- Parrocchia SS. Redentore

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C.P SS Redentore e S. Gregorio
Comunità Giovani 22/03/12
Incontro di lectio divina sul Vangelo Di Giovanni
(Gv 5, 19-30)
19
30
Gesù riprese a parlare e disse
loro: “In verità, in verità io vi
dico: il Figlio da se stesso non
può fare nulla, se non ciò che
vede fare dal Padre; quello che
egli fa, anche il Figlio lo fa allo
stesso modo.
Da me, io non posso fare nulla.
Giudico
secondo
quello
che
ascolto e il mio giudizio è giusto,
perché non cerco la mia volontà,
ma la volontà di colui che mi ha
mandato.


28
Non meravigliatevi di questo:
viene l’ora in cui tutti coloro che
sono nei sepolcri udranno la sua
voce 29e usciranno, quanti fecero
il bene per una risurrezione di
vita e quanti fecero il male per
una risurrezione di condanna.
20
Il Padre infatti ama il Figlio, gli
manifesta tutto quello che fa e gli
manifesterà opere ancora più
grandi di queste, perché voi ne
siate meravigliati.


21
25
Come il Padre risuscita i morti
e dà la vita, così anche il Figlio dà
la vita a chi egli vuole. 22Il Padre
infatti non giudica nessuno, ma
ha dato ogni giudizio al Figlio,
23
perché tutti onorino il Figlio
come onorano il Padre. Chi non
onora il Figlio, non onora il Padre
che lo ha mandato.
In verità, in verità io vi dico:
viene l’ora - ed è questa - in cui i
morti udranno la voce del Figlio di
Dio e quelli che l’avranno
26
ascoltata,
vivranno.
Come
infatti il Padre ha la vita in se
stesso, così ha concesso anche al
Figlio di avere la vita in se stesso,
27
e gli ha dato il potere di
giudicare,
perché
è
Figlio
dell’uomo.


24
In verità, in verità io vi dico: chi ascolta la mia parola e crede a colui
che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è
passato dalla morte alla vita.
1
Lectio
Sembra un testo un po’ confuso, con tante frasi accostate quasi a caso…
Invece è un testo attentamente costruito dall’evangelista, come si può vedere
seguendo lo schema proposto da XAVIER-LÉON-DUFOUR (Lettura dell’Evangelo
secondo Giovanni, San Paolo, Milano, 2007, p. 391) secondo il quale ho
strutturato il testo stesso anche dal punto di vista grafico (Un’altra interessante
possibile struttura è suggerita da BRUNO MAGGIONI nel suo Commento al
Vangelo di Giovanni in AA. VV. I Vangeli, Cittadella, Assisi, 1982, p. 1435).
A tema c’è la risposta di Gesù alla provocazione dei Giudei che cercavano di
ucciderlo perché chiamava Dio suo Padre, facendosi uguale a Dio (cfr. Gv 5,
18). Che cosa dice in proposito Gesù? Ecco il nostro testo!
I v. 19 e v. 30 costituiscono la “cornice” del discorso di Gesù. In essi viene
annunciata una singolare relazione, quella che unisce Gesù, il Figlio, al
Padre. Il Figlio da se stesso non può fare nulla: fa quello che vede fare dal
Padre. Tale affermazione è di una densità vertiginosa, perché suppone una
presenza simultanea dell’uno rispetto all’altro, e viceversa. Ma il Prologo non ci
aveva già avvertiti che il Verbo era presso Dio, rivolto verso di Lui (cfr. Gv
1,1); e che il Figlio unigenito è nel seno del Padre (cfr. Gv 1, 18)?
Sarà questo anche il “destino” dei suoi discepoli: “Senza di me non potete far
nulla” (Gv 15, 5). Ma già il Prologo ci aveva avvertiti: “Senza di lui nulla è stato
fatto di tutto ciò che esiste” (Gv 1, 3). E altrove ancora: “Non vi chiamo più
servi, perché il servo no sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato
amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi”
(Gv 15, 15).
Gesù intende farci partecipi della sua singolare relazione filiale con il
Padre: ciò è possibile solo passando attraverso di Lui, solo entrando nella
relazione con Lui, solo partecipando della sua condizione di “Figlio”!
Non possiamo mai dimenticare che noi siamo anzitutto “figli”. È la condizione
nella quale veniamo al mondo. Quando noi entriamo nella scena di questo
mondo vi entriamo nella condizione di figli. E più in profondità, siamo figli nel
Figlio! Una relazione costitutiva ci caratterizza: la relazione filiale.
Non prendere coscienza di questa relazione di fondo significa acconsentire ad
un equivoco: quello di pensare a se stessi in termini assoluti, ovvero sciolti da
ogni tipo di legame con l’altro, irresponsabili in quanto non tenuti a rispondere
all’altro, presuntuosamente onnipotenti e quindi tendenzialmente padroni
dell’altro.
