Lettera di San Giacomo: II parte della catechesi parrocchiale per giovani e adulti: Dall’ascolto all’impegno e alle scelte nella vita alla luce del Vangelo e della lettera di San Giacomo La lettera di san Giacomo c’impegna a testimoniare la nostra fede nella concretezza delle opere e nella coerenza della vita all’insegnamento di Cristo. Il mondo c’interpella su questioni e problematiche sempre più difficili da interpretare e che ci trovano in contrasto tra la coscienza umana e una coscienza formata alla scuola del Vangelo e dalla cultura religiosa e cattolica nella quale siamo cresciuti e siamo stati educati. Con molta umiltà, senza avere la pretesa, di risolvere tutte le domande mi pongo con voi nel tentativo di capire alcune problematiche come: l’eutanasia, la pena di morte, laicità dello Stato in rapporto alla Chiesa, la maleducazione, il bullismo, il divorzio …e i sacramenti, i dogmi della Chiesa, la Chiesa cattolica possiede la verità assoluta?, il concetto di tolleranza, omosessualità e Chiesa…sono alcune delle vostre richieste alle quali, per quanto il tempo e le capacità ce lo consentiranno, cercheremo di affrontare in questa seconda parte della catechesi partendo dal Vangelo e dalla Lettera di Giacomo non dimenticando altri scritti della Parola di Dio e con l’ausilio di qualche scritto proveniente da persone più preparate di me in materia. Sono cosciente dell’ampiezza della materia e che ci vorrebbero persone più competenti, ma questo vuole essere un tentativo di confrontarci su tematiche che la società pone sotto i nostri occhi quotidianamente, discuttendone come fossimo in famiglia, senza vergogna, senza paura di sbagliare o di dire stupidaggini o di “fare brutta figura” e senza la pretesa di convincere gli altri della nostra idea. È un confrontarci e un ascoltarci alla luce della Parola di Dio e nel rispetto delle proprie sensibilità e conoscenza . L’EUTANASIA “13 Chi tra voi è nel dolore, preghi; chi è nella gioia salmeggi. 14Chi è malato, chiami a sé i presbiteri della Chiesa e preghino su di lui, dopo averlo unto con olio, nel nome del Signore. 15E la preghiera fatta con fede salverà il malato: il Signore lo rialzerà e se ha commesso peccati, gli saranno perdonati. 16Confessate perciò i vostri peccati gli uni agli altri e pregate gli uni per gli altri per essere guariti. Molto vale la preghiera del giusto fatta con insistenza. “ 1. Cosa intendiamo per eutanasia? Eutanasìa, in greco antico, significa letteralmente buona morte. Oggi con questo termine si definisce correntemente l’intervento medico volto ad abbreviare l’agonia di un malato terminale. Si parla di eutanasia passiva quando il medico si astiene dal praticare cure volte a tenere ancora in vita il malato; di eutanasia attiva quando il medico causa, direttamente, la morte del malato; di eutanasia attiva volontaria quando il medico agisce su richiesta esplicita del malato. Nella casistica si tende a far rientrare anche il cosiddetto suicidio assistito, ovvero l’atto autonomo di porre termine alla propria vita compiuto da un malato terminale in presenza di - e con mezzi forniti da - un medico. UN PO’ DI STORIA Nella Grecia antica il suicidio riscuoteva un’alta considerazione: si supponeva che ognuno fosse libero di disporre come meglio credesse della propria vita. L’assistenza al suicidio nel mondo classico non fu proibita fino all’avvento al potere del cristianesimo. Agli inizi di questo secolo alcuni pionieri riproposero il tema all’opinione pubblica: la durata della vita andava allungandosi, ma non sempre a una maggior durata si accompagnava la possibilità di godere, per più tempo, di una qualità di vita dignitosa. Negli anni ’30 nacquero nel mondo anglosassone le prime associazioni, che nel dopoguerra si svilupparono fortemente. Oggi le associazioni di tutto il mondo sono riunite nella World Federation of Right to Die Societies (Federazione Mondiale delle Società per il Diritto di Morire). Nel 1974 alcuni umanisti, tra cui scienziati, filosofi e premi Nobel, lanciarono il manifesto A Plea for Beneficent Euthanasia, che riscosse molti consensi. La principale attività di queste associazioni consiste nel sensibilizzare l’opinione pubblica e, soprattutto, governi e parlamenti, sulla necessità di raggiungere stadi più progrediti nel riconoscimento dei diritti del malato terminale. Il consenso informato è oramai entrato a far parte del vocabolario medico: con esso è stata riconosciuto il diritto del paziente di dire la sua sulle cure che dovrà ricevere. Ora la battaglia delle associazioni si è sostanzialmente spostata, oltre che sulla richiesta della legalizzazione, sulla liceità e sul valore legale della sottoscrizione, da parte di chiunque, di “direttive anticipate”; qualora, in futuro, si venisse a trovare nell’impossibilità di opinare sulle cure ricevute. A tal fine sono stati quindi elaborati dei veri e propri “testamenti biologici”. In particolare, il modulo elaborato dalla Fondazione Veronesi ha ricevuto il 28 aprile 2006 l’approvazione del Consiglio Nazionale Forense. Obbiettivo ultimo è riuscire a far sancire il diritto di ogni individuo di disporre liberamente della propria esistenza. 