La legge di Say I primi economisti della storia economica vengono definiti economisti classici. In linea generale per gli economisti classici vale la legge di Say. Secondo questa legge “l’offerta crea la propria domanda”. In sintesi ciò vuole significare che tutto ciò che viene prodotto e collocato sul mercato (offerta) viene acquistato (domanda). Quindi tutta la produzione trova sbocco sul mercato. E’ il prezzo che permette l’uguaglianza fra domanda e offerta. Indichiamo con C = consumo S = risparmio (saving) I = investimento DA = domanda aggregata Y = Reddito nazionale La domanda dei beni è costituita da beni di consumo (cioè di utilizzo immediato) e beni di investimento cioè beni che servono a produrre altri beni (materie prime, attrezzature, impianti ecc.). Quindi DA = C+I L’offerta dei beni è costituita dal complesso dei beni prodotti. Poiché il valore (cioè il prezzo di vendita) di ogni bene prodotto comprende la remunerazione di tutti i fattori produttivi impiegati (salari e stipendi, interessi, affitti, profitti) è evidente che la produzione coincide con il reddito (ipotizzando per semplicità che non vi siano rapporti con il resto del mondo cioè che si operi in economia chiusa). Il reddito può avere due destinazione alternative che si escludono a vicenda: può essere consumato oppure può non essere consumato cioè risparmiato Quindi Y = C+S Dato che Y=DA (offerta=domanda) vale l’equazione C + I = C + S e quindi semplificando I=S Questa uguaglianza si realizza sempre in una economia chiusa (che non considera cioè i rapporti con l’estero). La differenza fondamentale è che secondo i classici questa uguaglianza si realizzava ad un livello massima occupazione. Definiamo massima occupazione un sistema economico che produce al massimo delle sue potenzialità. In particolare un sistema in cui non esiste “disoccupazione”. Ma come si spiega tutto ciò? Si spiega con il fatto che una volta ottenuta una certa produzione questa sarà sicuramente collocata sul mercato perché se è molto abbondante si abbasserà il suo prezzo e quindi non è possibile che vi sia una produzione “non collocata”. Anche sul mercato del lavoro succede che se la produzione è bassa e vi sono lavoratori disoccupati, a questo punto il loro salario diminuirà e quindi le imprese potranno assumere quei lavoratori. Anche il risparmio viene completamente investito. Qui c’è da un lato chi offre i propri risparmi, dall’altra le imprese che domandano l’utilizzo di questi risparmi. Cosa porterà in equilibrio il mercato? Anche qui il prezzo. Il prezzo del denaro è costituito dal tasso di interesse. In definitiva il sistema dei prezzi lasciati alle libere oscillazioni del mercato (politica del laissez faire) è in grado di garantire la piena occupazione. Certo questo non significava che non vi fosse assolutamente disoccupazione, ma questa era dovuta ad eventi transitori (cambio di lavoro, passaggio da un settore economico all’altro, scelte individuali) o altrimenti detti “frizionali”. LA TEORIA KEYNESIANA E LA SPESA PUBBLICA Keynes elabora le proprie riflessioni proprio quando una crisi economica gravissima mette nella pratica in discussione la legge di Say. L’analisi Keynesiana parte dal presupposto che l’uguaglianza S = I può non verificarsi. O meglio si verificherà sicuramente a consuntivo ma non necessariamente nei programmi di investimento e di risparmio delle imprese e delle famiglie. Infatti non è detto che tutto il risparmio venga investito. C’è una parte del risparmio che rimane in forma liquida. Inoltre le decisioni di risparmio non vengono prese in funzione del tasso di interesse. Il tasso di interesse incide solo su quella parte di risparmio tenuta in forma liquida per scopi speculativi. Il risparmio invece dipende dalle decisioni di consumo. Cioè da quella parte di reddito che la gente decide di non consumare. Il risparmio infatti è il non consumo. Una volta deciso quanto risparmiare si può decidere se investire quel risparmio (acquisto di obbligazioni, titoli, case ecc.) oppure tenerlo in forma liquida (es. c/c bancario, depositi bancari a vista, contanti) e quest’ultima decisione dipende almeno in parte dal tasso di interesse (che poi è l’inverso del prezzo dei titoli) che incide sulla domanda di moneta a scopo speculativo. Può in sostanza accadere che parte del risparmio non venga reinvestito ma rimanga liquido oltre che per motivi transazionali, per motivi precauzionali e/o speculativi. Gli investimenti delle imprese, dal loro canto, non dipendono solo dal tasso di interesse, ma anche dalle aspettative di rendimento degli investimenti (ricavi, costi e utili futuri) che a loro volta sono legati alle prospettive di vendere i beni prodotti (domanda futura). Può accadere che i tassi di interesse siano particolarmente bassi e quindi che il costo per procurarsi denaro per investire sia basso, ma nonostante ciò le imprese non investono (trappola della liquidità). Se c’è un eccesso di risparmio (non consumo) le imprese non riusciranno a collocare tutto il loro prodotto e pertanto i magazzini saranno pieni di merce non venduta. La merce non venduta costituisce anch’essa un investimento. Precisamente investimento in scorte. Ma è un investimento non voluto. Nei nuovi programmi di produzione le imprese, visti i magazzini pieni, rallenteranno la produzione. L’uguaglianza S=I sarà comunque realizzata, ma con più bassi livelli di produzione. Viceversa se c’è poco risparmio (tanto consumo) le imprese non riusciranno a far fronte alla richiesta del mercato e pertanto alzeranno i prezzi. L’uguaglianza tra risparmio e investimenti sarà, anche in questo caso, raggiunta perché i prezzi dei beni da investimento saranno cresciuti, ma non la loro quantità. Quindi non è più verificata a priori l’uguaglianza risparmio = investimento, ma solo a posteriori, ma questa uguaglianza può non soddisfare le imprese (merci non vendute) o gli stessi acquirenti (es. prezzi troppo alti e minori quantità acquistabili con il reddito a disposizione). Da notare che anche il mercato del lavoro non è più così flessibile come per gli economisti classici. Anche quando il sistema è in crisi i lavoratori difficilmente accetteranno riduzioni di salari (al tempo di Keynes i lavoratori avevano già dato vita ai sindacati capaci di sostenere il livello dei salari). Se i salari non si abbassano le imprese non riescono ad occupare tutti i lavoratori e vi sarà disoccupazione. L’andamento ciclico dell’economia: In questo modo Keynes spiega il perché l’economia passa da fasi di depressione a fasi di espansione, con un andamento che può definirsi ciclico. In periodi di insufficienza di domanda, le imprese riducono gli investimenti e la produzione, ci saranno minori redditi che a loro volta determineranno minori consumi e minori investimenti e così via, fino ad un punto in cui le imprese torneranno a investire (anche perché i beni da investimenti scenderanno di prezzo) e vi sarà una ripresa: più redditi, più consumi, più produzione delle imprese e così via. Ciò fino a quando il sistema non raggiungerà la piena occupazione, da questo momento ci si può aspettare un’inflazione da domanda fino a quando il ciclo non si inverte di nuovo. I cicli economici non sono positivi per l’economia. L’inflazione determina gli effetti economici spiacevoli già studiati. La disoccupazione, soprattutto se riguarda il lavoro, comporta tensioni sociali e problemi alle famiglie. La Politica economica Ci si chiede cosa può fare la “politica economica”. In altri termini possono le pubbliche autorità preposte (in primis Stato e Banca Centrale) invertire la rotta dell’andamento economico?. Prima di rispondere a questa domanda dobbiamo chiarire il concetto del “moltiplicatore del reddito” detto anche moltiplicatore Keynesiano.