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L'ITALIA NELLA PRIMA META' DEL 1600 - Dopo il 1598 comincia ad incrinarsi la
soggezione dell'Italia alla politica degli Asburgo.
La nuova direzione della vita politica italiana ha le proprie radici nella mutata
situazione internazionale dopo la pace di Vervins. La Spagna non ha più il prestigio
che pochi anni prima terrorizzava gli stati italiani. Viceversa lo stato francese è
ritornato unito con Enrico IV e fa sentire la propria influenza negli affari
internazionali. Gli stati italiani intravedono la possibilità di una politica più libera nei
confronti del loro più potente vicino.
In Italia qualcosa si sveglia. A cavallo tra il 500 e il 600 avviene una ripresa della
cultura. Ricordiamo solo GALILEO GALILEI (1564-1642), le nuove prospettive
teologiche di GIORDANO BRUNO (1548-1600) e TOMMASO CAMPANELLA (1568 1639) . Nel campo della critica politica della storia, ENRICO CATERINO DAVILA
(1576-1630) pubblica la sua Storia delle guerre civili di Francia (1630), Traiano
Boccalini (1566-1618) nei suoi "Ragguagli dal Parnaso" condanna con feroce ironia il
malgoverno spagnolo e frate PAOLO SARPI (1552 1632), scienziato, teologo, giurista,
storico, attacca violentemente i gesuiti e l'autorità assoluta dei pontefici nella Storia
del Concilio Tridentino (1619).
Naturalmente la repressione da parte della Spagna e della Curia Romana è pronta e
feroce. GIORDANO BRUNO muore sul rogo. TRAIANO BOCCALINI morì forse
avvelenato per mano degli Spagnoli. GALILEO GALILEI viene tradotto davanti
all'Inquisizione e costretto ad una ritrattazione umiliante. FRA PAOLO SARPI è
pugnalato da emissari della Curia. TOMMASO CAMPANELLA trascorre ventisette
anni nelle carceri degli Spagnoli e della Inquisizione. Solo Venezia accoglie questo
anelito di nuovi orizzonti scientifici e filosofici. Ricordiamo anche l'università di
Padova, dove insegnò Galileo. In economia la ricchezza italiana del Rinascimento è
tramontata per colpa delle guerre, del malgoverno spagnolo, dell'inflazione provocata
dall'argento americano, dei nuovi mercati aperti dalle rotte oceaniche. Nei primi anni
del 600 si assiste comunque ad una ripresa del Mediterraneo di cui si avvantaggiano
Venezia, Genova e Livorno. La rovina di Anversa e i continui attacchi alle navi
Spagnole da parte di Inglesi e Olandesi fecero riapparire le spezie sui mercati del
levante a vantaggio di Venezia, che conservò anche la sua preminenza nel commercio
dei cammei con l'impero Ottomano.
Le difficoltà finanziarie della Spagna consentono guadagni enormi ai banchieri
genovesi, che finanziano le folli imprese dell'impero spagnolo.
La Spagna, combattendo contro gli Olandesi e in Germania e non potendo più servirsi
delle rotte atlantiche saldamente in mano dei nemici, per comunicare con i campi di
guerra è costretta a fare affluire i suoi uomini a Genova per farli proseguire via terra
attraverso il Piemonte o la Lombardia, alla volta dell'Europa settentrionale. Da qui
tanti conflitti fra la Spagna e gli stati italiani, per il controllo delle vie che portano ai
valichi alpini, e un continuo conflitto d'interessi tra la Spagna e la repubblica di
Venezia per i traffici nel Mediterraneo.
VENEZIA CONTRO LA SPAGNA - L'INTERDETTO - Venezia ed il granduca
Ferdinando I di Toscana sostengono la rinascita della Francia di Enrico IV, in
contrappeso all'egemonia spagnola. La Spagna, tuttavia, mantiene nella propria sfera
d'influenza lo stato dei Savoia, il cui duca Carlo Emanuele I (1580-1630), profitta delle
guerre di religione per ingrandire i propri domini a danno della Francia e continua a
combattere contro Enrico IV anche dopo la conclusione della pace di Vervins. La
diplomazia spagnola procura la pace fra Carlo Emanuele I ed Enrico IV con il trattato
di Lione (1601), per cui il duca cede alla Francia vasti territori transalpini, come il
Bugey e la Bresse, in cambio del ducato di Saluzzo. Il baratto avvantaggia la Spagna,
che elimina l'ultima testa di ponte francese di qua dalle Alpi, rendendo più difficile ai
principi italiani di svincolarsi dalla sua egemonia.
