L'AGAPE: IDENTITÀ E MISSIONE DELLA CHIESA Otranto, 10 settembre 2008. ____________________ Qual è, in radice, il rapporto tra l'agápe e la Chiesa, come comunità dei discepoli di Cristo, pellegrina nella storia? E quale il rapporto tra l'agápe e l'annuncio di Cristo che la Chiesa è chiamata a offrire e incarnare oggi nel mondo come urgente ed essenziale debito di amore? Questi sono i due nuclei fondamentali che, debbono attirare la nostra attenzione e informare la nostra prassi: da un lato, l'agápe vista nella prospettiva della vita della Chiesa al suo interno, nel suo essere; dall'altro, l'agápe vista in rapporto alla missione della Chiesa nei confronti del mondo, e, in particolare, nei confronti degli ultimi e dei poveri, cui Cristo con preferenza la indirizza. L'agápe, dunque, al cuore della comunione e della missione della Chiesa perché ne racchiude il «mistero» che viene da Dio e la orienta verso di Lui. L'agápe «forma» della Chiesa1. L’agape “forma” dell’identità della Chiesa 1. L’agápe “forma” dell’identità della Chiesa. Si tratta di un tema che è stato al centro della riflessione di molte istanze presenti nella Chiesa in Italia nella seconda metà degli anni ’80 e agli inizi degli anni ’90 in concomitanza degli Orientamenti pastorali Evangelizzazione e testimonianza della carità2 e negli ultimi anni in occasione dell’ Enciclica di Benedetto XVI Deus caritas est3. 1.1. La sorgente «teologica» e «trinitaria» dell'agápe Per affrontare il tema del rapporto tra l'agápe e la Chiesa è fondamentale innanzitutto porsi la Utilizziamo l’espressione l’”agape forma della chiesa” con la consapevolezza della difficoltà – a causa di una storia travagliata – che l’uso comporta. Ci muoviamo nella linea della prospettiva disegnata ad es. da L. SARTORI nel suo «Caritas forma Ecclesiae», in Lateranum 51 (1985), 20-40: «L’amore divino dà alla Chiesa l’essere e l’operare, fa sì che essa “sia” un soggetto “unus ex multis” e fa sì che essa “operi” come soggetto storico unitario per l’unificazione del mondo» (p.28). Cf. anche i contributi di S.DIANICH (con un’ampia introduzione storica e sistematica) e C.MOLARI (con precise e stringenti puntualizzazioni) in ATI (ed.) De caritate Ecclesia, Messaggero, Padova 1987,, 27-110, 256-269 ed di B.GHERARDINI (con un’impostazione più tradizionale) in Aa.VV., La carità. Teologia e pastorale alla luce di Dio-Agape, EDB, Bologna1994, 103-114. 2 Oltre ai testi citati nella nota precedente ricordiamo: P.DONI (ed.), Diaconia della carità nella pastorale della Chiesa locale, Gregoriana, Padova 1986; L.BARONIO (ed.), La carità, Piemme-Caritas, Casale Monferrato 1996; CARITAS ITALIANA (ed), Il Vangelo della carità per le nostre chiese, EDB, Bologna 1992; P.CODA, L’agape come grazia e libertà. Alla radice della teologia e prassi dei cristiani, Città Nuova, Roma 1994; COP – CARITAS ITALIANA (edd), La sfida della carità. Verso una parrocchia fatta vangelo per glil ultimi, EDB, Bologna 1994. 3 R.FISICHELLA (ed.), Dio è amore. Commento teologico-pastorale a Deus Caritas Est, Lateran University Press, Città del Vaticano 2006 ; L.MELINA-C.A.ANDERSON (edd.), La via dell’amore. Riflessioni sull’enciclica Deus caritas est di Benedetto XVI, Pontificio Istituto Giovanni Paolo II, Città del Vaticano2006 ; J.I.MUYA (ed.), La scala della carità. Commento all’enciclica Deus Caritas est, Urbaniana University Press, Città del Vaticano 2007. 1 1 domanda sulla sorgente dell'agápe, e - di conseguenza - sulla sorgente dell'essere della Chiesa. In effetti, sulla base dell'esame dell'Antico e soprattutto del Nuovo Testamento, possiamo dire che il termine agápe viene usato come categoria cristologica per descrivere e annunciare la totalità dell'evento Cristo. Basti ricordare la 1Gv: «Da questo abbiamo conosciuto l'agápe: Egli ha dato la sua vita per noi» (1Gv 3,16; c£ 4,10). L’agápe è il Cristo stesso come evento dell'autocomunicazione salvifica del Padre alla storia dell'uomo nella libertà-unità dello Spirito Santo. E’ contemplando l'avvenimento del Cristo, che