Economia della famiglia: introduzione

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Lezione 9. Alcune estensioni: Lo sfruttamento, il lavoro criminale e il lavoro domestico.
Nota. In questa lezione conclusiva ci occuperemo di alcune applicazioni del corpus teorico
dell'economia del lavoro ad argomenti che di solito non vengono trattati dai manuali di questa
materia, ma che a mio parere dovrebbero esserlo.
1. Lo sfruttamento. Il concetto di sfruttamento è per vari aspetti analogo a quello di
discriminazione: apparentemente il suo significato è ovvio, ma quando si cerca di darne una
definizione precisa ci si imbatte in una serie di problemi. In effetti nel linguaggio dell'economia del
lavoro, così come in quello comune, il termine ha quattro significati, e cioè, in ordine crescente di
gravità della problematica etica che ne consegue:
a) uso di una risorsa, anche umana, analogamente a "sfruttamento di una miniera";
b) trasferimento indebito di parte del ricavo del lavoro dal produttore a qualcun altro;
c) obbligo per i lavoratori di lavorare in condizioni nocive o anche disumane;
d) le condizioni b e c insieme.
Il problema è quello di definire un concetto operativo di sfruttamento, che ci consenta cioè di
includere la sua definizione nella strumentazione tecnica in uso per lo studio del mercato del lavoro
e al tempo stesso di catturare la maggior parte dei quattro significati citati. Adottiamo quindi la
definizione che segue: un lavoratore è sfruttato quando le sue condizioni di lavoro (salariali e/o
d'altro tipo) sono peggiori di quanto si ritenga comunemente accettabile da parte della collettività
in cui il lavoratore opera.
E' importante notare che questa definizione lascia fuori una problematica che ha avuto ed ha
un'enorme importanza nelle scienze sociali (e in filosofia) e cioè quella della giustificazione del
trasferimento di parte del ricavo ad altri soggetti quando ciò non avvenga in condizioni di
sfruttamento secondo la nostra definizione1. Essa tuttavia ha il pregio di mettere l'accento
sull'aspetto più importante, e cioè la condizioni di lavoro degli sfruttati2.
2. Sfruttamento: come mai? Il primo problema che dobbiamo porci è come sia possibile lo
sfruttamento in un'economia moderna, dove per economia moderna intendiamo un'economia in cui i
rapporti di lavoro sono governati da contratti di lavoro e non da rapporti di proprietà, in altri
termini in cui non è consentita la schiavitù. Infatti, data la nostra definizione, in una economia
moderna normale lo sfruttamento non dovrebbe esserci. Se la comunità giudica inaccettabile
determinate condizioni di lavoro, essa autorizzerà coloro che si trovano in queste condizioni a non
lavorare, e interverrà con opportuni sussidi.
Per continuare è utile rappresentare graficamente la condizione di sfruttamento. Lo facciamo nella
figura 1, in cui compaiono due valori critici di w: w1, che è il salario di sopravvivenza, e w2, che è
quello di sfruttamento, ovviamente superiore al primo. Se le condizioni di domanda e di offerta
sono tali per cui l'equilibrio è al disotto di w1 (curva S1), si avrà una disoccupazione pari a L"-L', e
siamo nel caso di eccesso strutturale di offerta. Ma se l'equilibrio è fra w1 e w2 (curva di offerta
rossa, S2), questo è perfettamente raggiungibile, e abbiamo lo sfruttamento. Naturalmente, come è
1
Una soluzione molto astuta a questo problema è stata data dall'economia marginalista: la retribuzione del padrone
corrisponde al suo contributo marginale alla produzione. Abbiamo però visto che l'evidenza empirica rivela che il
livello delle retribuzioni padronali è troppo sovente troppo alto perché questa spiegazione abbia validità generale.
2
Se adottassimo una definizione che unifica sotto un'unica nozione ("estrazione del prodotto") sia i maltrattati che i
bentrattati dovremmo poi introdurre un'ulteriore classificazione per discutere il caso dei primi.
1
facile verificare, questo non si avrebbe se la curva di offerta fosse più spostata a sinistra, o la curva
di domanda più a destra. Anche in questo caso possiamo quindi dire che lo sfruttamento è reso
possibile dalla presenza di un eccesso di offerta rispetto alla domanda3.
Figura 1. Lo sfruttamento
Possiamo allora individuare due casi in cui in una economia moderna si può avere una quota
significativa di sfruttamento. Il primo è quello di una crisi generale, per esempio a seguito di una
sconfitta in una guerra. Il secondo è quello di una forte recessione, in cui gli strumenti di sostegno al
reddito non si adeguano in tempo. In entrambi i casi si ha una forte riduzione della domanda di
lavoro, e probabilmente anche un aumento dell'offerta a causa del fenomeno dei lavoratori
aggiuntivi. Questi fenomeni sono per loro natura transitori, e dovrebbero essere superati una volta
ristabilite (se lo saranno) condizioni normali nell'economia.
3. Sfruttamento e segmentazione del mercato. Come è possibile però che lo sfruttamento, come
evidentemente accade spesso, sia presente in modo stabile in un'economia evoluta? La causa
principale è la segmentazione del mercato. Il caso più ovvio è evidentemente quello degli
immigrati. Per i motivi che vedremo subito, è utile distinguere fra immigrazione legale e
immigrazione illegale; cominciamo dalla prima.
Generalmente, un immigrato legale ha una curva di offerta più bassa di un indigeno. Il motivo è
che l'emigrazione è una scelta molto costosa sul piano umano, e l'emigrato tipico emigra quindi
perché le condizioni di vita in patria sono intollerabili. Facilmente, un salario nel paese di
destinazione inferiore a quello di sfruttamento ma superiore a quello di sopravvivenza è per lui
accettabile. In queste condizioni, sarà interesse di tutti i soggetti coinvolti che venga mantenuta la
segmentazione e quindi lo sfruttamento: gli immigrati rischiano altrimenti di perdere il posto, i
lavoratori indigeni non subiscono la concorrenza degli immigrati, e i contribuenti non devono
pagare sussidi.
