DISPENSE 2011/12 Parte prima Archivo

Università degli studi del Piemonte Orientale “A.Avogadro”
Facoltà di Scienze Politiche – Dipartimento POLIS
Prof. Jörg Luther
Anno accademico 2011/2012
Dispense di diritto pubblico per le scienze politiche
Parte prima: Diritto, Politica, Diritto pubblico
I. Lo studio del diritto pubblico nelle Facoltà di Scienze Politiche
1. L’Università ha il compito di sviluppare strumenti culturali per la comprensione del mondo,
compito che non può essere assolto da un docente solo, ma solo da una comunità accademica.
L’università si distingue dalla scuola sia per la particolare condizione di libertà dello studente,
liberato dall’obbligo di frequenza della scuola e situato più in una società di “massa” che non in una
comunità di “classe”, sia per la particolare responsabilità del docente la cui funzione pubblica va
oltre quella degli insegnanti della scuola perché deve produrre e perfezionare in libertà quella stessa
“scienza” di tutti che è oggetto dell’insegnamento universitario (art. 33 co. 1 cost.).
2. La ricerca scientifica parte da domande (o ipotesi) che possono essere liberamente formulate dai
professori e ricercatori, anche dagli studenti, per arrivare a risposte (tesi) che pretendono di essere
delle “verità”. Le testi devono essere argomentate in un procedimento che obbliga ad accettare il
contraddittorio, cercando di confutare (anti-)tesi divergenti o di integrarli (sintesi). L’insegnamento
universitario deve rendere lo studente partecipe al progresso attuale delle scienze, cioè rendere
accessibile lo “stato dell’arte” delle ricerche nelle rispettive discipline.
3. Lo studente può avvalersene per formare con il proprio studio le proprie capacità di lavoro nel
modo più “professionalizzante” possibile e per superare l’esame di stato prescritto per la
conclusione degli studi e per l’abilitazione all’esercizio professionale (art. 33 co. 4 Cost.). A
differenza della comunità scolastica, la società universitaria offre e pretende una maggiore libertà
culturale di studio individuale e di scambio culturale spontaneo tra studenti ed insegnanti, ma
anche una maggiore responsabilità e una puntuale verifica e valutazione dei risultati dello studio.
L’autonomia dell’università implica dei doveri culturali per tutte le sue componenti, inclusi i cd.
doveri accademici dei docenti che possono essere trascritti un apposito “codice etico”.
4. Le Facoltà di Scienze Politiche si sono separate dalle facoltà di giurisprudenza alla fine
dell’ottocento (Firenze 1875). Nella storia delle scienze umanistiche, l’economia (‘700), la
sociologia (‘800) e la scienza della politica o “politologia” (‘900) si sono emancipate solo
gradualmente dalle scienze generali dello “Stato”, affidate ai giuristi, anche con l’ambizione di
creare una nuova “classe (politica) dirigente”. Gaetano Mosca, uno dei “padri” della scienza politica
in Italia, passava da “studi ausiliari del diritto costituzionale” (1887) allo studio degli “elementi di
scienza politica (1896). Il giurista Georg Jellinek, maestro del sociologo Max Weber, suddivideva la
“dottrina generale” dello Stato in una “dottrina giuridica” e una “dottrina sociale” (1900). In alcuni
paesi sono state create nuovamente delle facoltà di “scienze dello Stato” (Erfurt) che accorpano le
scienze politiche con quelle giuridiche, per creare nuove capacità di governo e di amministrazione.
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5. La Facoltà di Scienze Politiche è costituita da un insieme di scienze culturali o umanistiche che si
fonda essenzialmente su tre componenti. Le discipline sociologiche studiano i fatti e le relazioni
sociali, quelle economiche i beni ed gli scambi e quelle politiche in senso lato i “discorsi” e
dibattiti del potere e del diritto. Fanno parte delle scienze politiche in senso lato la scienza della
politica in senso stretto, intesa come analisi delle politics (relazioni), policies (indirizzi) e polities
(organizzazioni), ma anche alcune discipline storiche, filosofiche, linguistiche e giuridiche. La
diversità culturale delle scienze offre allo studente una pluralità di capacità (istruire fatti, gestire
interessi, comunicare idee) e di competenze chiave sul mercato del lavoro, ma comporta anche la
necessità di un dialogo interdisciplinare tra docenti e studenti che può essere reso difficile dalle
lotte per il potere accademico e dal bluff di sapere sempre più degli altri.
