
non quello fondamentale, ma una variante dell’essere-in originario.
L’originario è un « andare intorno » alle cose per cui esse non sono solo viste
come qualcosa di semplicemente presente (Vorhandenes), ma come
strumento da utilizzare per qualche cosa (materiale, arnese, oggetto d’uso):
come qualcosa di utilizzabile (Zuhandenen). Ognuna di esse è intesa come
qualcosa « per… »; la visione che scopre questo « per » è la visione
ambientale (Umsicht). […] Solo quando una cosa si mostra come
inutilizzabile dà nell’occhio e si pone davanti in contrasto con ciò che è
necessario e non è a portata di mano.” 81
Riassumendo, la Stein qui cerca di sottolineare il carattere
anomalo del conoscere heideggeriano assimilandolo ad una
modalità del prendersi cura, e a noi serve questo passaggio per
capire come qualcosa che seppure sia già da sempre connaturato
alla vita dell’uomo risulta essere visibile solo quando esso viene
a mancare, e ciò succede anche rispetto agli altri, ci si rende
conto della necessità di un prendersi cura diverso quando sorge
una difficoltà rispetto al prendersi cura in atto, vale a dire
rispetto alla maniera stessa di rapportarsi alle cose. Invece nella
inoffensività e “scontatezza” delle cose di cui ci occupa tutti i
giorni non si comprende l’urgenza di una nuova possibilità,
finche esse stesse rimangono così senza dare nell’occhio.
“Il difetto di utilizzabilità o l’essere inutilizzabile diventa un « richiamo » che
conduce dal singolo all’« insieme degli strumenti » e al « mondo ». Il
prendersi cura avviene sempre già sulla base di una confidenza con il mondo.
L’esserci comprende se stesso come ente nel mondo e comprende la «
significatività » del mondo. Esso ha un certo suo modo di stare con tutte
queste cose, e perciò « ci si contenta », cioè « si lasciano le cose libere »,
81
Ivi, pp. 30-31.
242
III
finché esse non invitano proprio ad afferrarle e a trasformarle. Ogni
strumento ha nell’insieme degli strumenti il suo posto e una regione alla
quale appartiene: esso « si trova al suo posto » ossia « giace qua »”.
Grazie all’unità della totalità di appagatività, tutti i posti si
racchiudono insieme in una unità. Anche l’esserci è spaziale. Ma
questa spazialità non significa che abbia un posto in una spazio
oggettivo, né un posto come un qualcosa di utilizzabile. Esso è
definito mediante un disallontanamento [Ent-fernung] e
orientamento direttivo [Ausrichtung]. Dis-allontanamento (cioè
toglimento della distanza) significa che esso ci porta nelle
prossime vicinanze sotto forma dell’utilizzabile. Orientamento
direttivo significa che esso ha varie direzioni nel mondo che lo
circonda e perciò s’imbatte in tutto ciò che è spaziale. Con ciò
per il mondo non è delimitato lo spazio. Lo spazio non è nel
soggetto, né il mondo è in esso.
“Esso appartiene al mondo come qualcosa che lo struttura. In un
atteggiamento dell’esserci in cui esso ha lasciato il comportamento originario
del prendersi cura e ancora osserva, egli può essere sottoposto a
scomposizione ed essere visto come un puro spazio omogeneo.”82
L’altro esserci si incontra con un meccanismo analogo: se mi
accorgo dell’altro è perché non fa parte del sistema, rompe lo
schema, esce fuori dal gruppo. Ma ciò può avvenire solo se la
mia cura ha già fatto il salto verso l’autentico lasciandosi alle
spalle il mondo dell’inautenticità con la sua corrispondente cura.
Questo prendersi cura originario, è quello che non ha nulla a che
fare
con
l’utilizzabilità
delle
cose
ma
rappresenta
quell’atteggiamento di scoperta che invece corrisponde con
l’esistenza fattiva.
82
Ivi, p. 32.
243
III
“All’esserci appartiene un essere-con altri enti che hanno anch’essi la forma
dell’esserci. Questo non è un incontrarsi di diversi soggetti esistenti in quanto
esser presenti, ma un essere l’uno con l’altro che è già presupposto all’atto di
venire a conoscenza e alla comprensione. Alla comprensione dell’essere
dell’esserci appartiene la comprensione dell’altro.[..] Così l’esserci fin da
principio è in con-esserci nel mondo.”83
Qui è esplicita la posizione della Stein, il Miteinandersein è
implicitamente contenuto già nel Mitsein, ciò significa che non è
possibile che l’esserci si dia a se stesso senza una previa
apertura all’altro, o ancora meglio, non è possibile che lui stesso
sia “autenticamente” senza la presenza altra dell’altro come
apertura, e come più originaria responsabilità rispetto all’ avere
a che fare con altri nel mondo degli utilizzabili. L’esserci è,
comunque, sempre considerato dapprima nella quotidianità, in
quanto essere-nel-mondo, prendentesi cura e per questo motivo
Stein dichiara:
“All’esserci appartiene un essere-con gli altri enti che hanno anch’essi la
forma dell’esserci. Questo non è un incontrarsi di diversi soggetti esistenti ma
un essere l’uno per l’altro che è già presupposto per un conoscersi e un
comprendersi (empatia). La comprensione degli altri appartiene alla
comprensione dell’esserci. [..] Così l’esserci sin dal principio è con-esserci
nel mondo”84.
Ciò significa che, per la Stein, il con-esserci autentico
(Mitdasein), seppur empaticamente connotato, agisce da
fondamento del quotidiano con-essere (Mitsein) e non viceversa.
Più chiaramente Stein scrive:
“Il suo soggetto- e il soggetto dell’Esserci quotidiano in generale- non è il
proprio Sé, ma un Si [Man]: non è una somma di soggetti, neppure un genere
83
Ivi, pp. 32-33.
E. Stein, La ricerca della verità. Dalla fenomenologia alla filosofia cristiana, a cura di Angela Ales Bello, Città nuova
editrice, p.158.
84
244
III
o un modo, ma- così come il vero e proprio Sé viene momentaneamente
nascosto dal Si- che è un essenziale esistenziale [wesenhaftes Existential].”85
Esserci vuol dire essere «ci» e questo significa in definitiva un
esser qui in rapporto ad un esser lì: apertura verso un mondo
spaziale, significa inoltre « Esserci per se stesso ». Questa
apertura [Erschlossenheit] viene assunta come senso del
«discorso sul lumen naturale nell’uomo »: essa « non significa
altro che la struttura ontologico-esistenziale di questo ente,
significa che esso è in modo tale da essere il suo Ci. Che esso è
illuminato significa: che in quanto essere nel mondo è luminoso
in se stesso e non riceve quindi, la luce da un altro ente, ma che
è esso stesso l’illuminazione». La luce dell’illuminazione
procede esclusivamente da se stesso anche se si mantiene una
costitutiva apertura all’altro qui questa stessa sembra essere
riportata in secondo piano rispetto alla solipsistica capacità
individuale di far luce. L’angoscia di fronte a questo suo essere
solo nel mondo (come solus ipse) produce un movimento in
avanti che supera addirittura la morte per eterizzarsi in una
nuova dimensione di cura, basata questa volta sul desiderio e
sulla dimensione della volontà. Secondo la Stein si verifica un
primo momento di ricezione della luce e in un secondo
momento un’acquisizione della cura dell’altro, che possiamo
considerare in linea con il movimento heideggeriano che si
muove dal Si al Mitdasein autentico.
“L’essere avanti a se stesso viene chiamato col nome di Cura ed è il
fondamento di ogni preoccupazione e sollecitudine, di ogni desiderio e
volontà, di ogni tendenze ed impulso”86.
E ancora: “la peculiarità della Cura come essere dell’Esserci in cui esso è
se stesso anticipatamente e per il quale manca sempre ancora qualche cosa
85
86
Ibid.
Ivi, p. 37.
245
III
del suo essere, sembra concludere la possibilità di abbracciare l’esserci nella
sua totalità. Si deve quindi dimostrare che la morte è afferrabile e con ciò
l’Esserci in quanto intero è anch’esso afferrabile. L’esperienza della morte
degli altri non è una vera e propria esperienza della morte. Noi
sperimentiamo il loro non essere più nel mondo, un trapasso dall’esserci a
qualcosa che assomiglia al puro essere presente, che però non coincide con
esso, perché non rimane solo una cosa corporea, neanche una pura cosa nonvivente, giacché da parte nostra è presente un essere-con e una premura per il
defunto. E il cessare d’esistere è solo un cessare d’esistere per noi; non viene
afferrato dalla parte del morente, non sperimentiamo il morire dell’altro.
Mentre nell’essere-nel-mondo, nel senso del prendersi cura, è largamente
possibile la sostituzione di una persona con un’altra, il morire non può essere
assunto da nessun’altro. In quanto finire dell’esserci esso di per sé è un
esistenziale e se è afferrato, può esserlo solo in quanto il mio proprio morire è
mio e non di altri.”87
Attraverso la morte è possibile ricostruire una possibile unità
dell’esserci che si ritrova come un tutto a partire da sé dopo
essersi perso fuori di sé. Così l’esserci si comprende come cura
come esistenza fattiva come lavoro e come movimento verso
un’origine che è anche la fine e che quindi permette
l’eternizzarsi del movimento, perché chiude il circolo del Sé.
Tant’è vero che :
“Il vero e proprio essere per la morte non è un voler render disponibile che si
prende cura[..]; esso ha davanti agli occhi il non-poter essere come pura
possibilità nella quale esso si colloca in anticipo come nella sua più propria
possibilità che esso deve assumersi da se stesso, sciolta da ogni relazione, che
gli disvela, il suo autentico essere e nello stesso tempo l’inautenticità
dell’essere medio e l’autentico poter essere dell’altro”88
Addirittura l’Io si assume il compito di indirizzare l’altro verso
la retta via, senza mai poter essere l’altro. L’unità dell’Io prende
il nome di Cura, secondo la Stein, nessuna alterità quindi, ma
87
88
Ivi; p. 40.
