PRESENTAZIONE ENCICLICA STUDENTI

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PRESENTAZIONE ENCICLICA STUDENTI (laici)
CI OCCORRE UNA GRANDE VISIONE
Intervento del Vescovo sull’Enciclica “Caritas in veritate” durante l’incontro con
gli studenti universitari di economia e agli studenti delle quinte superiori
Novara, 5 ottobre 2009
Enciclica significa lettera circolare inviata a tutti. In quel “tutti” ci stanno
Vescovi, sacerdoti e fedeli della Chiesa Cattolica. Ma vengono esplicitamente
evocati, in questo caso, anche “tutti gli uomini di buona volontà”. Non
casualmente questa lettera è stata inviata anche ai Capi di tutte le Nazioni.
È un’Enciclica sociale. Non è la prima. A partire dalla fine del XIX
secolo, con Leone XIII, si va esprimendo, di decennio in decennio, la dottrina
sociale della Chiesa. Essa è un tesoro per lo più nascosto, ma la sua finalità è
importante per la Chiesa: esprime il Vangelo guardando al cammino dei popoli.
Un’Enciclica sociale non è un testo sociologico. Non è nemmeno un
testo di economia. Non pretende di offrire risposte tecniche ai problemi che ci
assillano. La sua singolarità è quella di voler privilegiare quella che si può
chiamare “l’intenzionalità del nostro agire”. Ciò vuol dire dare spazio alle
domande di fondo del nostro vivere insieme: chi è l’altro per me? Che cosa
penso della convivenza tra i popoli? Che cosa penso e desidero in favore delle
nuove generazioni e del futuro che sarà il loro presente da quando si
assumeranno delle responsabilità tipiche della vita adulta? Che rapporto vi è tra
il mio modo profondo di pensare e la maniera secondo la quale mi muovo in un
ambito come quello sociale e politico e, in particolare, nel mondo economico?
Proprio a partire da questo suo taglio specifico, l’Enciclica attende un
ascolto che vuol dire anzitutto sforzo di pensare il mondo e il suo cammino nella
nostra epoca.
È un’Enciclica che ha come titolo “Caritas in veritate”. Ogni documento
del magistero della Chiesa, salvo eccezioni, ha il titolo in latino e anche il testo
in latino. Viene tradotto in tutte le lingue, ma il testo base è in latino, lingua
universale della Chiesa. I due termini adoperati sono già una sfida. Spesso,
oggi, la carità riceve un’interpretazione sentimentale ed emotiva. Quanto alla
verità, essendo presenti, qua e là, anche culture nelle quali domina il
relativismo, rischia di riprendere la domanda scettica rivolta da Pilato a Gesù,
mentre veniva giudicato, e poi condannato a morte: “Che cos’è la verità?”.
Ma per il cristianesimo, la “caritas” esprime le profondità di Dio. “Dio è
amore”. E la verità non è un’idea filosofica, ma una persona, Gesù Cristo, che
provenendo da Dio conosce le profondità dell’uomo e del suo destino. La
“caritas” indica il luogo di fondo che regge il destino umano: noi siamo amati. La
“veritas” viene incontro all’uomo che la cerca a tentoni per afferrarne almeno
qualche frammento e che in Cristo, luce del mondo, trova un’illuminazione che
altrimenti non sarebbe possibile conquistare.
Come viene accolta questa Enciclica? È difficile dirlo adesso. È troppo
presto. La precedente Enciclica sociale risale a oltre vent’anni fa. Il testo non è
un articolo di giornale. È uno strumento di riflessione e di studio che va
centellinato e disteso nel tempo, anche di anni. Non bisogna dunque avere
fretta.
Mi sembra giusto fare un riferimento critico. Qualcuno, infatti, guarda
all’insegnamento sociale della Chiesa, che pone in primo piano sempre la
valenza etica dell’agire umano in tutti i campi, compreso quello dell’economia e
della finanza, come a una visione delle cose più adatta alle “anime belle” (e cioè
troppo semplici e facili a illudersi) che non a uomini e donne che vogliono
tenere i piedi per terra. Ma le cose non stanno così. Anche questa Enciclica
vuole interpellare uomini e donne che tengono i piedi per terra. Ma c’è un modo
di fare questo che è decisamente sfavorevole all’uomo. È quello segnato dal
cinismo. Anni fa è uscita un’inchiesta sui giovani che mi colpì già dal titolo:
“Essere adolescenti in un tempo di cinismo”. Il cinismo non è realismo, ma
brutalità. Non può che finire a servizio dei prepotenti ed essere travolto da un
mondo di menzogna: il contrario di ciò di cui hanno bisogno i giovani.
