L'AGAPE: IDENTITÀ E MISSIONE DELLA CHIESA
Otranto, 10 settembre 2008.
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Qual è, in radice, il rapporto tra l'agápe e la Chiesa, come comunità dei discepoli di
Cristo, pellegrina nella storia? E quale il rapporto tra l'agápe e l'annuncio di Cristo che la
Chiesa è chiamata a offrire e incarnare oggi nel mondo come urgente ed essenziale debito di
amore? Questi sono i due nuclei fondamentali che, debbono attirare la nostra attenzione e
informare la nostra prassi: da un lato, l'agápe vista nella prospettiva della vita della Chiesa al
suo interno, nel suo essere; dall'altro, l'agápe vista in rapporto alla missione della Chiesa nei
confronti del mondo, e, in particolare, nei confronti degli ultimi e dei poveri, cui Cristo con
preferenza la indirizza. L'agápe, dunque, al cuore della comunione e della missione della
Chiesa perché ne racchiude il «mistero» che viene da Dio e la orienta verso di Lui. L'agápe
«forma» della Chiesa1.
L’agape “forma” dell’identità della Chiesa
1. L’agápe “forma” dell’identità della Chiesa.
Si tratta di un tema che è stato al centro della riflessione di molte istanze presenti nella
Chiesa in Italia nella seconda metà degli anni ’80 e agli inizi degli anni ’90 in concomitanza
degli Orientamenti pastorali Evangelizzazione e testimonianza della carità2 e negli ultimi anni
in occasione dell’ Enciclica di Benedetto XVI Deus caritas est3.
1.1. La sorgente «teologica» e «trinitaria» dell'agápe
Per affrontare il tema del rapporto tra l'agápe e la Chiesa è fondamentale innanzitutto porsi la
Utilizziamo l’espressione l’”agape forma della chiesa” con la consapevolezza della difficoltà – a causa di una
storia travagliata – che l’uso comporta. Ci muoviamo nella linea della prospettiva disegnata ad es. da L.
SARTORI nel suo «Caritas forma Ecclesiae», in Lateranum 51 (1985), 20-40: «L’amore divino dà alla Chiesa
l’essere e l’operare, fa sì che essa “sia” un soggetto “unus ex multis” e fa sì che essa “operi” come soggetto
storico unitario per l’unificazione del mondo» (p.28). Cf. anche i contributi di S.DIANICH (con un’ampia
introduzione storica e sistematica) e C.MOLARI (con precise e stringenti puntualizzazioni) in ATI (ed.) De
caritate Ecclesia, Messaggero, Padova 1987,, 27-110, 256-269 ed di B.GHERARDINI (con un’impostazione più
tradizionale) in Aa.VV., La carità. Teologia e pastorale alla luce di Dio-Agape, EDB, Bologna1994, 103-114.
2
Oltre ai testi citati nella nota precedente ricordiamo: P.DONI (ed.), Diaconia della carità nella pastorale della
Chiesa locale, Gregoriana, Padova 1986; L.BARONIO (ed.), La carità, Piemme-Caritas, Casale Monferrato 1996;
CARITAS ITALIANA (ed), Il Vangelo della carità per le nostre chiese, EDB, Bologna 1992; P.CODA, L’agape
come grazia e libertà. Alla radice della teologia e prassi dei cristiani, Città Nuova, Roma 1994; COP –
CARITAS ITALIANA (edd), La sfida della carità. Verso una parrocchia fatta vangelo per glil ultimi, EDB,
Bologna 1994.
3
R.FISICHELLA (ed.), Dio è amore. Commento teologico-pastorale a Deus Caritas Est, Lateran University Press,
Città del Vaticano 2006 ; L.MELINA-C.A.ANDERSON (edd.), La via dell’amore. Riflessioni sull’enciclica Deus
caritas est di Benedetto XVI, Pontificio Istituto Giovanni Paolo II, Città del Vaticano2006 ; J.I.MUYA (ed.), La
scala della carità. Commento all’enciclica Deus Caritas est, Urbaniana University Press, Città del Vaticano
2007.