trova ilsuo culmine nell’evento della croce e della risurrezione, che l'uomo incontra l'agápe del Padre. In questa prospettiva, l'agápe rinvia di per sé alla sorgente propriamente teologica dell'evento Cristo. E’ ancora la 1Gv a nominare Dio stesso col nome di Agápe (4, 8.16). Non si tratta di una definizione metafisica, ma di un termine riassuntivo che condensa l'esperienza della comunità apostolica soprattutto post-pasquale e, allargando lo sguardo, l'intera esperienza d'Israele dinamicamente protesa verso il suo compimento cristologico. JHWH, che nell'Antico Testamento si è presentato come Dio dell'Alleanza, fedele e misericordioso, rivelando a Mosè il suo nome sul monte Sinai, ha sottolineato a un tempo la sua infinita trascendenza rispetto alla storia e la sua più intima prossimità all'uomo: Egli è il Dio-con-gli-uomini. La rivelazione veterotestamentaria, giunge al suo compimento nell'evento Cristo e nel dono dello Spirito. E’ autocomunicandosi in Cristo e nello Spirito che Dio si rivela per quello che Egli intimamente è: perché «è» Agápe in Se stesso, Egli si rivela Agápe verso l'uomo in Cristo, donando il Figlio Suo agli uomini, ed effondendo il Suo Spirito nel cuore dei credenti. Rivelandosi, Dio «squaderna» il suo Essere interiore come infinito mistero di dono, scambio e reciproca accoglienza, in una parola di Amore, e invita l'uomo liberamente a parteciparvi. Come ben comprende e testimonia tutto il Nuovo Testamento, il divino «piano inclinato» di questa autocomunicazione di Dio Agápe sono la kenosi e la croce del Cristo (cf Fil 2, 6-11). E’ un volto infinitamente nuovo di Dio quello che la croce del Cristo ci rivela: il Dio onnipotente che si fa umile, il Dio infinito che si fa piccolo, il Dio santo che si fa peccato (cf. Gal 3,13; 2 Cor 5, 21). E’ solo di fronte a questa paradossale e abissale testimonianza dell'agápe di Dio, che l'uomo scopre che cos'è l'amore nella sua pienezza e nella sua «verità» teologica che è, di conseguenza, «verità» della creazione e dell'uomo. Ed è di qui, da questa contemplazione, da questo credere all'amore (cf.1 Gv 4,16), e cioè dall'aprirsi fiduciosamente e totalmente all'evento dell'agápe di Dio in Cristo per mezzo dello Spirito, che nasce la Chiesa. Come luminosamente si esprime l'evangelista Giovanni, la Chiesa è la comunità di coloro che sono attirati dal Crocifisso: essi guardano a Colui «che è stato trafitto» (Gv 19, 37; c£ 8, 28; 12, 32), contemplano lo spettacolo dell'agápe del Padre e 2 del Figlio (cf. Lc 23, 48), accolgono il loro dono (lo Spirito Santo), e, convertendosi, liberamente decidono di seguire Cristo facendosi essi stessi promotori, banditori e trasmettitori del suo evento di agápe nelle trame variegate e pericolose della storia dell'uomo. Se Cristo «racconta» l'agápe del Padre nella forza dello Spirito, la comunità ecclesiale nella forza del medesimo Spirito «racconta» l'evento-agápe del Cristo per farlo diventare in pienezza storia degli uomini. 1.2. Le caratteristiche dell’agápe come «forma» della vita ecclesiale In questa prospettiva l'agápe non è soltanto l'origine e la sorgente dell'evento ecclesiale, ma ne diventa la «forma» di vita. 1.2.1. Innanzitutto, l’agápe significa e configura rispetto, apertura e prossimità nei confronti dell'alterità. Essa nasce quando l'uomo, toccato dall'amore del Padre in Cristo, si fa capace di riconoscere nell'altro uomo il volto di un fratello, anzi, del «primogenito» (cf Rm 8, 29; Col 1, 15; Ap 1, 5), che si rispecchia nei molti fratelli: il Cristo. Come ben sottolinea oggi, ad esempio, E. Lévinas riletto e approfondito da P.Ricoeur4, già nell'Antico Testamento il riconoscimento del volto del fratello diventa per l'uomo l'occasione dell'esperienza etica, il luogo dove irrompe dall'alto (da JHWH) l'imperativo: «Non uccidere», «Ama il prossimo come te stesso». E non soltanto dell'esperienza etica, ma anche - come presupposto e conseguenza - dell'esperienza religiosa. Nel «tu» che lo interpella, l'«io» nasce alla sua responsabilità etica. Ma, allo