Ivi; p. 42.
246
III
solo
un
venire
incontro
dell’esserci
a
se
stesso
autocomprendentesi. Alla fine, infatti
“nell’essere con insieme con gli altri, l’esserci ha parte alla storicità della
comunità. Destino e storicità sono essere per la morte. Con ciò tutta la storia
ha il suo centro di gravità nel futuro che viene nascosto solo dalla storicità
inautentica.”89
Il destino diventa l’ultrapotenza del tacito, angoscioso , autoprogettarsi sul proprio esser in colpa, che richiede la cura ,
quale condizione ontologica della sua possibilità. Se l’esserci è
nella quotidianità, ha una particolare cura che comprende le tre
estasi di passato presente e futuro, che sforano in una
temporalità originaria e dunque in un poter-essere autentico che
include l’altro.
“Il primo esserci nel quale l’essere umano si trova gettato non è quello
solitario, bensì il comunitario: l’essere-con. L’essere umano conformemente
al suo essere è originariamente sia individuo sia che essere comunitario, ma
temporalmente la sua vita individuale e cosciente inizia più tardi di quella
comunitaria. Egli agisce con gli altri e secondo ciò che vede fare agli altri, e
da ciò è guidato e sostenuto”90.
Esiste dunque, secondo la Stein, un co-originario essere con gli
altri dell’esserci che innanzitutto e per lo più presenta un
carattere neutro, perché può trasformarsi sia in un essere
inautentico, o, come dice l’autrice, falso (unechten), sia in un
essere “vero”, che consiste nel diventare uno dei membri di una
piccola cerchia, di una comunità di spiriti guida, che sono
coloro che danno il tono (Tonangebenden), contrapposti a
coloro che, invece, non sanno tirarsi fuori dal gruppo
(Gefolgschaft).
89
90
Ivi; p.51.
E. Stein, La ricerca della verità, cit. p.184.
247
III
Più drastica la riflessione sul Mitsein di Stefano Bancalari e
Guido Bruni, che notano soprattutto in Sein und Zeit e nelle
lezioni che seguono, un passaggio radicale da parte di Heidegger
alla tematica della differenza ontologica, che pregiudica
definitivamente la dimensione del «Mit».
Stefano Bancalari studia la Vorlesung sul Sofista in cui
Heidegger scrive che “Essere non significa altro che un poter
essere l’un con l’altro”, attribuendo in tal modo al
Miteinandersein una valenza ontologica non indifferente. La
κοινωνία platonica viene interpretata come Miteinandersein,
quest’ultimo termine viene gradualmente sostituito col termine
Mitwelt a sottolineare, secondo Bancalari, l’indistinzione
tipicamente platonica tra la prospettiva ontologica e quella
antropologica. Sappiamo infatti che il mondo del con include in
sé anche i rapporti con gli enti semplicemente presenti, il
Miteinandersein è specificamente riferito all’essere insieme gliuni-con-gli-altri di più Dasein. Nella considerazione dialettica
fondamentale dei tre generi sommi (essere/moto/quiete) che
Platone affronta nel Sofista, la κοινωνία diventa condizione di
possibilità del vero. Heidegger attribuisce così alla stessa
κοινωνία un senso d’essere ad essa estrinseco ma tanto ben
definito da condurci a sostenere la sua attendibilità. Heidegger
rivela infatti che nel dire questi tre generi, ognuno di essi è
contemporaneamente se stesso ed anche altro rispetto agli altri.
Si sente la necessità di annoverare tra i generi sommi altri due
generi, ταυτóν ed έτερον, in forza di quel “dire” che non è nulla
di diverso dal linguaggio. Stabilito che i generi sono cinque e
non tre, si impone la necessità d’affrontare un'altra questione,
ossia quella del loro reciproco poter-essere l’un-con-l’altro.
La κοινωνία platonica viene tradotta da Heidegger col termine
Gemeinschaft, a sottolinearne già di tutto principio l’ambiguità
del contenuto semantico che questa comporta. Essendo essa ciò
248
III
che si pone tra ciò che è mutevole (κίνησις) e ciò che è in quanto
αεί óν (στάσις), la κοινωνία si precisa come δΰναμις κοινωνίας,
in quanto possibilità del Miteinandersein91. Ecco che“κοινωνία
significa dunque essere per un altro (zu einem Anderen) ed
essere con esso (mit ihm) e in riferimento a questo essere altro
essere con l’uno”92. Heidegger incentra così il suo studio sull’
έτερον, perché nella sua stessa natura è intrinseco un πρóς τι, un
riferimento imprescindibile a ciò che esso non è e quindi rispetto
al quale può dirsi altro. Ciò significa che proprio nel concetto di
altro e direi meglio d’alterità va cercata quella possibilità di
comunità che permette ai diversi generi di entrare in relazione
gli uni con gli altri. Infatti “attraverso la prova [Aufweis] della
diversità dell’ Altro dall’ Essere, dal Moto, dalla Quiete e dallo
Stesso, il concetto di Altro diventa in generale trasparente”93.
Questa trasparenza costituisce in altri termini una valenza
positiva del suo potere di negazione , per il fatto che si può dire
qualcosa se questa non è quell’altra cosa, e non è quell’altra
ancora. Nasce una nuova formulazione del non, che Heidegger
attribuisce giustamente a Platone, e che consente di superare il
non senso implicito nel concetto di “non essere” inteso come
opposizione
assoluta
all’essere.
L’intreccio
tra
essere,
apparenza, e non essere sembra così risolto da Heidegger a
partire da un Non originario che corrisponde alla tematica
dell’alterità in quanto tale. Il non infatti anziché nascondere il
vero diventa manifestativo, fa vedere qualcosa94. Anche il
discorso falso si determinerebbe come un interpellare qualcosa
come qualcos’altro, cioè come qualcosa che non è. Il falso
tuttavia non è semplicemente una contingenza del discorso, un
errore nel parlare, ma viene fuori da una cattiva gestione della
91
Platon:Sophistes, GA 19, p.479.
Ivi, p. 478.
93
Ivi, p. 543.
94
Tale scoperta platonica è ritenuta da Heidegger fondamentale per la fenomenologia, ossia per quel tipo di ricerca che
si muove principalmente e unicamente in esibizioni, e verrà teorizzata più ampiamente nel VII capitolo di SuZ.
92
249
III
distanza, di quella alterità che regola la definizione della cosa.
Anche il discorso vero infatti è un mostrare l’ente a partire da
qualcosa che esso non è. La possibilità originaria che ci si possa
domandare se qualcosa sia in quanto qualcosa che esso non sia,
rappresenta la condizione di possibilità del logos stesso, del
linguaggio in quanto tale. Il dire stesso si basa su questa
possibilità d’interpellare l’ente come un qualcosa che possa
essere altro da ciò che sembra essere. Nel caso del falso si
determinerebbe l’ente in modo occultante e non svelante.
Heidegger pertanto radicalizza l’intuizione platonica dando al
senso del termine Anderes un significato d’alterità assoluto.
Affinchè l’ente si esibisca nel linguaggio deve essere stato fatto
un percorso che lo abbia condotto a distanza da sé, grazie
all’alterità e all’estrinsecità di ciò che esso non è, a partire dalla
quale esso può essere compreso nel suo dispiegarsi come
visibilità d’essere. In questo senso ogni ente non può darsi che
come Schein. In questo complicato intreccio possiamo attribuire
al non originario una valenza di con che tiene insieme e insieme
separa
nella
compromissione
nella
manifestazione
col
nascondimento l’uno dall’altro gli enti tra loro. Di fronte a ciò
Bancalari sostiene che Heidegger indietreggi, perché a suo modo
di vedere Heidegger dovrebbe spingersi fino all’esplicito
riconoscimento
del
Mit
come
origine
di
quel
non,
fenomenologicamente produttivo, occultante e allo stesso tempo
svelante la differenza ontologica. Così, per esempio, scrive in
L’altro e l’esserci:
“Nonostante questo appaia come l’esito più rigoroso del pensiero
heideggeriano del con [..] nei testi heideggeriani è sempre presente una
tendenza opposta a risolvere l’intreccio, a scindere il nesso dell’essere e
dell’apparenza da quello della differenza ontologica per preservare uno
250
III
spazio di visibilità tra Sein e Seindes libero dal nascondimento, a separare
insomma non e con.”95
Nel quarto capitolo de L'eclissi dell' “altro”di Guido Bruni,
intitolato La solitudine davanti alla violenza dell'apparire in cui
la Mitwelt viene ad essere interpretata in senso negativo, si
sostiene l'indiscussa predominanza della sfera della Selbstwelt su
quella della Umwelt e della Mitwelt. Qui gli scorge, infatti, a
partire dai Grundprobleme der Phänomenologie la quotidianità,
come detentrice di superflui sensi comuni, schierandosi a favore
della Zugespitztheit del Leben auf die Selbstwelt. E così egli
scrive:
“Negli anni di Sein und Zeit sono proprio «gli altri» in quanto Man,
innanzitutto, la forza che s'oppone a quello schiudimento, l'etere e in qualche
modo anche l'origine d'ogni esistere nella non-verità”96.
Ne deriva, secondo Bruni, una decisiva perdita di peso della
Fürsorge. É infatti nella significatività nel mondo che si
dischiude la com-presenza degli altri, in quanto portatori del
senso comune di ogni vicissitudine del vivere di ogni giorno, ma
questa secondo Bruni in Essere e tempo non presenta queste
caratteristiche. Infatti Bruni scrive:
“il momento del Besorgen, della cura degli essenti ‘non conformi all'esserci’
manterrà nell'andamento delle indagini heideggeriane quel collegamento
organico alla più profonda realtà della Erschlossenheit dell'essente nel suo
essere, che il Mitsein avrà invece smarrito”97.
Anche riguardo alla conferenza del 1924 Der Begriff der Zeit,
Bruni, pur sottolineando il legame tra il Besorgen e il
Bancalari, L’altro e l’esserci; cit. p.94.