1
1
domanda sulla sorgente dell'agápe, e - di conseguenza - sulla sorgente dell'essere della
Chiesa. In effetti, sulla base dell'esame dell'Antico e soprattutto del Nuovo Testamento,
possiamo dire che il termine agápe viene usato come categoria cristologica per descrivere e
annunciare la totalità dell'evento Cristo. Basti ricordare la 1Gv: «Da questo abbiamo
conosciuto l'agápe: Egli ha dato la sua vita per noi» (1Gv 3,16; c£ 4,10). L’agápe è il Cristo
stesso come evento dell'autocomunicazione salvifica del Padre alla storia dell'uomo nella
libertà-unità dello Spirito Santo. E’ contemplando l'avvenimento del Cristo, che trova ilsuo
culmine nell’evento della croce e della risurrezione, che l'uomo incontra l'agápe del Padre.
In questa prospettiva, l'agápe rinvia di per sé alla sorgente propriamente teologica dell'evento
Cristo. E’ ancora la 1Gv a nominare Dio stesso col nome di Agápe (4, 8.16). Non si tratta di
una definizione metafisica, ma di un termine riassuntivo che condensa l'esperienza della
comunità apostolica soprattutto post-pasquale e, allargando lo sguardo, l'intera esperienza
d'Israele dinamicamente protesa verso il suo compimento cristologico. JHWH, che nell'Antico
Testamento si è presentato come Dio dell'Alleanza, fedele e misericordioso, rivelando a Mosè
il suo nome sul monte Sinai, ha sottolineato a un tempo la sua infinita trascendenza rispetto
alla storia e la sua più intima prossimità all'uomo: Egli è il Dio-con-gli-uomini. La rivelazione
veterotestamentaria, giunge al suo compimento nell'evento Cristo e nel dono dello Spirito. E’
autocomunicandosi in Cristo e nello Spirito che Dio si rivela per quello che Egli intimamente
è: perché «è» Agápe in Se stesso, Egli si rivela Agápe verso l'uomo in Cristo, donando il
Figlio Suo agli uomini, ed effondendo il Suo Spirito nel cuore dei credenti. Rivelandosi, Dio
«squaderna» il suo Essere interiore come infinito mistero di dono, scambio e reciproca
accoglienza, in una parola di Amore, e invita l'uomo liberamente a parteciparvi.
Come ben comprende e testimonia tutto il Nuovo Testamento, il divino «piano inclinato» di
questa autocomunicazione di Dio Agápe sono la kenosi e la croce del Cristo (cf Fil 2, 6-11).
E’ un volto infinitamente nuovo di Dio quello che la croce del Cristo ci rivela: il Dio
onnipotente che si fa umile, il Dio infinito che si fa piccolo, il Dio santo che si fa peccato (cf.
Gal 3,13; 2 Cor 5, 21). E’ solo di fronte a questa paradossale e abissale testimonianza
dell'agápe di Dio, che l'uomo scopre che cos'è l'amore nella sua pienezza e nella sua «verità»
teologica che è, di conseguenza, «verità» della creazione e dell'uomo.
Ed è di qui, da questa contemplazione, da questo credere all'amore (cf.1 Gv 4,16), e cioè
dall'aprirsi fiduciosamente e totalmente all'evento dell'agápe di Dio in Cristo per mezzo dello
Spirito, che nasce la Chiesa. Come luminosamente si esprime l'evangelista Giovanni, la
Chiesa è la comunità di coloro che sono attirati dal Crocifisso: essi guardano a Colui «che è
stato trafitto» (Gv 19, 37; c£ 8, 28; 12, 32), contemplano lo spettacolo dell'agápe del Padre e
2
del Figlio (cf. Lc 23, 48), accolgono il loro dono (lo Spirito Santo), e, convertendosi,
liberamente decidono di seguire Cristo facendosi essi stessi promotori, banditori e trasmettitori del suo evento di agápe nelle trame variegate e pericolose della storia dell'uomo. Se
Cristo «racconta» l'agápe del Padre nella forza dello Spirito, la comunità ecclesiale nella forza
del medesimo Spirito «racconta» l'evento-agápe del Cristo per farlo diventare in pienezza
storia degli uomini.
1.2. Le caratteristiche dell’agápe come «forma» della vita ecclesiale
In questa prospettiva l'agápe non è soltanto l'origine e la sorgente dell'evento ecclesiale, ma
ne diventa la «forma» di vita.