Appare in tutta evidenza la vitale importanza strategica della Valtellina. Attraverso la
Valtellina, le forze spagnole provenienti da Genova e Milano possono raggiungere i
domini degli Asburgo d'Austria; attraverso quella vallata Venezia, da parte sua, può
raggiungere direttamente i Cantoni Svizzeri, attingendone soldati, o comunicare con la
Francia, aggirando l'ostacolo della Lombardia e del Piemonte. Il controllo di questo
corridoio montano è importantissimo ugualmente per spagnoli, francesi e veneziani.
La Valtellina soggiace al Cantone dei Grigioni, in cui si scontrano cattolici e riformati.
La Spagna appoggia la fazione cattolica mirando a isolare Venezia dalla Francia
rendendola impotente militarmente.
Proprio adesso esplode la vertenza dell'interdetto di Venezia da parte del pontefice
PAOLO V BORGHESE (1605-21) Venezia tende a limitare l'aumento dei beni del clero
e sottopone anche gli ecclesiastici alla giurisdizione dei tribunali ordinari. Il pontefice
sostiene invece che i membri del clero non possono essere processati nei tribunali laici
anche se colpevoli di reati comuni. Due preti accusati di violenze furono arrestati a
Venezia e il papa lanciò l'interdetto contro la repubblica. Venezia ordinò agli
ecclesiastici di proseguire l'esercizio delle funzioni religiose malgrado la scomunica
papale e allontano i gesuiti perché non obbediscono alle sue disposizioni.
Anima della resistenza di Venezia alla Curia é il consultore teologico della Repubblica,
FRA PAOLO SARPI, che spera di uscire dalla vertenza con una rottura tra Venezia e
il papa e una nuova riforma religiosa. Olanda e Venezia offrono il proprio appoggio
alla repubblica mentre la Spagna mobilita truppe sui confini veneziani.
Enrico IV fa da mediatore e Venezia è costretta ad accettare una soluzione comunque
onorevole, anche se lontana dalle aspirazioni di Paolo Sarpi. D'altra parte Venezia non
poteva tirare troppo la corda dato che non poteva servirsi della Valtellina per
procurarsi i soldati necessari. La repubblica esce bene dalla vertenza, rifiutando di
chiedere perdono al papa e negandone la scomunica, ma resta cattolica, pure
conservando al Sarpi la sua protezione. Il pontefice, invece, è costretto a ritirare
l'Interdetto. Un sicario degli Spagnoli pugnala Paolo Sarpi.
LA I° GUERRA DEL MONFERRATO - Intanto il duca di Savoia Carlo Emanuele I è
sempre più insofferente delle limitazioni spagnole alle sue ambizioni di ingrandimento
territoriale. Coraggioso e irrequieto lascia l'alleanza spagnola per quella francese
quando Enrico IV, approfittando della questione di Clève, sta per ricominciare la
guerra contro la Spagna. Il Savoia ed Enrico IV si accordano segretamente a Bruzolo,
nell'aprile del 1610, per un attacco congiunto contro la Lombardia. In caso di vittoria
Carlo Emanuele avrà Milano e il titolo di re contro la cessione della Savoia alla
Francia. Enrico IV viene assassinato e la vedova reggente Maria dei Medici si affretta
a riavvicinare la Francia alla Spagna. Venezia interviene a salvare il duca dalle
rappresaglie spagnole: se la caverà solo con un atto di sottomissione a Filippo III.