A proposito di “anime belle”, voglio esemplificare citando alcune
persone che, per l’uomo, per la democrazia, per la libertà, per la verità delle
cose hanno rischiato o rischiano la vita. Vorrei fare dei nomi, privilegiando le
donne che più volte, nel nostro tempo, sono in primo piano in favore di una vita
degna di essere chiamata umana.
Faccio riferimento a tre luoghi significativi per il cammino dell’umanità:
la Cecenia, la Birmania, l’Iran. Anna Politovskaya, giornalista russa, denunciava
soprusi e violenze in Cecenia. Non smise di farlo benché temesse di venire
colpita o addirittura uccisa, come puntualmente avvenne. Recentemente
un’altra donna, che svolgeva lo stesso lavoro coraggioso della Politovskaya, è
stata rapita e uccisa, massacrata e lasciata sul ciglio della strada. Questo
avvenne nel luglio scorso. A metà agosto toccò a Zarema Sadulaveva, direttrice
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di un’organizzazione non governativa che si occupa di giovani: anch’essa rapita
e uccisa, e suo marito con lei. Che diciamo: sono anime belle, che non hanno i
piedi per terra? Oppure: meno mano che ci sono al mondo persone di questa
tempra che generano speranza per i più deboli e lasciano intravedere un futuro
migliore o meno peggiore?
Un altro nome, che ci porta in Birmania: quello di Aung San Suu Kyi:
una fragile donna birmana in lotta senza armi contro il regime dei generali; da
più di vent’anni passa dal carcere agli arresti domiciliari. Un altro nome ancora,
quello di una ragazza giovanissima, vittima della recente repressione in Iran in
occasione delle elezioni del presidente. Il suo volto indimenticabile è apparso su
tutti i giornali. Un’eroina per caso si potrebbe dire. Ma l’essere là dov’era è stata
una scelta, non un caso. Era là, insieme con tanta altra gente, in particolare
donne, per manifestare contro i brogli elettorali e venne uccisa da un proiettile
delle forze di sicurezza. Si chiamava Neda. Era giovanissima, come voi
studenti. Che diciamo: che era un’ingenua o che è stimolo di un mondo diverso
che bisogna a tutti i costi costruire?
Come non intuire che anche il mondo dell’economia e della finanza
deve mettersi in un rapporto di rispetto nei confronti di tutto ciò che è umano e
di un civile e dignitoso cammino dei popoli, soprattutto in un’epoca segnata
dalla globalizzazione? Come non arrendersi alla constatazione che, anche nel
mondo dell’economia, non abbiamo bisogno di prepotenze, di insulti alla
giustizia, di astuzie che spingono alla rovina i più deboli e possono creare una
crisi come quella di un anno fa, che mette a rischio l’economia stessa?
Uno sguardo d’insieme
No, non abbiamo bisogno per il futuro di cinismo. Già ne abbiamo avuto
troppo. Abbiamo bisogno di uomini e donne guidati, anche in economica, da
una grande “visione”. Mi viene alla memoria M.L. King che, nel suo discorso
rimasto famoso, diceva: “Ho un sogno”. Era quello del riconoscimento dei diritti
civili dei neri in America. Anche lui, per quel suo sogno, pagò con la vita
quarant’anni fa. Ma come non pensare che, senza quel sogno di libertà non
sarebbe mai stato possibile, nel 2008, che un afro-americano diventasse
presidente degli USA?
A chiederci una grande visione è l’accentuazione, in questi ultimi
vent’anni, di fenomeni di globalizzazione determinati da un lato dalla fine dei
blocchi contrapposti e, dall’altra dalla rete informatica e telematica mondiale.