I v. 20 e vv. 28-29 ci aprono alla meraviglia, allo stupore. Esso è generato
dalla contemplazione delle opere che il Figlio fa e che sono la manifestazione
dell’amore con il quale il Padre ama suo Figlio. Ma tale contemplazione non può
e non deve essere una “astrazione”, una irresponsabile sospensione della
propria azione. Al contrario, si tratta di una vera e propria contempl-azione,
che consente di vedere il mondo con gli occhi di Dio, di guardare al mondo
attraversando lo sguardo del Figlio, che vede tutto e tutti nell’amore del Padre.
È lo sguardo credente, grazie al quale è possibile compiere le opere di Gesù,
anzi grazie al quale è possibile compiere opere ancora più grandi (cfr. Gv 14,
2
12: Chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio e ne compirà di
più grandi di queste).
Quanto sia decisivo il modo di guardare e di essere guardati lo si capisce a
partire dalla propria esperienza. Uno sguardo può incoraggiare, ma anche
intimorire; può attivare, ma anche mortificare; può far capire, ma anche
confondere… Il mirabile testo del cieco nato, che abbiamo letto domenica
scorsa, ci ha ampiamente istruiti su tale terribile possibilità.
I vv. 21-23 e vv. 25-27 sono costruiti attorno all’espressione “come… così”:
Come il Padre risuscita i morti e dà la vita, così anche il Figlio (v. 21); come il
Padre ha la vita in se stesso, così anche il Figlio ha la vita in se stesso (v. 26).
Inoltre, al Figlio il Padre ha dato ogni giudizio (v. 22), ha dato il potere di
giudicare (v. 27).
Il Padre e il Figlio risuscitano i morti e danno la vita. Il Padre si astiene da ogni
giudizio avendo dato al Figlio il potere di esercitarlo. E dove lo ha esercitato
tale potere il Figlio? Ricordiamo il testo di Gv 3, 14-18: «14E come Mosè innalzò
il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo,
15perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna. 16Dio infatti ha tanto amato
il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada
perduto, ma abbia la vita eterna. 17Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel
mondo per condannare (lett.: giudicare) il mondo, ma perché il mondo sia
salvato per mezzo di lui. 18Chi crede in lui non è condannato (lett.: giudicato);
ma chi non crede è già stato condannato (lett.: giudicato), perché non ha
creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio». Gesù, il Figlio, esercita il suo
potere di giudizio sulla Croce. Don Giovanni Moioli ha potuto così esprimersi
nel suo testamento spirituale alla vigilia della sua morte: “La mia speranza,
Signore, è in Te. Cosa strana e stupenda avere un giudice crocifisso per me!
Amen” (21 novembre 1981, citato in L. ACCATTOLI, Cerco fatti di Vangelo.
Inchiesta di fine millennio sui cristiani d’Italia, Sei, Torino, 1995, p. 155).
Ma tale “come” ne richiama immediatamente un altro che si configura come il
comandamento che Gesù ci ha lasciato (Gv 15, 9-10.12):«9Come il Padre ha
amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. 10Se osserverete i
miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i
comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. 12Questo è il mio
comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi». E
qualche pagina prima: «34Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni
gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. 35Da
questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli
altri» (Gv 13, 34-35).
Il v. 24 è al centro del nostro testo e insiste ancora una volta sul nesso
ascoltare la Parola di Gesù – credere a Colui che lo ha mandato.
Ascoltare la Parola fa passare dalla morte alla vita.
Ascoltare la Parola è sottoporsi al giudizio, è porre in crisi tutta la propria vita
perché ritrovi la sua destinazione eterna e non precipiti nell’abisso mortale.
Ascoltare la Parola è guadagnare uno sguardo diverso che consenta di
penetrare nel mistero dell’intima relazione che unisce il Padre e il Figlio, e
poterne vivere già ora.
3
Ascoltare la Parola… quando ci decideremo a farlo davvero? Ne va della qualità
della nostra stessa vita!
Meditatio
Mi permetto di suggerirvi qualche testo che vi aiuti a continuare la vostra
meditazione sulla scorta delle intuizioni che la lectio ci ha mostrato.
1) BRUNO MAGGIONI, Padre nostro, Vita e Pensiero, Milano, 1995, pp.30-32.
A volte le cose taciute sono importanti come quelle dette. Nel Padre nostro non si
parla di figli e tuttavia proprio questo è il punto. Se rimane sotteso, è unicamente per
dirci che non comprendiamo noi stessi guardando dentro di noi, ma guardando come
Dio si comporta di fronte a noi. È per questo che la nostra condizione di figli è
interamente racchiusa nell’invocazione «Padre».
Certo, l’essere figli è un’esperienza antropologica primaria, di creazione, comprensibile
a qualsiasi uomo, credente o no. Ed è l’esperienza più universale: non tutti possono
essere padri, ma tutti sono figli. Esperienza profondamente umana, che però soltanto
quando viene riletta evangelicamente mostra la sua insospettata profon dità. Nella
sua prima lettera, Giovanni scrive: «In questo sta l’amore: non noi abbiamo amato
Dio, ma Egli ha amato noi ed ha inviato il Figlio suo come propiziazione per i nostri
peccati» (4,10). Non dalla nostra esperienza di amore comprendiamo che cosa sia
l’amore - eppure quale esperienza è più umana dell’amore? -, ma dall’amore di Dio
apparso in Gesù Cristo. Lo stesso vale per la paternità di Dio e la nostra condizione di
figli.