stesso tempo, vede e sperimenta tralucere, attraverso il volto dell'altro e nel «tra» che così si realizza tra sé e lui, la presenza dell'Altro assoluto che lo interpella. Dunque, la prima caratteristica dell'agápe è proprio quella della scoperta dell'alterità che diventa esigenza etica di prossimità. Come Dio mi personalizza attraverso la sua agápe, donandomi la mia identità, custodendola nella sua alterità e promuovendola verso il suo dispiegamento nella comunione con Sé, così l' amore del cristiano è chiamato a personalizzare (nella grazia) l'altro uomo riconoscendolo, anzi facendolo diventare fratello. 1.2.2. Seconda fondamentale caratteristica dell'evento dell'agápe è la reciprocità. Il rapporto col volto dell'altro giunge al suo compimento quando, in risposta al mio riconoscimento, l'altro riconosce anche me come fratello. E’ il comandamento «nuovo» del Cristo (il «mio» comandamento) che ne riassume il messaggio: «amatevi l'un l'altro come io ho amato voi» 4 Cf. P.RICOEUR, Soi-même comme un autre, Du Seuil, Paris 1990 (tr. it., Jaka Book, Milano 1993). Per una rilettura storica penetrante della vicenda dell’ethos occidentale e della sua fedeltà/infedeltà a quello biblico, cf. I. MANCINI, L’ethos dell’Occidente, Marietti, Genova 1990. 3 (Gv 15, 12). L'agápe ha infatti, per natura sua, una struttura di reciprocità, come rivela in pienezza il mistero della Trinità di Dio. Il dono che il Padre fa a noi del Figlio, e il dono che il Figlio fa di Sé a noi sulla croce, hanno il loro compimento nella reciprocità tra il Padre e il Figlio dischiusa nella luce e nella forza (dynamis) dello Spirito della risurrezione e, per partecipazione, a noi donata dallo stesso Spirito nella reciprocità di risposta che l'uomo è chiamato a dare nei confronti dell'evento dell'Agápe del Padre e del Figlio. Questa caratteristica di reciprocità porta a compimento l'agape come riconoscimento dell’alterità del volto del prossimo, e realizzando la comunione tra i soggetti che entrano in rapporto non ne sopprime ma ne esalta l'alterità. La Chiesa trova in questo evento la sua essenza più profonda: l'unità (per dirla in termini giovannei), l'essere un corpo solo (per dirla in termini paolini), che s'esprime in una pluriformità di libere identità personali, che restano ciascuna insopprimibile e insostituibile di fronte a Dio e di fronte ai fratelli, e che lo Spirito adorna di molteplici carismi e lega in profonda comunione. 1.2.3. Come narra lo «spettacolo» della croce del Cristo, così com'è sviscerato nella sua profondità dall'inno di san Paolo della lettera ai Filippesi, l'agápe mostra anche di avere, in quanto struttura di reciprocità, una caratterizzazione kenotica. Il riconoscimento dell'alterità, la pienezza della reciprocità come unità nella distinzione, presuppongono la capacità nello Spirito di «perdersi per ritrovarsi» (cf. Lc 9, 25; Gv 15,13; Gv 10, 17s.). E’ questa la legge trinitaria dell'agápe. Come il Padre è Se stesso in quanto è relazione, dono di Sé totale al Figlio, e tale è il Figlio nel rapporto col Padre, così anche il credente è chiamato, nel seguire Gesù, a vivere questa legge pasquale di morte a sé e risurrezione in Cristo. E quello che vale nel rapporto tra il singolo credente e Cristo vale anche nel rapporto tra i credenti, innestati per lo Spirito nell'unico Cristo. Senza questa profondità kenotica, l'agápe non raggiunge la pienezza della sua verità (ontologica, etica e pratica). 1.2.4. Un’ulteriore caratteristica dell'agápe è quella della sua costitutiva apertura ed effusività al e nel «terzo». L’agápe è infatti per sé effusiva. Come il Padre e il Figlio sono uno e distinti nello Spirito, e lo Spirito rappresenta allo stesso tempo, il cuore, l'intimo di Dio e il Suo estremo, la sua «estasi» - il sigillo dell'unità di Dio, e il traboccare del Suo amore nella creazione e nella storia -, così l'agápe ecclesiale è, per definizione, il contrario della chiusura settaria e del ghetto. Mentre fonde in comunione e unità, l'agápe spinge alla missione, perché è di per sé apertura e traboccamento. Se manca una di queste due caratteristiche - la profonda 4 unità e la decisa apertura al «terzo» - la Chiesa non vive la sua forma che è l'agápe del Cristo. 