2. Forme di applicazione dell'eutanasia - Eutanasia passiva : questo è un termine usato a sproposito dai mezzi di comunicazione. L'unica cosa a cui si riferisce è la morte naturale, quando cioè viene sospeso l'uso degli strumenti vitali o delle medicine in modo che si verifichi una morte completamente naturale, che non contrasti le leggi della natura. - Eutanasia attiva : questo termine si riferisce alla morte che viene procurata allo scopo di alleviare il dolore del paziente. - Il suicidio assistito è correlato alla eutanasia: avviene quando qualcuno dà delle informazioni e i mezzi necessari ad un paziente affinché possa far finire facilmente la sua propria vita. 3. Credenze sulla eutanasia - Le credenze cristiane sono state ben documentate da Tommaso di Aquino, lui condanna il suicidio perché : * Infrange il desiderio naturale di vivere * Danneggia altre persone * La vita è un regalo di Dio e solo Lui può riprendersela - Michel de Montaigne fu il primo famoso dissidente fra gli scrittori europei. Ha scritto 5 saggi che hanno toccato l'argomento del suicidio ed ha concluso che è una decisione personale, e razionale in alcune circostanze. . Domande etiche generate dalla discussione sulla eutanasia - Una grande percentuale di pazienti terminali soffre di dolore intrattabile e/o avverte un'intollerabilità verso la propria difficile qualità di vita. Questi preferirebbero quindi che la loro vita finisse piuttosto che continuarla fino alla morte naturale. Si deve dare a questi pazienti assistenza medica? - Il suicidio è un atto legale che teoricamente chiunque può praticare. Ma i malati terminali che sono in un ospedale non possono esercitare questa opzione. In effetti, questi sono discriminati. Dobbiamo dar loro le stesse possibilità di suicidio che la gente sana ha fuori dall'ospedale? - Molti gruppi religiosi, come i cristiani e i giudei, pensano che Dio dia la vita e dunque soltanto Lui dovrebbe porvi fine. Il suicidio sarebbe dunque considerato come un rifiuto della sovranità di Dio e del suo programma di amore. Queste religioni pensano che noi siamo custodi delle nostre vite ed il suicidio non dovrebbe mai essere praticato. Questo è un fattore importante per una persona che considera la possibilità di praticare l'eutanasia ed è contemporaneamente membro di uno di questi gruppi religiosi. Tuttavia, sembra fondamentalmente ingiusto usare una discussione religiosa per una decisione di interesse collettivo. C'è un numero considerevole di adulti con credenze religiose che considerano l'eutanasia come una scelta accettabile in alcuni casi. Ci sono inoltre molti secolaristi, atei, agnostici, ecc., che non concordano con questi argomenti religiosi. - Molti gruppi religiosi pensano che la sofferenza umana possa avere un valore positivo per il paziente terminale. Per loro la sofferenza può essere un'occasione divina per migliorare o essere purificati. Alcune fonti romane cattoliche dicono che i cristiani preferiscono un uso moderato di analgesici, per accettare volontariamente almeno una parte delle loro sofferenze e provare su di sé coscientemente le sofferenze di Gesù Cristo crocifisso. Tuttavia, questi sembrano argomenti che non giustificano la negazione della possibilità di praticare l'eutanasia alla gente che non crede. - Molta gente sostiene che il dolore provato dai malati terminali può essere portato a livelli di sopportabilità per mezzo di un trattamento adatto. Tuttavia dieci milioni di individui in America del Nord non hanno accesso alla sanità pubblica e quindi un simile trattamento non è disponibile per tutti i pazienti. Le riduzioni previste ai finanziamenti a favore della sanità aumentano la possibilità di sofferenza dei pazienti terminali e renderanno la assistenza medica più importante. Inoltre, per alcuni, un dolore che non può essere sedato non è la principale ragione per desiderare di morire, ma piuttosto la mancanza dell'indipendenza, della dignità e delle proprie capacità. - Quando il suicidio assistito e/o l'eutanasia fossero disponibili, qualcuno potrebbe sollecitare i propri familiari in modo che accettino la morte, e questa pressione può essere molto sottile. Questo è un argomento importante a favore dei controlli stretti per accertare che un paziente non sia stato influenzato da altri. - Qualcuno desidererà morire perché soffre di depressione clinica. Un altro argomento a favore dei controlli stretti per confermare che il paziente moribondo sia cosciente. - In un momento in cui il finanziamento alla sanità è limitato ed è ridotto continuamente, è un comportamento moralmente corretto il propinare trattamenti estremamente costosi ai pazienti terminali per prolungare la loro vita di poche settimane? Il denaro speso in questa maniera non è disponibile per cure prenatali, per cure ai bambini, ecc. Con quei soldi molte vite sarebbero conservate e sarebbe migliorata la qualità di vita a lungo termine. - Qualcuno sostiene che i pazienti potrebbero temere che i loro medici li uccidano. Solo il paziente dovrebbe chiedere l'assistenza. Il medico continuerebbe a lavorare per andare incontro ai desideri dei suoi pazienti. 5. Opinione pubblica sull'eutanasia Molte indagini sono state fatte, tuttavia i risultati variano a seconda delle domande fatte; alcuni risultati danno sostegno all'eutanasia così : - 60% negli Stati Uniti - 74% nella Canada - 80% in Gran Bretagna - 81% in Australia In Italia , dopo il caso Welby, il 78% si è detto favorevole . La battaglia politica sulla eutanasia I dibattiti che vengono generalmente fatti sull'eutanasia sono influenzati di pregiudizi morali, religiosi, condizionali, ecc. Ma, senza porre in discussione punti di vista differenti, la domanda da farsi e': Una persona in totali cattive condizioni di salute, fortemente convinta che la pura vita non e' ragione sufficiente per sopportare un dolore non lenibile, per sopportare la perdita della dignità o di alcune facoltà decisa al suicidio, cosciente e che non finga uno stato di depressione, può essere sottoposta ad eutanasia o a suicidio assistito? Nel discutere sull'eutanasia non si deve dibattere: - se un malato terminale debba o no chiedere l'eutanasia, che e' una sua scelta personale, ma, piuttosto, se la gente in generale , possa scegliere di vederla applicata; - se si debba legalizzare il suicidio. Molte giurisdizioni da sempre considerano il suicidio un atto criminale. - se una persona in buona salute, soggetta a temporanea depressione, possa essere aiutata al suicidio. La risposta e' evidentemente negativa. - se un familiare chiede di essere sottoposto ad eutanasia, deve trattarsi di un paziente terminale. In definitiva, l'eutanasia e' una scelta. Una persona può aver il controllo del proprio corpo? I gruppi contrari all'aborto sono contrari altresì all'eutanasia. I gruppi religiosi conservativi sono contro la libertà di decisione sul proprio corpo. Le associazioni medicali, dedicate a prolungare le vite e a trarre da tale sforzo la loro ragione di esistere. Gli inabilitati in generale, i quali temono che l'eutanasia possa essere un primo passo verso la eliminazione degli inabilitati stessi. 