3
Se il padrone sfrutta il lavoratore, è perché gli conviene, quindi perché il farlo gli rende qualcosa. Uno sfruttamento
non salariale (per es. salario eguale agli altri, ma orari più lunghi) può quindi essere assimilato a uno salariale: esso
sposta comunque verso destra rispetto ai lavoratori la curva di offerta percepita dal padrone.
2
La situazione è ancora peggiore per gli immigrati irregolari, per l'ovvio motivo che in quanto tali
essi sono più ricattabili: nei nostri grafici, la curva di domanda che fronteggiano è più spostata verso
sinistra, in quanto ci sarà meno gente disposta ad assumerli. Infine, la situazione è particolarmente
grave per gli immigrati dediti a mansioni criminali o gestite da criminali, essenzialmente lo smercio
di droga e la prostituzione, per i quali le condizioni arrivano sovente alla schiavitù.
Tuttavia questo non è l'unico caso di sfruttamento. Quando il lato offerta del mercato del lavoro è
debole, le condizioni di lavoro diventano facilmente condizioni di sfruttamento. La soluzione
dovrebbe essere normativa, ma data la ricattabilità dei lavoratori e il maggiore potere economica del
lato della domanda è facile che ciò non avvenga. Il caso ILVA di Taranto è un esempio evidente.
4. Sfruttamento: che fare? Non esistono soluzioni semplici, né universalmente accettate, anche a
causa della complessità del fenomeno. In questo paragrafo esprimerò quindi le mie idee in materia.
Cominciamo dal caso degli immigrati regolari. Come abbiamo visto, spesso condizioni di lavoro
che agli indigeni appaiono di sfruttamento non sembrano tali agli immigrati stessi, che provengono
da condizioni peggiori. Questo, analogamente a quanto abbiamo visto a proposito della
discriminazione, esclude la possibilità della politica più ovvia, e cioè l'obbligo legale di garantire
agli immigrati le stesse condizioni degli indigeni. Ciò infatti creerebbe un eccesso di offerta da parte
degli immigrati, e quindi l'inarrestabile diffusione del lavoro nero da parte loro: come infatti sta
avvenendo. Sembra preferibile una politica basata su tre pilastri:
a) accettazione di retribuzioni inferiori a quelle degli indigeni. Ciò è necessario da una parte per
minimizzare la "fuga" degli immigrati verso il lavoro nero, dall'altra per ridurre il costo del lavoro, e
quindi minimizzare la diffusione di condizioni di eccessiva nocività per i lavoratori; in altri termini,
per rendere possibile il secondo pilastro, e cioè
b) controlli rigorosi sulle condizioni di sicurezza del lavoro degli immigrati; che diventano meno
difficili per le autorità e meno propiziatori del lavoro nero se le condizioni di nocività non sono un
modo per ridurre il costo del lavoro d'accordo con gli immigrati, che in larga misura preferiscono
comunque condizioni di lavoro nocive alla disoccupazione.
c) limitazione di retribuzioni inferiori per gli immigrati a quei settori e a quelle mansioni in cui è
minima la concorrenza con i lavoratori indigeni.
Una politica siffatta non eliminerebbe il lavoro nero, né l'eccesso di nocività nelle mansioni
riservate agli immigrati, né le frizioni con i lavoratori indigeni; ma consentirebbe di limitare tutti e
tre i fenomeni, e di evitare gli aspetti più patologici, il che è chiaramente molto meglio di niente.
Infine, questa politica ridurrebbe la domanda (e quindi la presenza) di lavoratori irregolari, dato che
il minor costo che si avrebbe comunque a seguito del loro impiego (almeno a causa della maggiore
nocività tollerata dai lavoratori) potrebbe essere in buona parte bilanciato dalle sanzioni, rese più
facili dalla necessità di effettuare meno controlli e più temibili per il minore risparmio consentito
dal ricorso al lavoro nero. Auspicabilmente, resterebbe come fenomeno ad alta patologia sociale
solo il caso dei lavoratori dediti ad attività criminali.
5. Il lavoro criminale. 4 Perché qualcuno fa il criminale? L'applicazione diretta del principio
fondamentale dell'economia ci porta a rispondere subito che un tale commetterà un crimine se e
solo se i guadagni (attesi) superano i costi (attesi). Appena cominciamo a qualificare questo
risultato, il discorso diventa complesso ma al tempo stesso scopriamo delle cose interessanti.
Eccone qualcuna.
a) I poveri hanno una maggiore probabilità di commettere crimini. Si tratta di un fatto noto e
apparentemente ovvio, ma se lo approfondiamo un po' troviamo qualcosa di utile. Perché si verifica
ciò? In primo luogo, un'attività criminale rende ceteris paribus di più a un povero: rubare 100 euro
è più utile a un povero che non a un ricco. Ma contano, e molto, anche i costi. Il costo principale del
4
In quanto segue ci occuperemo solo di criminalità individuale, e non di criminalità organizzata (mafia e simili) né di
criminalità da parte di istituzioni (per esempio le banche coinvolte nello scandalo Parmalat).
3
crimine è naturalmente la prigione; e parte del costo della reclusione sono le cose cui si deve
rinunciare se si è in prigione. Se la vita fuori dalla prigione è poco migliore di quella in prigione, il
costo della criminalità è basso. Un altro costo importante è la sanzione sociale: chi commette un
crimine è giudicato male dalle persone con cui intrattiene rapporti normali, si ha cioè un costo in
termini di reputazione. Ora, la reputazione è (o dovrebbe essere) molto importante per un banchiere
o per un commerciante, ma molto meno per un disoccupato.
b) Esistono ambienti che propiziano più di altri la criminalità. Questo è un discorso molto delicato,
perché è facile restare vittime di pregiudizi. Però è indubbio che in certi ambienti, anche a parità di
condizioni economiche, la sanzione morale verso i comportamenti criminali è più bassa che in altri.