96 Guido Bruni, Heidegger e l'Essere come fatticità, il primato della celatezza, volume II, Ermeneutica// 6, Biblioteca
di Teoria, Edizioni ETS, Pisa, 1999, Conclusionii;§ 4 ; 1: il concetto di Selbstwelt, p.345.
97 Ivi, p.355.
95
251
III
Mitainander (non assimilabile alla famosa Kehre), tende poi a
svalutare la sfera del con-essere cosicché: l'esserci come essere
nel mondo diventa nel contempo Mit-einander-sein.
“Il con che ci lega agli altri è modo apriorico d'ogni esistere come tale, perciò
e solo perciò colui che esiste può condividere con altri lo stesso mondo,
incontrarli e anche essere per loro; da forma il mit si fa condizione
(omologata però a molte altre! ) d'un apparire” 98.
La posizione del fenomeno dell'altro resta sempre connessa alla
tematica del linguaggio: è interessante avvertire la presenza del
Miteinandersein sempre in riferimento allo Sprechen: “sich
aussprechendes mit einem Anderen uber etwas sprechen”99.
L'essenza piena del linguaggio è proprio il discorrere con altri
sulle cose, più propria ancora della potenza della Verweisung
[rimando] che più tardi in Sein und Zeit prenderà un posto assai
rilevante.
Bruni vede addirittura un progressivo declino del Mitsein
heideggeriano verso il Si omologante. L'essere con gli altri inizia
a proporsi come il suo “non sostare presso di sé nel pensiero
precorritore della morte”100 Heidegger infatti scrive: “Ich bin
mit den Anderen, und die Anderen mit den Anderen ebenso”101
Io sto con gli altri così come fanno anche gli altri: gli altri
diventano detentori del quotidiano vivere comune senza una
piena consapevolezza di sé da parte degli esserci in questione.
Una suggestiva interpretazione degli sviluppi del Mitsein
heideggeriano dopo Sein und Zeit è quella svolta in chiave
giuridico-politica da Bruno Romano. Egli trova una connessione
rilevante tra il Mitsein e la tematica della noia trattata da
Heidegger nel corso tenuto nel semestre invernale del
98 Ivi, p.356.
99 M. Heidegger, Der Begriff der Zeit, cit. p.13.
100 Bruni, Heidegger e l’essere come fatticità, cit. p.358.
101 M. Heidegger, Der Begriff der Zeit, cit. p.13.
252
III
1929/30102, grazie alla quale in modo indiretto troviamo una
conferma del “darsi insieme” che precede nell’esserci il formarsi
del sé, di particolare valore in riferimento all’aspetto politicogiuridico dell’essere-con-altri. Così Romano scrive:
“Heidegger descrive tre modalità di noia: l’essere annoiato da un qualcosa
definito, l’annoiarsi in una situazione [..] ed infine il venire presi dalla noia
che riduce ciascuno ad un «indifferente nessuno». L’analisi heideggeriana di
queste tre modalità di noia mostra che ad esse è comune il darsi insieme - sia
pure con intensità distinte103- di tre elementi: L’«essere trattenuto», l’ «essere
svuotato» e l’«ingannare il tempo»”104.
Questa tripartizione ricorda quella della cura di Essere e tempo
Il parallelo con il Man di cui Heidegger parla in Essere e tempo
è facile a farsi, dal momento che come nel Si il Dasein perde la
propria autenticità disperdendosi nel mondo degli utilizzabili in
cui si fa ciò che gli altri fanno, si dice ciò che gli altri dicono e si
pensa ciò che gli altri pensano, giungendo ad essere un nessuno
tra nessuno. Così, anche nell’ingannare il tempo, lo svuotarsi di
questo, il suo ridursi ad un intervallo insensato impedisce
all’esserci l’esercizio della differenza di sé dagli altri e costringe
infine ciascuno ad esaurirsi come in-differente105. La vuotezza
dell’intervallo di tempo invade il chi dell’esserci, perché viene
incontrato come nulla-della-differenza, e in quanto tale il suo se
102M. Heidegger, Die Grundbegriffe der Metaphysik. Welt- Endlichkeit- Eisamkeit (WS 1929/30),
1983.
Nella prima forma di noia l’origine dell’essere annoiati è un’entità definita; viene fatto da Heidegger stesso l’esempio
del treno, il cui ritardo qualifica il tempo come intervallo, trattenendolo nell’attesa. Nella seconda, l’origine del disagio
è da riscontrare in una situazione particolare come può essere quella che si viene a creare con un invito a cena non
desiderato. In questo caso si assiste ad uno svuotamento del proprio tempo a cui viene sottratta la possibilità del
progetto. Nella terza forma di noia, la noia raggiunge il suo punto massimo, la sua origine non si ritrova più in una
entità o in una situazione nella sua interezza, per il fatto che ciascuno viene visto come imprigionato in un tempo vuoto,
e incontrato come un indifferente nessuno.
104
Bruno Romano, Heidegger, l’essere con gli altri e il diritto; Dal moderno verso il postmoderno;in La ricezione
italiana di Martin Heidegger, a cura di M.M. Olivetti, Biblioteca dell’archivio di filosofia, CEDAM, 1989, Padova.
pp.467- 468.
105
Ivi, p.469.
103
253
III
stesso è consumato dal tempo. In questa terza e più compiuta
forma di noia si assiste ad un essere in relazione gli uni con gli
altri caratterizzato dall’impotenza, e dall’essere soggetti ad un
potere che costringe. Così afferma Bruno Romano:
“Questa qualificazione «pubblica», giuridico - politica, della noia compiuta è
leggibile esplicitamente in Heidegger che la interpreta […] come costrizione
all’impotenza” 106.
Questo soffermarsi di Heidegger sulla dimensione del
compimento della noia sembra sottolineare un sotterraneo
interessamento alla vita pubblica che si presenta come una
costrizione nell’impotenza di esserci svuotati e neutri107. Tutto
ciò comporta anche un interrogarsi di Heidegger sull’incidenza
dell’esistere con gli altri nella formazione della terza modalità
della noia. E da questo studio emerge una distinzione utile per la
comprensione della sua visione dell’organizzazione della vita
pubblica nell’assetto giuridico-politico della società. Per questo
Heidegger distingue il tempo della rappresentazione da quello
della noia. Il primo deve essere considerato come quello che
storicamente si è dato nella modernità108 da Cartesio in poi, il
secondo
come
quello
che
dai
suoi
tempi
sembrava
sopraggiungere e incalzare le società umane, ove tutti sono un
«indifferente nessuno». Nel tempo della noia ci si ritrova ad
essere abbandonati a noi stessi, ma
106
Ivi, pp. 469,470.
Bruno Romano mostra qui come questa chiarificazione heideggeriana sia in realtà una previsione su quella che oggi
viene spesso chiamata condizione postmoderna, in cui ad essere annunciato non è più il tempo del soggetto ma quello
del post-soggetto, costretto ad assistere al proprio annichilimento e a quello degli altri uomini come lui, ed in cui a
dominare è lo spettacolo, vale a dire una presentazione di immagini prodotte senza alcuna riferibilità ad un chi.
108
A cui corrisponde un assetto giuridico-politico in cui qualcuno esercita la sua soggettività come il potere che
impedisce agli altri l’esercizio della loro soggettività.
107
254
III
“ciò che ci abbandona a noi stessi si mostra essere [..] non l’insieme delle
cose, ma gli altri uomini, così che l’origine della noia compiuta è da
interpretare come avente natura relazionale, intersoggettiva” 109.
E continua Romano:
“elemento costitutivo della noia è, per Heidegger, l’esser- trattenuto nel
tempo come intervallo, dilatazione del presente, ossia nel venir meno
dell’incidere del «fuori da se stesso», ove il fuori è quanto libera dal
coincidere con il presente. Questo incidere liberante segna il nesso tra tempo
e linguaggio e lo indica ambientato nella relazione tra gli esistenti in quanto
parlanti. Il nesso ora in discussione si può leggere nell’interpretazione
heideggeriana del passo essenziale della metafisica occidentale, che incontra
«l’ente come ente». [..] Il «come» nomina il «non» dell’ente incontrato che
indica la connessione che salda, nella relazione con gli altri, linguaggio e
tempo”110.
Il poter dire il come dell’ente significa anche il poter dire il suo
come non è, e anche il suo non identificarsi con esso, la sua
differenza sia rispetto all’ente sia rispetto alla situazione che lo
ambienta e contestualizza. Dire il come rappresenta il modo
specifico
dell’essere
umano
che
grazie
a
questa
possibilità/capacità è in grado di temporalizzare il suo tempo e
di decidere sul proprio poter-essere che ha sempre da venire.
Questo non coincidere con l’ente si può fare ragione solo nel
linguaggio, in cui il tempo può temporalizzarsi, può farsi
personalizzato e proprio dell’essenza del singolo esserci.
Ma sia nel tempo della rappresentazione che in quello della noia
assistiamo al “darsi dell’ inessenzialità dell’altro esistente nella
sua alterità reale. In entrambe le direzioni, ciascun esistente non
muove dall’essenzialità dell’altro”111. Essendo quindi la
Qui Romano sottolinea però che Heidegger nell’interpretazione della noia compiuta ne coglie l’origine nel fatto che
le cose e non gli altri ci hanno abbandonato a noi stessi, svuotandoci e rendendoci un indifferente nessuno cit. pp. 471472.
110
Ivi, pp.472-473.
111
Ivi, p. 476.
109
255
III
temporalità l’originario fuori di sé, per Heidegger ciò significa
proporre una via alternativa ai due ordini sopradetti, e cioè che
la non coincidenza dell’esserci con il presente che lo definisce incastrandolo- lo fa essere libero, lo slega dalle maglie del
presente,
e
lo
fa
essere
il
suo
proprio
poter-essere
autonomamente temporalizzantesi.