7. Posizione delle differenti religioni sulla eutanasia La chiesa Cattolica, la Luterana e quella Episcopale hanno emesso le dichiarazioni convenzionali opposte all'eutanasia ed al suicidio assistito. I gruppi di fede Evangelica e Fondamentalista si dichiarano anche loro in disaccordo con queste pratiche. L'associazione unitaria - Universalist, un gruppo liberale, ha emesso una dichiarazione in 1988 a favore dell'eutanasia e, se ci sono circostanze adatte, del suicidio assistito. Delle dichiarazioni simili sono state fatte dalla chiesa unita di Cristo e della chiesa Metodista. Le altre chiese sembrano divise in questo punto. La maggior parte degli enti religiosi non sono contro la eutanasia passiva che non è più di lasciare la morte che avviene naturalmente senza posporla né accelerarla. 8. Stato legale attuale dell’eutanasia La legislazione italiana in materia L’eutanasia attiva non è assolutamente normata dai codici del nostro Paese: ragion per cui essa è assimilabile all’omicidio volontario (articolo 575 del codice penale). Nel caso si riesca a dimostrare il consenso del malato, le pene sono previste dall’articolo 579 (omicidio del consenziente) e vanno comunque dai sei ai quindici anni. Anche il suicidio assistito è considerato un reato, ai sensi dell’articolo 580. Nel caso di eutanasia passiva, pur essendo anch’essa proibita, la difficoltà nel dimostrare la colpevolezza la rende più sfuggente a eventuali denunce. La posizione cattolica italiana Secondo la Chiesa cattolica la vita è stata donata da Dio e solo lui può disporne: ragion per cui l’eutanasia è un omicidio. È al massimo ammessa la fine delle cure qualora venissero ritenute sproporzionate. È chiaro che una posizione del genere si pone esclusivamente dal punto di vista del medico, e mai dal punto di vista del paziente sofferente. In passato, anzi, talvolta questa sofferenza era ritenuta un modo di “partecipare” alla passione di Gesù e, ancora oggi, l’Italia è clamorosamente indietro nella somministrazione di morfina ai malati terminali (vedi rivista Focus, n. 97). Non tutte le chiese cristiane la pensano così: diverse chiese protestanti hanno assunto posizioni più liberali e alcune chiese minori riconoscono apertamente il diritto dell’individuo di disporre della propria vita. Per i valdesi l’eutanasia «è un diritto che va riconosciuto». Alcuni casi-limite italiani Così come succede anche all’estero, il tema dell’eutanasia attira l’attenzione dell’opinione pubblica quando i media portano, con fin troppa dovizia di particolari, alcuni casi in primo piano. Nella primavera del 2000 tre sono stati i casi particolarmente dibattuti sulle pagine dei giornali italiani. Il 23 maggio un giovane di Viareggio ha aiutato il suo amico a farla finita, con una dose di insulina: ora rischia fino a 15 anni, nonostante i genitori stessi del defunto definiscano il suo gesto «un atto di amore». Negli stessi giorni un uomo di Monza veniva condannato a sei anni e mezzo per avere, due anni prima, staccato i fili che pompavano aria ai polmoni della moglie. Il 24 aprile 2002 il marito è stato però assolto in appello dall’accusa di omicidio volontario premeditato. I giudici hanno infatti stabilito che l’ingegnere Forzatti, staccando la spina del respiratore al quale era attaccato il corpo della moglie, non la uccise in quanto, a loro avviso, la donna era già morta. Nel maggio 2001, gli ultimi giorni di Emilio Vesce, storico militante radicale, infiammarono la campagna elettorale per via delle dichiarazioni del figlio contro il nutrimento artificiale, «non più attuato come terapia ma come accanimento terapeutico». Il caso di Eluana, completamente immobile e priva di coscienza dal 1992, tiene oramai banco da anni. Il padre, stanco di vederla tenuta in vita da un cannello nasogastrico, ha intrapreso diverse iniziative legali per sospendere le cure, senza alcun successo. L’ultimo “no” è stato pronunciato dalla Corte di Cassazione nell’aprile 2005. Nel settembre 2006 è scoppiato il caso di Piergiorgio Welby, affetto da distrofia muscolare e oramai incapace di muoversi, che ha chiesto al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano di poter ottenere l’eutanasia. Il Presidente ha subito invitato le Camere a discutere del problema, ma è rimasto inascoltato. Il successivo 21 dicembre Pietro Welby è morto, scatenando una forte ondata di commozione in tutto il Paese. Questi casi, se sono strazianti dal punto di vista di chi ne è coinvolto direttamente, finiscono quanto meno per dimostrare come la legislazione sia assolutamente inadeguata ai tempi. Chi si batte per l’eutanasia Il concetto di legalizzazione (rendere legale un atto) si scontra spesso con quello di depenalizzazione (rendere non punibile un atto). Il Comitato Nazionale di Bioetica, costituito presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, dovrebbe produrre dei pareri volti ad aggiornare la legislazione italiana: alla prova dei fatti si è rivelato un organismo soggetto alle pesanti ingerenze vaticane, estensore di sterili documenti in cui viene riproposta la strada delle cure palliative (importante, ma ovviamente non sufficiente). Nel 1989 è nata la Consulta di Bioetica, che si propone di discutere sui temi della vita e della morte: recentemente ha proposto una nuova carta di autodeterminazione chiamata biocard. Del 1996 è invece la costituzione di Exit-Italia, battagliera associazione che promuove, all’interno dell’opinione pubblica, diverse campagne per la legalizzazione dell’eutanasia: anch’essa ha stilato un testamento biologico. Del 2001 è infine Liberauscita, associazione per la depenalizzazione dell’eutanasia, che ha presentato un disegno di legge volto a normare la materia. La nostra rivista L’Ateo si è occupata più volte del tema: in particolare, il numero 2/2003 è stato dedicato a questo argomento e propone diversi interessanti articoli. L’UAAR interviene inoltre ai dibattiti promossi per sensibilizzare la popolazione su questo argomento. Il 23 luglio 2002 il Segretario nazionale Giorgio Villella ha partecipato al convegno Diritto a Vivere, Diritto a Morire organizzato da Cittadinanzattiva.. Tutti i sondaggi condotti negli ultimi anni attestano che la maggioranza degli italiani è favorevole alla legalizzazione dell’eutanasia. Proposte di legge Il primo parlamentare a presentare una legge per disciplinare l’interruzione delle terapie ai malati terminali è stato nel 1984 Loris Fortuna, già estensore della legge sul divorzio. L’importanza che ha assunto il tema presso l’opinione pubblica negli ultimi tempi ha fortunatamente spinto all’iniziativa diversi parlamentari. Il 10/2/1999 è stato presentata una proposta di legge, numero 5673, da parte di 16 deputati dell’Ulivo, concernente “disposizioni in materia di consenso informato e di dichiarazioni di volontà anticipate nei trattamenti sanitari”. Il 29/6/2000 sullo stesso tema è stato presentato dai senatori verdi Manconi, Carella e Pettinato un disegno di legge, il numero 4694. Gli stessi senatori hanno poi proposto la settimana successiva un altro disegno di legge (numero 4718) sulla promozione delle terapie antalgiche. L’8 febbraio 2001 è stata finalmente promulgata una legge sulla materia). Il 13 luglio 2000 lo stesso Ministro per la Sanità Veronesi ha affermato che «l’eutanasia non è un tabù», e che una soluzione al problema deve essere trovata in tempi brevi. Nel frattempo anche il Consiglio Comunale di Torino aveva votato una risoluzione pro-eutanasia. Nell’agosto 2001 i Radicali hanno presentato una proposta di legge di iniziativa popolare dal titolo Legalizzazione dell’eutanasia. Nella XIV legislatura sono stati presentati diversi progetti di legge. Segnaliamo le due proposte, una sul testamento biologico e una sulla depenalizzazione dell’eutanasia, promosse dall’associazione Liberauscita, nonchè il disegno di legge promosso dalla Rosa nel Pugno. Cosa succede all’estero AUSTRALIA: in alcuni Stati le direttive anticipate hanno valore legale. I Territori del Nord avevano nel 1996 legalizzato l’eutanasia attiva volontaria, provvedimento annullato due anni dopo dal parlamento federale. BELGIO: il 25 ottobre 2001 il Senato ha approvato, con 44 voti favorevoli contro 23, un progetto di legge volto a disciplinare l’eutanasia. Il 16 maggio 2002 anche la Camera ha dato il suo consenso, con 86 voti favorevoli, 51 contrari e 10 astensioni. CANADA: negli Stati di Manitoba e Ontario le direttive anticipate hanno valore legale. CINA: una legge del 1998 autorizza gli ospedali a praticare l’eutanasia ai malati terminali. COLOMBIA: la pratica è consentita in seguito a un pronunciamento della Corte Costituzionale, ma una legge non è stata mai varata. DANIMARCA: le direttive anticipate hanno valore legale. I parenti del malato possono autorizzare l’interruzione delle cure. GERMANIA: il suicidio assistito non è reato, purché il malato sia cosciente delle proprie azioni. PAESI BASSI: forse il caso più famoso. Dal 1994 l’eutanasia è stata depenalizzata: rimaneva un reato, tuttavia era possibile non procedere penalmente nei confronti del medico che dimostrava di aver agito su richiesta del paziente. Il 28 novembre 2000 il Parlamento ha approvato (primo Stato al mondo) la legalizzazione vera e propria dell’eutanasia. A partire dal 1° aprile 2002 la legge è entrata effettivamente in vigore. SVIZZERA: ammesso il suicidio assistito. Il medico deve limitarsi a fornire i farmaci al malato. STATI UNITI: la normativa varia da Stato a Stato. Le direttive anticipate hanno generalmente valore legale. Nello Stato dell’Oregon il malato può richiedere dei farmaci letali, ma la relativa legge è bloccata per l’opposizione di un tribunale federale. SVEZIA: l’eutanasia è depenalizzata. I principali concetti espressi un chiave cattolica L’eutanasia di Lorenzo Cantoni 1. Nozione Dopo aver già da tempo abbandonato il legame con l’etimo greco di morte buona, il termine eutanasia viene usato nell’attuale dibattito in sensi spesso molto diversi. Frequentemente si distingue fra eutanasia attiva — o positiva, o diretta —, là dove il medico, o chi per lui, interviene direttamente per procurare la morte di un paziente, ed eutanasia passiva — o negativa, o indiretta —, dove si ha invece astensione da interventi che manterrebbero la persona in vita. Si distingue inoltre fra eutanasia volontaria, quella esplicitamente richiesta dal paziente, ed eutanasia non volontaria, quando la volontà del paziente non può essere espressa, perché si tratta di persona incapace. Eutanasia si oppone talora a distanasia o ad accanimento terapeutico, che indicano invece il ricorso a interventi medici di prolungamento della vita non rispettosi della dignità del paziente. Prossimo concettualmente e fattualmente all’eutanasia, benché distinto da essa, è poi il suicidio medicalmente assistito, in cui la morte è conseguenza diretta di un atto suicida del paziente, ma consigliato e/o aiutato da un medico. Si tratta, come si vede, di una mappa di significati tutt’altro che omogenea e definita, e assai sensibile alla prospettiva teorica adottata. Una definizione completa e precisa — abitualmente citata anche da autori che non ne condividono le valutazioni etiche concomitanti — si trova nella Dichiarazione sull’eutanasia "Iura et bona", pubblicata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede il 5 maggio 1980, al n. 6: "Per eutanasia s’intende un’azione o un’omissione che di natura sua, o nelle intenzioni, procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore. L’eutanasia si situa, dunque, al livello delle intenzioni e dei metodi usati". 