Un esempio estremo sono naturalmente gli zingari, la cui etica (per quanto a mia conoscenza)
ritiene relativamente poco grave il furto al di fuori della comunità (è questa del resto una
caratteristica culturale molto diffusa fra i popoli nomadi e pre-agricoli). Ma se ne possono fare altri.
Quando l'autore di queste dispense era studente, alla fine degli anni 60, alcuni comportamenti
criminali (blocco stradale, interruzione di pubblico servizio e simili) non erano considerati tali
negli ambienti da lui frequentati, e non comportavano quindi alcuna sanzione sociale - piuttosto il
contrario.
Se l'attività criminale è un'attività economica, con i suoi costi e suoi ricavi, possiamo descriverla
mediante un grafico. Esso compare nella figura 2.
Figura 2. L'equilibrio del criminale
Il grafico si riferisce a un criminale tipico. Sull'asse verticale abbiamo il valore, in termini di
utilità, dei costi e dei ricavi. Il ricavo naturalmente è dato dal bottino della sua attività; i costi sono il
danno (atteso) causato dalle pene previste se scoperto, i costi veri e propri, la perdita di reputazione,
eccetera. Sull'asse orizzontale abbiamo un indicatore della quantità di crimini commessi. Possiamo
supporre che il ricavo sia proporzionale al numero di crimini commessi, e quindi che il suo grafico
sia una retta (R). I costi totali (C) invece sono, plausibilmente, una curva crescente. Perché? Se ci
pensate un attimo, vi accorgerete che il fatto che la curva sia crescente vuol dire che il costo del
singolo crimine aumenta via via. E ciò è plausibile per tre motivi: più il delinquente diventa "noto",
4
più sarà perseguitato dalla polizia; più diventa "ricco", maggiori saranno le rinunce che dovrà
sopportare se sarà catturato (sarà quindi maggiore il costo opportunità5); e infine, naturalmente, le
condanne per recidiva sono più alte. Come si vede nel grafico, esiste allora una quantità ottimale di
crimini, C*, che il criminale vorrà compiere, individuata dalla distanza massima fra le due linee.
6. Prevenzione e repressione. Quanto sopra ci serve per impostare (non di più!) la questione del
rapporto fra repressione e prevenzione come strumenti per contrastare il crimine. Ovviamente
(quasi) nessuno propone l'uso di solo uno degli strumenti, il problema è piuttosto quale
combinazione di essi utilizzare. La questione è estremamente complessa, e la risposta "giusta"
dipende da molti fattori, per esempio dalle capacità rieducative del carcere, dai costi delle diverse
strategie, da considerazioni di equità ecc. Ciò che la nostra impostazione ci consente di dire è che
entrambe le strategie in linea di principio sono efficaci. Infatti, una maggiore repressione rende
ovviamente più ripida la curva dei costi (che nella figura 2 diventa la curva superiore, rossa),
spostando a sinistra il punto C*. Ma lo stesso risultato è prodotto da un intervento sull'ambiente: se
scegliendo di diventate un criminale il soggetto rinuncia a una vita di miseria e di degradazione, il
costo (più esattamente la componente costo opportunità) di tale scelta è assai più basso che se non
rinuncia invece a un lavoro regolare e soddisfacente.
In effetti possiamo dire qualcosa di più: e cioè che quale è la strategia migliore dipende dalle
circostanze, cioè dalla reale struttura dei costi e dei benefici per i potenziali criminali implicati dal
caso concreto con cui si ha (e forse effettivamente avrete) a che fare. Una soluzione "giusta in
astratto" non esiste.
7. La domanda di lavoro criminale. Fin qui ci siamo occupati di offerta del lavoro criminale.
Veniamo ora al lato della domanda. Lo faremo discutendo il caso della domanda di droghe.
L'esempio è importante perchè esso riguarda un mercato criminale la cui domanda è
particolarmente rigida, dato che spesso i consumatori sono addicted (=assuefatti). Se così non
fosse, un'opportuna tassazione renderebbe la domanda molto bassa, come vediamo nella figura 3a, e
quindi sarebbe molto bassa anche la domanda di spacciatori. Ma la rigidità della domanda rende la
tassazione inefficace, come vediamo nella figura 3b
Figura 3. Effetto della tassazione sulla domanda di un bene a domanda elastica (a) o rigida (b)
( a)
( b)
5
Ricordiamo ancora una volta che il costo opportunità di una scelta è il valore dell'alternativa migliore a cui si deve
rinunciare a seguito di quella scelta. Se per esempio una sera posso scegliere se andare al cinema o a teatro (essendo le
altre alternative comunque peggiori), il costo opportunità di andare a teatro è il piacere che mi avrebbe procurato andare
al cinema. Ne abbiamo già parlato in precedenza.
5
Come abbiamo già visto, l'imposizione di una tassa sposta verso l'alto la curva di offerta, da S a S',
il che causa una riduzione della quantità d'equilibrio da q a q'. Ma nel caso della domanda rigida, a
parità di tassazione, questa riduzione è molto minore.