6. Il diritto continua ad essere una disciplina irrinunciabile per le scienze politiche e impensabile
senza le altre scienze politiche. Il dialogo sui fattori sociali, economici e politici del diritto avviene
in varie discipline integrate ed insegnate anche nella facoltà di giurisprudenza. La storia del diritto
è una storia speciale delle istituzioni e delle idee politiche. La filosofia del diritto e la sociologia
del diritto sono discipline speciali tanto del diritto, quanto della filosofia e della sociologia
generale. Il diritto comparato è impensabile senza l’antropologia giuridica e l’analisi economica
del diritto (“law and economics”), ma ha anche antiche radici nella “statistica”. Il diritto privato
comunica inoltre con la sociologia della famiglia e l’economia aziendale, il diritto del lavoro con
la sociologia ed economia del lavoro. Il diritto penale viene integrato dalla criminologia. Tra le
discipline del diritto pubblico, il diritto costituzionale è legato alla storia costituzionale, alla
scienza della politica, a sociologia politica ed economia politica (public choice, institutional
economics), il diritto amministrativo affiancato dalle scienze dell’amministrazione, il diritto
tributario alle scienze delle finanze e della contabilità, quello internazionale alle relazioni
internazionali, quello ecclesiastico alla teologia ecc.
7. La capacità di agire sui mercati e nelle istituzioni pubbliche presuppone delle conoscenze
giuridiche che superano quelle dell’educazione civica dei cittadini e del diritto studiato nelle scuole
tecniche. Il sapere giuridico non può essere dominio esclusivo dei giuristi, ma deve essere al
servizio di tutte le professioni e tutti gli impieghi che richiedono discipline e saperi normativi
specifici (ad es. diritto dell’urbanistica, diritto dell’ambiente, medicina legale, legislazione
scolastica, diritto militare, diritto commerciale, diritto tributario, diritto canonico, diritto dei media
ecc.).
8. Anche il non giurista deve saper osservare norme giuridiche conoscibili e criticabili, evitare
sanzioni, difendere i propri diritti ed interessi anche senza ricorrere continuamente a una
consulenza da parte di un avvocato. Chiunque si pone al servizio di amministrazioni private o
pubbliche ed intende assumere posizioni di responsabilità deve essere in grado di interpretare testi
giuridici ed applicare le norme che disciplinano le proprie attività. L’obiettivo formativo
dell’insegnamento delle materie giuridiche nelle facoltà diverse da quella di giurisprudenza è quindi
un cittadino capace di interloquire con i giuristi, di essere committente ed utente critico e
responsabile dei loro servizi e delle loro opere, di partecipare la cultura del diritto.
9. Sono saperi pratici e capacità attesi dallo studente del diritto fuori dalle facoltà di giurisprudenza:
a) procurarsi accesso alle fonti del diritto,
b) interrogare ed istruire fatti rilevanti per l’interpretazione dei testi giuridici,
c) “leggere le leggi” e le opere dei giuristi (atti, contratti, sentenze, consulenze, manuali ecc), cioè
comprendere e criticare interpretazioni delle fonti ed argomentazioni giuridiche,
d) rappresentare e difendere interessi privati e pubblici rilevanti per le pratiche dei giuristi,
gestendo delle controversie,
e) commissionare e valutare servizi ed opere di giuristi,
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f) procedere e decidere in forme giuridiche, ad es. scrivere istanze o delibere, controllare
procedimenti, negoziare contratti etc.
g) relazionarsi con il mondo delle istituzioni private e pubbliche.