E tuttavia - dopo aver ripetutamente ricordato che soltanto nella rivelazione di
Gesù comprendiamo chi sia veramente il Padre e che cosa significa essere suoi figli bisogna anche sottolineare che fra la rivelazione di Cristo e l’esperienza umana c’è
una
profonda
correlazione.
Esperienza
umana
e
rivelazione
evangelica
vicendevolmente si rischiarano. Se l’uomo si chiude nella lettura di se stesso, gli
sfugge la novità del vangelo. Ma se dimentica il radicamento della rivelazione nella
propria esperienza, la novità del vangelo gli appare estranea.
Si è figli quando si avverte che all’origine della propria esistenza non c’è stato il
caso o la necessità, ma una decisione libera, un atto d’amore. Essere amato è - o
dovrebbe essere - la prima percezione di un bambino che viene al mondo:
gratuitamente amato, liberamente accolto, proprio lui, nella sua singolarità,
comunque sia. Sta qui la radice della libertà, della serenità e della sicurezza che lo
accompagneranno tutta la vita. Tutto questo fa parte della nostra esperienza, e si
trasforma - per il credente - in una parabola del rapporto con Dio. Invocando Dio col
nome di Padre, il credente non può dimenticare - o mettere fra parentesi - questa sua
esperienza di figlio. Se lo facesse, la sua invocazione al Padre diventerebbe astratta.
Essere amato e accolto è, però, soltanto un aspetto dell’esperienza del figlio di fronte
al padre. Il padre è colui dal quale si riceve e dal quale si dipende. A cominciare dalla
stessa esistenza. Nessuno si affaccia alla vita per decisione propria. Nessun bambino
può pretendere di essere autonomo. Se lo facesse, non saprebbe più come affrontare
la vita. Naturalmente, col passare degli anni, questo bisogno di dipendenza dovrà
approfondirsi e diventare dipendenza da Dio: cosa, questa, che gli impedirà di farsi
padrone di se stesso, del mondo e degli altri. Farsi padrone è la più grande menzogna.
Il Padre nostro è la preghiera dell’uomo che rifiuta di considerarsi padrone, e perciò
manifesta al Padre - come un bambino - i propri bisogni.
Nell’esperienza del figlio la figura del padre assume anche il volto dell’autorità. Il
padre è colui che si prende cura, sorveglia, indica la strada. Di qui il comandamento e
l’obbedienza. Pensare che il comandamento sia di ostacolo all’amore e alla libertà è un
grave errore. Il comandamento del padre non è la negazione dell’amore, ma «lo
4
scrigno che lo custodisce» Così è sempre il vero rapporto con Dio. Invocando Dio col
nome di Padre, chi recita il Padre nostro deve sapere che è davanti a un Padre che è
al tempo stesso amore e legge.
La condizione di figlio non appartiene a un momento della vita, ma a tutta la vita.
La Bibbia ha ragione a definire l’uomo un figlio di uomo. L’uomo è sempre figlio.
Desideroso di essere amato, bisognoso di affidarsi a Qualcuno che lo accompagni,
sempre in cerca di un punto di riferimento. Il vangelo si mostra profondamente
umano, quando afferma che occorre essere «come bambini» per poter entrare nel
regno dei cieli. Rimanere figlio è sempre la giusta posizione dell’uomo davanti a Dio.
2) FRATEL MICHAEL-DAVIDE, Seme è la Parola. Invito alla Lectio Divina, EDB,
Bologna, 2011, pp. 106-107; 109; 113.
Per i padri è chiaro che il fine della lectio divina non è, prima di tutto, indicare un
comportamento o suggerire «cosa fare» ma quello di condurre, attraverso la lettura,
la meditazione e la preghiera, a una possibilità di incontro gratuito e non
immediatamente gratificante con colui che, attraverso le Scritture, ci parla
sommessamente. Non è infatti facile evitare il rischio di «servirsi» della Parola per
dare un’apparenza di consistenza e di credibilità a sentimenti e orientamenti maturati
personalmente oppure imposti dall’esterno - pur con le migliori intenzioni ma che, in
realtà, non sono radicati nella profondità del cuore.
La parola di Dio che raggiunge il cuore della creatura, attraverso le Scritture,
agisce come una medicina che va assunta con fiducia ma a cui bisogna dare tutto il
tempo e l’agio di mostrare la sua efficacia. Questo si produce in modo lento perché sia
di beneficio all’intero corpo nel suo essere indissolubilmente legato all’anima e allo
spirito (1Ts 5,23).
Nella vita spirituale il narcisismo è sempre un nemico in agguato e si presenta in
moltissime forme riconducibili a una sola grande tentazione che si manifesta nei suoi
due estremi: l’autocompiacimento della propria virtù oppure - molto più spesso di
quanto si possa immaginare - delle proprie fragilità. Contro questa tendenza da cui
provengono tutte le malattie dell’anima, i santi padri hanno messo a punto una
teologia della bellezza contemplativa che è continuamente e sempre aperta al vero e
al buono nella forma dell’ammirazione - ad-mirare - che genera l’adorazione.
