BIOETICA Il cancro: una malattia delle cellule staminali? Carla Boccaccio – Istituto per la Ricerca e la Cura del Cancro- Università di TorinoCandiolo (Torino). Il cancro è una malattia caratterizzata da un’eccessiva proliferazione cellulare. E’ causato da lesioni genetiche che, nella maggioranza dei casi, si accumulano durante lunghi periodi di tempo. Le cellule staminali costituiscono una sottopopolazione minoratoria, presente in quasi tutti i tessuti, e sono dotate della capacità fisiologica di proliferare. Inoltre, hanno la caratteristica peculiare di essere “immortali”, poichè vivono quanto l’intero organismo. La capacità proliferativa e l’immortalità sono proprietà tipiche delle cellule cancerose, critiche per consentire l’accumulo di lesioni genetiche. Ciò suggerisce una derivazione diretta del cancro dalle cellule staminali. Lo studio delle cellule staminali è cruciale per comprendere come il cancro insorga, e per valutare i rischi insiti nelle applicazioni terapeutiche che le riguardano. Le cause molecolari e cellulari del cancro E’ noto a tutti che il cancro ha elevata incidenza ed è ancora letale in un’alta percentuale di casi. Secondo l’American Cancer Society, negli Stati Uniti, su di una popolazione di 260 milioni di abitanti, che per molti aspetti epidemiologici è simile a quella europea, ogni anno se ne ammalano circa un milione e duecentomila persone e ne muoiono più di mezzo milione (1). Gli organi maggiormente colpiti come sede di insorgenza sono, in ordine decrescente di incidenza, la prostata, la mammella, il polmone, l’intestino colon-retto, gli organi linfatici. Mentre per la maggior parte delle forme di cancro le terapie hanno crescente successo, il carcinoma del polmone continua a essere responsabile di almeno un terzo dei decessi per cancro. Paradossalmente, però, questo non è un problema prioritario per la ricerca sul cancro, perchè il tumore del polmone si può sconfiggere facilmente con la prevenzione, e cioè astenendosi dal fumo di tabacco: infatti si ammala di cancro al polmone praticamente solo chi fuma. In tutti gli altri casi, invece, è difficile additare delle cause ambientali da evitare, è utile ma insufficiente potenziare la diagnosi precoce per individuare ed estirpare le cosiddette “lesioni precancerose”. Bisogna, invece, continuare a investire nella ricerca per capire le cause molecolari del cancro e formulare delle terapie dirette alle cause. La strada è lunga e i successi rari, ma quando arrivano sono spettacolari, come nel caso della leucemia mieloide cronica che oggi si può guarire con un farmaco (l’”Imatinib”), mirato al guasto molecolare che è causa della malattia. Lo stuidio delle cellule staminali come potenziale origine dei tumori si colloca in questo scenario di ricerca del “primum movens” della malattia tumorale, che deve essere eletto come bersaglio terapeutico per eradicare il male e guarire definitivamente il paziente. Cosa sappiamo delle cause molecolari del cancro? Innanzitutto che si identificano con danni genetici multipli, solo in parte trasmissibili di genitore in figlio, ma che piuttosto si accumulano progressivamente in un clone cellulare somatico. Si verifica cioè un processo -definito di “selezione clonale”- che ricorda un processo evolutivo di tipo darwininiano in miniatura. Una cellula che si riproduce può subire numerose mutazioni al suo DNA, sia per errori spontanei durante la sua replicazione, sia per effetto di agenti ambientali chimici, fisici o microbiologici, definiti come “mutageni”. Le mutazioni, in genere, vengono corrette o restano prive di conseguenze sul fenotipo, o –se irreparabili- innescano meccanismi di morte cellulare programmata (“apoptosi”). Tuttavia, le mutazioni hanno potere di selezione clonale se conferiscono alla cellula un vantaggio riproduttivo sulle sorelle, soprattutto in termini di efficienza mitogenica. Il tratto genetico che causa vantaggio riproduttivo, per sua natura, viene trasmesso alle cellule figlie e può portare ad una rapida amplificazione del processo. Quanto più le cellule si riproducono e sopravvivono, tanto più sono suscettibili ad accumulare mutazioni. Sembrano necessarie almeno 3-5 mutazioni, a carico di altrettanti geni, per selezionare un clone di cellule definibili come tumorali, che cioè si comportano in modo completamente anarchico rispetto agli stretti meccanismi di controllo che nei tessuti regolano il mantenimento dell’organizzazione spaziale, la massa, l’architettura e la definizione dei confini fra tipi di tessuto diversi (2). La ricerca degli ultimi vent’anni si è applicata dunque