1.2.5. Infine, ultima caratteristica dell'agápe come forma della Chiesa, è la sua concretezza, ovvero la sua storicità. L’agápe del Padre si è incarnata nel Figlio, si è fatta storia, parola, gesto. Così, per la struttura antropologica e per la modalità incarnatoria dell'evento della salvezza, l’agápe s'esprime nella totalità dell'essere dell'uomo e delle sue molteplici e costitutive dimensioni d'esistenza; si mostra nella parola, si traduce nel gesto, si edifica nella struttura, si «politicizza» nella trasformazione del rapporto sociale. Senza questa concretezza storica, l'agápe ecclesiale non è cristologica, corre anzi il rischio di incappare in una pratica eresia docetica o monofisita o spiritualista, di predicare la fuga dal mondo, di dimenticare la storia, consegnandola in realtà all'anti-agápe. 1.3. Rapporto tra l'agápe ecclesiale e l'Agápe che è Dio Se queste sono alcune delle caratteristiche fondamentali che l'agápe assume nella vita della Chiesa, non è difficile intravvedere anche qual è il rapporto che queste caratteristiche stabiliscono tra la vita della Chiesa come vita dell'agápe e il mistero di Dio rivelato in Cristo come Agápe. 1.3.1. Il primo rapporto è disegnato da quella che potremmo definire l'iconicità della vita della Chiesa come agápe rispetto al mistero di Dio. Proprio perché deve diventare ciò che è per grazia - evento di agápe in Cristo e per lo Spirito - la Chiesa stessa deve farsi generare e plasmare come trasparenza dell'agápe trinitaria. Dio Padre, il Cristo risorto, lo Spirito, non agiscono al di là, accanto alla Chiesa (anche se è vero - e non bisogna mai dimenticano, pena il tradimento dell'agápe stessa! - che la loro presenza e la loro azione nella storia trascendono sempre la Chiesa), ma si rendono presenti attraverso la Chiesa, quanto più essa sa diventare trasparente icona del loro amore. E’ evidente quanto questa visione, che possiamo ritrovare sia nel tema paolino della Chiesa-Corpo di Cristo come visibilità del Risorto, sia in quello giovanneo dell'unità tra i discepoli come mutua immanenza della Trinità in noi e di noi nella Trinità che rende credibile l'evento della salvezza (cf Gv 17, 21), abbia incidenza sul tema della missione della Chiesa. 1.3.2. Un secondo rapporto fondamentale è quello dell'eccedenza ed inesauribilità che l’agápe di Dio conserva rispetto all'agápe della Chiesa. Quest'ultima, non solo, sempre di nuovo, deve alimentarsi alla sorgente dell’Agápe, ma dev'essere anche cosciente che mai 5 traduce in pienezza e in totalità l'Agápe che è Dio stesso. La coscienza di questa distinzione, di questa alterità che si mantiene nell'unità tra l'Agápe di Dio e l’agápe della Chiesa, è manifestata storicamente dal fatto che la Chiesa non solo testimonia iconicamente l'Agápe di Dio, ma continuamente, e sempre di nuovo, celebra e narra l'agápe del Padre. La celebrazione dell'Eucaristia e la proclamazione-narrazione della parola di Dio testimoniano la profonda autocoscienza che la Chiesa ha non solo di ricevere l'agápe dal Padre per Cristo nello Spirito, ma anche dell'infinita eccedenza di quest’agápe rispetto alla realtà storica della Chiesa. In sintesi, potremmo dire che l'agápe, come forma della Chiesa, ne disegna un volto totalmente relazionale: la Chiesa che si riceve dall'Agápe trinitaria; che è chiamata a proiettarsi verso il mondo, in attesa e in vocazione della consumazione escatologica; che in se stessa è chiamata a ridisegnare quell'evento dell'agápe da cui continuamente nasce, e a modellare la sua diaconia nei confronti del mondo sull'agápe del Cristo; che, infine, riconosce la presenza dell'agápe (almeno come «seme» e «gemito») al di fuori dei suoi confini visibili. 2. L’agape nella missione della Chiesa5 Alla luce di quanto fin qui evidenziato, possiamo delineare si delineano alcune piste pastorali per il cammino ordinario delle nostre comunità. 