“L’espressione «fuori di sé» sollecita ad interrogarsi sulla distinzione tra la
comprensione «volgare» del tempo e il temporalizzarsi dell’esistente. La
risposta è avviata dall’analisi del tempo dell’orologio ed è rivolta alla
questione sulla qualità dell’essere-con-gli-altri. Nella lettura dell’orologio,
ciascuno non è interessato -dice Heidegger- né all’orologio, né all’ora come
ad un qualcosa di presente, ma al tempo- per, nel senso che c’è ancora tempoper, o non c’è più tempo per (G:A: b. 24, p.391). [..] In questa direzione
Heidegger dice che nell’incontrare il tempo, l’uomo mostra che «ne va di se
stesso» perché [..] l’esistente si temporalizza nella «possibilità» oppure
l’esistente si temporalizza nella caduta della possibilità nel succedersi
dell’ora in un indefinito poi della «capacità»” 112.
Il soggetto è tale se è sospeso tra la possibilità di guadagnare la
propria esistenza e quella di perderla.
Heidegger insiste molto in Essere e tempo sull’essenzialità per
l’esistente del rinvio agli altri come sorgente di possibilità
d’autenticazione. Scrive Heidegger infatti: “Gli altri non
vengono pensati come aggiungentisi alle cose innanzitutto
semplicemente-presenti” perché -egli afferma- “il con-essere
determina essenzialmente l’esserci anche qualora, in linea di
fatto, un altro non fosse né presente né percepito” e ancora:
“L’essere in rapporto all’altro [..], in virtù del con-essere, è di
già in atto con l’essere dell’esserci (GA, b. 2, pp.157ss). La
qualità del rinvio ad altri è espressa così molto sinteticamente
ma non esclusa nel processo di costituzione dell’esistente.
Dichiara Romano:
112
Ivi, p. 477.
256
III
“Nel dire l’ «ente come l’ente» si manifesta che la differenza dell’esistererispetto al non umano perché non si dà nell’essere, non è semplicemente data,
ma è da guadagnare in una ripresa mai compiuta, che apre alla dimensione
dell’alterità. L’esistente si scopre in un cominciamento che continuamente
viene esistito nel riprendere il nesso tra linguaggio, temporalizzarsi, e qualità
della relazione con gli altri esistenti. Si delinea così l’alternativa tra due
visioni completamente distinte degli altri: gli altri sono essenziali nel
cominciamento dell’esistere, inteso quale continuo riprendere il «non»
dell’ente, il «come» nel senso indicato, oppure gli altri semplicemente si
danno già e sempre nel manifestarsi dell’esistere. Nella prima direzione gli
altri si incidono come esistenti; nella seconda ipotesi gli altri semplicemente
ci sono, perché l’uomo non può astrarre dal suo esser-con-gli-altri, [..]. In
questa seconda ipotesi però, gli altri non sono essenziali all’inizio del
riguadagnarsi continuo dell’esistente,
ma solo compaiono nel suo
manifestarsi”113.
In altri termini, se gli altri costituiscono fondamento della cura
del mondo nel continui riprendersi della deiezione nel mondo,
possiamo dire che l’intersoggettività gioca un ruolo forte
all’interno della filosofia heideggeriana, altrimenti no. Ma
essendo gli altri essenziali al con- essere nel suo darsi originario
ciò significa che, a mio avviso, non possiamo far rientrare gli
altri nella seconda direzione propostaci da Romano, bensì nella
prima. In più Romano afferma che l’essere fuori di sé
dell’esserci si dispiega nel linguaggio, in quanto è il movimento
stesso del dire l’ «ente come ente» per gli altri, “secondo un
muovere dagli altri che non è il semplice con-essere gli altri, ma
è il prendere la parola dagli altri, è per ciascuno il suo «fuori da
se stesso», in quanto è l’assunzione del «fuori da se stesso»
dell’altro. Per il suo darsi solo nella relazione, il linguaggio
viene dall’altro per volgersi all’altro. Per il suo svolgimento
comune con il dire il «non» dell’ente il temporalizzarsi si
dispiega in un fuori di sé ove il fuori è verso gli altri, e non
113
Ivi, p.479.
257
III
indifferentemente verso le cose o gli altri. La cose in quanto tali,
non sono nella direzione del dire, del linguaggio [..] che per lo
stesso Heidegger è una possibilità proprio a partire dal
relazionarsi all’ente come tale (GA 29/30, p.433).”114
Considerando il temporalizzarsi dell’esserci a partire da quel
“tempo- per” che comprende gli altri e con essi il linguaggio si
dà un esistere con gli altri che non li concepisce come
semplicemente-presenti, ma in tutta la radicalità della loro
alterità. Il reciproco rapportarsi degli uni agli altri fa essere il
nostro trovarci “fuori di noi” verso questi altri e a partire da
quest’ultimi. La temporalizzazione del mio proprio essere nella
contemporaneità del suo venire dagli altri e prospettarsi in
funzione degli altri, verso di essi, è l’unica via giusta, l’unica
autentica. Il semplice oltrepassamento del mondo delle cose e
degli altri del Si che prescinde dalla relazionalità del linguaggio
sarebbe uno sprofondare nel non-senso e nel nulla di un vuoto
tempo che annoia. Se invece l’oltrepassamento di sé avviene
verso sé, e la qualità di questo oltrepassare
“appartiene all’esistere -dichiara Romano-, se ne dispiega il radicarsi nel
nesso che salda il tempo e il linguaggio nell’inizio intersoggettivo di ogni
ripresa del se-stesso. […] Il trascendere, che Heidegger individua come la
specificità dell’esistente rispetto al non-umano, si chiarisce così non secondo
l’uni-direzionalità del trascendere oltrepassare verso, ma secondo un non
coincidere che si accende con il venire-da, con il muovere dagli altri, secondo
una ricostituzione continua della soggettività nell’intersoggettività.” 115
L’essere oltre-se-stesso va interpretato come un essere al di fuori
di sé verso gli altri a partire da essi. Il Si viene superato perché
riconosciuto nella sua falsità e perché non permette il riprendersi
il mondo nelle sue “particolari generalità nel dire con gli altri”.
L’intersoggettività, infine, nella lettura di Romano appare
114
115
Ivi, p.480.
Ivi, pp. 481-482.
258
III
primeggiare sulla soggettività, definita come un “noncoincidere” del singolo soggetto con lo sfondo comunitario da
cui proviene.
Gli studi fin qui riuniti vanno ancora integrati con la critica di un
particolare interprete di Heidegger che ha acquistato un ruolo
fondamentale per l’intero percorso di ricerca. Levinas, essendo
stato il punto d’avvio della mia tesi è diventato anche per il suo
sviluppo una delle figure di riferimento più importanti, che non
posso tralasciare in questo paragrafo dedicato all’interpretazione
critica del Mitsein/Mitdasein heideggeriano.
Secondo la critica di Levinas infatti, la distinzione heideggeriana
tra ciò che esiste e la sua esistenza, la cosiddetta «differenza
ontologica»
tra
l’ontico
e
l’ontologico,
produce
un
rovesciamento della gerarchia in favore di un essere in generale,
di un puro senso “verbale” dell’essere. L’accusa di Levinas mira
a smascherare il carattere neutrale di quest’essere, che
costituisce l’esistenza dell’esistente, che, essendo stato privato
di ogni specificazione, diventa puro nulla, perché non specifica
più nulla «che è». Ritornare dall’esistenza all’esistente diviene
allora un programma filosofico tendente a restituire il primato
strappato all’ontico dall’ontologico e allo stesso tempo tendente
a denunciare nella filosofia heideggeriana una costitutiva
impossibilità verso un’effettiva apertura alla questione dell’altro.
Se Heidegger pone, secondo Levinas, il tragico dell’esistenza
nella sua finitezza, e di conseguenza “in quel nulla in cui l’uomo
si getta nella misura in cui esiste”116, l’angoscia diviene il segno
di un perdersi dell’esistente nell’anonimato dell’essere. L’idea
levinasiana della “neutralità” dell’essere heideggeriano, porta il
filosofo francese a una lettura critica dell’essere-per-la-morte. Il
carattere autoreferenziale dell’essere-per-la-morte heideggeriano
che
116
sembra
guidare,
secondo
Levinas,
l’interpretazione
E. Levinas, Dall’esistenza all’esistente, cit. p.13.
259
III
dell’esistenza umana come un’estasi verso la fine117 viene
rovesciato in un voler vivere la morte degli altri al loro posto, in
un desiderio volontario di morire per l’altro. L’essere-con-altri
heideggeriano viene inserito esclusivamente all’interno della
dimensione
di
perdita
del
sé
preoccuparsi. A questa visione
nell’anonimo
quotidiano
indifferente e anonima
dell’alterità Levinas oppone un Io sempre “in ostaggio”
dell’altro, già responsabile dell’altro prima di deciderlo.
Secondo Levinas, che rifiuta la definizione dell’altro come
neutro essere, l’altro si manifesta come abisso e come alterità
radicale, non integrabile, e non raggiungibile. L’accesso
fenomenologico levinasiano all’altro distrugge l’immanenza
dell’intenzionalità, e allo stesso tempo apre la possibilità di un
rapporto nuovo con l’altro che impone all’ Io di dimenticarsi del
proprio
Sé,
di
sacrificarsi
a
partire
dalla
relazione
d’”Infinizione” Io-tu. Anche quando prende forma una relazione
tra due individui basata sull’amore, nella quale possiamo
inserire anche la forma autentica della Fürsorge (che pur non
essendo stata sviluppata aveva tutti gli elementi per dar adito a
discorsi di questo tipo), non si tratta mai di una fusione tra i due
termini del rapporto, infatti tra di essi si mantiene costante
un’alterità radicale che non può essere dominata né dall’uno né
dall’altro.
L’altro all’interno della relazione resta sempre l’altro, e non si
muta mai in mio. Anche nell’amore che potrebbe sembrare il
punto massimo di congiungimento sia spirituale che fisico di
due esistenze, si assiste ad un eterno differenziarsi in due e ad un
persistere di un Unicum scisso nella sua stessa intimità, quindi
già all’origine diviso in una coppia. Questa scissione dell’
identità provoca una sofferenza, una ferita interna, una profonda
117
Ivi, p.14.
260
III
fenditura per la quale non esiste cura. Rispetto ad essa si rimane
impotenti.