1.2.1. Innanzitutto, l’agápe significa e configura rispetto, apertura e prossimità nei confronti
dell'alterità. Essa nasce quando l'uomo, toccato dall'amore del Padre in Cristo, si fa capace di
riconoscere nell'altro uomo il volto di un fratello, anzi, del «primogenito» (cf Rm 8, 29; Col 1,
15; Ap 1, 5), che si rispecchia nei molti fratelli: il Cristo. Come ben sottolinea oggi, ad
esempio, E. Lévinas riletto e approfondito da P.Ricoeur4, già nell'Antico Testamento il
riconoscimento del volto del fratello diventa per l'uomo l'occasione dell'esperienza etica, il
luogo dove irrompe dall'alto (da JHWH) l'imperativo: «Non uccidere», «Ama il prossimo
come te stesso». E non soltanto dell'esperienza etica, ma anche - come presupposto e
conseguenza - dell'esperienza religiosa. Nel «tu» che lo interpella, l'«io» nasce alla sua
responsabilità etica. Ma, allo stesso tempo, vede e sperimenta tralucere, attraverso il volto
dell'altro e nel «tra» che così si realizza tra sé e lui, la presenza dell'Altro assoluto che lo
interpella. Dunque, la prima caratteristica dell'agápe è proprio quella della scoperta
dell'alterità che diventa esigenza etica di prossimità. Come Dio mi personalizza attraverso la
sua agápe, donandomi la mia identità, custodendola nella sua alterità e promuovendola verso
il suo dispiegamento nella comunione con Sé, così l' amore del cristiano è chiamato a
personalizzare (nella grazia) l'altro uomo riconoscendolo, anzi facendolo diventare fratello.
1.2.2. Seconda fondamentale caratteristica dell'evento dell'agápe è la reciprocità. Il rapporto
col volto dell'altro giunge al suo compimento quando, in risposta al mio riconoscimento,
l'altro riconosce anche me come fratello. E’ il comandamento «nuovo» del Cristo (il «mio»
comandamento) che ne riassume il messaggio: «amatevi l'un l'altro come io ho amato voi»
4
Cf. P.RICOEUR, Soi-même comme un autre, Du Seuil, Paris 1990 (tr. it., Jaka Book, Milano 1993). Per una
rilettura storica penetrante della vicenda dell’ethos occidentale e della sua fedeltà/infedeltà a quello biblico, cf. I.
MANCINI, L’ethos dell’Occidente, Marietti, Genova 1990.
3
(Gv 15, 12). L'agápe ha infatti, per natura sua, una struttura di reciprocità, come rivela in
pienezza il mistero della Trinità di Dio. Il dono che il Padre fa a noi del Figlio, e il dono che il
Figlio fa di Sé a noi sulla croce, hanno il loro compimento nella reciprocità tra il Padre e il
Figlio dischiusa nella luce e nella forza (dynamis) dello Spirito della risurrezione e, per
partecipazione, a noi donata dallo stesso Spirito nella reciprocità di risposta che l'uomo è
chiamato a dare nei confronti dell'evento dell'Agápe del Padre e del Figlio. Questa
caratteristica di reciprocità porta a compimento l'agape come riconoscimento dell’alterità del
volto del prossimo, e realizzando la comunione tra i soggetti che entrano in rapporto non ne
sopprime ma ne esalta l'alterità.
La Chiesa trova in questo evento la sua essenza più profonda: l'unità (per dirla in termini
giovannei), l'essere un corpo solo (per dirla in termini paolini), che s'esprime in una
pluriformità di libere identità personali, che restano ciascuna insopprimibile e insostituibile di
fronte a Dio e di fronte ai fratelli, e che lo Spirito adorna di molteplici carismi e lega in
profonda comunione.
1.2.3. Come narra lo «spettacolo» della croce del Cristo, così com'è sviscerato nella sua
profondità dall'inno di san Paolo della lettera ai Filippesi, l'agápe mostra anche di avere, in
quanto struttura di reciprocità, una caratterizzazione kenotica. Il riconoscimento dell'alterità,
la pienezza della reciprocità come unità nella distinzione, presuppongono la capacità nello
Spirito di «perdersi per ritrovarsi» (cf. Lc 9, 25; Gv 15,13; Gv 10, 17s.). E’ questa la legge
trinitaria dell'agápe. Come il Padre è Se stesso in quanto è relazione, dono di Sé totale al
Figlio, e tale è il Figlio nel rapporto col Padre, così anche il credente è chiamato, nel seguire
Gesù, a vivere questa legge pasquale di morte a sé e risurrezione in Cristo. E quello che vale
nel rapporto tra il singolo credente e Cristo vale anche nel rapporto tra i credenti, innestati per
lo Spirito nell'unico Cristo. Senza questa profondità kenotica, l'agápe non raggiunge la
pienezza della sua verità (ontologica, etica e pratica).