2. Sofferenza, trattamento del dolore ed eutanasia Una delle caratteristiche definitorie dell’eutanasia è dunque il suo obiettivo di ridurre la sofferenza. Talora si ritiene che la richiesta di un intervento eutanasico o di un’assistenza al suicidio da parte dei pazienti sia direttamente proporzionale alla gravità della loro malattia, e alla loro sofferenza. Si tratta, invero, di una semplificazione indebita. Se prendiamo in esame i casi di suicidio, per esempio, "gli studi indicano — secondo il documento When Death Is Sought: Assisted Suicide and Euthanasia in the Medical Context, pubblicato nel 1994 dallo Stato di New York — che su molti pazienti con grave sofferenza, sfiguramento o disabilità, la grande maggioranza non desidera il suicidio. In uno studio su pazienti malati terminali, fra quelli che espressero una volontà di morire, tutti soddisfacevano i criteri di diagnosi della depressione endogena". L’esperienza degli Hospice, cliniche il cui obiettivo primario è l’umanizzazione dell’assistenza ai pazienti in fin di vita, e il trattamento del dolore — attraverso le cosiddette cure "palliative" — mette in dubbio ulteriormente questa correlazione fra sofferenza e desiderio di morire apparentemente così ovvia: "Pazienti con una sofferenza non controllata — si legge nel documento citato — possono vedere la morte come l’unica fuga dalla sofferenza che stanno sperimentando. In ogni caso, la sofferenza non è solitamente un fattore di rischio indipendente. La variabile significativa nel rapporto fra sofferenza e suicidio è l’interazione fra sofferenza e sentimenti di disperazione e depressione". 3. Aspetti legali e giuridici dell’eutanasia Benché il Parlamento inglese avesse discusso già nel 1936 una proposta di legalizzazione dell’eutanasia, e con l’eccezione della legislazione nazionalsocialista, fino a un periodo molto recente essa non ha avuto posto nella legislazione come fattispecie a sé: la pratica eutanasica viene ricondotta, a volta a volta, ad altre fattispecie esistenti; in Italia, per esempio, essa configura i reati di omicidio del consenziente, previsto dal codice penale all’articolo 579, e di istigazione o aiuto al suicidio, di cui all’articolo 580. In questo contesto giuridico si situano, con effetti non ancora pienamente prevedibili, sia la depenalizzazione dell’eutanasia nel Regno dei Paesi Bassi nel 1994, sia la sua legalizzazione nel Territorio del Nord della Federazione Australiana nel 1995. Nel Regno dei Paesi Bassi la depenalizzazione dell’eutanasia è stata introdotta con una modifica all’articolo 10 del Regolamento di polizia mortuaria; esso ha stabilito, a partire dal giugno del 1994, la non punibilità dei medici che abbiano aiutato a morire i propri pazienti ma siano in grado di dimostrare di aver rispettato una serie di condizioni. L’atto eutanasico deve essere infatti documentato da una relazione scritta da cui risulti che il paziente sia stato affetto da malattia inguaribile, che vi siano state sofferenze insopportabili e che il malato l’abbia richiesto reiteratamente; tali condizioni devono poi essere confermate da parte di un collega del medico dichiarante; questo documento deve inoltre riportare la storia clinica del paziente e i mezzi utilizzati per l’eutanasia. La relazione viene notificata dal medico a un pubblico ufficiale, coroner, con funzioni giudiziarie. Dal momento che nel codice penale olandese sono rimasti in vigore sia l’articolo 293, che punisce l’omicidio di consenziente, sia l’articolo 294, che punisce l’istigazione e l’assistenza al suicidio, per depenalizzare l’eutanasia il legislatore olandese ha fatto ricorso all’articolo 40 del medesimo codice, che prevede la scriminante della forza maggiore. La richiesta del paziente viene allora considerata come una "forza maggiore", che rende non perseguibile il medico che pratica l’eutanasia. Tale posizione introduce nell’ordinamento giuridico, a ben vedere, una discriminazione decisa fra vita sana — che il medico ha l’obbligo di tutelare — e vita malata, la cui tutela non è più obbligatoria. Nel Territorio del Nord della Federazione Australiana a partire dal giugno del 1995 è entrata in vigore la "Legge dei diritti del malato terminale", che legalizza l’eutanasia. Questa legge legittima la possibilità per il paziente cosciente e maggiorenne di richiedere l’eutanasia nell’ipotesi in cui sia affetto da una malattia inguaribile e le sofferenze siano talmente forti che nessuna terapia sia in grado di alleviarle. A differenza della normativa olandese, quella australiana viene ad affermare l’esistenza di un "diritto alla morte", dal momento che l’eutanasia vi è considerata come un trattamento medico posto a tutela della persona, accettando così che anche altre persone, nel caso in cui il paziente sia incapace, possano firmare, in rappresentanza del malato e alla presenza dei testimoni, una richiesta di eutanasia. Tale normativa non prevede inoltre alcuna pena specifica per i medici che effettuino l’eutanasia in mancanza dei requisiti previsti. 