Levinas non vede nessuna dimensione etica dentro la
dimensione
ontologica
del
con-esserci,
relegandolo
all’inautenticità, e condannandolo così a rappresentare una
collettività priva di qualsiasi forma di comunione. Abbiamo però
cercato di far comprendere come Heidegger nella Fürsorge
esprima in modo perfetto la natura ambigua e ambivalente della
forza unitiva che governa più esserci tra loro e che può essere
sia autentica che inautentica: può «lasciar essere» oppure
«dominare». Nel soffermarsi su questa ambiguità Heidegger
esplicita uno strutturale fondarsi dell’atteggiamento inautentico
su quello autentico, e di conseguenza un venir meno della stessa
ambivalenza, qui l’alterità compare in un ruolo decisivo.
Per riprendere il caso prima esaminato, l’aver-cura della
Fürsorge autentica appare una chiave interpretativa valida anche
per la relazione amorosa, in cui non è mai possibile acquietarsi,
perché seppure gli ‘esserci’ tra loro sembrano legati da una
connessione “autentica”, anche questa non è possibile afferrarla
e dominarla una volta e per tutte. In questa particolare forma di
“cura” si mantiene proprio quell’alterità radicale della relazione
che invece Levinas non sembra scorgere.
Nella prima sezione di Totalità e infinito la fenomenologia del
desiderio levinasiana parla del desiderio metafisico come
tensione verso una cosa totalmente altra, verso il totalmente
altro118 e si sofferma sull’intenzionalità che non può essere
soddisfatta come un bisogno dalla cosa desiderata, ma che si
presenta a se stessa sempre come non adeguata perché
comprende la totale esteriorità dell’altro, comprende dentro sé
l’impossibilità stessa di una qualche soddisfazione.
118
E. Levinas, Totalità e infinito, cit. p.31.
261
III
L’altro definito nel desiderio metafisico come Altri (Altrui), a
sottolineare il suo essere assoluto, non può mai essere visto del
tutto: ecco perché Levinas chiama il desiderio anche desiderio
dell’invisibile. Sappiamo che la visione tradizionalmente ha
sempre rappresentato lo strumento attraverso cui potere
effettuare l’adeguazione tra la cosa e il pensiero, vale a dire tra
l’intenzione conoscitiva del soggetto e il suo riempimento
oggettivo. Allora parlare di desiderio dell’invisibile significa
parlare di alterità non come semplice negazione dell’Io da parte
dell’altro, che così rappresenterebbe semplicemente il suo
contrario, all’interno di un sistema a sé stante, ma legare
l’intenzionalità del desiderio a un termine che non lo riempie,
ma lo alimenta con un incessante trascendenza. Così scrive
Levinas:
“L’Io e l’Altro sono tra loro in rapporto e nello stesso tempo si assolvono da
questo rapporto, restando assolutamente separati” 119.
In un certo senso il legame che tiene uniti l’io e l’altro balza alla
luce nella misura in cui il più importante carattere dell’alterità è
l’infinità dell’altro, grazie alla quale si apre una relazione che è
allo stesso tempo impossibilità della relazione, impossibilità di
misura, impossibilità di limitazione. Questa posizione però è
solo apparentemente estranea ad Heidegger. Ritroviamo infatti,
mi sembra, la stessa paradossalità teoretica anche nel Mitdasein
heideggeriano se ne concepiamo il suo tratto essenziale
nell’«aver cura» liberante, che, potremmo dire, “assolve” l’altro
esserci dal rapporto. I confini della dimensione dell’alterità non
sono dunque delimitabili né in Heidegger né in Levinas.
Constatiamo la presenza di una forte corrispondenza teoretica
tra i due termini della relazione Io-altri, che per Heidegger
implica, come abbiamo visto, la necessità di mantenere la
119 119
E. Levinas, Totalità e infinito, cit. p.103.
262
III
dimensione dell’alterità nell’orizzonte finito dalla gettatezza,
che impedisce l’inclusione totale dell’altro, così come in
Levinas corrisponde alla messa in campo dell’etica e del suo
avere a che fare con la stessa sofferenza fisica, col vero e
proprio patire causato dall’irruzione dell’altro che impedisce
non solo il dominio, ma qualunque possibilità di strutturare in
totalità la relazione stessa.
Levinas conferisce drasticamente uno statuto etico al suo
pensiero: esso non deve più avere nulla a che fare con i concetti
della ‘filosofia’, e deve, invece, fare i conti con la presa di
coscienza da parte dell’Io dell’impossibilità di una costituzione
di sé su cui non insista la costante chiamata dell’altro nei miei
confronti. Malgrado me, non posso non ascoltare, non posso non
attendere al dovere a cui l’altro mi obbliga, non posso non
soggiacere ai suoi comandi, non posso non dipendere da lui, non
posso non essere responsabile di lui.
Per Heidegger, invece, l’importante è sottolineare che l’uomo
non può esistere alla maniera della semplice presenza:
“L’unico essere al mondo capace di porre in questione il proprio essere, per
essere in grado di saperlo fare non può esistere al modo delle cose” 120.
In questo modo viene in primo piano la ripresa di sé e sembra
completamente irrilevante la relazione ad altri. Ma in realtà
proprio la libertà che definisce la natura ontologica dell’essere
umano è in Heidegger lo spazio in cui si rivela la relazione con
altri. L’Essere-nel-mondo (In-der-Welt-sein) che costituisce il
modo d’essere dell’esserci, descrive per un verso questa libertà
nello spazio di una relazione con il mondo degli utilizzabili, ma
si comprende nella sua portata solo alla luce della Fürsorge
autentica, cioè di un autentico Mitdasein.
120
Marisa Ercoleo, La libertà dei filosofi e la mela di Adamo, edizioni Novecento, Palermo, 1992, p.62.
263
III
È vero anche che in Heidegger il pervenire dell’esserci al suo
“poter-essere
più
proprio
è
incondizionato”121
sembra
attribuibile solo attraverso un distacco della cura dal quotidiano.
Questa attenzione di Heidegger verso la solitudine della
coscienza, priva degli altri, che sembra rivoltarsi nuda verso se
stessa e guardarsi allo specchio della sua ipseità, porta
Emmanuel Levinas a trascurare una delle acquisizioni
fondamentali dell’analitica di Sein und Zeit e cioè il
superamento della concezione monadica del soggetto, perché a
suo modo di vedere Heidegger aprirebbe il soggetto al mondo e
agli altri solonella forma difettiva della deiezione. L’analisi
heideggeriana sul soggetto ha, invece, già superato la visione di
un Io solitario. La genesi della struttura esistenziale dell’ In-derWelt-sein mostra non solo che il soggetto non è mai dato senza
mondo, ma anche che non esisterebbe come soggetto se non
fosse in rapporto agli altri:
“L’espressione Esserci non sta punto a significare che questo ente è
innanzitutto nella non-relazione ad altri e che solo secondariamente può
anche essere con gli altri”122
L’Esserci heideggeriano non costituisce un mondo a sé, ma è già
da sempre facente parte di un tutto in cui si inserisce e vive. Il
soggetto non si aliena nel con-essere, quale suo modo difettivo e
inautentico, come invece sostiene Levinas, ma si fa carico di un
con-esserci autentico e, oserei dire, anche etico in relazione
all’altro.
Il soggetto heideggeriano trova lo spazio per uscire dal mondo
delle cose e della quotidianità, e dunque da un’esistenza
inautentica non per librarsi al di sopra del mondo, ma per
raggiungere un luogo abitato dal Mitdasein autentico. Concepire
121
122
M. Heidegger, SZ, cit. p. 490.
SZ, §26, cit. p.133.
264
III
proprio il Mitdasein come l’unico trampolino di lancio che renda
possibile l’apertura ermeneutica del Dasein agli altri, al mondo e
a sé anche nell’essere-per-la-morte è stato un passaggio
importante per la mia ricerca. Si può al più sostenere che una
tendenza alla mera antitesi tra autenticità ed inautenticità tenta
ad assumere, poi, in Heidegger una potenzialità negativa, tale da
estremizzare le conseguenze della Geworfenheit, e troncare la
strada
al
possibile
sviluppo
della
Fürsorge
autentica,
richiudendo l’esserci nella sua gettatezza e cercando un
superamento di essa solo nella comprensione del proprio poteressere autentico.
Questa concentrazione dell’esserci sul proprio essere fa si che
Levinas scorga nell’ossessione heideggeriana sul pensiero
dell’Essere solo il colore neutro dell’il y a, portatore di una
esistenza senza esistente, di una vita senza soggetto, di un essere
senza un chi è.
In realtà, però, quando Heidegger si sofferma sulla Jemeinigkeit
che sostiene l’esistere è sempre proprietà di qualcuno, al punto
che l’esistere senza esistente gli sembrerebbe assurdo. Ma
l’«esser-sempre-mio» non annuncia un solipsismo come ultimo
orizzonte dell’analitica esistenziale. Questo sembra, invece, il
pregiudizio di Levinas, per il quale egli contesta la modalità di
base dell’esser-con-altri del Dasein, intendendo la preposizione
mit di Mitsein come segno di una relazione in cui i soggetti sono
tra loro affiancati, côte a côte, in un gruppo, come affascinati e
ammaliati da un terzo termine che non è altro che l’Essere in
tutta la sua anonimità.
Per parte nostra, abbiamo invece visto che l’analisi del Mitsein
avviene all’interno della più ampia modalità della Cura e si
prefigura come l’atteggiamento che fonda il rapporto di ciascun
uomo al «mondo». Questo, come abbiamo visto, è a sua volta
costituito da una serie di rimandi e rinvii che fanno sorgere in
265
III
ultima istanza una relazione comunitaria, già imprescindibile
nell’orizzonte del Besorgen, all’interno del commercio con gli
enti intramondani. L’incontro con gli altri viene in tal modo
ridotto, a prima vista, alla sfera dell’utilizzabilità, del fine
pratico, e della convenienza personale. L’altro è così conosciuto,
visualizzato e compreso non per se stesso, ma per un utile.