Dalla morte di Enrico IV fino al raggiungimento del potere da parte di Richelieu la
Francia attraverserà la lunga fase di crisi interna di cui abbiamo parlato e non potrà
esercitare alcuna influenza in Italia. Anche la Spagna, in Italia, comunque, si trova in
imbarazzo per la continua ostilità veneziana
Carlo Emanuele I approfitta della morte senza eredi del duca di Mantova e del
Monferrato, Francesco Gonzaga, e ne invade il territorio dando inizio alla guerra del
Monferrato (1612-17). Il Savoia accampava i diritti di una propria nipote contro quelli
di Ferdinando Gonzaga, fratello del defunto Ferdinando Gonzaga. Siccome anche il
Monferrato è strategicamente importante per il passaggio tra Genova e Milano, la
Spagna fomenta la discordia nella speranza di impadronirsi del territorio in oggetto.
Quando il governatore di Milano ordina a Carlo Emuanuele di sgombrare il
Monferrato questi rifiuta di obbedire, resiste con successo e suscita un'ondata di
simpatia colorata di una vago nazionalismo in tutta la penisola.
Venezia, come spesso le capita, gioca un ruolo doppio, anzi triplo: appoggia il Gonzaga
contro Carlo Emanuele, ma appoggia anche quest'ultimo contro la Spagna; inoltre
apre a sua volta la guerra degli Uscocchi. Gli Uscocchi sono pirati slavi annidati nel
porto di Segna (in Istria) i quali, protetti dagli Asburgo d'Austria, infliggono danni alle
navi veneziane. Venezia, approfittando dell'impossibilità della Spagna a intervenire,
attacca gli Asburgo sull'Isonzo, attorno a Gradisca. Purtroppo le operazioni militari
languiscono a causa dell'impossibilità di Venezia di usare la Valtellina per il
rifornimento di soldati. Ma Venezia ha in serbo una formidabile mossa diplomatica:
minaccia velatamente di passare nel campo della Riforma. La Spagna è costretta a
firmare la pace di Madrid del 1617: gli Uscocchi sono allontanati da Segna e dispersi,
Ferdinando Gonzaga rimane duca di Mantova e del Monferrato, Carlo Emanuele I esce
indenne dallo scontro con la Spagna dopo aver inferto una bella sberla al suo prestigio
militare.
GUERRA DELLA VALTELLINA A SECONDA GUERRA DEL MONFERRATO - Si
delinea intanto lo scoppio della guerra dei Trenta Anni, con la ribellione della Boemia
(1618), e Venezia tenta a sua volta di bloccare il passo della Valtellina agli spagnoli,
sobillando i protestati dei Grigioni e consentendo loro di soverchiare così i cattolici. Ma
la Spagna risponde a sua volta con opposti aizzamenti, per cui i cattolici della
Valtellina insorgono contro il dominio dei Grigioni e fanno strage dei protestanti locali
nel Sacro Macello della Valtellina (19 luglio 1620), aprendo le porte alle truppe
spagnole.
Scoppia così la guerra della Valtellina (1620-26), in cui Venezia, Carlo Emanuele I e la
Francia cercano di sloggiare gli spagnoli dalla vallata. Né vale ad arrestare il conflitto
un tentativo di mediazione del pontefice Gregorio XV (1621-23), nelle cui mani viene
rimessa per qualche tempo la Valtellina, come deposito. Carlo Emanuele I, anzi,
estende il conflitto, tentando di attaccare Genova con aiuti francesi. Il duca viene però
sconfitto ed inseguito sull'Appennino da forze ispano-genovesi, mentre la Francia si
dibatte a tal punto in gravi crisi interne, che lo stesso Richelieu è costretto a negoziare
con l'Olivares. Quest'ultimo ottiene una vittoria diplomatica col trattato di Monzone
(1626), in cui la Valtellina resta di fatto autonoma e sotto protettorato spagnolo,
sebbene ai Grigioni sia conservata un'ombra di sovranità nominale.
La delusione provata allora dagli stati italiani è tale da risospingere Carlo Emanuele I
ad un ennesimo voltafaccia, passando dall'alleanza con la Francia a quella con la
Spagna, nella II guerra del Monferrato (1627-31). Muore infatti senza prole l'ultimo
dei Gonzaga, il duca VINCENZO II, ed i ducati di Mantova e Monferrato toccano in
eredità a Carlo di Gonzaga-Nevers, discendente di un ramo cadetto, ormai stabilitosi
in Francia. La Spagna si accorda perciò con Carlo Emanuele I di Savoia per strappare
il Monferrato all'erede del ducato, cui Venezia offre viceversa la sua protezione. La
guerra si trascina avanti per alcuni anni, complicandosi per le intricate iniziative del
Savoia, cui l'alleanza con la Spagna non impedisce di tentare anche un colpo di mano
su Genova (1628), valendosi di una congiura contro quel governo del nobile genovese
Giulio Cesare Vachero. L'Olivares, d'altra parte, guadagna un altro successo
diplomatico, ottenendo che l'imperatore Ferdinando II, una volta sconfitta la
Danimarca, invii il proprio esercito in Italia contro il Gonzaga-Nevers.
