Lucidi relativi alla parte del manuale di Enrico Pattaro intitolata “Parte seconda. Prosepettiva sincronica” Solo relativamente a: capp. 7, 8 cap. 10 (pp. 199-235) (pp. 269-299) Avvertenza: QUESTI LUCIDI NON SONO DA CONSIDERARSI SOSTITUTIVI DELLE PARTI DEL MANUALE QUI INDICATE. SONO INVECE DA UTILIZZARSI COME MERO SUPPORTO ALLA LORO COMPRENSIONE. 1 DIRITTO OGGETTIVO E DIRITTO SOGGETTIVO Nei Paesi si civil law si distingue tra diritto oggettivo e soggettivo. Il primo è la regola di condotta obbligatoria (norma agendi), mentre il secondo è la facoltà, o pretesa, o potere normativo di agire (facultas agendi). Si ha il diritto soggettivo di agire o comportarsi in un certo modo in virtù di una norma del diritto oggettivo. È quindi il diritto oggettivo (norma) a conferire diritti soggettivi, imponendo contemporaneamente obblighi a qualcun altro: non vi è diritto soggettivo senza diritto oggettivo, e viceversa. Ad es., una norma sulla proprietà stabilisce diritti soggettivi per alcuni (i proprietari) e obblighi per altri (i non proprietari). Diritto oggettivo e soggettvo si implicano reciprocamente e si pongono in maniera simultanea. Si dice infatti che sono lo stesso diritto inteso in due sensi diversi. Ad es., il diritto di proprietà, se considerato rispetto al soggetto proprietario, è un insieme di poteri o facoltà normativi. Se invece è considerato in senso oggettivo è un insieme di norme che costituisce l’istituto della proprietà. Passiamo ora a considerare la norma agendi o norma di condotta obbligatoria nella prosepttiva di Enrico Pattaro. Per EP la norma del diritto non è né un’entità che sussiste a dispetto della realtà di fatto (in altri termini, la teoria di EP si contrappone al giusnaturalismo), né qualcosa di ideale che sussiste nel mondo del dover essere (la toeria di EP si contrappone a quella di H. Kelsen). 2 In quanto realista giuridico normativista, infatti, EP ritiene che le norme (diritto oggettivo) sussistano esclusivamene come fenomeni psichici, e come moventi delle azioni umane, che operano in un contesto costituito dai fenomeni sociali e culturali in genere. Dal punto di vista della teoria del diritto giuspositivistica, invece, il diritto oggettivo è un insieme di norme connesse tra loro da un vincolo di validità, e che possiedono alcune caratteristiche o caratteri differenziali. “Caratteri differenziali” significa che se le norme giuridiche non possiedono tali caratteristiche, allora non sono norme del diritto. Tali caratteri sono 6: bilateralità, astrattezza, generalità, imperatività, coercibilità, certezza. Della BILATERALITÀ abbiamo già parlato. Si dice infatti che mentre la norma, da un lato, attribuisce diritti a un soggetto, dall’altro lato, impone obblighi a un altro soggetto. Quindi la norma che impone obblighi e attribuisce diritti è diritto oggettivo. Mentre i diritti e gli obblighi attribuiti o imposti dalla norma sono diritto soggettivo. Al tema della bilateralità si riconnette quello del “rapporto giuridico” che si manifesta tra due soggetti tali che, mentre all’uno compete un diritto soggetivo (soggetto attivo), all’altro compete un obbligo (soggetto passivo). Diritto soggettivo e obbligo relativi a un determinato rapporto giuridico implicano sempre un oggetto su cui verte il rapporto. L’oggetto del rapporto è sempre un bene giuridico, che però non è sempre qualcosa di meramente materiale. Infatti, nel caso in cui il bene oggetto del rapporto è una cosa, il diritto soggettivo e il rapporto stesso di dicono reali (ad es., proprietà, usufrutto, ipoteca, ecc.). Nel caso dei diritti reali il diritto soggettivo è un diritto erga omnes o assoluto. 