Intervista al Vescovo Libanese di Byblos Béchara Rai: Solo il Libano non è teocratico Giuseppe Rusconi Monsignor Béchara Rai, cristiano maronita e libanese, vescovo di Jbeil-Byblos (a nord di Beirut), è una’ vecchia conoscenza’ de “Il Consulente RE”, cui ha rilasciato nel giugno 2008 (versione cartacea) e nel novembre 2009 (versione online) due interviste in cui si è cercato di approfondire la situazione non priva di rischi in cui si sono venuti a trovare i maroniti libanesi (divisi da tempo tra alleati dei sunniti e alleati degli sciiti). E’ parso interessante sentire dalla voce del presule settantenne il suo parere su un Sinodo, quello appena chiusosi in Vaticano, di particolare interesse per una somma di motivi ecclesiali, culturali, politici. A monsignor Rai, che è stato eletto nel ‘Consiglio speciale per il Medio Oriente’ - che per così dire ‘proseguirà’ in ambito ristretto il Sinodo - abbiamo chiesto, oltre a una sintesi dei lavori sinodali, una risposta ad alcune questioni particolari, riguardanti in buona parte i rapporti con l’Islam e con Israele. Monsignor Rai, quali erano gli obiettivi principali del Sinodo? Sono stati raggiunti? Il primo obiettivo era riflettere sul presente e il futuro dei cristiani nei Paesi del Medio Oriente. Prendere maggiore coscienza dell’identità, vocazione e missione dei cristiani, alla luce della Parola di Dio e della tradizione della Chiesa. Quindi leggere le sfide attuali e i segni dei tempi, poi prendere posizione e determinare iniziative. Come condizione per poter agire e reagire ecco il secondo obiettivo: consolidare la comunione ad intra, ossia all’interno di ogni Chiesa sui juris e tra le diverse Chiese cattoliche da una parte, nonché tra queste ultime e le Chiese ortodosse e le comunità ecclesiali evangeliche e luterane ad extra. Il terzo obiettivo era la testimonianza cristiana a livello della vita, della catechesi, della liturgia, della famiglia, dei giovani, dell’attività sociale, dell’educazione, del servizio della carità e degli altri settori della vita pubblica. Tutti e tre gli obiettivi sono stati raggiunti sia a livello degli interventi in Aula sinodale che delle proposte finali. Quali i temi maggiormente evidenziati negli interventi? Le denunce ‘forti’? Gli interventi hanno toccato in genere tutti i temi dell’Instrumentum laboris. Quelli più in evidenza hanno riguardato le sfide dei rapporti con i musulmani, la libertà di culto e specialmente di coscienza, le conseguenze sanguinose della guerra in Iraq e l’emigrazione dei cristiani, le conseguenze nefaste del conflitto israelo-palestinese sia per i palestinesi che per gli israeliani, la nuova evangelizzazione nel Medio Oriente, il dialogo interreligioso, la cooperazione ecumenica, i rapporti tra gli emigrati e le loro Chiese di provenienza, la pastorale degli immigrati asio-africani nei Paesi del Medio Oriente. Le denunce forti erano relative alle ingiustizie in Palestina, all’emigrazione dei cristiani iracheni, alla mancanza di libertà religiosa in certi Paesi, all’assenza di libertà di coscienza nei Paesi dove la religione di Stato è l’Islam. Cristiani in Medio Oriente e confronto con l’Islam: in diversi interventi sono emerse gravi preoccupazioni sull’argomento... Quello che preoccupa i cristiani è che vivono nei Paesi islamici come cittadini di secondo ordine. Ciò è dovuto al fatto che l’Islam non distingue tra Stato e Religione. Conseguentemente la Religione di Stato è l’Islam, la fonte della legislazione civile è il Corano, i poteri politico, giudiziario e militare sono in mano ai musulmani. La stessa cosa si ha in Israele, con la differenza che il sistema teocratico è quello giudaico. Solo il Libano fa eccezione. Un’altra preoccupazione riguarda il fondamentalismo islamico, che legalizza violenza e terrorismo. Ogni volta che dall’Occidente esce una dichiarazione antimusulmana, ne soffrirà qualche gruppo di