Il passaggio delle feroci truppe imperiali devastò tragicamente la Lombardia e portò
quella lugubre pestilenza, di cui scrisse il Manzoni nei Promessi Sposi. Né gli aiuti
veneziani riuscirono ad impedire che Mantova venisse espugnata e saccheggiata
spaventosamente dai tedeschi. Ma il Richelieu, nel frattempo, aveva consolidato la
situazione interna della Francia, specie con l'assoggettamento degli ugonotti e la presa
della Rochelle. Poté quindi intervenire in forze nella guerra, invadendo il Piemonte e
riducendo allo stremo Carlo Emanuele I. Quest'ultimo inoltre mori nel 1630, lasciando
i propri stati invasi a gara da francesi e spagnoli. Suo figlio, Vittorio Amedeo I (163037), fu costretto pertanto a firmare la pace di Cherasco (1631), che sanciva il trionfo
politico del Richelieu.
Carlo di Gonzaga Nevers è riconosciuto duca di Mantova e del Monferrato. Vittorio
Amedeo I riceve un lembo di quest'ultimo territorio con le città di Alba e Trino, ma
viceversa si obbliga ad aprire le porte della catena alpina alla Francia, cedendo
l'importantissima fortezza di Pinerolo e le valli alpine adiacenti.
Consegnate le porte d'Italia in mano alla Francia, il Piemonte deve da allora in poi
rassegnarsi a restare per quasi sessanta anni un vassallo della politica francese.
L'insediamento della Francia a Pinerolo è salutato però con gioia da gran parte
dell'Italia, che vede nella costante presenza della Francia di qua dalle Alpi, la rottura
definitiva della pesante oppressione spagnola.
ITALIA CENTRALE 1598-1618 - Tutta questa intensa vita politica degli stati
dell'Italia settentrionale, come Venezia, il duca di Savoia, il duca di Mantova ecc.,
trova scarso riscontro nella parte centrale della penisola.
La morte di FERDINANDO I DEI MEDICI (1609) segna l'inizio di una lunga agonia
dello stato toscano, che lentamente si spenge sotto i mediocri od inetti epigoni di casa
Medici. Ancora uno sprazzo di vita, in tanto avvilimento, rappresenta l'attività
scientifica della scuola di Galileo, che vanta scienziati di fama mondiale, come
EVANGELISTA TORRICELLI (m. 1648), l'inventore del barometro. Ma l'inerzia
politica e la decadenza economica paralizzano ormai il piccolo stato.
Tra i papi della prima metà del secolo XVII, abbiamo già ricordato il fastoso e altero
PAOLO V per la controversia dell'interdetto di Venezia. Qualche tentativo compirono
ancora i suoi successori, come il già ricordato GREGORIO XV, per inserirsi nelle
vicende della politica europea, riassumendo quella funzione di supremo moderatore ed
arbitro delle controversie, che aveva avuto il Papato nei secoli del Medioevo. In genere
però l'esito di questi tentativi fu negativo, in quanto i grandi stati assoluti,
predominanti in Europa, erano ormai interamente alieni dal riconoscere al papa
alcuna supremazia di carattere politico e difficilmente ammettevano interferenze
altrui nell'ambito della propria sovranità.