3 Quando il bene oggetto del rapporto è una prerogativa della persona umana (ad. es., vita, libertà, onore, ecc.), il diritto soggettivo che il rapporto implica si dice diritto della personalità. Anche nel caso dei diritti della personalità il diritto soggettivo è un diritto erga omnes o assoluto. Infatti, a fronte del soggetto attivo titolare del diritto soggettivo, tutti gli altri soggetti giuridici (consociati) sono da considerarsi soggetti passivi sui quali incombe l’obbligo di rispettare i diritti del soggetto attivo. Quando il bene oggetto del rapporto giuridico è un comportamento di una persona, il rapporto giuridico si dice rapporto di obbligazione, e il diritto soggettivo implicato viene chiamato diritto di obbligazione. I diritti di obbligazione non sono assoluti (erga omnes), bensì relativi. Infatti, in relazione al soggetto attivo titolare del diritto soggettivo, il soggetto passivo su cui incombe l’obbligo di tenere un certo comportamento (di fare/dare o non fare/dare qualcosa) non coincide con la generalità dei consociati. I diritti di obbligazione possono essere patrimoniali o non patrimoniali. Nel primo caso sono rapporti e diritti di obbligazione in senso stretto (ovvero rapporti e diritti di credito), nel secondo caso indicano rapporti di famiglia (tra genitori e figli, tra fratelli, tra coniugi, ecc.). Nel caso dei rapporti di obbligazione patrimoniali il comportamento che consiste nel fare/dare qualcosa viene detto prestazione. NB: A questo punto, nel manuale di E. Pattaro compaiono le nozioni di fatto e atto giuridico (in senso lato e senso stretto) e di negozio giuridico, schematizzati a partire dalla fine della pagina 209 fino alla fine di pagina 212. Sono molto importanti anche ai fini del test d’esame. DI QUESTE NOZIONI NON SI PARLA IN QUESTI LUCIDI. 4 Quello che qui occorre sottolineare è che fatti giuridici, atti e negozi giuridici appartengono al mondo dell’essere, ma producono effetti giuridici nel mondo del dovere essere (producono cioè effetti che hanno il carattere della doverosità). Atti, fatti e negozi che producono effetti giuridici sono solo quelli riconosiuti giuridici dal diritto oggettivo (norma). Veniamo ora al carattere giuridico della IMPERATIVITÀ. Il problema di questa caratteristica del diritto è che viene riferita all’uso prescrittivo o imperativo del linguaggio (ad es., N. Bobbio, U. Scarpelli); infatti l’approccio linguistico fa coincidere l’imperatività col carattere della obbligatorietà delle norme. Questo non va bene a Pattaro il quale, come sapete, non riduce la normatività del diritto al carattere linguistico della norma. Tuttavia poiché questo approccio è presente nella teoria del diritto EP ve ne parla rilevando che l’approccio imperativistico/linguistico deve affrontare il problema della presenza nell’ordinamento di tipi di norme che non hanno carattere esplicitamente o spiccatamente imperativo. Si tratta delle norme (1) permissive, (2) finali e/o strumentali, (3) dispositive e tassative. Norme come (1) (ad es., art. 47 c.c. “Si può eleggere domicilio speciale per determinati atti o affari”) non obbligano né comandono, ma permettono. Per salvare il carattere imperativo delle norme permissive si ricorre perciò all’argomento della bilateralità: in altre parole, si dice che la legge, se concede permessi, contemporaneamente impone obblighi, e quindi resta imperativa. Oppure si ricorre all’argomento dell’eccezione. In altre parole, si dice che la legge concede un permesso in quanto vige una norma imperativa più generale, e quindi si interpreta il permeso come eccezione a un imperativo. 5 Passiamo alle norme finali o strumentali, ad es., “il testamento olografo deve essere scritto per intero, datato e sottoscritto di mano del testatore” (art. 602 c.c.). Secondo EP non è vero – come sosiene parte della dottrina – che norme come questa, oltre a non essere imperative, non sono nemmeno norme in senso stretto. In realtà sono obbligatorie per i loro destinatari e quindi hanno carattere imperativo. In particolare, le norme finali o strumentali come “fare un testamento olografo” vincolano sia il comportamento del destinatario immediato, sia quello dei giudici o dei funzionari, perché stabiliscono le modalità di comportamento nel caso in cui si vogliano raggiungere determinati scopi. Sono norme che non impongono il fine (infatti non c’è alcun obbligo di redigere un testamento olografo), ma prescrivono il mezzo per raggiungerlo. Infine, per le norme dispositive o tassative (ad es., “L’eredità si devolve per legge o