10. Sono strumenti di formazione diretta o indiretta di tali capacità:
a) lo studio sistematico delle fonti del diritto,
b) la lettura critica del manuale e del testo di lettura e l’ascolto critico della lezione,
c) l’analisi di casi, storici o attuali (nei media), come esperienze di applicazione di fonti,
d) domande e petizioni (collega, docente, sportello, istituzioni)
e) fare proposte motivate di giudizio (parere, valutazione) e decisione di controversie,
f) osservare e partecipare a discussioni su questioni giuridiche e politiche d’attualità, ad es. in un
gruppo di lavoro nel quale si esercita l’uso della terminologia giuridica (“giuridichese”).
II. Il “diritto” come pretesa di giustizia e come insieme ordinato di norme
11. I discorsi dei giuristi usano concetti sia per scrivere testi normativi, sia per interpretarli con le
parole di un linguaggio tecnico proprio. Per comprendere i concetti, propongono definizioni che
individuano il genere prossimo (genus proximus) e le caratteristiche specifiche che distinguono la
cosa denominata dalle altre cose del suo genere (differentia specifica). Le definizioni sono
raramente inclusi nei testi legislativi, per lo più il frutto di convenzioni linguistiche e di proposte
nelle pubblicazioni degli scienziati. Essendo tutte le parole dotate di più di un significato e spesso
anche ambigue, anche quelle giuridiche sono variamente interpretabili a seconda dei loro contesti
reali e ideali (concezioni).
12. Nel linguaggio comune dei cittadini e in quello tecnico dei giuristi, i significati del termine
“diritto” variano. Nel linguaggio comune si parla per lo più del diritto soggettivo che un soggetto
“ha” o pretende di avere, percependo come giusta una pretesa avanzata nei confronti di altri su
qualcosa cui corrisponde al proprio interesse. Nel linguaggio tecnico si parla per lo più del diritto
oggettivo che “è” oggetto e sostanza dei discorsi dei giuristi, sopratutto di quelli teorici degli
accademici (scienza giuridica). Nel suo genere comune, il diritto soggettivo e quello oggettivo
sono sempre un discorso ed entrambi i concetti sono integrati nei discorsi pratici dei giuristi,
soprattutto in quelli forensi (giurisprudenza). Nella cultura giuridica moderna, il diritto oggettivo è
impensabile senza il diritto soggettivo e viceversa.
13. Il diritto in senso soggettivo è una pretesa (volontà e/o interesse) legittima, riconosciuta da una
norma del diritto oggettivo a un soggetto singolo, di dare un ordine giusto alla condotta altrui. La
condotta pretesa può consistere in un fare, dare o dire (positiva) o non fare, dare o dire (negativa).
In caso di contestazione di tale pretesa, il diritto soggettivo può essere fatto valere come pretesa di
giustizia davanti a un giudice (art. 24). Il diritto in senso oggettivo è invece un insieme ordinato di
norme giuridiche che intendono disciplinare tutte le pretese soggettive di giustizia per dare un
ordine giusto ad una organizzazione sociale e politica (c.d.“ordinamento giuridico”, art. 10 cost.).
14. Norma è una proposizione prescrittiva che si rivolge alla coscienza degli uomini per ottenere o
impedire un determinato comportamento. Le prescrizioni attengono al mondo del “dover essere”, le
descrizioni dei fatti invece al mondo dell’”essere” delle cose nel tempo. A differenza delle
proposizioni descrittive che intendono fare conoscere un dato vero o falso, le proposizioni
prescrittive esprimono un giudizio sull’essere giusto o ingiusto di un comportamento e l’ordine
(l’imperativo) reso vincolante di tenerlo. La distinzione non è sempre facile, perché esistono
proposizioni che intendono essere descrittive e prescrittive, specialmente se esprimono un giudizio
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di valore (bene/male) o di estetica (bello/brutto) o un imperativo meramente soggettivo ed
esortativo, non reso vincolante (preghiera, appello).
15. I comportamenti non sono sempre come devono essere. Quello che si fa normalmente può
essere prescritto dalle norme giuridiche, ma quello che è normativamente prescritto non sempre è
la “normalità”. Quello che si osserva come normalità può essere spiegato anche con le “leggi” dei
fatti e delle scienze naturali (ad es. relative alla gravitazione), attinenti ai fatti naturali, e le leggi
dei fatti e delle altre scienze culturali (ad es. la legge economica della tendenziale crescita dei
compiti pubblici, la legge ferrea dell’oligarchia, l’istinto dell’accoppiamento ecc.). Solo le leggi
giuridiche pretendono anche di modificare i fatti sociali ed economici. Sono fatte per essere
osservate e sono fatte osservare.