all’identificazione dei geni le cui mutazioni sono responsabili del cancro. Si sono così individuate due grandi famiglie di geni, oncogeni e oncosoppressori, che nell’insieme sono definiti come geni “sentinella” (gatekeeper). Non è sorprendente che le proteine da essi codificate siano invariabilmente coinvolte, in modo più o meno diretto, nella regolazione della proliferazione cellulare. Ai geni sentinella vanno aggiunti i geni “caretaker”, geni “manutentori”, cioè geni i cui prodotti proteici sono enzimi che correggono le mutazioni del DNA. Se questi enzimi mancano, o funzionano male, le cellule sono predisposte ad accumulare errori genetici. Le mutazioni rilevanti per l’insorgenza del cancro sono quelle che rispettivamente attivano gli oncogeni e inattivano i geni oncosoppressori. Il risultato netto è,nel primo caso, un eccesso di espressione e/o funzione di proteine stimolatorie del ciclo cellulare. Nel secondo caso, viceversa, si verifica un difetto di espressione e/o attività di proteine inibitrici del ciclo stesso. Di regola, nelle cellule cancerose, si rinviene una combinazione di lesioni a carico sia di oncogeni sia di oncosoppressori. I guasti genetici sono i principali, se non i soli, responsabili del comportamento della cellula cancerosa, anche se c’è spazio per invocare il sinergismo con fattori epigenetici e con l’attività di cellule esterne alla massa tumorale(3). I tratti fenotipici distintivi della cellula cancerosa sono discussi –tra gli altri- da Hanahan e Weinberg in un saggio che è diventato un classico (4). Essi comprendono innanzitutto la capacità della cellula di regolare la propria proliferazione in modo completamente autonomo. Ciò si basa sulla perdita della dipendenza da segnali stimolatori esterni, sulla mancanza di sensibilità ai segnali inibitori e, soprattutto, sulla capacità di riprodursi senza fine, cioè sull’”immortalità” replicativa. Le cellule tumorali, inoltre, spesso sfuggono ai meccanismi di induzione di apoptosi, cioè di morte cellulare programmata, con cui i tessuti si difendono dalle cellule aberranti a vantaggio dell’integrità dell’organismo nel suo insieme. Le cellule cancerose sono capaci di indurre la formazione di vasi sanguiferi, per apportare nutrimento al tessuto neoplastico che cresce. Infine, le cellule tumorali sono in grado di invadere i tessuti e di colonizzare organi a distanza. Questa capacità è tradizionalmente considerata come una caratteristica “avanzata”, acquisita in stadi di progressione tardivi, e, comunque, esiziali: i tumori capaci di dare metastasi sono, ancora oggi, quasi sempre letali. Capire cosa renda metastatica una cellula tumorale è oggi un obiettivo prioritario della ricerca sul cancro. Una visione ormai consolidata dell’evoluzione della malattia tumorale, supportata sia da prove sperimentali che dallo studio dei casi clinici, soprattutto del carcinoma colonrettale, è che il cancro sia una malattia che evolve macroscopicamente in modo progressivo, anche molto lento, nell’arco di anni, parallelamente all’accumulo delle mutazioni genetiche. La caratteristiche fenotipiche sopra descritte vengono acquisite in modo graduale. Il tumore passa da uno stadio di benignità clinica, caratterizzata da accrescmento lento, circoscritto e facilimente aggredibile con terapie chirurgiche, ad uno di malignità clinica, in cui le cellule proliferano in modo via via più rapido e disordinato, metastatizzano e, infine, uccidono il loro ospite. Tuttavia, di recente sono emersi dati che complicano questa visione così logica e rigorosa della progressione tumorale, e già ne suggeriscono una parziale revisione (5). Sono dati scaturiti dall’applicazione delle tecnologie post-genomiche, che rendono possibile analizzare contemporaneamente l’intero pannello di espressione genica delle cellule. Dai primi dati (raccolti soprattutto su casistiche di carcinomi mammari e su modelli sperimentali di melanoma) emerge una tendenza che, sulle prime, ha suscitato una certa delusione: il pattern di espressione genica delle cellule di una metastasi è sorprendentemente simile al pattern di espressione delle cellule del tumore primario in stadio premetastatico. Ciò può suggerire almeno due diverse interpretazioni: secondo la prima, non sono le alterazioni genetiche a causare la metastasi; secondo l’altra, le lesioni genetiche, in grado di conferire la capacità di metastatizzare, sono presenti già in stadi molto precoci dell’evoluzione tumorale, quando la generazione di metastasi non si è ancora verificata. Questa ipotesi trova conferma nell’analisi comparata del profilo