Dei pontefici della prima metà del sec. XVII, una delle figure più notevoli è il munifico
ed autoritario URBANO VIlI BARBERINI (1623-1644), che tentò appunto
d'intromettersi nella II° guerra del Monferrato per sostenere la tesi francese,
ritenendo che l'ingresso della Francia nella penisola italiana avrebbe servito da utile
contrappeso alla potenza spagnola. Il suo pontificato merita di essere ricordato altresì
per l'annessione allo Stato Pontificio del piccolo ducato d'Urbino, avvenuta nel 1631,
alla estinzione della famiglia dei Della Rovere. Questa direttiva politica portò però
Urbano VIII anche all'assorbimento nello Stato Pontificio del ducato di Castro, feudo
dei Farnese di Parma. E ciò scatenò la GUERRA DI CASTRO (1644-48), cioè un
conflitto fra Urbano VIII ed i principi di Parma, Modena e Toscana, sostenuti da
Venezia, che estese all'Italia centrale le devastazioni belliche e portò a grave
scadimento il prestigio della Santa Sede.
Figure in genere prive di un grande rilievo politico o spirituale, i papi del secolo XVII
escono pressoché esclusivamente dalle file di un ristretto cerchio di famiglie
aristocratiche romane, come i Ludovisi, i Barberini, i Borghese, i Pamphilj ecc., che
finiscono per esercitare una specie di monopolio di fatto del potere pontificio. Se i papi
dell'età del Rinascimento si erano abbandonati alla pratica del nepotismo, cercando di
costruire degli stati veri e propri ai membri delle proprie famiglie, i papi del Seicento
danno vita al così detto PICCOLO NEPOTISMO. Come per una tacita convenzione,
ciascun papa tende ad innalzare alle più alte cariche ecclesiastiche, compreso il
cardinalato, membri della propria famiglia, conferisce loro lucrose prebende e donativi
di terre e di beni, così da arricchirli e da permettere loro una vita di fasto principesco,
di cui sono traccia tuttora le grandiose ville cardinalizie ed i magnifici palazzi gentilizi,
che ornano dovunque la città Eterna ed i suoi dintorni. Il papa per di più si serve come
di una specie di primo ministro, di uno dei propri parenti, elevato alla porpora
cardinalizia (cardinale nipote), il quale diventa in tal modo non di rado il vero arbitro
della politica papale. Sorta dalla necessità di circondarsi di persone fidate, questa
pratica doveva però rivelarsi per ovvie ragioni estremamente dannosa e corruttrice
nell'amministrazione dello Stato Pontificio, che difatti continuò costantemente a
decadere sia dal punto di vista economico, sia da quello della sicurezza pubblica.
Più che per la loro attività politica o religiosa i papi del Seicento lasciarono perciò una
traccia nella storia per il mecenatismo col quale emularono i loro predecessori del
Rinascimento nella protezione degli artisti e per la grandiosità delle costruzioni, cui
legarono il nome proprio e quello delle proprie famiglie. In mezzo allo squallore di una
campagna malarica, infestata dai briganti, Roma seicentesca alza così lo sfarzo
squillante delle sue monumentali chiese barocche, dei suoi palazzi e delle sue ville, dei
suoi parchi, delle sue fontane. E' di questi anni la mirabile attività scultorea ed
architettonica di GIOVAN FRANCESCO BERNINI (1599-1680), il grande maestro del
barocco romano, imitato da una pleiade di emuli, come il BORROMINI ecc. Di questo
tempo è il completamento della costruzione di S. Pietro, vanto dei pontificati di Paolo
V e di Urbano VIII, cui più tardi il Bernini aggiungerà la cornice scenografica della
superba piazza col suo colonnato. Di questi tempi è la costruzione di quegli edifici e di
quelle piazze monumentali, costituenti nei secoli il caratteristico volto di Roma papale.
Proprio il fasto e gli sperperi della corte papale formavano però un triste contrasto con
la miseria dilagante nello Stato Pontificio e con lo sfacelo della sua amministrazione.
RIVOLTA A NAPOLI E A PALERMO - Dalla pace di Cherasco in poi, la Francia del
Richelieu poté servirsi del Piemonte, come base di operazioni contro la Lombardia
spagnola. Si è visto, infatti come nel 1637 il Richelieu riuscisse a coalizzare contro la
Spagna, sotto l'egida francese, i principi dell'Italia settentrionale, cioè Vittorio Amedeo
I di Savoia, Odoardo Farnese, duca di Parma e il duca di Mantova. La coalizione,
tuttavia, non portò a risultati concreti e quindi la guerra si prolungò per decenni interi
nell'Italia settentrionale, aggravandone la devastazione. L'unico progresso fu la
liberazione della Valtellina dagli spagnoli ed il suo ritorno sotto il governo dei
Grigioni, salve clausole speciali per il mantenimento della religione cattolica nella
vallata.