4. Elementi per una valutazione etica Rispetto al suicidio nell’eutanasia vi è un elemento nuovo: l’intervento di un’altra persona, quasi sempre di un medico o di un operatore sanitario, intervento inteso ad alleviare il dolore con il porre un termine alla vita del paziente. Si tratta, anzitutto, di una risposta tutt’altro che ovvia: un omicidio sarebbe l’aiuto adeguato a un sofferente; ovvero si verrebbe addirittura a configurare un dovere da parte di qualcuno — il medico o chi per lui — di uccidere una persona che gliene faccia richiesta; o, ancora, si attribuirebbe a qualcuno — medico, giudice, famigliare? — il diritto di stabilire se una vita innocente è meritevole o no d’essere vissuta. "Bisogna rispettare la libertà del paziente", si ripete spesso da parte dei sostenitori dell’eutanasia; s’incorre così nella cosiddetta "aporia dello schiavo": si può rinunciare liberamente alla libertà, alla condizione fondamentale del suo normale esercizio, la vita? La richiesta del sofferente è piuttosto quella che gli si allevi il dolore, e tale è la responsabilità del medico; suo compito è accostarsi al paziente per alleviarne le sofferenze fisiche e spirituali, non essere arbitro della sua vita e della sua morte. Ben chiaro era questo limite ne Il giuramento di Ippocrate di Cos (ca. 460-377 a. C.), in cui si legge: "Non darò a nessuno alcun farmaco mortale neppure se richiestone, né mai proporrò un tale consiglio"; questo impegno a favore della vita e contro la morte è ribadito anche nel Codice di Deontologia Medica — approvato dal consiglio nazionale della Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri il 24 giugno 1995 — all’articolo 35: "Il medico, anche se richiesto dal paziente, non deve effettuare trattamenti diretti a menomarne la integrità psichica e fisica e ad abbreviarne la vita o a provocarne la morte". La condizione per ammettere la liceità — e la legalità — dell’eutanasia è l’affermazione di un diritto onnipotente e irresponsabile dell’uomo a disporre della propria vita, e a chiederne la soppressione, una volta che questa sia "senza valore". Ma una volta affermato che la vita "senza valore" può essere soppressa, a chi spetterà poi il diritto e l’onere di stabilire quando la vita è tale? Perché, infatti, dovrebbero "beneficiare" del diritto all’eutanasia solo i malati, o solo gli anziani, o solo i malati gravi? Prima di procedere nell’analisi etica conviene far cenno a due possibili e importanti conseguenze di una legalizzazione, o comunque di una diffusione della prassi eutanasica. La prima è l’affievolirsi dell’attenzione al trattamento della sofferenza: laddove l’opzione eutanasica fosse accolta come possibile, ne conseguirebbe molto probabilmente un affievolimento dello sforzo teso a ridurre la sofferenza, soprattutto per quanto riguarda i gruppi socialmente ed economicamente più deboli, per i quali il ricorso all’eutanasia diventerebbe la soluzione più "ovvia" ed economica. Introdotta la possibilità dell’opzione eutanasica — siamo al secondo prevedibile effetto — si assisterebbe inoltre a una sorta d’inversione dell’onere della prova della dignità e del valore di ogni vita umana. In altre parole: il paziente terminale dovrebbe continuamente giustificare la propria scelta di non richiedere l’eutanasia di fronte ai famigliari e al personale medico. La stretta e inscindibile connessione fra suicidio ed eutanasia già ha indicato alcuni presupposti di una cultura eutanasica, in particolare l’incapacità di dare senso alla sofferenza e alla morte, e una concezione della persona umana come soggetto di un diritto onnipotente sulla vita e sulla morte. Proprio a questa profondità s’incontra un’insanabile opposizione rispetto alla posizione religiosa, che considera la vita come dono di Dio, bene di cui l’uomo è beneficiario e responsabile, ma non proprietario. In tal senso si può allora ben comprendere l’insegnamento della Chiesa cattolica, che da tempo è intervenuta con puntualità e decisione in tema di eutanasia. Si possono ripercorrere i temi principali di tale insegnamento leggendo un brano dell’enciclica Evangelium vitae sul valore e l’inviolabilità della vita umana di Papa Giovanni Paolo II, del 25 marzo 1995, al n. 66: "Anche se non motivata dal rifiuto egoistico di farsi carico dell’esistenza di chi soffre, l’eutanasia deve dirsi una falsa pietà, anzi una preoccupante "perversione" di essa: la vera "compassione", infatti, rende solidale col dolore altrui, non sopprime colui del quale non si può sopportare la sofferenza. [...] "La scelta dell’eutanasia diventa più grave quando si configura come un omicidio che gli altri praticano su una persona che non l’ha richiesta in nessun modo e che non ha mai dato ad essa alcun consenso. Si raggiunge poi il colmo dell’arbitrio e dell’ingiustizia quando alcuni, medici o legislatori, si arrogano il potere di decidere chi debba vivere e chi debba morire. [...] "Così la vita del più debole è messa nelle mani del più forte; nella società si perde il senso della giustizia ed è minata alla radice la fiducia reciproca, fondamento di ogni autentico rapporto tra le persone". Accanimento terapeutico di Piero Morino* 23 Maggio 2006 "Abbiamo fatto quello che si poteva": una frase che dice tutto senza dire nulla. Perchè quello che, ormai da tempo, non mi e' più chiaro, e': chi stabilisce quello che si può che si deve o non si deve fare? Chi traccia il confine tra quello che e' lecito fare e quello che e' eccessivo? O, ancora, tra quello che e' troppo poco e quello che dovrebbe essere il livello minimo accettabile di prestazione, di competenza, di – per usare la parola più abusata in questa nostra epoca di formiche operose – professionalità e, osiamo dirlo, di coinvolgimento? L'esperienza? La letteratura medica? Le linee guida elaborate nei congressi? Il buon senso? L'etica medica? L'accanimento terapeutico e' un concetto abbastanza chiaro e fondamentale nei testi d'etica medica e forse anche di filosofia. Nell'esperienza clinica quotidiana diviene invece estremamente più nebuloso. Dibattersi fra una possibilità di guarigione su un milione – la nostra ignoranza e limitatezza ancora può stupirsi dei miracoli – e la dignità di una morte pietosa e' come finire tra le sabbie mobili: e spesso ciò che ci trascina verso il fondo delle stesse non e' una razionale decisione scientifico-assistenziale, ma e' la voglia di fare versus la tentazione della pigrizia, la noia o la passione, la buona o la cattiva digestione. Questo brano e' tratto dal romanzo "COSA SOGNANO I PESCI ROSSI" di Marco Venturino, un medico anestesista e quindi un clinico costretto tutti i giorni a confrontarsi con l'adeguatezza delle terapie e delle manovre più o meno invasive