1.2.4. Un’ulteriore caratteristica dell'agápe è quella della sua costitutiva apertura ed effusività
al e nel «terzo». L’agápe è infatti per sé effusiva. Come il Padre e il Figlio sono uno e distinti
nello Spirito, e lo Spirito rappresenta allo stesso tempo, il cuore, l'intimo di Dio e il Suo
estremo, la sua «estasi» - il sigillo dell'unità di Dio, e il traboccare del Suo amore nella
creazione e nella storia -, così l'agápe ecclesiale è, per definizione, il contrario della chiusura
settaria e del ghetto. Mentre fonde in comunione e unità, l'agápe spinge alla missione, perché
è di per sé apertura e traboccamento. Se manca una di queste due caratteristiche - la profonda
4
unità e la decisa apertura al «terzo» - la Chiesa non vive la sua forma che è l'agápe del Cristo.
1.2.5. Infine, ultima caratteristica dell'agápe come forma della Chiesa, è la sua concretezza,
ovvero la sua storicità. L’agápe del Padre si è incarnata nel Figlio, si è fatta storia, parola,
gesto. Così, per la struttura antropologica e per la modalità incarnatoria dell'evento della
salvezza, l’agápe s'esprime nella totalità dell'essere dell'uomo e delle sue molteplici e
costitutive dimensioni d'esistenza; si mostra nella parola, si traduce nel gesto, si edifica nella
struttura, si «politicizza» nella trasformazione del rapporto sociale. Senza questa concretezza
storica, l'agápe ecclesiale non è cristologica, corre anzi il rischio di incappare in una pratica
eresia docetica o monofisita o spiritualista, di predicare la fuga dal mondo, di dimenticare la
storia, consegnandola in realtà all'anti-agápe.
1.3. Rapporto tra l'agápe ecclesiale e l'Agápe che è Dio
Se queste sono alcune delle caratteristiche fondamentali che l'agápe assume nella vita della
Chiesa, non è difficile intravvedere anche qual è il rapporto che queste caratteristiche
stabiliscono tra la vita della Chiesa come vita dell'agápe e il mistero di Dio rivelato in Cristo
come Agápe.
1.3.1. Il primo rapporto è disegnato da quella che potremmo definire l'iconicità della vita della
Chiesa come agápe rispetto al mistero di Dio. Proprio perché deve diventare ciò che è per
grazia - evento di agápe in Cristo e per lo Spirito - la Chiesa stessa deve farsi generare e
plasmare come trasparenza dell'agápe trinitaria. Dio Padre, il Cristo risorto, lo Spirito, non
agiscono al di là, accanto alla Chiesa (anche se è vero - e non bisogna mai dimenticano, pena
il tradimento dell'agápe stessa! - che la loro presenza e la loro azione nella storia trascendono
sempre la Chiesa), ma si rendono presenti attraverso la Chiesa, quanto più essa sa diventare
trasparente icona del loro amore. E’ evidente quanto questa visione, che possiamo ritrovare
sia nel tema paolino della Chiesa-Corpo di Cristo come visibilità del Risorto, sia in quello
giovanneo dell'unità tra i discepoli come mutua immanenza della Trinità in noi e di noi nella
Trinità che rende credibile l'evento della salvezza (cf Gv 17, 21), abbia incidenza sul tema
della missione della Chiesa.
1.3.2. Un secondo rapporto fondamentale è quello dell'eccedenza ed inesauribilità che
l’agápe di Dio conserva rispetto all'agápe della Chiesa. Quest'ultima, non solo, sempre di
nuovo, deve alimentarsi alla sorgente dell’Agápe, ma dev'essere anche cosciente che mai
5
traduce in pienezza e in totalità l'Agápe che è Dio stesso. La coscienza di questa distinzione,
di questa alterità che si mantiene nell'unità tra l'Agápe di Dio e l’agápe della Chiesa, è
manifestata storicamente dal fatto che la Chiesa non solo testimonia iconicamente l'Agápe di
Dio, ma continuamente, e sempre di nuovo, celebra e narra l'agápe del Padre. La celebrazione
dell'Eucaristia e la proclamazione-narrazione della parola di Dio testimoniano la profonda
autocoscienza che la Chiesa ha non solo di ricevere l'agápe dal Padre per Cristo nello Spirito,
ma anche dell'infinita eccedenza di quest’agápe rispetto alla realtà storica della Chiesa.