Questa è poi la ragione per cui l’uomo stesso può diventare cosa
tra cose, facente parte del mondo degli oggetti di cui ci si prende
cura per ottenerne un tornaconto. Ma, come abbiamo visto nel
corso della nostra esposizione questo stesso rischio è incardinato
nella specificità della Fürsorge, che definisce l’incontro con gli
altri esserci, inquadrandolo in una duplice possibilità, dalla
quale emerge il tema del carattere fondamentalmente etico
dell’autenticità.
L’esserci autentico rifiuta il comportamento del Si, in cui
l’arbitrio degli altri, in generale, decide delle sue possibilità
quotidiane. Siffatto modo inautentico di con-essere (il solo preso
in
considerazione
da
Levinas),
di
stare
insieme
‘impropriamente’, dissolve completamente il singolo esserci nel
modo di un essere comune che crea uno stato di indistinzione e
d’irrilevanza in cui ognuno è come l’altro e nessuno più è se
stesso. Solo in questo stato di individui senza individualità che
non si distinguono più dalle cose, il Man può esercitare
indisturbato la propria dittatura. Se il Mitdasein si esaurisse in
questa dimensione, si potrebbe accettare l’accusa di sordità
all’alterità portata avanti da Levinas contro il con-essere
heideggeriano. Ogni dimensione intersoggettiva, se concepita
nello stadio del Man, può infatti produrre soltanto totalitarismi, e
può avere ripercussioni etiche pericolose. Levinas non coglie,
però, l’intrinseca ambiguità presentata da Heidegger nell’essere
dell’esserci allo stesso tempo rivolto al Si ed al Sé. L’esperienza
dell’angoscia non ha in realtà nulla in comune con la sensazione
266
III
nullificante della nausea sartriana, ma apre l’esserci al Sé
allontanandolo dal Si, e in questo dischiude all’esserci la propria
più specifica cura, che è l’«aver-cura» del proprio e dell’altrui
esserci.
L’attenzione posta da Heidegger sul pensiero dell’Essere, in
conclusione,
costituisce
per
Levinas
solo
un’apparente
“evasione” da quella sfera di ricerca che egli ritiene tipica del
lògos occidentale della modernità, dal momento che la
tradizione metafisica si era soffermata insistentemente sullo
studio dell’Essere e dei suoi principi. La continua presenza, in
Heidegger, della tematica dell’Essere diverrebbe, dunque, tanto
soffocante e nauseante, da essere inquadrata come il y a, come
un’angosciante presenza nullificante totalmente incolore.
In particolare la neutralità del pensiero dell’Essere porta ad
annullare la stessa essenza umana, la sua più propria maniera
d’essere e il suo profondo radicamento nel mondo, e cioè la
socialità. La struttura esistenziale in cui la socialità ha luogo è,
secondo la sua filosofia, la relazione del faccia a faccia tra due
soggetti. La vicinanza con l’altro non risiede all’interno di un
“Noi”, dentro una collettività di esseri simili. L’altro non è
neppure semplicemente al mio fianco, o reso complice nel fare
in modo da essere lui e io autori di qualche cosa in comune.
L’altro si situa all’interno di una relazione asimmetrica e la
rende possibile. La relazione che nasce tra “te e me” nel faccia a
faccia non si colloca al livello della reciprocità biunivoca. Non
si tratta di un vìs a vìs che passi indifferentemente da “me a te” o
da “te a me”, ma costituisce una relazione paradossale, in cui io
sono il punto di partenza insostituibile, e da me si muove verso
l’altro, senza ritorno. L’asimmetria si manifesta non quando mi
avvicino all’altro ma solo quando mi pongo dinanzi al suo volto,
di fronte ad esso. Solo allora il soggetto in prima persona si
sente chiamato, percepisce una costrizione che lo ossessiona, e
267
III
lo porta a farsi carico dell’altro e ad esserne responsabile. Il
soggetto così da attivo diventa passivo, e lascia che l’altro lo
domini, senza possibilità alcuna di omissione.
Tutto
ciò
avviene, secondo
Levinas,
nell’ambito
della
quotidianità, della vita di ogni giorno, costituito da “altri” più
che da oggetti. Le cose infatti che si incontrano nel mondo
proprio come altro rispetto al proprio non comportano da parte
nostra uno sforzo etico, non chiedono di essere aiutate, non
hanno bisogno di noi. L’altro invece ci impegna completamente
e ci assorbe nel suo mondo, tanto da sconvolgere e distruggere
del tutto il nostro. Secondo Levinas proprio nel mondo del
quotidiano si incontra l’altro da sé, non nella presunta sfera
autentica del Dasein heideggeriano che dopo un cammino di
pensiero riesce a liberarsi dalla quotidianità e dal rapporto
nefasto col mondo degli enti e degli altri per relazionarsi alla
fine alla sua propria esistenza per se stesso e per sé solo.
La critica levinasiana, essendo la più feroce, ha comunque il
merito di esigere un approfondimento quanto mai accurato di
quei contenuti che riguardano la sfera del Mitdasein e della
Fürsorge autentici nella filosofia heideggeriana.
C’è però un altro aspetto interessante, che si può sottolineare
con Franco Camera. Egli ritrova, invece, in Martin Heidegger ed
Emmanuel Levinas una sintonia a partire dalla comune nozione
d’ermeneutica123. Da una parte la riconduzione del comprendere
all’essere del Dasein, nel suo poter-essere finito, e dall’altro il
movimento del trascendente e il pensare filosoficamente «al di
là dell’essere», attraverso un pensiero «che dice altrimenti»
possono essere ricondotte ad un atto d’ hermeneuein. La tesi,
secondo la quale
123
F. Camera, L’ermeneutica fra Heidegger e Levinas, Morcelliana, Genova 2001.
268
III
“in ogni uomo si rivela una parola di senso che non è lui a darsi,
ma che richiede d’essere ascoltata, interpretata e tradotta nel
contesto della propria vita”, significa interpretare l’annuncio,
dopo aver ascoltato il massaggio. Ma anche qui “si tratta di una
parola misteriosa che trascende il singolo e lo chiama a
rispondere oltre se stesso in un orizzonte comunitario di
carattere dialogico”124. Nella concezione levinasiana, secondo
Camera, l’esposizione al visage d’autruì rende l’io spregevole a
se stesso, e, destandolo dal sonno narcisistico in cui si era
rifugiato, anche degno di odio [le moi haïssable]. L’incontro con
il volto dell’altro offre la possibilità d’accesso ad una vita
responsabile e «adulta» paragonabile al cammino dell’esserci
heideggeriano che in Sein und Zeit nel momento in cui viene
chiamato a rispondere del suo poter-essere più proprio deve
necessariamente indirizzare la sua cura verso l’autenticità, e
quindi anche verso un Mitdasein, che lasci essere l’altro e non lo
imprigioni, vinto dal desiderio del possesso, dentro il dominio
del suo ego. L’alterità dell’altro, seppur in forme diverse, viene
in questo modo a costituire parte integrante del sistema
filosofico sia di Heidegger, che di Levinas.
La relazione con l’altro in quanto tale, secondo Camera in
entrambi i casi, apre uno spazio ermeneutico d’infinità non
assimilabile ad una forma epistemica o ad una qualsiasi forma di
scienza immanentistica. L’alterità, pertanto, resta sempre più
comprensibile attraverso le posizioni dell’etica. Quest’ultima
riflessione ci sarà ora utile per l’ultimo passo che intendiamo
compiere.
124
Ivi, p.10.
269
III
3.4 Gadamer e Ricoeur:
potenzialità e insufficienze del conessere/con-esserci heideggeriano
Hans Georg Gadamer, nel momento nel quale, anche con
qualche accento autocritico, si è più interessato all’ambito della
cosiddetta intersoggettività, ha riconosciuto in Essere e tempo la
presenza,
pur
marginale,
del
fenomeno
intersoggettivo
nell’autentico modo d’essere dell’esserci.
“Heidegger ha ben saputo che l’esserci è anche con-essere e ha considerato,
in Essere e tempo, il con-essere come una costituzione ugualmente originaria
dell’esserci. L’esserci è originariamente altrettanto ‘con-essere’ quanto
esserci. Ma quel che è visto in tal modo nell’orizzonte della questione
dell’essere esclude nell’impostazione heideggeriana il problema della
soggettività in modo talmente radicale che ‘l’altro’ non può in tal modo
neanche essere problematizzato. ‘Esserci’ non è naturalmente soggettività.
Così Heidegger ha sostituito nella sua problematica il concetto della
soggettività, con il concetto della Sorge, della cura. Tuttavia proprio in tal
punto risulta chiaro che l’altro viene così ad essere considerato solo in una
prospettiva marginale e unilaterale”125.
In queste osservazioni si nota innanzitutto la comprensione
gadameriana della centralità del con-essere.
Perseguendo nell’opera di dissolvimento della tradizione ed
essendosi schierato in netta opposizione ad Husserl e al suo
pregiudizio ontologico-fenomenologico, Heidegger rifiuta il
termine soggettività e con esso quello d’intersoggettività.
Inquadrare l’esserci come con-essere significa racchiudere in
esso la compartecipazione “estatica” con l’altro nel mondo. La
cura diventa così il concetto unificante di una soggettività
125
H.G. Gadamer, Soggettività ed intersoggettività, soggetto e persona, in Id. Verità e metodo 2, trad. it. a cura di R.
Dottori, Bompiani, Milano2001, p. 194.
270
III
decostruita che parte dall’incontro con l’altro, e attraversa il
mondo nella totalità dei suoi significati, per raggiungere solo
successivamente un sé. Nonostante a prima vista il con essere
sembri trovare il proprio luogo nella tendenza allo scadimento
dell’esserci, e così cadere sotto il verdetto dell’inautenticità,
essendo l’originario essere-assieme regolato dalla chiacchiera e
dal Si in cui la maschera dell’essere l’uno-per-l’altro nasconde
l’esser l’uno contro l’altro, tuttavia Heidegger parla di Fürsorge
verso gli altri. Come sostiene giustamente Gadamer, la Fürsorge
acquista quel significato particolare che Heidegger chiamava il
prendersi cura che libera (freigebende), in cui l’aggettivo indica
specificamente ciò di cui si tratta:
“il vero prendersi cura non è il provvedere all’altro, quanto piuttosto il porre
l’altro nel suo autentico essere se stesso - rispetto a un prendersi cura
dell’altro che vorrebbe togliergli la cura del proprio esserci”126.