per testamento. Non si fa luogo alla successione legittima se non quando manca quella testamentaria”, art. 457 c.c.), si dice che le prime (tassative) devono essere obbedite dai destinatari, mentre le seconde (dispositive) solo in quanto i destinatri non manifestino una volontà contraria. Anche le norme dispositive sono imperative (obbligatorie). Infatti i loro destinatari vi obbediscono condizionatamente: le norme dispositive sono infatti imperativi condizionati alla mancanza di una diversa manifestazione di volontà del destinatario. Infatti, se un soggetto non fa testamento allora diverranno imperative le disposizioni del codice sulla successione legittima (art. 457 c.c.). 6 Veniamo ora al carattere giuridico della ASTRATTEZZA. Le norme giuridiche sono astratte perché non disciplinano caso per caso, o comportamento per comportameno, ma disciplinano classi di casi e di comportamenti – quindi non sono concrete. L’astrattezza, oltre che essere un carattere della norma, è anche un valore: tutela l’imparzialità dell’applicazione della norma. Ciò che è astratto in una norma o direttiva giuridica è, come sappiamo, la fattispecie astratta in essa contenuta. Per questo le norme hanno bisogno di un’attività interpretativa (di cui parleremo più avanti). Quanto alla GENERALITÀ, si dice che la norma giuridica è generale in quanto non è individuale, ovvero non si rivolge a un solo destinatario ma a una generalità di destinatari, a una categoria di persone (le sentenze dei giudici costituiscono ovviamente un’eccezione). La generalità, come l’astrattezza, è un valore e una garanzia contro il privilegio e l’abuso, in quanto le norme giuridiche che si rivolgono a tutti i cittadini (o a una categoria di persone) rispettano il principio di eguaglianza e di pari trattamento di fronte alla legge. Anche il carattere della generalità comporta evidentemente operazioni interpretative. Quanto alla COERCIBILITÀ, la si intende come la possibilità giuridica della coazione. Non è quindi una caratteristica della norma come espressione linguistica (al pari di astrattezza, generalità, imperatività). 7 Si dice infatti che in un ordinamento le norme giuridiche primarie o di condotta sono coercibili (o meglio: sono coercibli i comportamenti da esse prescritti) grazie alle norme giuridiche secondarie o sanzionatorie (di competenza) – quelle che non si rivoglono a tutti i consociati ma solo ai giudici e agli apparati coercitivi dello stato. Quindi le norme primarie sono coercibili grazi a quelle secondarie. Quindi vi sono norme che prescrivono l’uso della forza (ai giudici e agli apparati coercitivi), e ci sono norme (quelle di condotta) corroborate, nella loro efficacia, dall’uso della forza (attuale o possibile). Infine viene il carattere della CERTEZZA, che è un ideale del diritto. La certezza è relativa alla non commissione di abusi (astrattezza, generalità), e alla prevedibilità delle conseguenze giuridiche dei nostri atti. Essa è pertanto, e soprattutto, un’esigenza etica più che una caratteristica effettiva del diritto. Anche la certezza, come la coercibilità, non è una caratteristica linguistica, ma dipende dalla regolarità, costanza, uniformità nell’uso della forza da parte dei giudici e degli apparati coercitivi dello stato. La certezza dipende inoltre dalla possibilità di conoscenza delle norme da parte dei destinatari; dalla consapevolezza che di tali norme verrà data un’interpretazione coincidente con quella dei destinatari. Ma la certezza dipende anche dalla fiducia nella effettività dell’ordinamento – e della conseguente applicazione delle direttive o norme contenute in esso. Anche la certezza, dunque, non è una caratteristica intrinseca delle norme ma esterna a esse (esattamente come la coercibilità), ed è in particolare un’esigenza etico-politica per realizzare la quale occorrono condizioni di stabilità e coesione sociale. 