2.1.La priorità del cuore L 'amore di Dio per noi è questione fondamentale per la vita (Deus caritas est (=DCE. 2) e costituisce la prima novità della rivelazione biblica (Ibid., n. 11). Tornare a questa verità-esperienza originale (nei due sensi del termine di origine e originalità) è il passo necessario per ridefinire e ricomprendere tutto il resto: storia, istituzione, prospettive. Dio e il suo rapporto con l'uomo, fatto di tenerezza, di elezione, di misericordia, di perdono, di offerta di sé, è quella verità di Dio capace di sostenere, dare senso, salvare l'esistenza dell'uomo. Toccato e trasformato da questo amore inaspettato e gratuito, l'uomo è reso capace a sua volta di farsi dono al prossimo. E la supremazia del "cuore", come categoria biblica, in cui era racchiuso e si gioca il rapporto dell'uomo con Dio, con se stesso e con gli altri. In questo senso, tutti gli operatori pastorali dovrebbero essere impegnati a far crescere un'immagine di Chiesa chiamata ad essere figlia e testimone dell'amore di Dio, forma organizzata e intelligente della relazione agapica universale. 5 In questa seconda parte si terrà particolarmente presente l’Enciclica Deus caritas est. 6 Una Chiesa dove hanno un ruolo importante le relazioni interne ad essa, quelle che mettono gli uomini gli uni accanto agli altri, quelle che si interessano della qualità umana dei soggetti, quelle che fanno appello alle ragioni del cuore e non a quelle dell'autoaffermazione. Una Chiesa casa e scuola di comunione, dove è bello che i fratelli vivano insieme! 2.2. L'unificazione dell'esperienza umana: la persona al centro dell'attenzione caritativa La persona umana, creata a immagine e somiglianza di un Dio amore, esprime la sua dimensione religiosa nella sua totalità: anima e corpo (DCE 2; 5). Se il Papa nell’enciclica tende a ricucire in unità aspetti diversi dell'esperienza umana, come eros e agàpé, che la nostra cultura ci ha insegnato a dividere e a contrapporre, il Convegno ecclesiale di Verona ha, con forza, invitato a rimettere al centro la persona. Il nostro tempo è infatti segnato da forti contrapposizioni: esterno e interno, vicino e lontano, anima e corpo, chierico e laico, uomo e donna, religioso e secolare, tempo ed eternità. E anche la stessa identità dell’uomo è ormai assimilabile ad un puzzle da comporre e scomporre a proprio piacimento. Un cammino di riconciliazione impegna nello sforzo di una lettura unitaria tra Chiesa e società/mondo, tra impegno e contemplazione, tra coscienza cristiana e cultura, ambiti che per troppo tempo sono stati visti separati. Qui urge davvero un lavoro di ricomposizione della complessità del reale, evitando tentazioni semplicistiche e letture parziali della realtà. Non esistono dimensioni della persona che non rispecchiano la somiglianza divina e, pertanto, ogni offesa alla persona, ogni violenza, ogni forma di sfruttamento, ogni mancanza di tutela dei diritti fondamentali della persona tradisce l'immagine di Dio e l'immagine dell'uomo. 2.3. Lo scioglimento dell'ambiguità della relazione Chiesa-mondo Se l'amore è alla base dell'essere e dell'identità del cristiano e della Chiesa, anche il rapporto Chiesa a- mondo può uscire dall'ambiguità nella quale alcune interpretazioni, no solo del passato, l’hanno condotto. E’, certo, un rapporto, che non può essere definito una volta per sempre e in maniera rigida, che ha bisogno di essere ripensato e fondato. La Deus Caritas Est indica precise scelte da attuare e maturare nel tempo. Soprattutto nella prima parte, usa il metodo del confronto leale e critico rispetto al pensiero filosofico che ha determinato molte ideologie negli ultimi due secoli, ponendosi sul piano del dialogo con tutti coloro che si preoccupano seriamente dell'uomo e del suo mondo (DCE 27). Da ciò si coglie l'indicazione a far sì che dialoghino percezioni e punti di vista differenti in riferimento ai bisogni e ai problemi delle persone e delle comunità; a promuovere occasioni di incontro e confronto con i vari soggetti, a fornire materiale, studi, letture del territorio, per rispondere nel 7 modo più pieno alle esigenze della persona. Parlando della dottrina sociale della Chiesa, il Papa afferma che non si vuole imporre a coloro che non condividono la fede prospettive e modi di comportamento che appartengono a questa (Ibid., n.28). Ciò nonostante è importante amplificare e diffondere, nel quadro di una pastorale unitaria, efficaci esperienze e strategie di accoglienza e di soluzione dei bisogni, elaborate sul territorio dalle diverse realtà ecclesiali locali. 