La situazione venne anzi a complicarsi perché la morte improvvisa di Vittorio Amedeo
I (1637) lasciò gli stati sabaudi sotto la reggenza della vedova, la principessa francese
MARIA CRISTINA DI BoRBoNE, detta Madama Reale, contro cui si levarono in armi
i fratelli del defunto, sostenuti dagli spagnoli. La guerra civile fra madamisti e
principisti (1637-42) si aggiunse così a quella esterna nel completare la rovina del
Piemonte.
Morto anche il Richelieu, il Mazarino tentò di giungere ad una soluzione del conflitto
sul fronte italiano, lanciando un attacco navale alle posizioni spagnole nella Maremma
toscana. La spedizione fu al solito scarsa di risultati, ma determinò ugualmente lo
scoppio di rivolte contro la Spagna tanto nel regno di Napoli, quanto in Sicilia, in
analogia a quanto accadeva nel contempo in Catalogna ed in Portogallo.
La Spagna soleva puntellare il proprio governo nel regno di Napoli accarezzando le
classi privilegiate della nobiltà e del clero, a danno dei ceti popolari, verso cui
praticava invece una politica di oppressione e di esoso fiscalismo. Già in passato, il
prete napoletano Grumo GENOINO aveva cercato di indurre il viceré DUCA DI
OSSUNA (1616-1620) ad una diversa politica, intesa a comprimere l'alterigia della
nobiltà e favorire invece l'elemento borghese. Il tentativo fallì, perché la nobiltà sparse
la voce che l'Ossuna intendesse farsi re di Napoli, e fece insospettire la corte spagnola,
ottenendo che il viceré cadesse in disgrazia e fosse richiamato (1620). Anche il Genoino
fu imprigionato durante lunghi anni. La questione sociale tornò però ad esplodere,
allorché la pressione francese si fece sentire nel Mediterraneo.
Il viceré, DUCA DI ARCOS, per apprestare la difesa di Napoli, ebbe necessità di
denaro e volle procurarsene ponendo una gabella proprio sulla frutta, costituente
parte importante dell'alimentazione del più umile popolo. Scoppiò allora una violenta
insurrezione della plebe napoletana (7 luglio 1647), capeggiata da un giovane
pescivendolo, TOMMASO ANIELLO, detto Masaniello. Dietro al Masaniello,
ricomparve anche il Genoino, il quale cercò di volgere il movimento popolare
all'attuazione dei suoi antichi programmi. Il viceré, impaurito, abolì pertanto la
gabella della frutta e concesse i provvedimenti costituzionali reclamati dal Genoino.
Da Napoli, la rivolta dilagò nelle provincie del regno, assumendo carattere di moto
antifeudale, in cui le città si sollevarono contro il dominio dei baroni.
Masaniello, circuito di perfide carezze dal viceré e nominato Capitan Generale del
fedelissimo popolo di Napoli, non tardò a dare segni di stranezza e perì assassinato (16
luglio 1647). La feudalità fece blocco con la Spagna, soffocando la rivolta nelle province
con le sue masnade. Fra gli stessi insorti di Napoli si aprì un dissidio fra la borghesia,
che trovava la propria espressione nel Genoino, e le masse popolari, che stavano
trovando un nuovo capo nell'armaiolo Gennaro Annese. Napoli elesse a proprio capo
un patrizio, FRANCESCO TORALDO, PRINCIPE DI MASSA, che però si dimostrò
vacillante, allorché la Spagna tentò la riscossa, inviando una flotta al comando di un
suo principe, DON GIOVANNI D'AUSTRIA, mentre i feudatari bloccavano la città
dalla parte di terra. Lo stesso Genoino finì col consegnarsi agli spagnoli (settembre
1647), e morì mentre veniva tradotto in Spagna per via di mare. Ma il più umile popolo
trucidò il principe di Massa e resisté valorosamente agli attacchi sotto la guida
dell'Annese. In risposta, anzi, proclamò la repubblica ed invocò la protezione della
Francia (22 ottobre). Anziché le forze regolari francesi, giunse però a Napoli Enrico di
Guisa, duca di Lorena, un principe che vantava diritti al trono napoletano come erede
degli Angiò. Costui riuscì a farsi proclamare duce della Repubblica Napoletana e tentò
di cattivarsi la nobiltà. Quest'ultima, però, restò in complesso ligia alla Spagna, in cui
ravvisava la difesa migliore dei propri interessi, mentre l'atteggiamento del Guisa
disgustava il popolo. D'altra parte, il Guisa non aveva nemmeno l'appoggio della
Francia, in quanto era personalmente ostile al cardinale Mazarino. Don Giovanni
d'Austria finì pertanto con l'aver ragione del duca di Lorena (aprile 1648), col favore
stesso dell'Annese e dei popolari, ormai esasperati. Il dominio spagnolo fu restaurato
su Napoli e seguirono dure rappresaglie, di cui fu vittima lo stesso Annese.