A questo punto Gardamer si chiede quanto l’altro influisce
nell’elaborazione complessiva di Essere e tempo e si risponde
con il ricordo di una domanda posta allo stesso Heidegger sulla
questione, che trovo piuttosto importante riportare qui di
seguito.
“Era l’anno 1943, allorché, in un lavoro poi pubblicato nelle Kleine Schriften,
cercai, distanziandomi da Heidegger, di mostrare come il comprendere
dell’altro possegga un proprio significato, in via di principio. Nel modo in cui
Heidegger aveva sviluppato il problema, nella preparazione della questione
dell’essere, e aveva elaborato la struttura del comprendere come la vera e
propria struttura fondamentale dell’esserci, l’altro poteva rivelarsi nella sua
propria esistenza come una limitazione di me stesso. […] Quando esposi
questa obiezione ad Heidegger, egli fece dapprima cenno di assentire, di
buon grado, ma poi rispose: ‘Si, ma che ne è della Geworfenheit, della
gettatezza dell’esserci?’ Evidentemente Heidegger intendeva dire che quel
126
Ivi, p.195.
271
III
che io cercavo di far valere, si trovava già in lui, nel fatto che l’esistere
dell’esserci non è solo progetto, ma anche gettatezza del progetto”127.
Heidegger ha in mente l’urgenza di risolvere il problema
paradossale dell’essere dell’esserci che si da come progetto
gettato, e che non può mai fino in fondo scegliere d’esistere
autenticamente, essendo stato già scagliato in un mondo
inautentico che in un certo senso lo affetta fin dall’origine.
Scrive ancora Gadamer: “In tale getto noi non siamo neanche
questo essere singolo, e non sappiamo neanche chi siamo ‘noi’,
ad esempio noi come questa generazione”. Qui è chiaro il
riferimento al carattere storico-temporale di un ‘noi’ che ha
perso la rotta, e che attanagliato dalla Geworfenheit si perde
nella limitatezza delle proprie esperienze quotidiane. L’altro e il
rispettivo con-essere perde così d’importanza nella mente di
Heidegger, preoccupata a risolvere l’eterno, dialettico gioco
della disuguaglianza tra inautenticità e autenticità che dopo la
‘svolta’ sarà precisata e riassunta nella ‘differenza ontologica’.
Per voler concludere con le parole di Gadamer:
“Heidegger, dopo il ripudio della sua concezione trascendentale, a cui era
rimasto attaccato in Essere e tempo, ha abbandonato ancor più radicalmente
la dimensione della soggettività, ed ha anzi espulso dai propri tentativi del
pensare addirittura il concetto del comprendere e quello dell’ermeneutica,
dopo la Kehre”128.
Secondo Gadamer, dunque, la prospettiva teorica heideggeriana
della Geworfenheit costituisce già una coscienza delle possibilità
d’inclusione dell’altro, che tuttavia spinge Heidegger a non
tematizzare adeguatamente la Fürsorge. Un’ontologizzazione
dell’alterità, che Heidegger peraltro aveva già strutturato nella
Fürsorge autentica, lo avrebbe infatti portato a perdere il
127
128
Ibidem.
Ivi, p. 197.
272
III
carattere ontico-contingente della gettatezza. La genialità
heideggeriana sta nell’esplicitazione del tratto di gettatezza
dell’esistenza del Dasein. L’esserci, seppur mantenendo la
possibilità di realizzare un progetto proprio, è sempre gettato
nell’esistenza. Il riconoscimento dell’essere-affetto dell’esserci,
o meglio dell’essere perduto nel mondo del prendersi cura,
poggia, secondo Gadamer, su una radicale concezione
dell’alterità, che inscrive l’altro dentro l’impossibilità di scelta
del soggetto rispetto all’effettività dell’esistenza. Gadamer
comprende così grazie ad Heidegger quanto le visioni
storicistiche di Dilthey abbiano appiattito il ruolo dell’alterità, e
le sue implicazioni etico-politiche. Tuttavia produrre una decostruzione totale della soggettività, significa anche per
Heidegger far saltare qualsiasi orientamento intersoggettivo sul
Mitdasein, per cedere il posto ad una ri-formulazione dell’essere
dell’esserci come ‘progetto gettato’. Gadamer si accorge in tal
modo che nell’attenzione heideggeriana sul Mitdasein l’altro
non viene considerato mai come un limite, ma costituisce il
limite per eccellenza che costringe tacitamente l’esserci a
rituffarsi nel mare della Geworfenheit, per comprendere
l’essenza dell’alterità più radicale con quella Verità (Aléteia)
ontologica che non si può mai afferrare, o possedere, ma si può
cogliere solo nel suo ritrarsi. La preoccupazione di Heidegger
sembra così spostarsi sulla necessità di spiegare il mantenimento
della cura autentica che lascia essere l’esserci nel soggiorno
dell’autenticità.
Paul Ricoeur, che accosto a Gadamer per la sua acuta
ermeneutica del senso autentico del Mitsein heideggeriano, in Sé
come un altro e soprattutto in un saggio intitolato Il problema
etico in ‘Essere e tempo’ si relaziona alla dimensione etica
dell’opera heideggeriana partendo da lontano, vale a dire dal
significato che il termine ha in Spinoza.
273
III
“L’etica di Spinoza è un’etica grazie ad un carattere di percorso che un
frammento della sostanza compie per far ritorno al tutto; percorso che
avviene ad un tempo senza confusione tra modo finito e sostanza e senza
alcuna pretesa d’autonomia dell’uno rispetto all’altra. In un senso analogo
possiamo dire che Essere e tempo è un’etica: la questione dell’essere domina
tutta l’opera ma è l’oblio dell’essere a matterla in movimento. Possiamo
considerare la riconquista dell’essere contro l’oblio come il tratto etico
fondamentale dell’intera opera, poiché l’oblio ha un luogo e questo luogo è
l’essere che noi siamo- l’esserci, […] Quando Heidegger caratterizza
l’esserci come l’essere nel quale ne va della questione dell’essere, egli
implica che questo essere sia costituito in modo tale da potersi disinteressare
della questione dell’essere. E da qui egli giunge ben presto alla distinzione tra
autenticità (Eigentlichkeit) e inautenticità (Uneigentlichkeit).”129
Pur essendo ontologico l’orientamento dominante di Sein und
Zeit, secondo Ricoeur, non si può negare la forza etica
dell’opera. Direi anche che Ricoeur sostiene una marcata
valenza etica nell’impostazione ontologica della possibilità della
decisione
dell’esserci,
cogliendo
un
alto
contenuto
di
‘responsabilità individuale’ nella analoga scelta dell’ aver-daessere
che
corrisponde
da
parte
dell’esserci
ad
una
determinazione “d’essere” autenticamente o inautenticamente.
Ciò nonostante è possibile deplorare anche una effettiva
“carenza morale” dell’opera, dovuta ad un irrigidimento
ontologico di tematiche quali “la giustizia”, “il rispetto”,
“l’interdizione”, “l’obbligazione”, “il bene ed il male” che ha
impedito lo svilupparsi ed il precisarsi di una morale in maniera
esplicita. Ricoeur pone l’accento anche sulla distinzione tra
l’autentico e l’inautentico, cogliendo il ruolo fondamentale
svolto dalla cura in questo rapporto. Attraverso la relazione che
l’inautentico ha con il prendersi cura quotidiano (Besorgen) e
che l’autentico ha con la cura (Sorge-Fürsorge) si stabilisce una
129
P. Ricoerur, Il problema etico in Essere e tempo, in Heidegger in discussione, a cura di F. Bianco, Franco Angeli.
274
III
“distinzione gerarchica tale che il prendersi cura può essere
legittimamente considarato come una caduta della cura”130.
“Si noterà che nella cura è contenuto, per lo meno implicitamente, il
riferimento all’altro. In questo senso Heidegger non cade nella trappola
dell’egologia e si guarda bene dal passare attraverso le aporie del solipsismo
trascendentale alla maniera di Husserl. Si potrà osservare che la struttura del
con-essere trova un vero e proprio sviluppo soltanto sul piano della
quotidianità”131.
L’etica accompagna, secondo Ricoeur, da vicino ogni passo
ontologico
di
Essere
e
tempo
tanto
che
l’originario
ontologicamente è anche l’autentico in senso etico. Ciò
nonostante “Heidegger ha ben poco da dire sul Mitsein autentico
in quanto si sforza di dissociare l’ipseità dall’anonimato”,
perché il con-essere è innanzitutto e per lo più riscontrabile
nell’inautentico e quotidiano prendersi cura. Sembra a Ricoeur
che Heidegger voglia ‘colpevolizzare’ il concetto di Verfallen,
di caduta nel prendersi cura, e con ciò costruire una gerarchia tra
autenticità ed inautenticità offrendoci una demarcazione
d’ambiti dalla marcata significazione etica, e così facendo
elevare un muro che non può essere più demolito.
La Fürsorge autentica rappresenta la sola forma d’aver-cura
volto agli altri, che essendo costitutivamente “cura che lascia
essere” gli altri nella loro propria cura si stabilizza
nell’autenticità costituendo il fulcro della crescita morale
dell’esserci che in questo modo impara ad esistere con gli altri,
rispettandoli nel loro essere. Tutto ciò però resta “non detto” o
almeno non esplicato, nell’opera. La Fürsorge, quindi,
rappresenta l’elemento ontologico più intrinsecamente etico
fondativo per l’unitario percorso di comprensione condivisa (o
130
131
Ivi, p. 51; Cfr. J. Taminiaux, Lecture de l’ontologie fondamentale. Essais sur Heidegger, Millon, Grenoble,1989.