In sintesi, potremmo dire che l'agápe, come forma della Chiesa, ne disegna un volto
totalmente relazionale: la Chiesa che si riceve dall'Agápe trinitaria; che è chiamata a
proiettarsi verso il mondo, in attesa e in vocazione della consumazione escatologica; che in se
stessa è chiamata a ridisegnare quell'evento dell'agápe da cui continuamente nasce, e a
modellare la sua diaconia nei confronti del mondo sull'agápe del Cristo; che, infine, riconosce
la presenza dell'agápe (almeno come «seme» e «gemito») al di fuori dei suoi confini visibili.
2. L’agape nella missione della Chiesa5
Alla luce di quanto fin qui evidenziato, possiamo delineare si delineano alcune piste pastorali
per il cammino ordinario delle nostre comunità.
2.1.La priorità del cuore
L 'amore di Dio per noi è questione fondamentale per la vita (Deus caritas est (=DCE. 2) e
costituisce la prima novità della rivelazione biblica (Ibid., n. 11).
Tornare a questa verità-esperienza originale (nei due sensi del termine di origine e originalità)
è il passo necessario per ridefinire e ricomprendere tutto il resto: storia, istituzione,
prospettive.
Dio e il suo rapporto con l'uomo, fatto di tenerezza, di elezione, di misericordia, di perdono,
di offerta di sé, è quella verità di Dio capace di sostenere, dare senso, salvare l'esistenza
dell'uomo. Toccato e trasformato da questo amore inaspettato e gratuito, l'uomo è reso capace
a sua volta di farsi dono al prossimo. E la supremazia del "cuore", come categoria biblica, in
cui era racchiuso e si gioca il rapporto dell'uomo con Dio, con se stesso e con gli altri. In
questo senso, tutti gli operatori pastorali dovrebbero essere impegnati a far crescere
un'immagine di Chiesa chiamata ad essere figlia e testimone dell'amore di Dio, forma
organizzata e intelligente della relazione agapica universale.
5
In questa seconda parte si terrà particolarmente presente l’Enciclica Deus caritas est.
6
Una Chiesa dove hanno un ruolo importante le relazioni interne ad essa, quelle che mettono
gli uomini gli uni accanto agli altri, quelle che si interessano della qualità umana dei soggetti,
quelle che fanno appello alle ragioni del cuore e non a quelle dell'autoaffermazione. Una
Chiesa casa e scuola di comunione, dove è bello che i fratelli vivano insieme!
2.2. L'unificazione dell'esperienza umana: la persona al centro dell'attenzione caritativa
La persona umana, creata a immagine e somiglianza di un Dio amore, esprime la sua
dimensione religiosa nella sua totalità: anima e corpo (DCE 2; 5). Se il Papa nell’enciclica
tende a ricucire in unità aspetti diversi dell'esperienza umana, come eros e agàpé, che la nostra
cultura ci ha insegnato a dividere e a contrapporre, il Convegno ecclesiale di Verona ha, con
forza, invitato a rimettere al centro la persona. Il nostro tempo è infatti segnato da forti
contrapposizioni: esterno e interno, vicino e lontano, anima e corpo, chierico e laico, uomo e
donna, religioso e secolare, tempo ed eternità. E anche la stessa identità dell’uomo è ormai
assimilabile ad un puzzle da comporre e scomporre a proprio piacimento. Un cammino di
riconciliazione impegna nello sforzo di una lettura unitaria tra Chiesa e società/mondo, tra
impegno e contemplazione, tra coscienza cristiana e cultura, ambiti che per troppo tempo sono
stati visti separati. Qui urge davvero un lavoro di ricomposizione della complessità del reale,
evitando tentazioni semplicistiche e letture parziali della realtà.
Non esistono dimensioni della persona che non rispecchiano la somiglianza divina e, pertanto,
ogni offesa alla persona, ogni violenza, ogni forma di sfruttamento, ogni mancanza di tutela
dei diritti fondamentali della persona tradisce l'immagine di Dio e l'immagine dell'uomo.
2.3. Lo scioglimento dell'ambiguità della relazione Chiesa-mondo
Se l'amore è alla base dell'essere e dell'identità del cristiano e della Chiesa, anche il rapporto
Chiesa a- mondo può uscire dall'ambiguità nella quale alcune interpretazioni, no solo del
passato, l’hanno condotto. E’, certo, un rapporto, che non può essere definito una volta per
sempre e in maniera rigida, che ha bisogno di essere ripensato e fondato.