16. Le proposizioni normative hanno un linguaggio che segue una propria logica (cd. logica
“deontica”), utilizzando sempre uno dei seguenti tre operatori deontici: il comando (si deve a, ad
es. è fatto ordine pagare le tasse), il divieto (si deve non b, ad es. è fatto divieto fumare) e il
permesso (non si deve a o non si deve non b, cioè a certe condizioni è permesso non pagare le tasse
o è permesso fumare). Un comportamento non prescritto, né vietato viene definito anche libero.
17. Le proposizioni normative sono generali e astratte, cioè prescrizioni riferite a soggetti non
ancora individuati e a situazioni non ancora determinate nel tempo. La generalità e l’astrattezza è
graduale. La generalità può essere ridotta in presenza di norme speciali. L’astrattezza può essere
ridotta in presenza di norme eccezionali. A differenza degli atti normativi generali ed astratti, il
provvedimento amministrativo e la sentenza del giudice contengono sempre proposizioni
giuridiche individuali e concrete. Una legge che contiene un “provvedimento”o corregge una
“sentenza” abusa del potere di dettare norme per aggiustare singole pratiche amministrative o
giurisdizionali e può contraddire le caratteristiche necessarie del diritto in uno “stato di diritto”.
18. Le norme del massimo grado di generalità ed astrattezza sono norme di principio. Le norme di
principio, frequenti in costituzioni e in leggi di delega, hanno una struttura incondizionata e
finalistica (è doveroso sempre e ovunque realizzare al meglio l’obiettivo X). I principi sono da
attuare gradualmente (è lecito realizzare X di più o di meno), ma è fatto divieto sacrificare del tutto
un principio, rendendone impossibile l’attuazione. Le altre norme hanno invece una struttura
condizionale, cioè una regola: se ricorre un caso della fattispecie a, allora la conseguenza
normativa è che è ordinato/vietato/permesso b.
19. Le norme giuridiche sono prescrizioni che intendono motivare o influenzare le scelte di
comportamento, ma a differenza di quelle solo morali sono create da scelte collettive vincolanti e
sanzionate da altri, cioè non sono solo “auto-vincolanti”. Le norme giuridiche servono a rendere
prevedibili e a mantenere aspettative sociali anche quando sono frustrate da comportamenti non
conformi alla norma (N. Luhmann). A questo scopo servono norme che prevedono delle
conseguenze particolari, apposite regole di sanzione e regole che organizzano la sanzione.
L’osservanza delle norme giuridiche può essere motivata dal timore di misure di coercizione, ma
anche dall’interesse di ottenere una premiazione. A differenza delle regole e delle sanzioni
meramente sociali e culturali, che non implicano l’uso della forza e sono erogabili da ogni singolo
e da ogni formazione sociale (famiglia, gruppo, chiesa), quelle giuridiche moderne presuppongono
il divieto di farsi giustizia da sé, divieto garantito dal monopolio pubblico della forza legittima
riservata allo Stato (M. Weber).
20. Il diritto moderno è prodotto da atti che esprimono una volontà collettiva e nelle culture
giuridiche dell’Europa continentale, il diritto è scritto in leggi (art. 70 cost.) o in altri fonti scritte.
Tali testi giuridici sono articolati in “disposizioni”, dalle quali i giuristi ricavano mediante
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l’interpretazione le “norme” che servono a decidere. Le loro decisioni applicano le norme al caso,
prescrivendo le condotte definite dai principi o dalle conseguenze giuridiche delle regole. La
volontà è rielaborato dalla ragione pratici e teorica della giurisprudenza, elaborata in sede forense
nella motivazione delle sentenza e in sede accademica nei sistemi della dottrina.
21. La struttura logica del giudizio dei giuristi consiste nel cd. sillogismo giuridico. Si basa su
(a) una norma in forma di regola come premessa maggiore (se sussiste a allora è doveroso b),
(b) un caso (fatto) concreto come premessa minore (Tizio ha realizzato la fattispecie a)
(c) una conclusione che prescrive l’applicazione della norma al caso (a Tizio va applicato b).