2.4. Lo scioglimento dell'ambiguità del servizio della carità Anche per quanto riguarda il servizio della carità, all'interno della stessa Chiesa, è possibile rilevare posizioni non facilmente concordabili: c'è chi non lo riconosce tra le priorità dei compiti, dove invece primeggerebbe l'annuncio del Vangelo; c'è chi vi vede solo un compito di sussidiarietà nei confronti dello Stato; c'è, ancora, chi lo accetterebbe come forma puramente assistenziale e chi invece contesta questa impostazione; chi ritiene che la Chiesa debba esprimere un suo proprio Organismo pastorale; chi invece non ne vede la necessità, data la presenza ancora numerosa di gruppi e associazioni cattoliche dedite alla carità e il crescente numero di organizzazioni di volontariato. Accanto agli Orientamenti pastorali della CEI del decennio scorso «Evangelizzazione e testimonianza della carità», l'Enciclica del Papa, chiarisce che «l'amore per il prossimo è una strada per incontrare anche Dio e che il chiudere gli occhi di fronte al prossimo rende ciechi anche di fronte a Dio» (DCE.16). Inoltre, ricorda che «l'amore del prossimo radicato nell'amore di Dio è anzitutto un compito per ogni singolo fedele, ma e anche un compito per l'intera comunità ecclesiale, e questo a tutti i livelli» (Ibid., n.20). E ancora: «La carità non è per la Chiesa una specie di attività di assistenza sociale che si potrebbe anche lasciare ad altri, ma appartiene alla sua natura, è espressione irrinunciabile della sua stessa essenza» (DCE.25a). È evidente che nell'Enciclica non c'è solo una rivalutazione della carità e del servizio che la storicizza, ma ne è affermata la centralità oltre ogni possibile diversa interpretazione. 2.5. La scelta di abitare, frequentare, vivere il territorio «Chi vuole sbarazzarsi dell'amore si dispone a sbarazzarsi dell'uomo in quanto uomo. Ci sarà sempre sofferenza che necessita di consolazione di aiuto. Sempre ci sarà solitudine. Sempre ci saranno anche situazioni di necessità materiale nelle quali è indispensabile un aiuto nella linea di un concreto amore per il prossimo» (DCE.28). Se la storia non è un semplice succedersi di fatti, ma un luogo in cui al credente è chiesto di 8 porsi in ascolto di un Dio che nei fatti e nei volti interpella, allora ogni fatto o avvenimento interpella, provoca le nostre comunità, sollecitandole ad uscire dal lento quanto annoiato percorso di vita, ritmato dal ripetersi di gesti e parole, per accogliere una domanda che da altrove giunge ad esse. Il Vangelo non è il custode delle coscienze tranquille. È piuttosto dono da offrire, fuoco da portare e sogno in cui abitare. E’ invito ad affrontare i problemi, a collocarci, attraverso la contemplazione del volto di Cristo, nei crocevia dove passano le contraddizioni e le fragilità della vita di ogni uomo. Il frequentare e l'abitare la vita, il territorio, la storia, interpella le comunità, mettendo in luce come accanto alla risposta di solidarietà immediata, giocata forse più sull'onda di un'emozione che sul sentiero ordinario e quotidiano della carità, c'è un tessuto comunitario ancora fragile, una conflittualità che continuamente riemerge. Chiamati a comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, mai come oggi l'evangelizzazione ha un tema così aderente agli interessi, alle attenzioni e alle domande della gente. Frequentare ed abitare le nostre esperienze ecclesiali, dentro la storia e i territori a cui appartengono, significa