Ora, l'effetto del proibizionismo è lo stesso di quello di una tassa, tranne che per una
fondamentale differenza. Il motivo per cui è lo stesso è che determina anch'esso uno spostamento
verso l'alto della curva di offerta: il venditore deve aggiungere al costo normale quello del
mantenimento di un apparato clandestino, della corruzione cui facilmente è necessario ricorrere, e
di che pagarsi i danni in caso di arresto (si tratta tra l'altro di spese che sono tanto più alte quanto
più severo è il regime di repressione); quindi la funzione di offerta si sposta verso l'alto. La
differenza fondamentale è che mentre una tassa produce un gettito che va allo stato (e quindi, se la
democrazia funziona bene, i cittadini sono d'accordo di pagarla, in quanto altrimenti lo stato, che
agisce nei loro interessi, non metterebbe la tassa), il proibizionismo crea un costo aggiuntivo per i
cittadini. In pratica, sono loro e non i drogati che pagano i maggiori costi; essenzialmente in quattro
modi: indirettamente, dovendo pagare i costi dell'apparato repressivo, ancora indirettamente,
dovendo pagare i maggiori costi dei servizi di assistenza ai drogati e il loro mantenimento 6,
direttamente, mediante ciò che viene loro sottratto con furti e rapine7, e ancora indirettamente, a
causa dei costi sociali prodotti dal diffondersi della malavita organizzata, presumibilmente tanto più
potente quanto più soldi ha, e quindi quanto più la repressione fa alzare il prezzo della droga stessa.
Questo ci consente di raggiungere un'importante conclusione normativa: se la domanda di un bene
a produzione criminale è rigida, la politica di repressione è molto costosa per la società, e quindi è
opportuno valutare altre alternative. Nel caso specifico della droga gli esperti sono sostanzialmente
concordi sul fatto che la criminalizzazione è una politica sbagliata, soprattutto a causa delle
enormità delle cifre implicate nel caso del proibizionismo8.
E' opportuno sottolineare che in molti casi una certa mansione lavorativa criminale è tale solo per
decisione del legislatore, la cui opportunità deve quindi essere valutata. Il commercio di alcune
droghe è un reato, mentre quello di altre, spesso ben più pericolose delle prime, come il tabacco e
l'alcool non lo è. La prostituzione non è un reato, ma lo è la gestione manageriale dell'attività delle
prostitute, il che facilita lo sfruttamento delle lavoratrici. In Italia le lotterie sono un monopolio di
stato, mentre negli USA sono proibite. E si potrebbero fare molti esempi.
8. Prostituzione: analisi positiva. Quanto visto sopra a proposito della droga vale anche per
un'altra importante attività criminale, la prostituzione. In questo campo però è più rilevante la
problematica dello sfruttamento, e quindi ne discutiamo sepratamente.
La prostituzione è vietata in alcuni paesi e libera in altri; in molti non è del tutto vietata, ma
sottoposta a regimi tali per cui la sua gestione è demandata all'economia criminale. E' il caso
dell'Italia. Come è fatto il mercato del lavoro di una prostituta dipendente, il cui lavoro cioè è
gestito da un'impresa criminale? L'offerta è costituita da donne provenienti da paesi molto poveri,
6
Come risulta dalle indagini empiriche, un drogato non costretto alla clandestinità è generalmente in grado di condurre
una vita lavorativa pressoché normale, e quindi pesa molto meno, o non pesa affatto, sulla collettività.
7
E' questo il motivo principale per cui gli opinion makers della destra liberale, come il famoso settimanale The
Economist, sono di solito, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, favorevoli alla liberalizzazione o alla
decriminalizzazione della droga.
8
Un'indagine molto seria, condotta in Olanda alla fine degli anni 90 dall'Università di Rotterdam per conto del governo
olandese, che intendeva modificare la sua politica in materia, ha dato queste cifre, dove i costi sono sia quelli diretti che
quelli indiretti, con esclusione però del costo dell'apparato poliziesco e clinico (la cui inclusione rafforzerebbe
presumibilmente l'indicazione a favore della decriminalizzazione): Costo della politica in vigore (grosso modo, libertà
di commercio di droghe leggere e repressione del commercio di quelle pesanti): 166000 euro/anno per drogato, per un
totale di 3,328 miliardi di euro all'anno; Costo di un regime di decriminalizzazione: 13000 euro/anno per drogato. La
politica di decriminalizzazione può comportare un aumento nel numero di drogati, ma ci sarebbero più di 3 miliardi di
euro a disposizione per contrastarla, una somma evidentemente enorme per un paese come l'Olanda.
6
ed è quindi molto ampia. La domanda è costituita dagli imprenditori del settore. Come abbiamo
visto, il regime di semi-proibizionismo equivale a una tassa.
La domanda di lavoro è rigida: dal momento che la domanda del bene (le prestazioni delle
prostitute) è rigida, gli imprenditori potranno facilmente scaricare i maggiori costi dovuti al
proibizionismo sul prezzo di vendita. L'offerta è elastica: l'eccesso di offerta costituito dalla riserva
di donne in miseria a livello mondiale spinge la retribuzione verso il livello di sussistenza. Abbiamo
quindi che un eventuale maggiore criminalizzazione della prostituzione si traduce in maggiori
profitti per i managers criminali (e quindi in maggiori costi per la società), ma non riduce lo
sfruttamento delle lavoratrici; e anzi spinge la retribuzione verso il livello di sussistenza, se non lo
ha ancora raggiunto, dato che è il lato elastico del mercato che paga maggiormente la tassazione, e
che i costi da illegalità, come abbiamo visti, sono assimilabili a una tassa.
Naturalmente il discorso è del tutto diverso per le prostitute non impiegate da organizzazioni
criminali: esse sono a tutti gli effetti assimilabili ai lavoratori indipendenti, di cui non ci occupiamo
in questo corso.
9. Prostituzione: analisi normativa. Il mercato della prostituzione, come tutti i mercati del lavoro,
va opportunamente regolato. Questa regolazione deve tutelare i lavoratori contro lo sfruttamento e
la società contro eventuali esternalità. Cominciamo dal primo punto.