che devono essere intraprese, o no, su persone malate, spesso in condizioni cliniche molto instabili e gravi. Il punto di vista di chi deve prendere in tempi brevi queste decisioni, dalle quali e' difficile tornare indietro e che influenzano inevitabilmente non solo il tempo della sopravvivenza, ma anche la qualità della vita e, spesso, della morte, deve essere sempre cauto, ponderato, messo in discussione e condiviso, non solo, com'e' ovvio, con la persona malata, ma, se possibile, con la famiglia e tutta l'equipe terapeutica. Ecco quindi che il concetto di accanimento terapeutico, già così complesso nel dibattito etico – filosofico, tanto che inizia ad essere messo in discussione il termine stesso ed ormai appare più appropriato parlare di "terapie futili", deve essere calato nella realtà delle scelte quotidiane del medico che deve essere preparato ad affrontare il processo decisionale e le responsabilità che ne derivano. E' a mio parere fondamentale parlare di processo decisionale, piuttosto che di decisione, proprio tenendo presente la complessità del contesto in cui vanno individuate le varie alternative terapeutiche da proporre a quel singolo malato, se competente, in quel momento della sua storia di salute e malattia e delle sue aspettative. D'altra parte i principi etici fondamentali d'Autonomia, Beneficialità e Giustizia rimangono lo strumento imprescindibile nell'analisi del contesto tecnologico, economico, familiare, sociale, culturale e ambientale in cui la persona malata ed il medico si trovano ad interagire: se consideriamo il rapido ed apparentemente inarrestabile sviluppo della tecnologia bio-medica, vediamo come dei mezzi che poco tempo fa erano eccezionali e pertanto destinati a pochi e selezionati casi, quasi sperimentali, siano oggi quotidianamente applicati: ricordo, nei miei primi anni di specialista in Anestesia e Rianimazione, come doveva essere ben ponderata la decisione se collegare o no un paziente al ventilatore meccanico e come fosse necessario cercare di anticipare più possibile l'estubazione, per evitare che il barotrauma provocato dalla ventilazione controllata a pressione positiva, con la tecnologia di quegli anni, provocasse danni irreparabili ed irreversibili ai polmoni; Certamente oggi questo problema e' assolutamente ininfluente nella decisione se iniziare o no, una ventilazione assistita. Eppure oggi, nei vari paesi del mondo, ma anche in ambito nazionale, non esiste un'omogenea distribuzione delle risorse economiche, e quindi tecnologiche, tale da garantire uguale possibilità di cura per le medesime situazioni patologiche; ancora di più dovremo riflettere su come il diverso livello culturale se non la vera e propria capacità personale dei singoli operatori di una stessa struttura, possano condizionare il successo dell'intervento terapeutico. Dobbiamo dunque rinunciare alla certezza medica che, attraverso linee guida o protocolli, riesce sempre ad individuare la terapia giusta per la malattia: dal momento in cui e' così palese l'influenza del contesto sulle decisioni possibili da prendere, cade l'illusione dell'assoluta oggettività scientifica delle scelte del medico. Un primo passo potrebbe essere quello del superamento del concetto, ancora prevalente, della terapia sempre giusta per una determinata malattia che il medico deve mettere in atto a qualunque costo, per il bene del paziente, per cui e' eticamente corretto aumentare la cosiddetta compliace del paziente cercando di convincerlo in ogni caso ad aderire al piano terapeutico, sottacendone i rischi, magari esaltando i possibili risultati positivi e minimizzando gli eventuali effetti collaterali; in questo contesto, non sempre il malato e' ben informato sulla diagnosi, quasi sempre e' all'oscuro della prognosi e comunque e' più comodo non affrontare questi argomenti direttamente con lui, ma cercare la mediazione dei famigliari; se il paziente dovesse chiedere di essere informato, espressamente e con insistenza (ma esistono veramente, nella pratica sanitaria attuale, le condizioni e gli spazi perchè questo possa avvenire ?) spesso si cercherà di presentare una verità edulcorata e tranquillizzante perchè, in una condizione in cui la sua conoscenza e' incompleta, il medico e' più libero di agire per il suo bene. Spesso il massimo dello sforzo comunicativo e' dedicato a cercare di coinvolgere il malato nell'iter terapeutico, motivandolo a sentirsi coinvolto e partecipe nella lotta contro la malattia; se e' facilmente intuibile quanti effetti positivi possano esserci in questo coinvolgimento, forse non andrebbero sottovalutati gli effetti negativi che questo modo di agire può avere in caso di fallimento della terapia: nella mia attività di medico palliativista, che dunque si occupa proprio di quelle persone per le quali le terapie non sono riuscite a sconfiggere la malattia e che dunque si avvicinano, più o meno consapevolmente, alla fase finale della loro vita, e' assai frequente, specialmente nei più giovani e con maggiori responsabilità, anche genitoriali, riscontrare un lacerante senso di colpa. Molte volte, prendendo atto che le proprie condizioni psico-fisiche si stavano deteriorando e quindi era sempre più difficile continuare a svolgere il proprio ruolo sociale e/o familiare, questi malati mi hanno domandato dove loro avevano sbagliato: i medici mi avevano detto che ce la potevo fare, che molto dipendeva dal mio impegno e dalle mie motivazioni, che non dovevo mai arrendermi ma continuare sempre a lottare e a sperare; io ce l'ho messa tutta, ho sopportato tutte le terapie che mi hanno proposto, sono andato avanti anche quando stavo così male che credevo di non farcela, ma allora dove ho sbagliato? Cosa ora posso ancora fare per ricominciare a sperare di guarire? Me lo avete promesso, dovete continuare a provare, sono disposto anche a tentare terapie sperimentali... Questo e' uno dei casi in cui l'accanimento terapeutico