saldare la pastorale dell'accoglienza con il dovere della denuncia, dell'andare dove la dignità dell'uomo è più calpestata e dove il grido è più soffocato: «...La stessa sollecitudine per il vero bene dell'uomo che ci spinge a prenderci cura delle sorti delle famiglie e del rispetto della vita umana si esprime nell'attenzione ai poveri che abbiamo tra noi, agli ammalati, gli immigrati, ai popoli decimati dalle malattie, dalle guerre e dalla fame.. Ricordiamoci sempre delle parole del Signore: quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me (Mt.25,40)»6. Una Chiesa troppo chiusa nel tempio o abbarbicata attorno al campanile è una comunità che non solo si sottrae alle grida degli uomini, ma che si dimentica anche della fedeltà alla Parola e al Pane del suo Dio. 2.6. La scelta della cura delle relazioni «...Sono nate e cresciute, tra le istanze statali ed ecclesiali, numerose forme di collaborazione che si sono rivelate fruttuose. Le istanze ecclesiali, con la trasparenza del loro operare e la fedeltà al dovere di testimoniare l'amore, potranno animare cristianamente anche le istanze civili, favorendo un coordinamento vicendevole che non mancherà di giovare all'efficacia del servizio caritativo» (DCE, n.30). Con queste sottolineature, l'Enciclica ci invita a rileggere il vasto mondo delle parrocchie e 6 BENEDETTO XVI, Intervento all’Assemblea Generale CEI (30 maggio 2005). 9 dei territori nella prospettiva del laboratorio di relazioni per ribadire la centralità dell'uomo e la funzione storica di una Chiesa esperta in umanità. È la posizione anche dell'Episcopato italiano che afferma: «In un contesto che spesso conduce alla dispersione e all'aridità, cresce per contrasto l'esigenza di legami caldi... Le parrocchie devono essere dimore che sanno accogliere e ascoltare paure e speranze della gente, domande e attese, anche inespresse, e che sanno offrire una coraggiosa testimonianza e un annuncio credibile della verità che è Cristo»7. Questo presupposto conduce all'individuazione di alcuni principali ambiti di lavoro pastorale. a) La cura delle relazioni in famiglia e tra famiglie. La famiglia appare oggi profondamente segnata da conflittualità, separazioni, abbandoni e distanze, disagio ed esclusione. Particolare cura è necessaria per le famiglie segnate dal dolore, dalla separazione dei coniugi e/o da relazioni parentali frantumate e confuse, soprattutto per i minori. Le comunità cristiane sono chiamate a valorizzare le opportunità di contatto per impostare cammini di ascolto e accompagnamento e per costruire nuove storie di prossimità. b) La cura delle relazioni in parrocchia e tra parrocchie. Parlare di parrocchia come laboratorio di relazioni e come famiglia di famiglie sarebbe riduttivo se la si schiacciasse su singole esperienze, o se si trascurasse la ricchezza delle altre espressioni che prendono vita al suo interno (le comunità religiose, i gruppi, i movimenti, le associazioni). Doni suscitati dallo Spirito, queste esperienze sfidano la parrocchia a farsi insieme di laboratori comunione di comunità. c) La cura di un rinnovato tessuto di relazioni sociali. La comunità cristiana può assumere il ruolo di soggetto che realizza cammini di collaborazione e proposte educative per promuovere un modello fraterno di relazioni sociali che diventi cultura, stile, civiltà diffusa e condivisa. Nell'assumere questa responsabilità educativa, la comunità è chiamata a ricomprendersi quale soggetto di cittadinanza territoriale, che si confronta in rete con le diverse organizzazioni della società civile. I cristiani diventano così costruttori e tessitori di legami forti. Rientrano in quest'ambito anche le relazioni con le istituzioni del pubblico e del privato, in cui le comunità non possono rinunciare alla funzione di sentinelle nei confronti del territorio e di tutti quelli che lo abitano, in particolare dei poveri. 