Analogo decorso ebbe una contemporanea rivolta che suscitò la fame a Palermo
(maggio 1647) ed ebbe come proprio capo popolo il battiloro GIUSEPPE ALESSI. La
fine del moto palermitano non fu però diversa da quella del moto di Napoli. L'Alessi,
che era stato proclamato capitano generale, fu circuito dagli spagnoli, che fecero
abilmente credere che egli si fosse venduto alla loro parte. Diventato odioso al popolo
stesso, l'Alessi venne assassinato (agosto 1647) ed i rivoltosi, rimasti senza guida.
finirono con l'essere domati. Nel 1649 anche in Sicilia il dominio spagnolo era così
ristabilito completamente.
DECADENZA DELL'ITALIA - Neppure la pace di Westfalia pose fine alle calamità
dell'Italia, in quanto Francia e Spagna continuarono a battersi nella Valle Padana sino
alla pace dei Pirenei (1659), mentre Venezia continuava a logorarsi nell'interminabile
guerra di Candia. Ai disastri della guerra, si aggiungevano calamità come la terribile
peste del 1656, particolarmente micidiale per Napoli, di cui venne a completare la
prostrazione. Il ritorno della pace, nel 1659, trovò pertanto l'Italia ad uno dei più bassi
livelli della sua storia Devastazioni belliche, carestie e pestilenze avevano ridotto
sensibilmente la popolazione italiana. Il collasso dell'impero spagnolo aveva trascinato
nella decadenza la stessa Genova e si era duramente ripercosso sul resto della
penisola, spegnendone la residua vitalità economica. La travolgente concorrenza
olandese ed inglese aveva soppiantato il commercio veneziano nel Levante,
aggravando gli effetti della guerra di Candia. L'Italia era ormai un paese quasi
esclusivamente agricolo e per di più di una agricoltura quasi sempre povera ed
arretrata.
Tutto ciò aveva avuto ripercussioni profonde sulle strutture sociali stesse del paese.
Gli antichi ceti di imprenditori industriali e commerciali erano spariti o si erano
trasformati in aristocrazie terriere: lo stesso patriziato di Venezia aveva investito in
terre i propri capitali ed abbandonato del tutto gli affari. Le città avevano perso la loro
antica vivacità e si erano ridotte a centri provinciali sonnacchiosi. La società italiana
appariva ormai spartita fra un'aristocrazia fondiaria. per lo più inerte e parassitaria,
monopolizzatrice delle cariche statali ed ecclesiastiche, ed una massa di contadini, in
genere miserabile e priva di qualsiasi istruzione. Il più forte ceto intermedio restava
quello delle professioni, ed in particolare il ceto dei legali, che a Napoli specialmente
deteneva notevole prestigio sociale e culturale.
L'Italia aveva sofferto tutti i danni delle guerre, senza trarne alcun alleviamento nella
propria schiavitù che veniva anzi raddoppiata con l'aggiungersi dell'egemonia francese
sul Piemonte al tradizionale giogo spagnolo. Si aveva così uno dei periodi più squallidi
della storia italiana, destinato a terminare soltanto ai primi del secolo XVIII, con
l'eliminazione della Spagna dalla penisola.
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