La funzione creativa del lavoro (o dell’arte) delle professioni giuridiche consiste nella formulazione
della norma attraverso l’interpretazione delle disposizioni e nella ricostruzione del caso attraverso
l’istruttoria e la prova dei fatti.
22. Le norme giuridiche possono essere giudicate sotto tre profili:
a) Sono valide se sono create secondo le norme scritte o non scritte sulla produzione e
sull’interpretazione del diritto “positivo” (poste da un’autorità legittima).
b) Sono giuste se non contraddicono il senso comune dell’ingiustizia e rientrano nelle categorie
aristoteliche della giustizia distributiva (suum cuique tribuere: dare a ciascuno il suo bene e il suo
male) e della giustizia commutativa (fare equivalere prestazione e prezzo, danno e risarcimento,
colpa e pena ecc.).
c) Sono efficaci se sono effettivamente osservate e applicate, sanzionando violazioni.
Il giudizio sulla “giustizia” è oggetto della filosofia del diritto, il giudizio sull’efficacia oggetto
della sociologia del diritto, il giudizio sulla “validità” è oggetto delle scienze del diritto positivo.
23. La diversità delle culture giuridiche dipende dal peso dei rispettivi giudizi. Per la cultura del
giuspositivismo, il giurista verifica la validità di una norma solo sulla base di altre norme giuridiche
che definiscono le competenze degli organi e le procedure idonee a produrre le “fonti” del diritto.
Un sentimento di “ingiustizia” o una percezione di “inefficacia” non sono motivo sufficiente per un
giudizio di invalidità. L’interpretazione deve risalire alla volontà del legislatore, perché è
impossibile trovare dei criteri di giustizia fuori dal diritto “positivo”. Per il giusnaturalismo invece
sono invalide le leggi manifestamente ingiuste. L’interpretazione di quelle valide deve tenere conto
delle idee di giustizia condivise dalla società, non piegarsi alla nuda forza dei fatti. Per il
giusrealismo infine sono valide solo le norme dotate di effettività sociale, non quelle resa “lettera
morta” dalla prassi (desuetudine). L’interpretazione della legge deve tenere conto dei “fatti
legislativi” sui quali interviene il legislatore senza poter pretendere comportamenti impossibili
(impossibilium nemo tenetur).
24. Le culture si mescolano nelle pratiche. I principi fondamentali e i diritti fondamentali del
giusnaturalismo classico sono stati iscritti nelle costituzioni e le leggi ingiuste possono essere
dichiarate incostituzionali (art. 137 cost.). Il giudice costituzionale, in sede di controllo di
costituzionalità delle leggi, può controllarne la ragionevolezza, censurando norme manifestamente
ingiuste. L’interprete deve rispettare la volontà del legislatore, ma l’interpretazione “adeguatrice”
della legge può presumere che abbia voluto attuare la Costituzione ed assicurare l’efficacia delle
norme. Molte clausole consentono valutazioni. Se una legge impone obblighi sentiti incompatibili
con i dettami della coscienza, il legislatore può risparmiare all’individuo un conflitto di coscienza
predisponendo delle alternative meno gravose(cd. obiezione di coscienza).
25. Il diritto è sempre un “insieme” ordinato di norme giuridiche. Una pluralità di norme può
configurare un singolo istituto giuridico (cioè la disciplina di un’istituzione sociale oggettiva, ad
es. il possesso o la supplenza), un insieme di istituti un ordinamento giuridico (cioè la disciplina di
un’organizzazione sociale plurisoggettiva, come ad es. l’università (art. 33, co. 5) o le Forze armate
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(art. 52 co. 3)). Un ordinamento giuridico può includere una pluralità di altri ordinamenti parziali
(che sono derivati da o costitutivi di quello complessivo) (art. 114).
