"Aborto, se il feto è vivo
va sempre rianimato"
I ginecologi romani: intervenire anche con la madre contraria
A 22 settimane il feto ha diritto di vivere anche se la mamma, durante un’interruzione
di gravidanza, non vuole. E quindi potrebbe essere messo in un’incubatrice. I direttori
delle cliniche ginecologiche delle facoltà di medicina delle università romane, Tor
Vergata, La Sapienza, Cattolica e Campus Biomedico, si sono incontrati per un
convegno in occasione della giornata della vita e ne hanno redatto un documento che
è un macigno: in poche righe sfidano dall’interno delle sale operatorie trent’anni di
femminismo.
Scrivono i direttori delle cliniche ginecologiche: «Con il momento della nascita la legge
attribuisce la pienezza del diritto alla vita e quindi all’assistenza sanitaria. L’attività
rianimatoria esercitata alla nascita dà il tempo necessario per una migliore valutazione
delle condizioni cliniche, della risposta alla terapia intensiva e delle possibilità di
sopravvivenza, e permette di discutere il caso con il personale dell’Unità ed i genitori».
Tuttavia, sostengono i firmatari, «se ci si rendesse conto dell’inutilità degli sforzi
terapeutici, bisogna evitare ad ogni costo che le cure intensive possano trasformarsi in
accanimento terapeutico».
Più chiaro ancora è Domenico Arduini, direttore della clinica di ostetricia e ginecologia
dell’università di Tor Vergata, e uno dei firmatari del documento. Il medico
neonatologo deve intervenire per rianimare il feto nato vivo durante un aborto,
«anche se la madre è contraria, perché prevale l’interesse del neonato». «Il
documento che abbiamo firmato oggi - ha spiegato Arduini nel corso del convegno al
Fatebenefratelli di Roma - va oltre la carta di Firenze e il testo redatto dalla
commissione del ministero della Salute. Abbiamo infatti voluto cancellare il numero
delle settimane di gravidanza, e porre al centro il problema della vitalità del neonato,
in qualità sia di ente giuridico sia di paziente». In questo modo il neonatologo,
decidendo di intervenire subito «guadagna minuti preziosissimi perché non ha più il
dovere di discutere con i genitori prima di decidere, come accadeva prima».
Il limite è quello delle 22 settimane. «Quel che è sicuro - ha spiegato Claudio Fabris,
presidente della Società Italiana di Neonatologia - è che sotto le 22 settimane è
praticamente impossibile la sopravvivenza del neonato, a parte casi eccezionali, e
quindi in tale situazione vanno date le cosiddette cure compassionevoli. L’importante è
comunque parlare e accogliere i genitori fin dal primo momento. In questo modo si
evitano contrasti decisionali».
D’accordo anche Cinzia Caporale, del Comitato nazionale di bioetica. «Il medico deve
agire in scienza e coscienza sulla opzione di rianimare, indipendentemente dai
genitori, a meno che non si palesi un caso di accanimento terapeutico». Nell’ipotesi in
cui il feto sopravviva all’aborto «non ritengo necessario chiedere il consenso della
madre. In questo caso infatti si esercita un’opzione di garanzia con cui si tutela un
individuo fragile e vulnerabile, qual è il neonato, in un fase in cui non si hanno
certezze cliniche. Secondo me si può presumere lo stato di abbandono giuridico del
neonato da parte della madre, che ovviamente può tornare indietro sulla sua
decisione».