La Deus Caritas Est indica precise scelte da attuare e maturare nel tempo. Soprattutto nella
prima parte, usa il metodo del confronto leale e critico rispetto al pensiero filosofico che ha
determinato molte ideologie negli ultimi due secoli, ponendosi sul piano del dialogo con tutti
coloro che si preoccupano seriamente dell'uomo e del suo mondo (DCE 27). Da ciò si coglie
l'indicazione a far sì che dialoghino percezioni e punti di vista differenti in riferimento ai
bisogni e ai problemi delle persone e delle comunità; a promuovere occasioni di incontro e
confronto con i vari soggetti, a fornire materiale, studi, letture del territorio, per rispondere nel
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modo più pieno alle esigenze della persona.
Parlando della dottrina sociale della Chiesa, il Papa afferma che non si vuole imporre a coloro
che non condividono la fede prospettive e modi di comportamento che appartengono a questa
(Ibid., n.28). Ciò nonostante è importante amplificare e diffondere, nel quadro di una
pastorale unitaria, efficaci esperienze e strategie di accoglienza e di soluzione dei bisogni,
elaborate sul territorio dalle diverse realtà ecclesiali locali.
2.4. Lo scioglimento dell'ambiguità del servizio della carità
Anche per quanto riguarda il servizio della carità, all'interno della stessa Chiesa, è possibile
rilevare posizioni non facilmente concordabili: c'è chi non lo riconosce tra le priorità dei
compiti, dove invece primeggerebbe l'annuncio del Vangelo; c'è chi vi vede solo un compito
di sussidiarietà nei confronti dello Stato; c'è, ancora, chi lo accetterebbe come forma
puramente assistenziale e chi invece contesta questa impostazione; chi ritiene che la Chiesa
debba esprimere un suo proprio Organismo pastorale; chi invece non ne vede la necessità,
data la presenza ancora numerosa di gruppi e associazioni cattoliche dedite alla carità e il
crescente numero di organizzazioni di volontariato.
Accanto agli Orientamenti pastorali della CEI del decennio scorso «Evangelizzazione e
testimonianza della carità», l'Enciclica del Papa, chiarisce che «l'amore per il prossimo è una
strada per incontrare anche Dio e che il chiudere gli occhi di fronte al prossimo rende ciechi
anche di fronte a Dio» (DCE.16). Inoltre, ricorda che «l'amore del prossimo radicato
nell'amore di Dio è anzitutto un compito per ogni singolo fedele, ma e anche un compito per
l'intera comunità ecclesiale, e questo a tutti i livelli» (Ibid., n.20).
E ancora: «La carità non è per la Chiesa una specie di attività di assistenza sociale che si
potrebbe anche lasciare ad altri, ma appartiene alla sua natura, è espressione irrinunciabile
della sua stessa essenza» (DCE.25a).
È evidente che nell'Enciclica non c'è solo una rivalutazione della carità e del servizio che la
storicizza, ma ne è affermata la centralità oltre ogni possibile diversa interpretazione.
2.5. La scelta di abitare, frequentare, vivere il territorio
«Chi vuole sbarazzarsi dell'amore si dispone a sbarazzarsi dell'uomo in quanto uomo. Ci sarà
sempre sofferenza che necessita di consolazione di aiuto. Sempre ci sarà solitudine. Sempre
ci saranno anche situazioni di necessità materiale nelle quali è indispensabile un aiuto nella
linea di un concreto amore per il prossimo» (DCE.28).
Se la storia non è un semplice succedersi di fatti, ma un luogo in cui al credente è chiesto di
8
porsi in ascolto di un Dio che nei fatti e nei volti interpella, allora ogni fatto o avvenimento
interpella, provoca le nostre comunità, sollecitandole ad uscire dal lento quanto annoiato
percorso di vita, ritmato dal ripetersi di gesti e parole, per accogliere una domanda che da
altrove giunge ad esse. Il Vangelo non è il custode delle coscienze tranquille. È piuttosto
dono da offrire, fuoco da portare e sogno in cui abitare. E’ invito ad affrontare i problemi, a
collocarci, attraverso la contemplazione del volto di Cristo, nei crocevia dove passano le
contraddizioni e le fragilità della vita di ogni uomo. Il frequentare e l'abitare la vita, il
territorio, la storia, interpella le comunità, mettendo in luce come accanto alla risposta di
solidarietà immediata, giocata forse più sull'onda di un'emozione che sul sentiero ordinario e
quotidiano della carità, c'è un tessuto comunitario ancora fragile, una conflittualità che
continuamente riemerge.