Continuamente la Parola ci aiuta a de-centrare lo sguardo da noi stessi per posarlo
su Dio e, a partire da lui, riportarlo nuovo su noi stessi, sul mondo intero e sulla storia
che fatichiamo a creare con i nostri fratelli e sorelle in umanità.
3) DIETRICH BONHOEFFER, La vita comune, Queriniana, Brescia, 1983, pp. 55-57
L'amore psichico si rende da sé fine a se stesso, opera, idolo, che adora ed al quale
deve asservire ogni cosa. Cura, coltiva, ama sé stesso e null'altro a questo mondo.
L'amore spirituale invece, viene da Gesù Cristo, serve solo lui, sa che non ha accesso
immediato al prossimo. Cristo sta tra me e l'altro. Che cosa significhi amore per il
prossimo non lo so in partenza, solo dal concetto generico di amore sorto dal mio
desiderio psichico; che cosa è amore mi vien detto solamente da Cristo nella sua
Parola. Contro ogni mia propria opinione e convinzione Gesù Cristo mi dirà come si
manifesta realmente l'amore per il fratello. Perciò l'amore, per il cristiano, è legato
solo alla Parola di Gesù Cristo. Lì dove Cristo, a causa dell'amore, vuole che io viva in
comunione con gli altri, lo farò; lì dove la sua verità, a causa dell'amore, mi ordina di
interrompere una comunione, la interrompo a dispetto di ogni protesta del mio amore
psichico. Poiché l'amore spirituale non desidera nulla per sé, ma pensa solo a servire,
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ama tanto il nemico quanto il fratello. Esso infatti non è nato né dal fratello né dal
nemico, ma da Cristo e dalla sua Parola.
Dato che Cristo sta tra me e l'altro, non devo desiderare una comunione immediata
con questo. Come solo Cristo poteva parlare con me in modo da soccorrermi
realmente, così anche l'altro può essere aiutato solo da Cristo stesso. Ma ciò significa
che lo devo lasciare libero l'altro e non tentare di determinare le sue decisioni,
costringerlo o dominarlo con il mio amore. Essendo libero da me, l'altro vuol essere
amato così come è veramente, cioè come un uomo per il quale Cristo ha conquistato
la remissione dei peccati ed al quale ha preparato la vita eterna. Poiché Cristo ha già
da tempo compiuto la sua opera nel mio fratello, ben prima che io potessi
incominciare la mia opera in lui, perciò devo lasciar libero il fratello per Cristo; egli
deve incontrarmi solo da quell'uomo che egli è già per Cristo. Ecco che cosa significa
che possiamo incontrare il prossimo solo tramite Gesù Cristo. L'amore psichico si crea
una propria immagine dell'altro, di ciò che quello è e di ciò che deve diventare. Prende
la vita del prossimo nelle proprie mani. L'amore spirituale riconosce la vera immagine
del prossimo tramite Gesù Cristo; è l'immagine che Gesù Cristo ha forgiato e che
vuole forgiare.
Perciò l'amore spirituale resterà costante affidando, in tutto ciò che dice e che fa, il
prossimo a Cristo. Non tenterà di suscitare nel suo animo emozioni cercando di
influenzarlo troppo personalmente ed immediatamente, o intervenendo nella sua vita
in maniera impura; non proverà piacere nell'eccitazione dei sentimenti e nell'eccessivo
ardore religioso; ma lo incontrerà con la chiara Parola di Dio e sarà pronto a lasciarlo
solo con questa Parola per un lungo periodo, a lasciarlo di nuovo libero, perché Cristo
possa operare in lui. Rispetterà i limiti che sono posti tra me e l'altro da Cristo e
troverà la piena comunione con lui nel Cristo che ci congiunge e unisce tutti.
Perciò parlerà più con Cristo del fratello che non di Cristo al fratello. Sa che la via più
breve che porta all'altro passa attraverso la preghiera rivolta a Cristo e che l'amore
per lui è completamente legato alla verità in Cristo.
L'amore psichico vive di un'oscura bramosia incontrollata e incontrollabile; l'amore
spirituale vive nella chiarezza e nel servizio ordinato dalla verità. L'amore psichico
lega, produce asservimento e irrigidimento; l'amore spirituale porta frutti che
crescono all'aperto, sotto la pioggia e la tempesta, al sole, in pieno vigore, come piace
a Dio.
Qualche domanda:
1) Contemplando la relazione intima che unisce il Padre e il Figlio,
osservandone la divina attitudine nell’onorarsi vicendevolmente, restando
folgorati dalla infinita e inaudita reciproca resa in assoluta fiducia vicendevole,
mi domando: e io? Onoro l’altro? Mi fido dell’altro? Mi fido anche dello sguardo
che ha sulle cose, sulle situazioni? Mi fido delle sue decisioni, considerandole
anzitutto come il frutto di un serio esercizio di discernimento? Ne ascolto le
argomentazioni con sincerità e fiducia?