Iniziati nei primi anni ’90 del secolo scorso, questi due fenomeni hanno prodotto
cambiamenti fondamentali in tutti gli aspetti della vita economica, sociale e
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politica. È per ciò che l’Enciclica affronta organicamente questo fenomeno non
in un solo punto, ma lungo tutto lo sviluppo del testo, essendo questo un
avvenimento trasversale. Economia e finanza, ambiente e famiglia, culture e
religioni, migrazioni e tutela della famiglia, culture e religioni, migrazioni e tutela
dei diritti dei lavoratori: tutti questi fattori, e altri ancora, ne sono influenzati (cfr.
card. R. Martino, presentazione dell’Enciclica, in Rivista Diocesana Novarese,
6/2009, p. 404).
Come sarebbe possibile tutto questo senza una grande visione, senza
molto sforzo di pensiero, senza progetti adeguati alla posta in gioco? A
chiedere una grande visione è anche l’11 settembre 2001: un giorno
drammatico dalla portata universale che, ancora oggi, giustamente deve stare
in primo piano per trovare “il bandolo della matassa”, così difficile da decifrare e
che non può certo essere ridotto a un problema militare.
In rapporto al tema della visione, l’aspetto interessante dell’Enciclica,
anche se difficile e bisognoso di attento studio, sta nel fatto che, oltre ad essere
un documento ecclesiale di tipo sociale, più propriamente e più profondamente
esso è un testo di antropologia: qui sta la sua bellezza e la sua forza. Chiama in
causa gli aspetti più basilari ed elementari del nostro vivere, della nostra
avventura umana e, a partire da lì tocca e analizza i temi sociali.
In questo contesto antropologico viene posta in evidenza una grande
verità: che l’uomo è persona, e cioè relazione, creatura che si pensa e agisce
nella relazione. Su questo punto è interessante constatare la convergenza
totale tra l’Enciclica e la Carta costituzionale, tutta “personalista”. Ma non è così
dappertutto nel mondo. In alcune lingue lo stesso termine persona è difficile da
trovare e occorrono circonlocuzioni per esprimerlo. Nemmeno oggi è pacifico
che i cosiddetti “diritti universali” siano riconosciuti come tali dappertutto. Un
motivo in più, questo, per favorire una cultura che pone al centro del discorso
anche sull’economia, come dell’ambiente e di altri campi, una visione
“personalistica” delle cose.
Il contesto antropologico conduce poi a scoprire e riconoscere la
valenza enorme della coscienza, intesa come il luogo più profondo di sé e il
luogo delle decisioni veramente umane. Essa deve accompagnarci dovunque
andiamo, chiamati dalle nostre specifiche responsabilità. Si tratta di una
prospettiva che vale per tutti, credenti e non credenti. Essa sta a dire che si
prende a cuore il raccordo tra etica e compiti ai quali, di giorno in giorno, ci
dedichiamo.
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Il contesto antropologico non poteva non condurre ad avere uno
sguardo privilegiato sui giovani: aiutarli a crescere in sapienza vuol dire
ricondurli a considerare l’umano dell’uomo e ad assimilare le esigenze più
elementari della vita dell’uomo in relazione e in crescita. Si legge nell’Enciclica
un passaggio che può giustamente venire evocato qui, in un luogo destinato
alla crescita dei giovani. si ricorda che “con il termine «educazione» non ci si
riferisce solo all’istruzione e alla formazione al lavoro, entrambe cause
importanti dello sviluppo, ma alla formazione completa della persona” (n. 61).
Come non augurare alla Scuola Media Superiore e all’Università di coltivare
questa piena educazione dei giovani?
Ci si può infine porre ancora una domanda: come far penetrare nella
nostra società e nella nostra convivenza i valori di cui fin qui ho fatto qualche
cenno? Le risposte sono più di una. La Scuola è, per sua natura, chiamata ad
essere una risposta. Lo è anche tutto il lavoro di ricerca sui temi economici,
approfonditi anche mediante contributi interdisciplinari. Ma c’è una risposta
semplice e fondamentale che non va lasciata in ombra: il sentiero possibile a
tutti e che tutti dobbiamo privilegiare è quello della testimonianza. Il che vuol
dire offrire concretamente la prova che determinati valori possono diventare
l’impostazione della vita, mostrando in tal modo anche l’unità interiore di
ciascuno di noi.
Auguri a tutti.
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