8 LINGUAGGIO E INTERPRETAZIONE DEL DIRITTO Enrico Pattaro scrive che usi ed effetti (dell’uso) del linguaggio portano a distinguere tra emittente – che è colui che usa il linguaggio – e fruitore (destinatario) dell’effetto comunicativo derivante da un certo uso (da parte dell’emittente). Ogni espressione linguistica può costituire per un fruitore un sintomo che induce a inferire credenze, nel senso che il fruitore è portato a fare illazioni (effetto illativo) sotto forma di opinioni o credenze. Ogni espressione linguistica è però in se stessa un segno linguistico, che sta per qualcos’altro – si riferisce a qualcosa fuori dal linguaggio. EP sostiene le seguenti tesi: I sintomi e i loro effetti illativi si danno anche al di fuori della comunicazione linguistica (possono essere stati di cose al di fuori della dimensione linguistica). Nella comunicazione linguistica i segni possono essere a loro volta sintomi (per es., l’imperativo “Taci!”, o l’espressione “che freddo!” che è sintomo di disagio) Gli effetti illativi possono dipendere anche da fattori non linguistici né comunicativi (ad esempio dalla credibilità dell’emittente, dalla fiducia di cui gode). Veniamo ora ai possibili usi del linguaggio. Essi sono quattro: sintomatico (di cui abbiamo già parlato), dichiarativo, rappresentativo, direttivo. 9 Partiamo dall’uso rappresentativo del linguaggio. È quello che si ha quando si usano le parole per rappresentare qualcosa – ad es. “mare”, che in italiano rappresenta lo stesso oggetto rappresentato da “sea” in inglese e “Meer” in tedesco. L’effetto che tale uso ha su un fruitore viene detto effetto comunicativo semantico ed è dovuto alla capacità che il fuitore ha di collegare l’uso del segno linguistico (parola) al suo significato. “Significato” è appunto l’effetto semantico che una comunicazione linguistica provoca nel fruitore. Si dice che i singoli segni linguistici (“blu”, “mare”) hanno significato solo nel contesto di un enunciato, e concorrono a determinare il significato dell’enunciato intero. In generale, il significato di un enunciato prende il nome di “contenuto proposizionale”. Ma se l’enunciato è una dichirazione allora il suo significato si chiama proposizione, che può essere vera o falsa. Il contenuto proposizionale invece non è né vero né falso (a meno che non coincida con la proposizione). Veniano ora all’uso dichiarativo del linguaggio. Esso si verifica quando l’emittente asserisce che le cose stanno in un certo modo, che le cose stanno come lui le rappresenta (abbiamo quindi sia uso dichiarativo, sia rappresentativo). L’effetto comunicativo semantico dell’uso dichiarativo del linguaggio è dunque una proposizione, ma come uso semantico non dipende dall’uso dichiarativo bensì dall’uso rappresentativo, senza il quale non si può avere né uso dichiarativo, né, ad esempio, direttivo. 10 Per quanto riguarda l’uso direttivo del linguaggio, esso serve a far fare qualcosa a qualcuno, cioè a produrre espressioni linguistiche come direttive. Questo uso prescinde dall’efficacia sul fruitore. Inoltre, l’espressione lunguistica direttiva che, in presenza di altri fattori come causae agendi o moventi del comportamento, induce il fruitore a fare qualcosa, si chiama espressione linguistica conativa. Essa prescinde però dall’uso cui l’espressione linguistica è deputata. Ma andiamo per gradi. Nel caso in cui l’uso direttivo sia chiaramente espresso (ad es., con un imperativo) e il contesto d’uso del linguaggio sia altrettanto chiaro, il fruitore avrà sintomi sufficienti per arguire e comprendere (effetto illativo) che l’emittente ha emesso una direttiva che prescrive qualcosa. Il primo effetto dell’uso direttivo del linguaggio è dunque illativo. Tuttavia, questo porterà il fruitore a cogliere anche il comportamento prescrito dalla direttiva. Avremo cioè un effetto semantico della comunicazione. Ma se la direttiva induce il fruitore a tenere quel comportamento, allora si parlerà anche di effetto conativo, che è ciò che induce nel fruitore un impulso ad agire. Tuttavia sappiamo bene che non è sufficiente un uso direttivo del linguaggio affinché un’esprssione linguistica provochi un effetto conativo. Esso dipende infatti dai moventi (causae agendi) del comportamento, intesi come interessi, bisogni, norme o valori del fruitore (vedi lucidi relaitivi alla Parte III del manuale). Quindi effetto conativo si può avere anche con un uso del linguaggio che non è direttivo. 