Chiamati a comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, mai come oggi
l'evangelizzazione ha un tema così aderente agli interessi, alle attenzioni e alle domande della
gente. Frequentare ed abitare le nostre esperienze ecclesiali, dentro la storia e i territori a cui
appartengono, significa saldare la pastorale dell'accoglienza con il dovere della denuncia,
dell'andare dove la dignità dell'uomo è più calpestata e dove il grido è più soffocato: «...La
stessa sollecitudine per il vero bene dell'uomo che ci spinge a prenderci cura delle sorti delle
famiglie e del rispetto della vita umana si esprime nell'attenzione ai poveri che abbiamo tra
noi, agli ammalati, gli immigrati, ai popoli decimati dalle malattie, dalle guerre e dalla fame..
Ricordiamoci sempre delle parole del Signore: quello che avete fatto a uno solo di questi miei
fratelli più piccoli, l'avete fatto a me (Mt.25,40)»6.
Una Chiesa troppo chiusa nel tempio o abbarbicata attorno al campanile è una comunità che
non solo si sottrae alle grida degli uomini, ma che si dimentica anche della fedeltà alla Parola
e al Pane del suo Dio.
2.6. La scelta della cura delle relazioni
«...Sono nate e cresciute, tra le istanze statali ed ecclesiali, numerose forme di collaborazione
che si sono rivelate fruttuose. Le istanze ecclesiali, con la trasparenza del loro operare e la
fedeltà al dovere di testimoniare l'amore, potranno animare cristianamente anche le istanze
civili, favorendo un coordinamento vicendevole che non mancherà di giovare all'efficacia del
servizio caritativo» (DCE, n.30).
Con queste sottolineature, l'Enciclica ci invita a rileggere il vasto mondo delle parrocchie e
6
BENEDETTO XVI, Intervento all’Assemblea Generale CEI (30 maggio 2005).
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dei territori nella prospettiva del laboratorio di relazioni per ribadire la centralità dell'uomo e
la funzione storica di una Chiesa esperta in umanità. È la posizione anche dell'Episcopato
italiano che afferma: «In un contesto che spesso conduce alla dispersione e all'aridità, cresce
per contrasto l'esigenza di legami caldi... Le parrocchie devono essere dimore che sanno
accogliere e ascoltare paure e speranze della gente, domande e attese, anche inespresse, e che
sanno offrire una coraggiosa testimonianza e un annuncio credibile della verità che è Cristo»7.
Questo presupposto conduce all'individuazione di alcuni principali ambiti di lavoro pastorale.
a) La cura delle relazioni in famiglia e tra famiglie. La famiglia appare oggi profondamente
segnata da conflittualità, separazioni, abbandoni e distanze, disagio ed esclusione. Particolare
cura è necessaria per le famiglie segnate dal dolore, dalla separazione dei coniugi e/o da
relazioni parentali frantumate e confuse, soprattutto per i minori. Le comunità cristiane sono
chiamate a valorizzare le opportunità di contatto per impostare cammini di ascolto e
accompagnamento e per costruire nuove storie di prossimità.
b) La cura delle relazioni in parrocchia e tra parrocchie. Parlare di parrocchia come
laboratorio di relazioni e come famiglia di famiglie sarebbe riduttivo se la si schiacciasse su
singole esperienze, o se si trascurasse la ricchezza delle altre espressioni che prendono vita al
suo interno (le comunità religiose, i gruppi, i movimenti, le associazioni). Doni suscitati dallo
Spirito, queste esperienze sfidano la parrocchia a farsi insieme di laboratori comunione di
comunità.
c) La cura di un rinnovato tessuto di relazioni sociali. La comunità cristiana può assumere il
ruolo di soggetto che realizza cammini di collaborazione e proposte educative per promuovere
un modello fraterno di relazioni sociali che diventi cultura, stile, civiltà diffusa e condivisa.
Nell'assumere questa responsabilità educativa, la comunità è chiamata a ricomprendersi quale
soggetto di cittadinanza territoriale, che si confronta in rete con le diverse organizzazioni della
società civile. I cristiani diventano così costruttori e tessitori di legami forti. Rientrano in
quest'ambito anche le relazioni con le istituzioni del pubblico e del privato, in cui le comunità
non possono rinunciare alla funzione di sentinelle nei confronti del territorio e di tutti quelli
che lo abitano, in particolare dei poveri.