2.7. La scelta di animare attraverso la pedagogia dei fatti e la spiritualità della carità L'Enciclica afferma che gli operatori e gli animatori della carità «...Devono essere persone mosse innanzitutto dall'amore di Cristo, persone il cui cuore Cristo ha conquistato con il suo 7 CEI, Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia, n.2 10 amore, risvegliandovi l'amore per il prossimo. il criterio ispiratore del loro agire dovrebbe essere l'affermazione di Paolo: l'amore del Cristo ci spinge» (2Cor.5,14; DCE, n.33). Ma con quali percorsi? a) La pedagogia dei fatti. Benedetto XVI esorta a camminare nella carità caratterizzandola di concretezza e immediatezza, di competenza e passione, di progettualità e gratuità. Gesti concreti, impegni personali e familiari, accoglienza e ospitalità nella propria casa o nei luoghi di accoglienza comunitaria, messa a disposizione gratuita del proprio tempo e delle proprie capacità, presa in carico da parte della comunità cristiana di un servizio continuativo, legami durevoli nel tempo con una comunità del Sud del mondo, interventi di solidarietà nelle emergenze. Possono essere occasioni per crescere come famiglia di Dio, per aprirsi a una fraternità sempre più ampia. Agire nel quotidiano, sporcarsi le mani con i poveri, progettare insieme le risposte e riflettere sul senso di quello che si fa, di che cosa cambia nella vita degli ultimi e della comunità che li accoglie, sono orizzonti che si aprono, percorrendo la via della prossimità e del dono di se. Ancora, lo stretto collegamento tra gli impegni di carità e i doveri di giustizia, risalire alle cause e contrastarle per risolvere i problemi, coniugare lo sviluppo dei popoli e lo sviluppo della pace nel mondo, saldare insieme le grandi prospettive di cambiamento sociale e politico con i piccoli passi quotidiani e con la coerenza personale, sono concreti ambiti entro i quali esprimere prossimità. b) La spiritualità della carità. Un'attenzione che dovrà attraversare tutti gli approfondimenti, i vari progetti, le presenze dentro i mondi dei poveri, nella comunità e nel territorio, è quella di una spiritualità che, facendosi prossima delle situazioni di bisogno, sofferenza, disagio e sfruttamento, interroga la vita dell'intera comunità, le sue attività ordinarie, il senso profondo di gesti spesso dati per scontati (dal segno di pace alla frazione del pane). La spiritualità di cui c'è bisogno per dare un anima alla testimonianza della carità, è la spiritualità di speranza capace di tenuta di fronte alle prove e agli insuccessi, che accetta la fatica del servizio meno gratificante, che vede un cammino di salvezza anche nelle situazioni umane più degradate, che mette in crisi l'efficienza paga dei suoi risultati. A chi s'impegna a servire, la spiritualità della carità e della prossimità indica gli orizzonti del Regno che è passione per la vita, purificazione di ogni speranza, nostalgia di un'armonia e di un incontro che riuscirà a trovare finalmente il compimento in Dio-Amore. Perché ciò accada è indispensabile un profondo legame tra l'azione pastorale e tutta la vita della comunità cristiana, tra la professione di fede e l'agire del credente, tra il dono dell'eucaristia e la disponibilità a farsi dono ai fratelli. 11 La spiritualità che nasce dall'esercizio della carità è una spiritualità di grande respiro, con un movimento e una dinamica missionaria che fa dell'incontro, del rapporto e del dialogo i suoi capisaldi, perché è capace di scorgere la presenza e l'opera di Dio dentro le realtà create. E una spiritualità che concerne l'uomo, e non solo i suoi problemi, la sua intera esistenza personale e sociale, la scuola, l'ambiente professionale e di lavoro, la comunità politica, la salute e la malattia, l'amore e la famiglia, come pure i valori della pace e della mondialità, del servizio e della solidarietà, della giustizia e della carità. Inoltre è una spiritualità che si realizza nel proporre e propugnare una visione unitaria, che eviti ogni pericolosa schizofrenia e ogni contrapposizione, indicando lo stretto e connaturale legame che abbraccia fede, preghiera e carità; parola, sacramento e testimonianza 12