Se l'intera gestione dell'attività è criminale, è chiaro che effettuare controlli sulle condizioni di
lavoro che impediscano lo sfruttamento è impossibile, in primo luogo perché a differenza dei
lavoratori sfruttati in settori legali le lavoratrici stesse non sono interessate alla denuncia dei loro
sfruttatori: qualora tale denuncia fosse efficace, infatti, esse perderebbero il lavoro (senza contare i
rischi di rappresaglia da parte dei datori di lavoro).
Il primo passo per l'emancipazione delle prostitute dallo sfruttamento è quindi probabilmente la
legalizzazione dell'industria della prostituzione. Ciò da una parte creerebbe le condizioni minime
necessarie per un monitoraggio effettivo delle condizioni di lavoro, dall'altra renderebbe efficace la
lotta contro l'industria criminale, che sarebbe condannata a mercati sempre più di nicchia dalla
concorrenza di un'industria legale operante a costi più bassi, e potrebbe alla fine scomparire.
Si porrebbe poi il problema della gestione dell'industria, se cioè essa debba essere privata ma
sottoposta a forti controlli pubblici o pubblica. Qui entriamo in una branca dell'economia che
abbiamo solo sfiorato, ma che è molto rilevante, e cioè quella della efficienza relativa della gestione
pubblica e di quella privata. In generale, la gestione pubblica è tanto più preferibile quanto più sono
alti i rischi di fallimento del mercato. In questo caso i rischi, soprattutto di asimmetrie informative e
di sfruttamento, sono piuttosto elevati, quindi è plausibile che sia preferibile una gestione pubblica.
Ma solo studi approfonditi possono risolvere il problema.
Il discorso sulle esternalità può a questo punto essere molto breve. Esse sono di tre tipi: la
possibilità di diffusione di malattie e trasmissione sessuale9, la criminalità connessa allo
sfruttamento della prostituzione, e il degrado dei "quartieri a luci rosse". Il contrasto di tutte e tre è
pesantemente ostacolato dall'attuale regime di criminalizzazione: i managers criminali non hanno
alcun interesse a ritirare dall'industria una lavoratrice malata né a farsi carico della vivibilità del
quartiere in cui operano (dato che non sono sanzionabili se non lo fanno), e ovviamente il fatto
stesso che la loro attività sia criminale propizia la diffusione della criminalità. E' solo importante
sottolineare che un aspetto particolarmente grave di questa esternalità è la corruzione che
inevitabilmente si diffonde intorno alla attività delle organizzazioni criminali: le cifre ingenti che
vengono guadagnate servono (anche) a comprare la complicità di organi di polizia o delle autorità
preposte all'immigrazione. L'esempio del proibizionismo americano è di nuovo ben noto e probante.
La legalizzazione è quindi auspicabile anche dal punto di vista del controllo delle esternalità.
9
La protezione delle prostitute stesse rientra nella discussione dello sfruttamento.
7
10. Il lavoro domestico: introduzione. L'approccio economico allo studio del comportamento
consiste essenzialmente nell'assumere che gli esseri umani, nell'operare le loro scelte, vogliano
massimizzare una plausibile funzione di utilità - cioè fare "la cosa migliore per loro". Questa
impostazione generale si applica a tutte le scelte: e quindi anche a quelle famigliari. Quali sono le
principali scelte famigliari? E cosa può dirci di utile l'economia riguardo ad esse? Possiamo
ragionevolmente supporre che la risposta alla prima domanda sia quanti figli avere, come dividere il
lavoro all'interno della famiglia, e quando interrompere l'esistenza della famiglia, cioè quando
divorziare. La risposta a queste domande (e ad altre simili) costituisce una sottobranca della
microeconomia di grande interesse, e cioè appunto la economia della famiglia. Per restare
nell'ambito di questo corso ci occuperemo solo della seconda domanda, con qualche riferimento alla
terza. E' opportuno notare che l'economia della famiglia costituisce uno sviluppo molto notevole
rispetto all'economia tradizionale, la quale supponeva che in un'economia ci fossero quattro tipi di
operatori, e cioè l'estero, lo stato, le imprese e appunto le famiglie, che si supponeva volessero
massimizzare il loro benessere in quanto tali: le scelte intrafamigliari erano quindi escluse dallo
studio.
Prima di procedere, dobbiamo accettare alcuni assunti, che sono stati elaborati da altre scienze
(soprattutto l'antropologia, la biologia evoluzionistica e la sociobiologia10) e che quindi non ha
senso studiare qui e possiamo accettare. Essi sono i seguenti:
a) Gli esseri umani (come tutti gli altri) sono programmati a volere massimizzare la diffusione del
proprio patrimonio genetico nelle generazioni successive. Questo è un dato biologico, "siamo fatti
così".
b) La famiglia umana è tradizionalmente monogamica, nel senso che per l'allevamento dei figli
sono normalmente necessari entrambi i genitori. La compresenza dei genitori è anzi ciò che
definisce la famiglia: la famiglia come istituzione non esisterebbe se il modo più efficiente di
allevare i figli fosse un altro.
Questo però, a differenza del precedente, è un dato storico ed antropologico, non biologico; sono
concepibili situazioni in cui un genitore solo è sufficiente (su ciò torneremo più avanti in questa
lezione), o in cui l'allevamento dei figli è più efficiente in istituzioni più ampie. In effetti, la
famiglia come noi la conosciamo non esiste nelle società preagricole, e quindi dal punto di vista
della nostra storia come specie è un'invenzione estremamente recente. La famiglia, insomma, non è
"naturale".