e' richiesto dal paziente stesso ma quest'evenienza, non infrequente, che spesso vede coinvolte anche le famiglie, ha varie motivazioni: da una parte l'informazione scientifica divulgativa dei media e' tesa all'esaltazione di nuovi traguardi della medicina, anche non convenzionale, presentando risultati eclatanti, quasi miracolistici, di pratiche in realtà sperimentali, di dubbia efficacia, se non già abbandonate perchè inefficaci, o addirittura dannose, dall'altra la difficoltà da parte dei sanitari curanti di comunicare, dopo aver dato speranza, che questa speranza e' risultata vana e che e' il momento di abbandonare le terapie attive sulla malattia. In questo caso spesso si ricorre, ad esempio, a false chemioterapie, per non togliere la speranza, con il risultato però di coltivare illusioni, di rimandare di poco il momento della comunicazione della sospensione della terapia, sperando magari di demandare questa responsabilità a qualcun altro e, in fine, creando insicurezza e sfiducia nei malati e nelle famiglie. Nel 1992 e' stato pubblicato su un'importante rivista scientifica, un articolo intitolato "l'etica dell'ignoranza" in cui si rilevava come le basi scientifiche della medicina siano ancora deboli e come sarebbe meglio per tutti che questo fatto fosse più ampiamente riconosciuto: questo tanto più e' vero nel rapporto fra il medico ed il malato che non ha speranza di poter guarire. Il rischio altrimenti e' quello di iniziare un percorso che porta ad una relazione medico-paziente nella quale il medico vuol credere di sapere più di quanto sappia, perchè questo lo gratifica e perchè la conoscenza e' potere ed al paziente conviene l'idea che il medico lo potrà curare e salvare dalla morte. Si crea dunque, magari con la complicità della famiglia, un paravento di parole, dietro le quali si possono nascondere alternativamente il malato o il medico o addirittura ambedue insieme, nel tentativo di non affrontare la realtà di ciò che sta accadendo. Se dunque dobbiamo guardare oltre il confronto fra malattia e terapia, diventa fondamentale ridare valore al rapporto medico-paziente, in un concetto moderno ed attualissimo in cui siano coinvolti, con pari dignità ma nel rispetto dei rispettivi ruoli e competenze, tutti gli attori del processo assistenziale. Il rapporto medico-paziente si e' dunque trasformato ed appare evidente e condivisa da tutti, la positività del passaggio dalla subalternità dell'ubbidienza alla cosiddetta alleanza terapeutica. Oggi però è necessario, a mio parere, superare anche questo concetto per confrontarsi con quello che in un recente articolo del BMJ e' definito della concordance, cioè sulla necessità di adoperarsi per cercare di raggiungere la concordanza di vedute nel gruppo curanti-malato-famiglia, sulle cure da intraprendere, valutandone l'efficacia, gli obiettivi, i limiti, i possibili effetti collaterali e le eventuali alternative terapeutiche. Certo, perchè questo possa avvenire, e' necessario che molti passi siano ancora fatti per migliorare la situazione attuale riguardo alle criticità della relazione terapeutica: informazione, verità, comunicazione, ascolto, tempi e spazi appropriati… Questi concetti fondamentali, che in questa sede possono essere solo enunciati ma che richiederebbero ciascuno una trattazione propria, non potranno essere positivamente affrontati solo con la buona volontà o la attitudine dei singoli operatori coinvolti, ma attraverso un lungo processo culturale che deve coinvolgere in primo luogo la formazione dei medici e degli infermieri ma anche di tutta la società Mi sembra necessario evidenziare anche le difficoltà che gli operatori sanitari, soprattutto se motivati e sensibilizzati, incontrano, per trovare gli spazi ed i tempi adeguati allo sviluppo della relazione terapeutica, nell'odierna organizzazione sanitaria, fondata sull'efficienza e sui DRG: se non si arriverà a considerare il tempo dell'informazione e della comunicazione come tempo di cura, questa carenza non potrà essere superata solo sulla personale attitudine dei singoli operatori. Dunque, come citato nella "DICHIARAZIONE DI INTENTI " del Gruppo di Pontignano del 1314/5/04, occorre superare l'utilizzo controverso del termine "accanimento terapeutico", introducendo l'espressione "trattamenti futili" anche per indicare quelle cure che, sebbene appropriate sotto il profilo clinico in altri contesti, non dovrebbero essere proposte al paziente nella fase terminale della vita. In conclusione, nel proporre un trattamento terapeutico, soprattutto nell'ipotesi che questo non abbia la ragionevole certezza della guarigione del malato, e' imprescindibile una relazione che si svolga in ambiente di verità, con un'informazione corretta ed una comunicazione sempre aperta, per dare a quella persona, nel suo contesto sociale e familiare, tutti gli elementi necessari, perchè, valorizzandone l'autonomia, possa concordare con il curante la terapia per lui più appropriata in quel momento della sua vita non solo di malattia; la comunicazione sempre aperta diventa indispensabile per poter rivalutare in ogni momento le decisioni prese, non solo alla luce dei risultati ottenuti, ma anche dell'adesione del paziente alla terapia intrapresa, garantendo in ogni caso la continuità assistenziale. Non possiamo giustificare ciò che troppo spesso accade nell'attuale medicina ipertecnologica, per cui si passa in un attimo dall'accanimento all'abbandono: troppo spesso anche il medico identifica la sua frustrazione per il fallimento di una terapia causale con il non c'e' più nulla da fare, come se non fosse possibile dare qualità e valore al tempo che a quel malato resta da vivere. -----*Il dott. Piero Morino e' responsabile dell'Unita Funzionale Multiprofessionale Aziendale Cure Palliative e della Rete Territoriale Aziendale delle cure palliative dell'ASL 10 di Firenze ed e' Socio Fondatore della Fondazione Italiana di Leniterapia (FILE).