2.7. La scelta di animare attraverso la pedagogia dei fatti e la spiritualità della carità
L'Enciclica afferma che gli operatori e gli animatori della carità «...Devono essere persone
mosse innanzitutto dall'amore di Cristo, persone il cui cuore Cristo ha conquistato con il suo
7
CEI, Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia, n.2
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amore, risvegliandovi l'amore per il prossimo. il criterio ispiratore del loro agire dovrebbe
essere l'affermazione di Paolo: l'amore del Cristo ci spinge» (2Cor.5,14; DCE, n.33). Ma con
quali percorsi?
a) La pedagogia dei fatti. Benedetto XVI esorta a camminare nella carità caratterizzandola di
concretezza e immediatezza, di competenza e passione, di progettualità e gratuità. Gesti
concreti, impegni personali e familiari, accoglienza e ospitalità nella propria casa o nei luoghi
di accoglienza comunitaria, messa a disposizione gratuita del proprio tempo e delle proprie
capacità, presa in carico da parte della comunità cristiana di un servizio continuativo, legami
durevoli nel tempo con una comunità del Sud del mondo, interventi di solidarietà nelle
emergenze. Possono essere occasioni per crescere come famiglia di Dio, per aprirsi a una
fraternità sempre più ampia.
Agire nel quotidiano, sporcarsi le mani con i poveri, progettare insieme le risposte e riflettere
sul senso di quello che si fa, di che cosa cambia nella vita degli ultimi e della comunità che li
accoglie, sono orizzonti che si aprono, percorrendo la via della prossimità e del dono di se.
Ancora, lo stretto collegamento tra gli impegni di carità e i doveri di giustizia, risalire alle
cause e contrastarle per risolvere i problemi, coniugare lo sviluppo dei popoli e lo sviluppo
della pace nel mondo, saldare insieme le grandi prospettive di cambiamento sociale e politico
con i piccoli passi quotidiani e con la coerenza personale, sono concreti ambiti entro i quali
esprimere prossimità.
b) La spiritualità della carità. Un'attenzione che dovrà attraversare tutti gli approfondimenti, i
vari progetti, le presenze dentro i mondi dei poveri, nella comunità e nel territorio, è quella di
una spiritualità che, facendosi prossima delle situazioni di bisogno, sofferenza, disagio e
sfruttamento, interroga la vita dell'intera comunità, le sue attività ordinarie, il senso profondo
di gesti spesso dati per scontati (dal segno di pace alla frazione del pane).
La spiritualità di cui c'è bisogno per dare un anima alla testimonianza della carità, è la
spiritualità di speranza capace di tenuta di fronte alle prove e agli insuccessi, che accetta la
fatica del servizio meno gratificante, che vede un cammino di salvezza anche nelle situazioni
umane più degradate, che mette in crisi l'efficienza paga dei suoi risultati.
A chi s'impegna a servire, la spiritualità della carità e della prossimità indica gli orizzonti del
Regno che è passione per la vita, purificazione di ogni speranza, nostalgia di un'armonia e di
un incontro che riuscirà a trovare finalmente il compimento in Dio-Amore. Perché ciò accada
è indispensabile un profondo legame tra l'azione pastorale e tutta la vita della comunità
cristiana, tra la professione di fede e l'agire del credente, tra il dono dell'eucaristia e la
disponibilità a farsi dono ai fratelli.
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La spiritualità che nasce dall'esercizio della carità è una spiritualità di grande respiro, con un
movimento e una dinamica missionaria che fa dell'incontro, del rapporto e del dialogo i suoi
capisaldi, perché è capace di scorgere la presenza e l'opera di Dio dentro le realtà create. E
una spiritualità che concerne l'uomo, e non solo i suoi problemi, la sua intera esistenza
personale e sociale, la scuola, l'ambiente professionale e di lavoro, la comunità politica, la
salute e la malattia, l'amore e la famiglia, come pure i valori della pace e della mondialità, del
servizio e della solidarietà, della giustizia e della carità.
Inoltre è una spiritualità che si realizza nel proporre e propugnare una visione unitaria, che
eviti ogni pericolosa schizofrenia e ogni contrapposizione, indicando lo stretto e connaturale
legame che abbraccia fede, preghiera e carità; parola, sacramento e testimonianza
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