2) “Il Padre ama il Figlio”: espressione destinata a generare meraviglia e
stupore e a purificare ogni nostro sguardo. Come guardo l’altro? Lo guardo
anzitutto con amore, stima, amabilità, affetto? Oppure il mio guardo
intimorisce, mortifica, confonde?
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3) “Il Padre ha dato il potere di giudicare al Figlio” e il Figlio esercita questo
suo potere dall’alto della Croce! Io come esercito la mia facoltà di giudizio?
Come manifesto la mia capacità critica? Con lo stesso amore di Gesù? Ovvero
in modo costruttivo, creativo, così da restituire la vita? Oppure il mio modo di
esercitare il giudizio è piuttosto incline a… mietere vittime? Ma che giudizio è
mai quello che invece che aprire alla vita mortifica l’altro?
4) A essere sottoposti al giudizio di Gesù e della sua Parola, in verità,
dovremmo essere noi con la nostra vita! Ci confrontiamo con la Parola di Gesù?
Lo facciamo davvero? Oppure il nostro riferirci alla Parola è solo un atto
formale, episodico, che non genera intimità, familiarità con il Mistero del Padre
e del Figlio? Stiamo diventando “contemplativi”? Gesù nel versetto centarle
della lectio di oggi ci ricorda che è questione di vita o di morte!
Preghiera: MIO DIO, VITA MIA DOLCE ALIMENTO DEL MIO CUORE
(del benedettino Giovanni di Fécamp: Ravenna, XI secolo – Fécamp, 1078)
Mio Dio, vita mia, dolce alimento del
mio cuore,
concedimi di lodarti.
Metti nel mio cuore la luce
e sulle labbra la parola,
così che il cuore mediti sulle tue
promesse
e la lingua canti la tua gloria.
Ma perché lo faccia con più purezza
e con più amore,
fammi dono del pianto e della quiete
dove possa fuggire, tacere e
riposare,
e sulle ferite della mia anima
notte e giorno fare penitenza.
Ti supplico per il Figlio tuo
concedimi come dono della tua
misericordia
che sgorghi nel mio cuore un'irrigua
fonte di lacrime,
che scorra fino a lavare tutta l'anima
dal suo peccato.
Tutto ciò che vuole la tua mano
è certo capace di compierlo, poiché
tu parli
e tutto è fatto, comandi e tutto
esiste.
Perché allora aspetti, perché ritardi?
Vieni, Signore, non tardare.
Spacca la durezza del mio cuore e
sgorghi questa fonte,
dal cui desiderio troppo brucia
l'anima mia.
Donami lacrime di pentimento e
lacrime di desiderio;
benedici con la rugiada del cielo
e con l'abbondanza della terra,
perché le lacrime siano il mio pane
giorno e notte.
Liberami dagli alterchi e dalle
contese,
nelle quali incorre l'anima
sventurata
negli assembramenti di uomini
litigiosi.
Dammi invece quella parte migliore
che scelse Maria
e che ho scelto anch'io da tempo,
prediligendola per ispirazione della
tua grazia:
sciolto da ogni preoccupazione,
poter sedere libero ai piedi del
Signore Gesù Cristo,
ed ascoltare attento
ciò che la sapienza celeste insegna.
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Amore psichico e amore spirituale –
(da Vita comune di Dietrich Bonhoeffer)
Comunione cristiana non è un'ideale che dobbiamo sforzarci di realizzare, ma
una realtà data da Dio in Cristo, alla quale possiamo partecipare. Quanto più
chiaramente impariamo a vedere il fondamento e la forza e la promessa di ogni
nostra comunione in Gesù Cristo solamente, tanto più serenamente
impareremo pure a riflettere sulla nostra comunità e a pregare e sperare per
essa.
Dato che la comunità cristiana è basata solo su Gesù Cristo, essa è una realtà
pneumatica e non psichica. Ed in questo veramente essa differisce da ogni
altra comunità. La Sacra Scrittura indica col termine pneumatico (= spirituale)
ciò che solo lo Spirito Santo crea, il quale pone nei nostri cuori Gesù Cristo
come nostro Signore e Salvatore; chiama, invece, psichico (= dell'animo) ciò
che nasce dagli istinti, dalle forze naturali, dalla disposizione dell'animo umano.
Il fondamento di ogni realtà spirituale è la chiara Parola di Dio manifestata in
Gesù Cristo. Il fondamento di ogni realtà psichica è il desiderio tenebroso e
torbido dell'animo umano. Il fondamento della comunione spirituale è la verità,
il fondamento della comunione psichica è la brama. L'essenza della comunione
spirituale è la luce - «Dio è luce e in lui non vi sono tenebre alcune» (1Gv 1,5)
- «Se camminiamo nella luce, com' Egli è nella luce, abbiamo comunione l'uno
con l'altro». La natura della comunione psichica è tenebre - «poiché è dal di
dentro, dal cuore degli uomini, che escono cattivi pensieri» (Mc 7,21).