26. Ogni ordinamento giuridico pretende idealmente coerenza e completezza delle norme che lo
compongono. Per essere coerente, deve costituire un sistema in grado di risolvere le antinomie tra
le proprie norme. Per essere completo, deve dotarsi di strumenti che consentono di colmare le
lacune di norme in situazioni nuove non ancora previste dal legislatore. Coerenza e completezza
dipendono dalla produzione sistematica (codici, testi unici) delle disposizioni e dall’interpretazione
sistematica delle norme da parte degli operatori. L’interpretazione può anche estendere regole o
principi per colmare le lacune (cd. analogia).
27. Il numero delle norme di un ordinamento giuridico è tendenzialmente indefinibile, ma non
infinito. Non solo le disposizioni ma anche gli interpreti sono innumerevoli e le interpretazioni sono
quindi variabili. Le ideologie della politica del diritto danno risposte divergenti alla domanda
quante norme giuridiche servono per dare un ordine alla società. Per il liberalismo ottimista,
l’ordine sociale può essere il prodotto dell’agire spontaneo razionale dell’individuo nella società, sia
in ambito economico sia in ambito culturale. Pertanto servono poche leggi sintetiche chiare e
coerenti e tali da gravare di meno obblighi il cittadino, cioè la massima deregulation e
semplificazione. Per il comunitarismo pessimista, l’ordine sociale non può essere il prodotto
dell’agire spontaneo perché l’uomo è corrompibile e non sempre in grado di compiere scelte
razionali. Pertanto serve disciplina con regole anche dettagliate e differenziate.
28. In una società complessa non è possibile né auspicabile ridurre le norme ad una sola. Se tutto
fosse permesso, si avrebbe l’anarchia. Se tutto fosse vietato o comandato, si avrebbe una
tirannide. Bisogna evitare un’inflazione eccessiva delle leggi, tale da rendere al cittadino
impossibile conoscere quelle che lo interessano senza abbonarsi a un servizio di consulenza legale.
Tagliare troppe leggi rischia di rendere le leggi più oscure e di ampliare troppo il potere degli
interpreti. Il numero giusto può essere trovato solo in una democrazia, perché quest’ultima consente
una competizione e scelte politiche comuni tra entrambi le ideologie.
III. Il diritto pubblico come diritto della politica
29. Il diritto pubblico è una parte del diritto oggettivo che si separa dal diritto privato o civile.
Tale dicotomia può essere letta alla luce di alcune distinzioni filosofiche, ad es. quella hegeliana tra
“Stato” e “società” (civile). La sua espansione è dovuta allo sviluppo e alla crisi dello Stato
moderno, ma la sua origine è rinvenibile nel diritto romano (Ulpiano): Publicum jus est quod ad
statum rei Romanae spectat, privatum quod ad singulorum utilitatem (Digesto I 1, 1, § 2). Se si
considera la Repubblica un insieme di soggetti pubblici che governo sotto o sopra lo Stato (art. 114
cost), il criterio decisivo diventano i rapporti. Sono rapporti civili prevalentemente simmetrici e di
parità tra cittadini, pubblici quelli prevalentemente asimmetrici e di subordinazione tra i soggetti
pubblici e tra questi e i privati intesi come cittadini e come “pubblico”.
30. Per distinguere privato e pubblico, occorre considerare i soggetti e gli interessi coinvolti in un
triangolo nel quale i soggetti privati (p1 e p2) sono disegnati in una posizione inferiore a un
soggetto pubblico (P). Essere “privati” significa potere perseguire interessi individuali e disporre di
norme anche derogabili per i contratti. Il diritto pubblico disciplina l’azione dei soggetti pubblici
che fanno prevalere gli interessi pubblici su quelli privati. Attraverso la P.A. (pubblica
amministrazione) ed i P.M. (pubblico ministero), i soggetti pubblici (P) distribuiscono e
garantiscono beni e servizi (diritto amministrativo) ed erogano sanzioni penali (diritto penale) o
provvedimenti giudiziari (procedura civile e penale) ai cittadini. Di fronte a queste scelte, il
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soggetto privato si trova in un rapporto di “soggezione” generale fondato sul dovere di obbedienza
(art. 54), ma anche in un rapporto di “sovranità”.
