Lavorare alla Sata tra straordinari, ritmi forsennati, mobbing e bassi salari Melfi, parlano i delegati «La crisi globale ci incatena alla fabbrica» Checchino Antonini Melfi (Potenza) nostro inviato Però, è gentile il padrone a fornire ai suoi operai perfino il giornale. Lo trovano a fine turno ai cancelli della Sata. Una bella catasta dell'house organ di casa Fiat, La Stampa . Un gesto semplice, infilarsi le copie sotto il braccio, e gli operai vengono messi a valore un'altra volta, perché quelle copie regalate servono a vendere meglio la pubblicità. Li vedi con le nuove casacche nuove, azzurre con lo scudetto tricolore, che sembrano entrare e uscire da un villaggio olimpico mica dalla fabbrica fordista. Accanto allo stabilimento c'è perfino un campo da tennis ma dopo un po' la palla diventa grigia e pesante di polvere di ferro. Dino spiega che la casacca azzurra è stata una mossa per dismettere le tute amaranto diventate troppo famose con la rivolta dei 21 giorni del 2004. La Sata doveva essere incontaminata dalla mitologia operaia, dalla conflittualità. Così prescriveva la "filosofia del prato verde". Sembrava un terno al lotto, quella fabbrica, come un posto statale, pane del governo. I giornali ci ricamavano sopra sulla fine del conflitto. Invece si sono ribellati eccome! Tre settimane di picchetti. Per un salario uguale a quelli del gruppo Fiat, per la dignità, contro rapporti di clientelismo esasperato tra capetti e operai. Qualcuno si portava a casa i subordinati. Lavoretti domestici in cambio di qualche "privilegio" in fabbrica. Finì che la spuntarono, malgrado le cariche selvagge della polizia, 18 sono ancora sotto processo. Tutto ciò malgrado la zona grigia dentro cui vive la moltitudine di lavoratori che restarono a guardare. Una quindicina di anni dopo, mentre ovunque impazza la crisi, qui si ammazzano di straordinari. Si chiama straordinario comandato, lo prevede il contratto per 5 sabati. Dino dice che c'è chi lavora pressoché senza soste da 34 giorni. Domeniche escluse. Dino Miniscalchi è Rsu della Fiom come Antonio Gravinese che indossa una felpa rossa dei metalmeccanici della Cgil che gli serve per farsi riconoscere sulle linee. Più tardi incontrerò un loro compagno, Giovanni Barozzino, e un altro operaio, Cosimo Martino. Saranno loro a raccontare le storie e i fatti di questa pagina. E parleranno con le voci dei loro compagni di reparto. Il sole a picco sulla piana mentre sciama il primo turno rende più acuta la stanchezza. Sono le 13.30. Molti di loro si sono alzati dieci ore prima per raggiungere un posto di lavoro lontano anche 150 chilometri. Altro che metalmezzadri , come vorrebbe far credere la Fiat, non c'è tempo se non per mangiare e dormire La Sata non è mai sazia. Ora pretende l'orario plurisettimanale . L'orario schizza a 48 ore settimanali per poi scendere a 32 in altri periodi. Così tra le 40 ore di straordinario comandato e le 64 di orario plurisettimanale senza la maggiorazione dello straordinario - se ne vanno 13 giornate, un quarto dei riposi annui. La fluttualità del mercato viene scaricata sui lavoratori. Sempre gli stessi gesti Però, verrebbe da pensare, almeno qui la crisi non si sente. Sbagliato. Si sente due volte. Intanto perché da ottobre alla prima settimana di febbraio anche la Sata ha conosciuto la «vessazione salariale» della cassa integrazione. Da 1300 euro di salario - se si fa il turno di notte - si precipita a 900 euro. Poi il ritmo forsennato dello straordinario già all'ultima settimana di febbraio ma con la perdita, ulteriore beffa, dei ratei di ferie, premi e tredicesima. Ma in tempo di crisi il padrone prova anche a riscrivere i rapporti di forza. Anche dove il lavoro non sembra mancare. Alla Sata si traduce con carichi di lavoro maggiorati. Ormai si lavora oltre il famigerato Tmc2 (Tempi dei movimenti collegati-seconda versione) il modello cronotecnico per la produzione di serie che ha seminato così tanti tunnel carpali e tendiniti per sfornare ogni vettura in un minuto e mezzo - che a Mirafiori è dovuto intervenire un magistrato attento come Guariniello. Ora a Torino la nuova metrica è studiata assieme ai medici del lavoro. A Melfi, invece, l'alta frequenza e la ripetitività dei gesti sono infernali. L'azienda vuole sempre più macchine senza fare un'assunzione. La saturazione media (la quantità di minuto che diventa profitto) è schizzata dal 65% al 90%, spesso al 99%, per gran parte dei 5000 addetti, 300 dei quali in prestito da Pomigliano, cui vanno sommati altri 400 dipendenti di una multinazionale che fornisce i carrellisti. Solo 400 gli impiegati. Due lavoratori e mezzo per ognuna delle 4500 macchine prodotte ogni giorno. Otto ore con una sola pausa di 17 minuti per sfornare