E' la notte fonda che copre ogni opera umana nelle sue origini, anche tutti gli
istinti nobili e pii. Comunione spirituale è la comunione di coloro che sono
chiamati da Cristo; psichica è la comunione delle anime religiose. Nella
comunione spirituale vive il chiaro amore del servizio fraterno, l'agape; nella
comunione psichica arde il fosco amore degli empi istinti pii, dell'eros. Là regna
il servizio fraterno ordinato, qui la disordinata brama di godimento; là l'umile
sottomissione sotto il fratello, qui il superbo-umile assoggettamento del fratello
ai propri desideri. Nella comunione spirituale regna solo la Parola di Dio; nella
comunione psichica accanto alla Parola domina ancora l'uomo dotato di
particolari forze, di esperienza, di disposizione suggestivo-magiche. Là il
legame è dato solo dalla Parola di Dio, qui il legame è anche un tentativo di
vincolare l'altro a sé. Là ogni potenza, gloria e signoria è data dallo Spirito
Santo; qui si cerca e si coltivano sfere di potere e di influsso personale, finché
si tratta di persone pie, certo con l'intenzione di servire alle cose migliori e più
nobili, ma in realtà, nonostante tutto, per detronizzare lo Spirito Santo e
tenerlo ad una distanza irreale. Infatti qui rimane reale solo quanto v'è di
psichico. Perciò lì regna lo Spirito, qui la psicotecnica, il metodo; lì l'amore del
prossimo sincero, prepsicologico, premetodico, pronto ad aiutare; qua l'analisi
delle costruzioni psicologiche; lì il servizio umile e semplice reso al fratello, qua
il trattamento calcolatore e indagatore dell'estraneo.
Forse la seguente osservazione può rendere più evidente il contrasto tra la
realtà spirituale e quella psichica: entro una comunità spirituale non può mai
esserci in nessun modo una relazione «immediata» tra l'uno e l'altro; nella
comunità «psichica» invece regna un desiderio di comunione profondo,
originale, psichico, di contatto immediato con le altre anime, così come nella
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carne vive il desiderio di immediata unione con altra carne. Questa brama
dell'animo umano cerca la completa fusione dell'io con il tu, sia che essa si
effettui nell'unione dell'amore, sia che si effettui nel forzato assoggettamento
dell'altro alla propria sfera di influenza e di potere, il che in fondo è lo stesso.
Qui chi è psichicamente più forte si sfoga e si attira l'ammirazione, l'amore o il
timore del più debole. Tutto si basa su vincoli umani, su suggestione, su
asservimento, e tutto ciò che è caratteristico e proprio solo della comunione
data da Cristo, in questa immediata comunione delle anime, compare come
caricatura.
Esiste una conversione «psichica», che si manifesta con tutti i segni di una
vera conversione lì dove, in seguito all'abuso conscio o inconscio della
superiorità di un uomo, un singolo o tutta una comunità sono profondamente
emozionati e attirati nella sua sfera di influenza. Qui l'animo ha esercitato il
suo influsso direttamente su un'altra anima. Il più debole è stato sopraffatto
dal più forte; la resistenza del più debole è stata spezzata dalla personalità
dell'altro. E' stato violentato, ma non vinto dalla causa. E questo si manifesta
nel momento in cui si richiede un impegno per la causa indipendentemente
dalla persona alla quale sono legato o forse anche in contrasto con questa. A
questo punto chi è psichicamente convertito crolla e manifesta in tal modo che
la sua conversione non è opera della Spirito Santo, ma di un uomo e che perciò
non è duratura.
Ed altrettanto esiste un amore «psichico» per il prossimo. Esso è capace di
compiere i sacrifici più inauditi; nella sua ardente dedizione e nei suoi successi
visibili supera spesso il vero amore cristiano, parla il linguaggio cristiano con
una eloquenza sbalorditiva ed elettrizzante. Ma è questo l'amore di cui
l'apostolo dice: «E quando distribuissi tutte le mie facoltà per nutrire i poveri e
quando dessi il mio corpo ad essere arso» - cioè se compissi le maggiori azioni
d'amore con la massima dedizione - «se non ho carità (cioè l'amore di Cristo),
ciò niente mi giova» (1Cor 13,3). L'amore psichico ama il prossimo per se
stesso, l'amore spirituale ama il prossimo per Cristo. Perciò l'amore psichico
crea il contatto immediato con l'altro, non lo ama nella sua libertà, ma come
uno che è legato ad esso vuole vincere, conquistare ad ogni costo, insiste
presso l'altro, vuole essere irresistibile, vuole dominare. L'amore psichico non
tiene in gran conto la verità, la relativizza, perché nulla, nemmeno la verità,
deve intromettersi tra lui e l'essere amato. L'amore psichico desidera l'altro, la
comunione con lui, il suo amore, ma non lo serve. Anzi, anche lì dove sembra
servire, desidera ancora qualcosa per sè. Due cose, che in fondo sono la
stessa, mettono in luce la differenza tra amore spirituale e amore psichico:
l'amore psichico non riesce a sopportare lo scioglimento di una comunità non
più vera per amore di una comunione vera; l'amore psichico non può amare il
nemico, quello, cioè, che gli si oppone ostinatamente e seriamente.