11. La divisione del lavoro all'interno della famiglia, 1: l'autodiscriminazione. La tradizionale
divisione del lavoro all'interno della famiglia è schematicamente la seguente: l'uomo lavora per
procurare il reddito necessario alla famiglia, la donna si occupa dei lavori domestici (in primo luogo
la cura dei figli) e di attività produttive secondarie. Questa divisione dei compiti è del tutto ovvia in
una società agricola o basata sull'industria ad alta intensità di lavoro: le attività domestiche
richiedono un tempo e una fatica tali che l'eventuale guadagno che una donna potrebbe procurare
alla famiglia è talmente basso da rendere ingiustificato la riduzione delle attività domestiche che
tale attività comporterebbe; ed essendo l'uomo dotato di una massa muscolare maggiore, conviene
che sia lui a svolgere il lavoro extradomestico, tipicamente più faticoso. Come conseguenza, è
emersa una cultura (in senso antropologico: cioè un insieme di valori e di conoscenze comuni) che
punisce pesantemente, in termini di mancata stima e autostima, il maschio che lavora poco fuori
casa, il "casalingo", ma non la donna casalinga; è semai la donna che lavora che è giudicata male.
Per esempio, il manager che lavora tutta la settimana ma passa la domenica con i figli è
normalmente giudicato, anche e soprattutto in famiglia, un buon padre; mentre la manager che si
comporta allo stesso modo è di solito giudicata una madre trascurata, troppo ambiziosa, ecc.
10
Per un'ottima introduzione alla sociobiologia umana si può leggere Wilson, sulla natura umana, Zanichelli 1978;
all'antropologia Harris, Cannibali e re, Feltrinelli, 1980.
8
Questo retaggio culturale è certamente un fattore importante nello spiegare la tendenza, ancora
oggi diffusa, a un maggior impegno della donna nei lavori domestici e dell'uomo nei lavori esterni
alla famiglia. Ma ci sono anche motivi più direttamente economici, e più importanti. Prima di
discuterli, dobbiamo accettare i seguenti ulteriori assunti:
a) La famiglia intende massimizzare il reddito di lungo periodo della famiglia stessa; per una
famiglia ha quindi senso "fare sacrifici" oggi in cambio di migliori prospettive per domani. Questa
assunzione deriva direttamente dall'assunto a) del paragrafo 8.
b) I guadagni futuri attesi, cioè che si presume di ottenere domani sono tanto più bassi quanto più
l'attività lavorativa è discontinua e interrotta oggi.
c) Normalmente, all'inizio della famiglia l'uomo guadagna più della donna11.
In queste condizioni, diventa economicamente sensato che sia la donna a lavorare di meno al di
fuori della famiglia per dedicarsi alla cura dei figli. Infatti la sua attività sarà necessariamente
interrotta dalle maternità (punto b), la migliore condizione di partenza dell'uomo induce di solito a
puntare sulla sua carriera più che su quella della donna (punto c), e in generale converrà far sì che
l'uomo lavori più possibile "oggi che è giovane" per garantirsi un maggiore flusso di reddito nel
futuro (punto a); il che implica, data l'esistenza di un vincolo di bilancio (in questo caso di tempo e
di fatica) che lavori di meno nelle attività domestiche. A ciò si aggiungono altri due fattori: la
diffusa minore domanda di lavoro femminile a parità di mansioni, di cui abbiamo discusso nella
lezione sulla discriminazione; e il fatto che il maschio sarà più spinto a "fare carriera" della
femmina, in quanto se non la fa sarà più penalizzato in termini di reputazione e di autostima, come
abbiamo visto nella stessa lezione. A tutto ciò si aggiunge poi un ulteriore fattore che punta nella
stessa direzione, che vedremo nel paragrafo 13.
Anche qui le conseguenze normative sono importanti. Se si vuole contrastare
l'autodiscriminazione (ma non è detto che lo si voglia, né che sia opportuno contrastarla troppo)
intervenire sull'aspetto culturale è certamente utile; ma ancor più lo è intervenire sull'aspetto
economico, rendendo meno penalizzante possibile per una donna l'abbandono temporaneo del posto
di lavoro. Una donna lavoratrice dipendente ha normalmente diritto (come giusto) a un congedo
retribuito per maternità. Anche se la retribuzione in tal caso è a carico di enti pubblici, l'assenza
implica di per sé un costo per il datore di lavoro, il quale quindi sarà indotto ad assumere
preferibilmente maschi.
12. La divisione del lavoro all'interno della famiglia, 2: la crisi della famiglia. Abbiamo visto
che fattori tecnologici e culturali ostacolano la piena eguaglianza fra uomini e donne sul mercato
del lavoro. Ma il fatto stesso che sia possibile impostare questa problematica in questi termini indica
che nelle economie più avanzate siamo comunque lontanissimi dalla situazione che era normale
ancora molto recentemente (in Italia fino a poco più di una generazione fa), in cui la donna
tipicamente non lavorava. Questa rapida trasformazione è alla base della crisi della famiglia che
caratterizza pressoché universalmente le economie avanzate.
Anche qui operano fattori culturali ed economici. Sul piano culturale, la sanzione culturale verso
la donna che lavora si è sempre più attenuata; e soprattutto per le donne che hanno studiato, e quindi
che sentono come uno spreco il non utilizzo delle capacità acquisite, ha sovente cambiato segno. Le
donne percepiscono quindi sempre più come un sacrificio il doversi dedicare più dell'uomo alle
mansioni domestiche. Per quanto riguarda gli uomini, l'essere utili alla famiglia, e ricevere in
cambio da essa stima, affetto e sicurezza, è una delle principali motivazioni che inducono a
lavorare, e uno degli elementi fondanti della propria identità psicologica. L'emancipazione
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Questa assunzione (peraltro non essenziale per le argomentazioni successive) si basa sui dati empirici. Una sua
spiegazione è più avanti.