la Grande Punto che nessuno di loro si potrà permettere. Infatti, nel parcheggio enorme non se ne vedono esemplari. I lavoratori non possono comprare le merci che producono: cos'altro è la crisi, se no? Guerra a chi si fa male Nel tritacarne della catena si riallocano operai che s'erano visti riconoscere delle limitazioni dopo un infortunio o una malattia. L'azienda li sottopone a revisione e li rispedisce al fronte. In prima linea di una guerra di mercato drogata dagli incentivi, eco e non. E in questa guerra la gente si fa male. I carrellisti sfrecciano negli spazi angusti, i carrelli si scontrano, le macchine feriscono, deformano i corpi, uccidono. L'anno passato è toccato a due persone. Gli infortuni sono stati gravissimi ma molti sono occultati da una catena composta dal capo Ute (l'unità tecnologica elementare), dal capo del capo Ute - il Gestore operativo - dai medici interni finanche dal presidio dell'Inail che si gira dall'altra parte. «Ma chi te lo fa fare a denunciare, magari ti prendi un po' di ferie...». E per un'operaia la catena di comando finisce spesso con un marito che fa propri i consigli dei capi. Fuori dalla fabbrica non va meglio. L'ospedale di Melfi sembra una succursale della Fiat. Tribunale, carabinieri, ispettori della Asl: la Sata sembra controllare tutto e tutti. Una ragazza viene a lavorare con la stampella, le contestano i ritardi. Un'altra ha un tumore e la pressano col mobbing. Il 20% di chi lavora alla Sata è donna, la percentuale più alta del gruppo. Ma l'asilo nido di Mirafiori qui se lo sognano. Ecco che passa Cesira. E' un nome di fantasia, perché Cesira non parla con la stampa. Non parla quasi nessuno, e in pochi si fanno vedere accanto ai delegati Fiom. E' la zona grigia. Raccontano solo i delegati. Se avesse potuto prendere parola Cesira avrebbe detto magari che lei l'operaia non l'avrebbe voluta fare. Ma non è facile trovare altro da queste parti. Quando il carrello la investe le frattura due costole, l'osso sacro, le contorce la colonna vertebrale. Quella notte non riusciva a dormire per il dolore. La mattina prova a tornare al lavoro. Ma è costretta a ricorrere all'infermeria. Non ce la fa a camminare. La vorrebbero spedire in ferie forzate. In ospedale scoprirà di aver sfiorato la morte per embolia polmonare. La Sata le chiede di ritrattare. «Ti faremo fare quello che ti pare». Cesira resiste. Non andrà in ferie ma sarà 4 mesi a casa per infortunio. Ora non può stare molto tempo in piedi o seduta, mai più nuoto né palestra. Da allora nel suo tempo libero c'è quasi solo fisioterapia. L'azienda le dichiara guerra e la costringe a lavorare in postazioni che le procureranno altri problemi fisici. La fa lavorare in punta di piedi. Un'altra operazione, stavolta ai tendini. E quando non ce la fa più il capetto la costringe a stare seduta in un angolo, la insulta. Saranno le sue compagne a segnalarla alla Fiom. La sicurezza non è un optional della Grande Punto. Nessuno forma gli operai in prestito, si glissa sulla prevenzione, si truccano le fotocellule. Vietato lamentarsi in Sata. I provvedimenti disciplinari sono ripresi alla grande e rendono più leggere le buste paga. «Non hai voglia di fare niente», si sente dire Cesira e tutti quelli che non ce la fanno a reggere i ritmi. Molti sono depressi, qualcuno se ne va. Altri vengono minacciati di essere tolti dal turno di notte, senza il quale la busta paga sarebbe ancora più misera. «La crisi ci incatena alla fabbrica», dicono i lavoratori prima di risalire sui pullman che li rispargono nel circondario tra Lucania, Puglia, nord della Calabria. Qualcuno tira fuori un cuscinetto gonfiabile per provare a dormire. Una gabbia salariale Si parla di soldi e di contratto. Qui a Melfi ancora non arriva la quattordicesima. «Di fatto è una gabbia salariale». Grazie all'accordo separato il premio di produzione è scaduto col vecchio contratto. Il conto è in rosso: a luglio meno 1100 euro, meno i mancati aumenti. «Quest'anno niente ferie». Piove sul bagnato. Il 60% delle tute amaranto ha dovuto fare la cessione del quinto a un paio di finanziarie per pagare mutui, rate o affitti che anche qui possono arrivare al 50% del salario. «Alla terza settimana si chiede qualche soldo ai genitori pensionati». Quattro anni dopo le ragioni che scatenarono i 21 giorni sono di nuovo sotto sul tappeto. Il clima è lo stesso di allora. Intanto sono arrivati lo scippo del Tfr, l'accordo del 23 luglio, gli accordi separati, l'attacco al contratto, la crisi globale. «La solitudine dell'operaio è evidente, così come la sua delusione». Il giornale accatastato non racconta queste storie. Lo fa Liberazione che oggi sarà distribuita in migliaia di copie ai cancelli di Melfi. 26/05/2009