Questi sentimenti nascono ambedue dalla stessa origine: l'amore psichico per
natura è amore che desidera qualcosa per sè, è, cioè, brama di comunione
psichica. Finché è in grado di accontentare in qualche modo questo desiderio,
non vi rinuncia mai, nemmeno per amore della verità, nemmeno per il vero
amore del prossimo. Dove, però, non ha più speranza di soddisfare questa sua
brama, lì è arrivato alla sua fine, cioè al nemico; si muta in odio, disprezzo e
calunnia.
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Ma proprio qui è il punto dove ha inizio l'amore spirituale. Perciò l'amore
psichico diviene odio personale lì dove incontra il sincero amore spirituale che
non desidera nulla per sè, ma serve il prossimo. L'amore psichico si rende da
sé fine a se stesso, opera, idolo, che adora ed al quale deve asservire ogni
cosa. Cura, coltiva, ama sè stesso e null'altro a questo mondo.
L'amore spirituale invece, viene da Gesù Cristo, serve solo lui, sa che non ha
accesso immediato al prossimo. Cristo sta tra me e l'altro. Che cosa significhi
amore per il prossimo non lo so in partenza, solo dal concetto generico di
amore sorto dal mio desiderio psichico - anzi, tutto ciò, forse, davanti a Cristo
può essere proprio odio e massimo egoismo - ; che cosa è amore mi vien detto
solamente da cristo nella sua Parola. Contro ogni mia propria opinione e
convinzione Gesù Cristo mi dirà come si manifesta realmente l'amore per il
fratello. Perciò l'amore, per il cristiano, è legato solo alla Parola di Gesù Cristo.
Lì dove Cristo, a causa dell'amore, vuole che io viva in comunione con gli altri,
lo farò; lì dove la sua verità, a causa dell'amore, mi ordina di interrompere una
comunione, la interrompo a dispetto di ogni protesta del mio amore psichico.
Poiché l'amore spirituale non desidera nulla per sè, ma pensa solo a servire,
ama tanto il nemico quanto il fratello. Esso infatti non è nato nè dal fratello nè
dal nemico, ma da Cristo e dalla sua Parola. L'amore psichico non comprenderà
mai quello spirituale; poiché l'amore spirituale viene dall'alto ed ha qualcosa di
completamente estraneo, nudo, incomprensibile per l'amore terreno.
Dato che Cristo sta tra me e l'altro, non devo desiderare una comunione
immediata con questo. Come solo Cristo poteva parlare con me in modo da
soccorrermi realmente, così anche l'altro può essere aiutato solo da Cristo
stesso. Ma ciò significa che lo devo lasciare libero l'altro e non tentare di
determinare le sue decisioni, costringerlo o dominarlo con il mio amore.
Essendo libero da me, l'altro vuol essere amato così come è veramente, cioè
come un uomo per il quale Cristo ha conquistato la remissione dei peccati ed al
quale ha preparato la vita eterna. Poiché Cristo ha già da tempo compiuto la
sua opera nel mio fratello, ben prima che io potessi incominciare la mia opera
in lui, perciò devo lasciar libero il fratello per Cristo; egli deve incontrarmi solo
da quell'uomo che egli è già per Cristo. Ecco che cosa significa che possiamo
incontrare il prossimo solo tramite Gesù Cristo. L'amore psichico si crea una
propria immagine dell'altro, di ciò che quello è e di ciò che deve diventare.
Prende la vita del prossimo nelle proprie mani. L'amore spirituale riconosce la
vera immagine del prossimo tramite Gesù Cristo; è l'immagine che Gesù Cristo
ha forgiato e che vuole forgiare.
Perciò l'amore spirituale resterà costante affidando, in tutto ciò che dice e che
fa, il prossimo a Cristo. Non tenterà di suscitare nel suo animo emozioni
cercando di influenzarlo troppo personalmente ed immediatamente, o
intervenendo nella sua vita in maniera impura; non proverà piacere
nell'eccitazione dei sentimenti e nell'eccessivo ardore religioso; ma lo
incontrerà con la chiara Parola di Dio e sarà pronto a lasciarlo solo con questa
Parola per un lungo periodo, a lasciarlo di nuovo libero, perché Cristo possa
operare in lui. Rispetterà i limiti che sono posti tra me e l'altro da Cristo e
troverà la piena comunione con lui nel Cristo che ci congiunge e unisce tutti.
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Perciò parlerà più con Cristo del fratello che non di Cristo al fratello. Sa che la
via più breve che porta all'altro passa attraverso la preghiera rivolta a Cristo e
che l'amore per lui è completamente legato alla verità in Cristo. Riguardo a
questo amore l'apostolo Giovanni dice: «Io non ho maggiore allegrezza di
questa, di udire che i miei figlioli camminano nella verità». (3 Gv 4).
L'amore psichico vive di un'oscura bramosia incontrollata e ncontrollabile;
l'amore spirituale vive nella chiarezza e nel servizio ordinato dalla verità.