cristiani d’Oriente. Infatti i musulmani pensano che l’Occidente sia cristiano e che ciò che fa o dice sia espressione del Cristianesimo. E’ accettabile secondo Lei che un musulmano non possa convertirsi a un’altra religione senza incorrere in persecuzioni? La Sharia, la legge musulmana, considera come grave delitto religioso l’abbandono dell’Islam da parte di un musulmano, che quindi viene duramente punito. Noi invece crediamo alla libertà di coscienza e rediamo che questa liberà faccia parte delle libertà fondamentali ed inalienabili. Per noi cristiani primeggiano la coscienza, l’intenzione del cuore e la convinzione personale maturata dopo profonda riflessione. Esse primeggiano sulla forma esteriore. Riescono i musulmani in Medio Oriente a comprendere il significato del termine laicità? Oppure esso è estraneo, incomprensibile alla loro mentalità? La laicità è totalmente rifiutata dai musulmani, perché la considerano contro la religione. Quindi non la accettano anche se le viene aggiunta la qualifica di ‘positiva’. Noi preferiamo usare per loro l’espressione lo Stato civile o civico, perché garantisce la fede in Dio e la religione. Il Libano è il modello esemplare di tale forma di Stato. A proposito di termini. Monsignor Rai, nella Sua diocesi di Jbeil-Byblos ci sono rifugiati palestinesi? Glielo chiediamo, perché vorremmo sapere se accettano i passi della liturgia in cui si parla di ‘Israele’, ‘popolo di Israele’, ecc... Nella diocesi di Jbeil-Byblos non esistono rifugiati palestinesi. Nonostante questo posso rispondere che anche i cristiani libanesi e orientali non accettano nella liturgia il termine ‘Israele’, poiché lo interpretano come ‘Stato di Israele’. Per questo noi evitiamo il termine, sostituendolo con ‘popolo di Dio’ o ‘tuo popolo’. Ma cerchiamo sempre di spiegare alle nostre comunità il significato del termine biblico ‘Israele’. Alcuni laici e religiosi, in collaborazione con Pax Christi, hanno redatto un documento, Kairos Palestina, molto critico verso la politica del governo di Israele nei confronti dei palestinesi. Il documento è stato sottoscritto tra gli altri dal patriarca latino emerito di Gerusalemme Miche Sabbah. Anche nel Messaggio finale del Sinodo si ritrovano accenti analoghi a quelli di Kairos Palestina quando si parla del conflitto israelo-palestinese. Qual è, monsignor Rai, la Sua opinione su Kairos Palestina? Il documento Kairos Palestina denuncia le ingiustizie che lo Stato di Israele commette nei confronti dei palestinesi. Chiama al rispetto dei loro diritti, alla liberazione dei loro territori, alla creazione dello Stato palestinese accanto a quello israeliano. E’ un documento che fa appello a una pace giusta e duratura. Monsignor Rai, è cambiato qualcosa in Libano dalla nostra ultima intervista del novembre 2009? No, la crisi politica persiste, perché è legata al conflitto israelo-palestinese, all’occupazione israeliana di alcuni territori del Libano meridionale, al conflitto tra sunniti e sciiti in Iraq. Che a base regionale vede fronteggiarsi da una parte Arabia saudita, Egitto e Giordania e dall’altra Iran e Siria. A livello sovraregionale il conflitto si colloca nella contesa tra Stati Uniti e alleati da una parte e Iran dall’altra. Il Libano è un anello nella catena regionale e internazionale. C’è un’espressione molto conosciuta che chiarisce quanto ho rilevato sul mio Paese: “I conflitti sono concepiti fuori e partoriti in Libano. La ragione è semplice: il mio è il Paese dove tutti hanno un pied-à-terre e hanno libertà di esprimersi come vogliono. Sull’argomento del Sinodo in questo stesso numero potrete leggere la rubrica ‘Rossoporpora’ di Giuseppe Rusconi, i due commenti di Giuseppe Di Leo sui contenuti dell’assemblea episcopale e sul documento ‘Kairos Palestina’, le cronache di Marta Petrosillo sulla mostra riguardante i cristiani in Medio Oriente e le opere cristiane in Terrasanta.