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lavorativa della donna mina entrambi questi fattori. E' evidente che la combinazione di tutti questi
effetti contribuisce a creare situazioni di crisi che possono facilmente portare al collasso della
famiglia. Alla crisi contribuisce infine lo stesso fattore aggiuntivo cui abbiamo accennato in
precedenza e di cui diremo nel paragrafo 13.
Tuttavia a noi interessano soprattutto i fattori propriamente economici. Che sono molteplici.
In primo luogo, per motivi essenzialmente tecnologici (il lavoro tipico è assai meno basato sulla
forza fisica, gli orari di lavoro si sono ridotti) e culturali (la diffusione dell'istruzione) l'accesso al
lavoro delle donne è diventato sempre più agevole. Ciò ha aumentato l'offerta di lavoro, e quindi
ridotto la retribuzione di equilibrio sul mercato del lavoro. Come conseguenza, è oggi sempre più
difficile mantenere una famiglia con un solo stipendio; la donna "deve" lavorare. Ma lavorando
diminuisce la sua dipendenza dall'uomo; la necessità economica della famiglia come tale viene
ridotta.
In secondo luogo, la crisi della famiglia è una conseguenza inevitabile di politiche sociali peraltro
assolutamente necessarie. La legislazione sul divorzio impone (giustamente) ai genitori l'obbligo
della assistenza economica dei figli e del coniuge non autosufficiente. Ma questo evidentemente fa
sì che la rottura della famiglia sia meno costosa: la donna che lascia il marito, o è lasciata, non è
ridotta sul lastrico, e ancor meno lo sono i figli. Inoltre, le politiche di assistenza all'infanzia si
basano sovente sull'assistenza ai soggetti deboli in quanto tali. Una ragazza madre può quindi
contare su un regime di assistenza che può essere preferibile alla convivenza con un uomo in
condizioni degradate. In effetti, questa politica contribuisce notevolmente alla gravità del problema
dei "figli senza padre" oggi in America. Infine, lo stato sociale riduce l'importanza della famiglia
come struttura di mutua assistenza.
In parole povere, e in generale: quanto più la famiglia è necessaria al benessere proprio e dei figli,
tanto più i soggetti coinvolti saranno restii a distruggerla, e tanto più facilmente riusciranno a
elaborare un insieme di rapporti affettivi propizi alla vita in famiglia. Viceversa, quanto più la
famiglia è "superflua", come sempre più sta diventando, tanto meno costoso sarà abbandonarla, e
tanto più facilmente gli stimoli (economici, affettivi, culturali) che provengono dall'esterno
potranno distruggerla.
In linea di principio, la soluzione può essere cercata in due direzioni. La prima consiste
nell'accettare la fine della famiglia; dopotutto la famiglia è un'istituzione storica, legata a un
particolare modo di produzione, che esiste da poche migliaia di anni e non c'è motivo che esista per
sempre. In quest'ottica la famiglia dovrebbe essere considerata un'istituzione sostanzialmente
temporanea, utile nella fase di allevamento dei figli minori e che può poi dissolversi senza traumi.
La seconda consiste nel riorientare le politiche di assistenza più verso la famiglia e meno verso
l'individuo. E' ovviamente possibile ogni combinazione delle due impostazioni.
13. Gelosia, ipergamia ed economia della famiglia. Nella scelta del partner con cui fondare una
famiglia, le donne (ma anche le femmine di altre speci) tendono a privilegiare uomini di condizione
sociale superiore (ipergamia) e gli uomini donne di condizione sociale inferiore (ipogamia). Questo
è un dato empirico; la spiegazione più accreditata, e plausibile, di questo fenomeno è che la
femmina cerca di assicurare il massimo di supporto alla sua prole, e il maschio cerca di ridurre al
minimo il rischio che la prole generata non sia sua, tramite il potere di cui egli gode nei confronti
della femmina (che qualora venisse abbandonata perderebbe il suo status). E' aperta la discussione
(ed è una discussione di estremo interesse) su quanto questo atteggiamento sia determinato
geneticamente e quanto culturalmente. Per il nostro discorso comunque è un dato di partenza che
diamo per accettato, data la sua diffusione; quelle che ci interessano sono le conseguenze sui
comportamenti lavorativi famigliari. Come abbiamo accennato, questo fattore rafforza dei risultati
cui eravamo arrivati in precedenza.
In primo luogo, ne risulta accentuata la divisione del lavoro all'interno della famiglia, con l'uomo
che lavora e la donna che fa la casalinga, oppure con il lavoro della donna secondario rispetto a
quello dell'uomo. Infatti l'uomo è danneggiato dall' attività esterna alla famiglia della donna, in
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quanto questo riduce il suo potere. Ciò impone alla donna un costo aggiuntivo nella sua attività
extradomestica, costituito dai problemi di coppia che vengono a crearsi. In secondo luogo, è
propiziata la crisi della famiglia. La donna normalmente oggi lavora, almeno nelle economie
sviluppate; lavorando potrà "fare carriera", nel qual caso è possibile che sfugga alla condizione di
inferiorità sociale rispetto al marito, con il rischio di crisi sia per la tendenza di questi all'ipogamia,
sia per la sua all'ipergamia. Infatti, l'uomo sarà a disagio in presenza di una moglie meno inferiore
di prima, e la donna stessa a disagio di fronte a un uomo meno superiore di prima. Naturalmente, la
donna potrà rinunciare a fare carriera per evitare questa crisi, accumulando però frustrazione, oltre
ad andare più facilmente incontro a difficoltà economiche. In entrambi i casi la famiglia sarà
pericolante.
14. Gelosia, ipergamia e discriminazione. Questa tendenza incrociata all'ipergamia-ipogamia
contribuisce anche a spiegare (ma solo in parte, come abbiamo visto) la discriminazione nei
confronti della donna sul mercato del lavoro, di cui abbiamo discusso nella lezione precedente.