L'amore psichico lega, produce asservimento e irrigidimento; l'amore spirituale
porta frutti che crescono all'aperto, sotto la pioggia e la tempesta, al sole, in
pieno vigore, come piace a Dio.
Per ogni convivenza cristiana è questione di vita o di morte promuovere in
tempo la capacità di discernere tra ideale umano e realtà divina, tra comunione
spirituale e comunione psichica. E' questione di vita o di morte di una comunità
cristiana saperne, quanto prima, giudicare spassionatamente. Cioè: una vita
vissuta in comune sotto la Parola può restare sana lì dove non si presenta
come movimento, ordine monastico, associazione, collegium pietatis, ma come
parte della chiesa universale, una e santa; dove partecipa, lavorando e
soffrendo, al travaglio, al combattimento, alla promessa di tutta la chiesa. Ogni
principio di selezione e ogni conseguente separazione, che non è
obiettivamente condizionata da un lavoro comune, da cause locali, da nessi
familiari, è un vero pericolo per una comunità cristiana.
Nella via della selezione intellettuale o spirituale si introduce spesso di nuovo di
soppiatto il fattore psichico e defrauda la comunione della sua forza spirituale e
della sua efficacia per la comunità, la spinge ad assumere un atteggiamento
settario. L'esclusione dalla comunità di che è debole o modesto o
apparentemente inutile può addirittura comportare l'esclusione di Cristo, che
bussa alla nostra porta nel fratello povero. Perciò dobbiamo essere
particolarmente cauti su questo punto.
Un osservatore superficiale potrebbe pensare che il pericolo di confondere
l'ideale con la realtà, il fattore spirituale con quello psichico sia maggiore lì
dove una comunità è variamente strutturata, cioè lì dove, come nel
matrimonio, nella famiglia, nell'amicizia il fattore psichico ha un'importanza
preminente nella formazione della comunità in genere, e dove il fattore
spirituale si aggiunge solo a quello fisico-psichico. Veramente solo in tali
comunità si correrebbe il pericolo di mescolanza e di confusione delle due
sfere, mentre essa potrebbe difficilmente aver luogo in una comunità di
carattere prettamente spirituale. Ma chi pensa così, incorre in un grave errore.
Tutte le esperienze e, come si vede facilmente, anche la cosa in sé ci
dimostrano proprio il contrario. Un vincolo matrimoniale, una famiglia,
un'amicizia conoscono molto chiaramente i limiti delle loro forze intese a creare
la comunione; sanno molto bene, se sono sani, dove finisce il fattore psichico e
dove incomincia quello spirituale.
Conoscono il contrasto tra comunione fisico-psichica e comunione spirituale.
D'altro canto lì dove si mette insieme una comunità di carattere puramente
spirituale è molto vicino il pericolo che vengano portati nella comunità tutti i
fattori psichici e vi vengano confusi.
Unirsi in una comunità di carattere prettamente spirituale non è solo
pericoloso, ma anzi un fatto del tutto anormale. Dove, in una comunità
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spirituale, non entra a far parte una comunione fisico-familiare, o la comunione
in serio lavoro, dove non entra la vita quotidiana con tutto ciò che essa
pretende dall'uomo che lavora, lì è necessaria una particolare vigilanza e
sobrietà. Perciò l'esperienza ci dice che proprio in brevi incontri durante le
vacanze il momento psicologico si fa largo assai facilmente. Nulla è più facile
che risvegliare l'ebrezza della comunione in pochi giorni di vita comunitaria, e
nulla è più fatale per una vita comunitaria sana, sobria e fraterna nel lavoro
quotidiano.
Non ci sono molti cristiani a cui Dio non conceda, almeno una volta nella loro
vita, l'esperienza inebriante di una vera comunione cristiana. Ma una simile
esperienza in questo mondo non rimane altro che un sovrappiù, una grazia
concessa oltre al pane quotidiano di una vita comunitaria cristiana. Non
possiamo reclamare simili esperienze, ed esse non sono lo scopo di una vita in
comune con altri cristiani.
Non è l'esperienza di comunione cristiana ciò che ci congiunge, ma la fede
ferma e certa nella comunione cristiana. Afferriamo per fede come il più grande
dono di Dio il fatto che è Dio che opera ed ha già operato in noi; questo ci
rende beati e contenti, ma ci prepara anche a rinunziare a tutte le esperienze
se Dio, a volte, non vuole concederlo.
Siamo congiunti per fede, non per esperienza. «Ecco quanto è buono e quanto
è gioioso per i fratelli dimorare insieme» (Salmo 133,1): questo è l'inno della
Sacra Scrittura alla vita in comune sotto la Parola. Volendo spiegare la Parola
«insieme» (cioè concordi), possiamo dire «che fratelli dimorino assieme» in
Cristo, perché Gesù Cristo solo è la nostra concordia. «Egli è la nostra pace»
(Ef 2,14).
Solo tramite lui possiamo incontrarci, godere gli uni degli altri, avere
comunione gli uni con gli altri.
D. Bonhoeffer, La vita comune, Queriniana, Brescia, 1976, pp. 39-40; 4860.
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