Ivi, p.54.
275
III
di cura) dell’essere dell’esserci, che racchiude in sé soprattutto
l’alterità degli altri esserci lasciati essere nel loro proprio essere.
Il mantenimento del proprio se-stesso nell’altalenare di
prendersi cura (Besorgen) e cura (Sorge) non viene attribuito,
come ci aspetteremmo in base alla distinzione gerarchica tra
inautenticità e autenticità, alla Fürsorge, ma alla “chiamata della
coscienza:
“Non che la referenza all’altro faccia interamente difetto, ma l’altro è
implicato soltanto rispetto al Si ed al piano inautentico del prendersi cura:«La
chiamata concerne il Si stesso (Das Man Selbst) del con-essere con gli altri
prendendo cura». La dominante resta lo sradicamento del se-stesso dal Si: in
breve, la coscienza convoca il se-stesso delll’esserci ad evitare di perdersi nel
Si.”132
La chiamata della coscienza “che viene da me e tuttavia sopra di
me” (aus mir und doch über mir) si mette in moto dopo il
riconoscimento di una forma di colpevolezza effettuato da parte
dell’esserci che non ha nulla a che fare con l’idea di essere in
colpa verso qualcuno, responsabile o debitore verso un altro.
L’esigenza di Heidegger si orienta nella direzione del
riconoscimento
della
nullità
dell’esserci
“considetato
dall’angolatura della sua fatticità”. L’essere fondamento di una
nullità (Grundsein einer Nichtigkeit) diventa il fondamento
ontologico che scardina qualsiasi presa etica della tematica della
colpa, della coscienza e della decisione che ad essa fa seguito.
In più, se consideriamo la comprensione, e l’assunzione del
proprio essere in colpa, che Ricoeur denomina “attestazione”, e
il riconoscimento dell’esposizione agli altri come momento di
passività massima dell’esserci all’inautenticità del quotidiano
(chiamato ingiunzione) arriviamo alle stesse conclusioni
ricoeuriane, secondo le quali Heidegger separerebbe ogni fondo
132
Ivi, p.58.
276
III
etico-morale dalla strutturale aspirazione al vivere «bene»
propria del Dasein.
“Separata
dalla
richiesta
dell’altro
e
da
qualsiasi
determinazione
propriamente morale, la decisione permane completamente indeterminata
così come la chiamata a cui sembra rispondere. […] A questa demoralizzazione della coscienza, bisognerebbe opporre una concezione che
associ strettamente il fenomeno dell’ingiunzione a quello dell’attestazione
L’essere ingiunto costituirebbe allora il momento dell’alterità propria al
fenomeno della coscienza, in conformità alla metafora della voce. Ascoltare
la voce della coscienza significherebbe essere ingiunto dall’altro. Si
renderebbe così giustizia alla nozione di colpa (dette) che Heidegger ha
ontologgizzato troppo presto a spese della dimensione etica del diventar
colpevole (endettement)”133.
La posizione ricoeuriana sul Mitsein è quindi riassumibile nella
evidenziazione di un’inaspettata manchevolezza delle sue
implicazioni ‘morali’ rispetto ad elementi ‘etici’ che Heidegger
stesso aveva già fornito con la tematizzazione della Fürsorge.
Attribuire ad Heidegger, come ho cercato di fare nello sviluppo
della tesi, la comprensione del nesso tra etica e ontologia nella
Fürsorge autentica, da lui stesso formulata ma troppo
frettolosamente abbandonata, significa uscire dal paradosso
della coscienza giocato all’interno della “contaminazione” tra
inautenticità e autenticità, o come sostiene Ricoeur, salvarsi
dall’indeterminazione della decisione, e dalla carenza morale
della chiamata alle possibilità più proprie dell’esserci.
Seppur Ricoeur nomini tale carenza morale, sottolinea allo
stesso tempo la «forza etica» di Essere e tempo, che io stesso ho
cercato di accentuare in questo percorso di tesi già riscoprendo
nell’esser-sempre-mio dell’esserci heideggeriano un esistenziale
radicato nell’essere dell’altro esserci. La comprensione autentica
dell’esserci di riscopre come effettivamente frutto dell’incontro
133
Ivi, p.61.
277
III
con l’altro. Nell’incontro con gli ‘enti’ il cui essere è il conesserci (gli altri), infatti si costituisce «in vista di sé», a partire
dal suo essere che gli si mostra in prima istanza essere già in
vista degli altri, in quanto con-essere.
Proprio nel capitolo intitolato Gewissen della seconda sezione di
Essere e tempo, che ha suscitato nella mia ricerca un momento
di riflessione in più, Heidegger, secondo Ricoeur, descrive
perfettamente il momento d’alterità che contraddistingue la
coscienza. Questa stessa alterità costituisce il momento di
massima costruzione della stessa ipseità, nella misura in cui il sé
è reso cosciente e capace di riprendersi dall’anonimato del Si:
“Questa implicazione della coscienza nell’opposizione fra il sé ed il Si, non
esclude un’altra forma di rapporto tra essere-sé ed essere-con, nella misura in
cui, da una parte, il Si è già una modalità inautentica dell’essere-con e in cui
d’altra parte, questo ritrarsi nel foro interiore offre all’altro il faccia a faccia
che egli è in diritto di attendersi, e cioè precisamente il se-stesso”134.
Nel fenomeno della coscienza, che è una chiamata (Ruf) esterna
e interna allo stesso tempo ci aspetteremmo che l’acquisizione
dell’autenticità contribuisca in qualche modo a spiegare la
dialettica interna alla Fürsorge tra il lasciar essere che libera
l’altro per un verso, e l’aver-cura che domina l’altro per altro
verso. Questa delucidazione avrebbe potuto lasciar trapelare la
vera essenza etica, e di conseguenza anche la responsabilità
morale, che scaturisce dalla comprensione della differenza tra i
due modi d’essere, che possiamo anche chiamare a questo punto
‘comportamenti’. Il poter-essere autentico attestato dalla
coscienza non è invece segnato da alcuna competenza a
distinguere il bene dal male. La coscienza sembra essere un
prodotto perfetto della filosofia di Nietzsche, nella misura in cui
non si può parlare di una ‘buona’ o di una ‘cattiva’ coscienza ma
134
Paul Ricoeur, Sé come un altro, § Verso quale Ontologia? Jaca Book, Milano 1999, p 458.
278
III
solo di una forma di coscienza che si ‘situa al di là del bene e del
male’, sostiene Ricoeur. In verità la nozione di ‘cattiva
coscienza’ è dallo stesso Heidegger tacciata di «ordinarietà», in
quanto fenomeni come il rimorso e il pentimento, per esempio,
fanno parte di una coscienza inautentica ancora prigioniera del
Si. La ‘buona coscienza’ verrebbe invece a coincidere con la
cura autentica in cui anche il Mitdasein degli altri sarebbe conaperto nell’essere dell’esserci. In sintesi è possibile affermare
con Ricoeur che Heidegger non sviluppa le forme autentiche
dell’essere-con non solo perché non vuole spingere la sua
ontologia verso l’etica, ma soprattutto perché coglie, come già
abbiamo visto in Gadamer, nella condizione deietta (déchue) del
Dasein uno scoglio insormontabile. “Il riconoscimento della
passività, del non-dominio”, dell’esser-convocato dell’esserci,
orienta Heidegger “verso una meditazione sulla nullità” che
affetta l’essere nel mondo, dall’angolatura della sua interna
effettività”135.
La chiamata che concerne anche il Man-Selbst del Mitsein degli
altri, secondo la mia ipotesi di ricerca che si appoggia molto
sulle interpretazioni ricoeuriane, avrebbe potuto portare
Heidegger a sviluppare un «voler-aver-coscienza» dal carattere
dichiaratamente etico-morale che a sua volta avrebbe permesso
di formulare un Mitdasein autentico, sulla scia dei connotati
autentici della Fürsorge, in cui la condivisione del ‘mondo’
come insieme di rimandi e significati sarebbe stata anch’essa
una forma di scelta volontaria che rende liberi (freigebende).
Dove c’è un «noi» già costituito, troviamo spesso la presenza di
una qualsiasi forma di legge. Anche secondo Aristotele infatti la
politéia136 (la legge costituzionale) è in un certo senso la vita
della città [bíos poleos]137 e si fonda sulla nozione di nómos
135
Ivi, p. 466.
Il termine deriva da polis attraverso polites, ed esprime insieme ai verbi politeuo/politeuomai «l’essere cittadino».
137
Anche Isocrate, (Panetenaico, 138, cfr Areopagito, 13-14), aveva definito la politéia anima della città psyché poleos.
136
279
III
(Politica IV, 1295a). Il termine nómos è importante notare come
sia etimologicamente legato al verbo némein (che letteralmente
significa distribuire in parti uguali) e al concetto di
condivisione138. La pólis, intesa come l’insieme dei suoi
cittadini, viene equiparata ad un organismo umano, di cui la
politéia costituisce, quindi, il principio vitale. La condivisione
della stessa legge costituisce il passo primario per la formazione
di una spazio comune, di un «noi» collettivo. Volendo costruire
un parallelo tra il carattere politico-istituzionale della politéia e
il carattere sociale del Mitdasein, possiamo dire che come
quest’ultimo deve “per funzionare” essenzialmente far leva sulla
valenza autentica della Fürsorge, (che lascia essere l’altro e non
lo domina per altri fini), il primo deve anch’esso appoggiarsi
sullo stesso principio interno all’aver-cura autentico se vuole far
prevalere il bene comune, piuttosto che il benessere del singolo.
L’aspetto etico sotterraneo al Mitdasein heideggeriano è ciò che,
malgrado sia rimasto «non detto», manifesta tutta la sua forza
“vitale” in relazione all’essenza sociale radicata nella realtà
umana che si realizza pienamente nell’appartenenza ad un Noi.
138
Cfr. voce:νεμω; Pierre Chantraine, Dictionnaire étymologique de la langue greque, histoire des mots, Klincksieck.
280
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