Infatti, "facendo carriera" l'uomo aumenta il suo reddito e anche il suo prestigio presso l'altro sesso,
allarga quindi la platea di partners potenzialmente disponibili; mentre la donna aumenta il suo
reddito ma riduce il numero di partners potenzialmente disponibili, dato che lo sono solo quelli al
disopra di lei nella scala sociale. L'uomo è quindi più incentivato a fare carriera, e la donna meno, di
quanto lo sarebbero in assenza di questo fattore. Come risultato, man mano che si sale nella scala
sociale si riducono sia la domanda (a causa del soffitto di vetro) che l'offerta di lavoro femminile (a
causa dell'ipergamia). Come potete verificare graficamente per esercizio, l'occupazione femminile è
quindi sicuramente più bassa di quella maschile, mentre l'effetto sul salario è indeterminato; il fatto
che a parità di mansioni le retribuzioni siano mediamente più basse per le donne sembra indicare
che il soffitto di vetro è una causa importante se non prevalente.
15. Alcune conclusioni generali. Gli argomenti di questo corso, e sopratutto di questa lezione,
richiedono la accettazione di cinque principi fondamentali dell'economia, che è molto importante
conoscere e che quindi enunciamo qui. In effetti, "pensare come un economista" significa
essenzialmente avere sempre presenti questi principi. Essi non riguardano specificamente questo
corso, ma dato che in esso ci siamo sforzati di applicare la strumentazione economica ad argomenti
a volte ritenuti non di pertinenza di questa scienza, le conclusioni di esso possono essere un buon
momento per impararli. Del primo (ma non degli altri) abbiamo già parlato ampiamente. Eccoli.
1. Gli esseri umani di solito agiscono razionalmente, nel senso che quando operano una scelta
cercano di massimizzare la differenza fra i ricavi e i costi, non solo monetari, di quella scelta. Per
esempio, abbiamo spiegato in questi termini la coppia ipergamia/ipogamia.
2. Non esiste nessun motivo a priori per proibire qualcosa; ogni proibizione va giustificata sulla
base di ragioni accettate dalla collettività.
3. In presenza di una domanda significativa ci sarà una fortissima tendenza alla creazione della
relativa offerta. Per esempio, se "la gente" volesse gli spettacoli gladiatori, qualcuno finirebbe per
organizzarli.
4. La domanda e l'offerta tendono sempre a incontrarsi. Cercare di impedire che ciò avvenga è di
solito vano, e ha di solito come conseguenza principale la diffusione del mercato nero e dei
fenomeni di corruzione che ne conseguono.
5. Un problema economico normativo è sempre un problema di confronto fra costi e benefici. E'
ovvio che sarebbe bene che la gente non fumasse, non bevesse liquori e non consumasse droghe
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pesanti: ma ciò non consente di dire che allora è bene proibire la produzione di questi beni. Non
perché ciò sia impossibile, ma perché i costi per la società connessi a questa proibizione
produrrebbero (e in un caso probabilmente producono) danni maggiori rispetto alla loro diffusione:
in termini per esempio di risorse da dedicare alla repressione del loro mercato, di delinquenza, di
danni alla salute dovuti alla difficoltà di controlli sanitari, ecc.
Infine, mi auguro che queste lezioni vi siano state utili. Sarò grato a chiunque voglia segnalarmi
errori, possibili miglioramenti, eccetera.
Guido Ortona, [email protected], 2013-2014.
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Esercizi
1. Ci sono molti argomenti a favore di una normalizzazione di mercati illegali o semilegali quali
quello delle droghe leggere o della prostituzione. Perché secondo voi questi argomenti sono
trascurati dal dibattito politico?
2. Nonostante l'evidenza del proibizionismo anti-alccolico negli USA prebellici, oggi il
proibizionismo è molto diffuso. Perchè, secondo voi?
3. Perché secondo voi la prostituzione è giudicata immorale?
4. Un'eventuale (ma estremamente improbabile) drastica riduzione della domanda di prostituzione
dovuta a una scelta morale migliorerebbe le condizioni delle prostitute?
5. Nella lezione abbiamo parlato degli stereotipi correnti a proposito delle casalinghe e delle donne
lavoratrici. Pensate a qualche film che rappresenti tali stereotipi.
6. Verificate mediante un grafico quanto affermato alla fine del paragrafo 12.
7. Quale è la variazione percentuale media del numero di matrimoni in Italia negli ultimi anni? E di
quello dei divorzi? [usate il sito dell'ISTAT]
8. Quale è oggi il numero medio di nascite per donna in Italia? Ci sono significative differenze
regionali? [come sopra]
9. Quanto costa allevare un figlio? Potete rispondere in due modi, elencando le voci di costo e
stimando un costo approssimativo per ogni voce, oppure cercando mediante un'opportuna ricerca
bibliografica i risultati delle ricerche che sono state effettuate sull'argomento.
10. Come si è accennato nel testo, la forma di famiglia tipica delle società sviluppate è la coppia
monogamica. Esistono però, o sono esistiti, anche altri tipi: cercate quali.
11. E quali sono le forme di famiglia più diffuse fra gli altri mammiferi?
12. "Se una droga è nociva, bisogna proibirla". Siete d'accordo? Elencate i pro e i contro del
proibizionismo, e cercate dei dati a suffragio delle diverse ipotesi.
13. Una questione molto dibattuta dalla letteratura femminista è quella del salario alle casalinghe,
vale a dire di una retribuzione, pagata dallo stato, a chi svolga solo lavoro domestico. Pensate a
possibili pro e contro di questa politica.
14. La curva di offerta di lavoro di un criminale sarà diversa da quella di un lavoratore normale?
15. Sul mercato del lavoro della prostituzione le curve di domanda e offerta sono rigide o elastiche?
Quale sarà l'effetto di un aumento della repressione sull'equilibrio di un mercato?
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