31. Il diritto pubblico non è solo il diritto dello Stato, perché include anche il diritto degli enti
locali e quello regionale allo stesso modo del diritto dell’Unione europea e del diritto
internazionale, cioè una pluralità di organizzazioni politiche (art. 114). Pertanto è anche “diritto
politico”, nel duplice senso di un insieme di norme “per” un’organizzazione politica e un insieme di
norme originato “da”un’organizzazione politica. Nella “Repubblica”, il diritto pubblico diventa
“diritto repubblicano”, affidando la gestione della cosa comune al controllo di un “pubblico”.
32. Il diritto pubblico non è riconducibile a un solo concetto di politica. La politica oggetto delle
norme di diritto pubblico non è soltanto quella machiavellica della “lotta per il potere”, ma anche
quella aristotelica dell’azione pubblica e dell’esercizio del potere per il bene comune. La lotta per il
potere si realizza esercitando i diritti politici garantiti dalla costituzione. L’azione per il bene
comune si realizza nell’assetto dei poteri, in particolare nelle funzioni di governo, in senso ampio
inteso come determinazione dell’indirizzo politico o gubernaculum (= dirigere la nave nel porto
della felicità, in quelle di amministrazione intesa come gestione delle risorse per l’attuazione degli
indirizzi politici) e in quelle di giurisdizione, intesa come amministrazione della giustizia per la
pace e il bene di tutti).
33. Storicamente la principale tra le organizzazioni politiche è lo Stato. La formazione storica dello
Stato moderno passa attraverso le tappe a) della spersonalizzazione e della secolarizzazione del
potere, dalla rinuncia all’investitura divina e nascita delle burocrazie in seno alle corti (1100) fino al
trionfo della cd. “ragion di Stato (1500), b) dell’accentramento politico e dell’allargamento
territoriale del potere, dalla nascita di governi e parlamenti (1200) fino alla trasformazione di
signorie locali, corporazioni, nobiltà e clero in poteri intermediari (1600), c) della
“giuridificazione” e d) “costituzionalizzazione del potere”, a partire dallo Stato di polizia, dove
il buon governo del principe garantisce sicurezza e felicità ai cittadini (700), fino allo Stato di
diritto, dove si deve governare sulla base e nel rispetto delle leggi (800) e allo Stato costituzionale
democratico che riconosce allo stesso popolo la capacità di intendere e volere la politica, cioè la
sovranità nei limiti della Costituzione (900).
34. Quel che distingue il potere dello Stato da quello di altre organizzazioni pubbliche, solo
autonome e derivate, è la pretesa di sovranità del titolare del potere, cioè in passato del monarca,
oggi del popolo (art. 1). Il titolare della sovranità non può riconoscere poteri e soggetti superiori né
all’interno (art. 7), né all’esterno dello Stato (art. 11).
35. I poteri che caratterizzano la sovranità sono tradizionalmente riassunti in alcuni simboli: a)
spada: il monopolio della forza legittima verso l’interno (forze delle autorità di pubblica sicurezza)
e verso l’esterno (forze armate), b) bandiera: il potere di fare pace, di concludere patti con altri stati
e di partecipare ad organizzazioni internazionali (potere estero), c) toga: il potere di risolvere liti e
garantire i diritti in modo pacifico (potere giudiziario), d) moneta: il potere di battere moneta e
garantire la fiducia nel suo valore (potere economico-finanziario), (v. le competenze esclusive dello
Stato in art. 117).
36. La sovranità odierna si è trasformata da una regola (si o no) in un principio (più o meno). Nel
diritto internazionale nessuno Stato può difendersi sempre da solo, forse nemmeno lo Stato in
possesso di armi nucleari e pertanto dotato di un seggio permanente e di un potere dei veto nel
Consiglio di sicurezza dell’ONU. Con la globalizzazione sono cresciuti i poteri e le bandiere delle
organizzazioni sopranazionali e le giurisdizioni internazionali, ma sembrano anche diminuire i
poteri della politica su finanze ed economia. La sovranità non simbolizza più una forza esclusiva
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(rispetto alle forze della società) e chiusa (rispetto alle altre nazioni), ma assume forme più inclusive
ed aperte ad esperienze di governance con poteri privati.