11 SINIFICANTE E SIGNIFICATO Il significante è il segno linguistico (parola, enunciato), il sigificato è invece il riferimento (ovvero ciò cui la parola o segno si riferisce). Secondo EP il rapporto significante-significato non è intrinseco (immanente, interno) ai significanti, perché i significati (riferimenti) non stanno né nelle parole né negli enunciati, ma sono un FATTO MENTALE del fruitore. In sostanza, i significati sono collegati ai significanti nella mente dei fruitori. Quando gli stessi significati sono collegati agli stessi significanti da parte di fruitori diversi, allora il significato è CONDIVISO (e non: oggettivo). * Se tale condivisione è bassa (o manca del tutto) si dice che il significante è AMBIGUO. * Se invece la condivisione di significato è elevata, si parla di significato UNIVOCO. Questo induce EP a ritenere che ambiguità e univocità non siano tanto qualità del significato, quanto piuttosto del significante. Infatti il significato (effetto semantico) è quello che è presente in ogni fruitore nel momento in cui questi fruisce l’enunciato linguistico. Infine, si dice referente l’oggetto attuale (evento, stato di cose, persona, comportamento, ecc.) al quale il riferimento rinvia. I significati, cioè le rappresentazioni, che si riferiscono a referenti e li rappresentano, sono sempre astratti, e talvolta vaghi. Solo i referenti attuali sono concreti. 12 Le parole (significanti) ricorrono quasi sempre non isolatamente ma in contesti discorsivi che incidono sul loro effetto semantico, talvolta modificandolo. Quindi il significato dei singoli significanti può essere diverso a seconda dei diversi contesti discorsivi. Pertanto, nella definizione che EP dà di “significato” di un significante è inclusa la eventuale collocazione del significante in un contesto discorsivo. Questo risulta significativo dal punto di vista della interpretazione di testi GIURIDICI. Infatti le parole di un testo giuridico hanno un significato letterale variabile a seconda della combinazione delle parole stesse (vedi menzione del significato letterale all’ art. 12 delle Preleggi, o Disposizioni preliminari al codice civile). Ma il significato delle parole può anche essere ambiguo, dubbio, plurimo (non univoco), può non corrispondere all’intenzione di chi le ha emesse (legislatore). Questo serve a Pattaro per dire che il “significato proprio delle parole” (art. 12 delle Preleggi, primo comma) non deve essere inteso come immanente alle parole stesse. Si tratta infatti di effetti semantici suscitati da certe parole presso certi fruitori che condividono gli stessi usi linguistici. Infatti il significato di un’espressione linguistica non è una qualità dell’enunciato o parola, ma l’effetto semantico che essi provocano nel fruitore. Questo rende ambiguo anche il significato letterale (più correttamente: il significante risulta ambiguo alla mente del fruitore). Inoltre, una parola o un enunciato hanno più di un significato (hanno un significato plurimo) quando provocano diversi effetti semantici (rappesentazioni) in uno o più fruitori. (Ad es., “pesca” può suscitare l’effetto semantico di una particolare attività sportiva, o di un frutto.) 13 Infine, il nesso tra significato di una espressione linguistica e l’intenzione di chi la emette viene suggerita anch’esso nell’articolo 12 (primo comma) delle disposizini preliminari al codice civile che distingue tra significato delle parole (per es. di una legge) e intenzione di chi ha emesso una certa legge (ad es., il legislatore), implicando in tal modo che la comprensione di un testo legislativo comporta la sua INTERPRETAZIONE, cioà una speciale attività che mira a stabilire il significato di un enunciato (ad attribuire un significato a un enunciato). Quando si parla di interpretazione occorre tuttavia distinguere, come fa Alf Ross, tra “interpretazione come attività” e “interpretazione come risultato”. La prima espressione rinvia a tutte le operazioni mediante cui gli interpreti mirano ad attribuire significati alle disposizioni giuridiche. La seconda rinvia invece al risultato di questa attività che può essere solamente l’interpretazione del diritto (esistente), oppure può consistere nella produzione di una nuova direttiva, cioè nell’integrazione di una lacuna del diritto (questo avviene ad esempio quando l’attività interpretativa coincide con l’analogia legis, l’analogia iuris, o l’argomento a fortiori). TIPI DI INTERPRETAZIONE Assumendo che il confine tra interpretazione come attività o come risultato non è sempre così definibile, occorre in ogni caso distiguere diversi tipi di interpretazione giuridica: a seconda degli interpreti, dei modi interpretativi, o dei risultati. 14 Rispetto ai soggetti che compiono attività interpretative in ambito giuridico si distingue tra: Interpretazione autentica, fatta dall’organo che ha emanato la direttiva giuridica, e il cui risultato è l’emanazione di una nuova direttiva che sostituisca quella originaria. Interpretazione giurisprudenziale, fatta dai giudici nell’esercizio della funzione giurisdizionale, e il cui risultato sono direttive individuali contenute in sentenze. Interpretazione dottrinale, fatta dai giuristi, che può avere come risultato direttive che possono avere effetti conativi (influenza) su altri giuristi, o su altri giuidici, ecc. Infatti EP sostiene che la dottrina giuridica è fonte secondaria e indiretta del diritto (nel senso che non vi è l’obbligo di attenersi alla dottrina giuridica come a fonte di produzione del diritto, ma ciononostante la dottrina influenza il comportamento e le decisioni future degli organi). Relativamente ai modi interpretativi si distingue tra: Interpretazione letterale (o grammaticale, o lessicale) mediante cui l’interprete si attiene al “significato proprio delle parole” (art. 12, primo comma, Preleggi). Interpretazione sistematica, mediante cui l’interprete tiene conto non solo della singola direttiva ma anche delle fattispecie astratte di tutte le altre direttive giuridiche (dell’ordinamento in generale, o di una sua branca) presupponendo coerenza interna. Interpretazone logica, mediante cui l’interprete fa riferimento all’intenzione del legislatore (art. 12, primo comma, Preleggi). Si distingue da quella sistematica in quanto quest’ultima si attiene al testo della legge, mentre la logica è extratestuale. 15 Siccome la nozione di “intenzione del legislatore” è piuttosto sfuggente, solitamente l’interprete fa riferimento a tre tipi di argomento che la specificano: storico, teleologico, economico. Con l’argomento storico il giurista presume un legislatore conservatore che induce a non discostarsi dallo spirito originario con cui ha fatto e farà certe leggi. Con l’argomento teleologico il giurista presume un legislatore dotato di fini cui informare la produzione legislativa come ispirata a una certa idea di società. Con l’argomento economico il giurista presume un legislatore non ridondante, che produca disposizioni di legge ognuna con un suo significato peculiare. Infine, l’espressione “intenzione del legislatore” ha a che fare coi cosiddetti lavori preparatori di una legge. L’interpretazione a seconda dei risultati si distingue in: Interpretazione dichiarativa, che coincide col significato proprio delle parole, cioè col dettato proprio della legge (presumendo che il legislatore abbia detto esattamente ciò che voleva dire) (di solito si arriva a tale risultato con l’interpretazione letterale, sistematica o logica); Interpretazione restrittiva, che coincide con il significato più restrittivo del dettato della legge (vi si arriva di solito con l’interpretazione sisematica o logica). Interpretazione estensiva, che coincide con il significato più ampio del dettato della legge e serve a precisare una direttiva esistente. Bisogna infatti DISTINGUERE l’interpretazione estensiva DALL’ANALOGIA (legis e iuris) cui si ricorre in caso di lacuna giuridica producendo una nuova direttiva. Questo presuppone l’ideale della completezza dell’ordinamento, sviluppato e discusso nel cap. 11 del manuale. 16