37. Tradizionalmente si definisce lo Stato attraverso i suoi elementi di base: popolo, territorio e
sovranità dell’organizzazione politica. In base ai rapporti che si stabiliscono tra i vari elementi si
possono distinguere varie forme di Stato, intesi come tipi ideali, indicatori di tendenze politiche e
principi fondamentali impliciti della costituzione:
(1) Stato unitario (sovranità territorialmente indivisa) vs Stato federale (sovranità divisa, cioè non
monopolizzata né da un soggetto centrale (= stato unitario), né dai soggetti periferici regionali o
locali (= confederazione di stati)) (art. 5)
(2) Stato democratico (legittimazione del potere dal basso: il potere conferito è “dal popolo”,
esercitato “per il popolo” e “con” la partecipazione del popolo) vs Stato autocratico (legittimazione
del potere dall’alto, ad es. dal cielo (monarca), dalla forza militare (dittatore), dalla nobiltà
(aristocrate) e dal sapere tecnico (tecnocrate)), (art. 1)
(3) Stato liberale (compito del potere è la garanzia delle libertà dei cittadini in un ordine sociale da
conservare: “garantismo”, art. 2) vs Stato sociale (compito è la garanzia dell’eguaglianza sociale dei
cittadini in un ordine sociale da trasformare: “interventismo”) (art. 3).
38. Nello Stato di diritto moderno, ogni potere è costruito e limitato da norme giuridiche di diritto
pubblico che vincolano il “governo degli uomini” al “governo delle leggi”. Nello Stato
costituzionale contemporaneo, la sovranità è attribuita ad un insieme di poteri “addomesticati”
dalla Costituzione che legittima e limita ogni governo. Le costituzioni contemporanee sono norme
che organizzano ed integrano il diritto e la politica di un’organizzazione politica. Da un lato, la
Costituzione integra il diritto, perché organizza le basi del sistema delle fonti del diritto, separa i
poteri politici da quelli tecnici responsabili per l’interpretazione e l’applicazione delle norme e
stabilisce principi fondamentali che garantiscono la coerenza dell’ordinamento giuridico. Dall’altro
lato, la Costituzione integra la politica, perché organizza le forme della lotta politica, le procedure
di determinazione dell’indirizzo politico e i principi fondamentali che stimolano o limitano le scelte
politiche. Attraverso la Costituzione, le organizzazioni politiche si disciplinano (diritto della
politica) e si legittimano (politica del diritto) autonomamente, definendo i rapporti tra governanti e
governati, tra il cittadino singolo e l’insieme della cittadinanza.
39. Lo stesso potere costituente sul quale si fondano i fatti (consuetudini), gli atti o i patti della
costituzione non può più considerarsi illimitato, perché è vincolato al rispetto dei diritti umani ed è
legittimato da un “diritto alla costituzione”. Le costituzioni sono diventate scritte in un testo unico
(con l’eccezione di Regno Unito e Israele), più rigide delle leggi (più difficilmente modificabili) e
più lunghe (includendo anche norme per la trasformazione della società). Gli stati costituzionali
nazionali contemporanei devono, le confederazioni di Stati come l’Unione europea possono avere
costituzioni interamente o parzialmente scritte in uno o più testi. Forse perfino la comunità
internazionale ha nei diritti umani, nello statuto dell’ONU, nelle consuetudini e nel diritto comune
delle costituzioni degli Stati già elementi di una Costituzione (parziale).
40. Il diritto costituzionale, parte prima del diritto pubblico, è oggetto di una particolare “politica
del diritto”, la “politica costituzionale”. Quest’ultima “non si fa scrivendo leggi e costituzioni in un
modo o nell’altro, ma creando le condizioni materiali che rendono possibile – nel senso di
storicamente auspicabile e sopportabile - il prevalere di determinati caratteri dell’organizzazione
della vita sociale.” Per la politica costituzionale liberale, la costituzione deve limitarsi a disciplinare
con poche norme lo stato, per quella sociale anche le linee guida della trasformazione della società.
Le scelte della politica costituzionale possono farsi ispirare da criteri razionali di ”economia
costituzionale”, ma devono anche tenere conto delle esperienze della “cultura costituzionale”,
cioè non solo delle esigenze della politica ma anche di quelle del diritto.
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