genetico di diversi casi di tumore primario, in stadi precoci e omogenei fra loro secondo metodi standard di classificazione. Qui i profili genetici fra tumore e tumore possono essere molto diversi, e le caratteristiche dei profili correlano con la capacità del tumore stesso di dare metastasi. In altre parole, il profilo genetico del tumore primario permette di valutare la capacità di una popolazione tumorale di diventare metastatica e ha quindi valore clinicamente prognostico (6). Queste osservazioni, oltre a rivoluzionare il modo di diagnosticare i tumori, risvegliano l’attenzione dei ricercatori sul bersaglio della trasformazione tumorale: infatti, il profilo di espressione genica di una neoplasia in fase iniziale è condizionato necessariamente non solo dalle lesioni genetiche che hanno avuto più o meno tempo –spesso poco- per accumularsi, ma anche e soprattutto dal profilo genetico della cellula che è alll’origine della neoplasia. Le cellule staminali come bersaglio della trasformazione tumorale Da tempo è evidente che, nell’ambito di un tessuto, non tutte le cellule hanno la stessa probabilità di accumulare mutazioni in grado di renderle cancerose. E’ improbabile che una cellula altamente differenziata, in cui i meccanismi della proliferazione sono stati inibiti, diventi neoplastica. E’ invece molto più ragionevole pensare che lo possa diventare una cellula capace di proliferare fisiologicamente, in particolare se dotata di immortalità replicativa. Proliferano le cellule di molti compartimenti espansivi, ma solo le cellule propriamente dette “staminali” hanno la facoltà naturale di proliferare e auto-rinnovarsi per l’intera vita dell’organismo cui appartengono (sono cioè “immortali”), e, contemporaneamente, di rigenerare le cellule differenziate che si usurano. Il lunghissimo tempo di sopravvivenza posseduto dalle cellule staminali dà la possibilità di accumulare tutte le lesioni genetiche indispensabili per la progressione neoplastica. L’attività proliferativa, naturalmente praticata, permette di trasmettere le lesioni genetiche ad un clone cellulare. L’ipotesi che siano le cellule staminali il bersaglio della trasformazione tumorale appare dunque molto logica. Tuttavia, questa ipotesi è stata difficile da verificare, finchè non si sono isolate le cellule staminali dai tessuti adulti e dall’embrione. Da quando ciò è stato possibile, sono emersi subito una serie di elementi sperimentali a favore della derivazione dei tumori dalle cellule staminali. Per esempio, si sono studiati dei segnali extracellulari come Wnt, Shh o Notch, che determinano l’esecuzione di particolari programmi genetici nelle cellule bersaglio. Si è scoperto che questi programmi sono critici per l’auto-rinnovamento delle cellule staminali presenti in tessuti quali quello ematopoietico, o l’epitelio intestinale, e che vengono spenti nelle cellule differenziate. Sul versante patologico , si è trovato che questi programmi sono attivati nei tumori insorti dagli stessi tessuti. Ciò può significare che i programmi si sono riattivati in cellule che li avevano perduti (cellule non staminali), ma anche –e più probabilmente- che i tumori derivano proprio da cellule che li hanno normalmente funzionanti, cioè appunto le cellule staminali. Lo studio delle cellule staminali come bersaglio della trasformazione neoplastica procede i modo relativamente rapido nell’ambito del sistema ematopoietico. Qui è stato possibile, di recente, ricostruire nel dettaglio l’albero genealogico del differenziamento, che conduce da un’unica cellula staminale totipotente alla derivazione di numerosi elementi cellulari distinti, che comprendono eritrociti, granulociti, linfociti etc. (7) E’ possibile purificare all’omogeneità le cellule nei diversi stadi differenziativi, grazie all’applicazione di tecnologie FACS (Fluorescence Activated Cell Sorting) con anticorpi diretti contro determinanti di superficie specifici dei diversi stadi di diffenziamento. La capacità proliferativa è mantenuta per numerosi stadi dopo la perdita della prerogativa di staminalità. Quest’ultima –nel sistema ematopoietico- è intesa come capacità di una cellula di ricostruire un midollo perfettamente funzionante e durevole in un animale da esperimento il cui midollo è stato completamente distrutto per mezzo di radiazioni. Numerosi studi sulle leucemie umane suggeriscono che le mutazioni responsabili della malattia debbano accumularsi nella cellula staminale ematopoietica. Infatti, se si isolano i diversi componenti di una popolazione leucemica acuta umana (cioè cellule leucemiche in diverso stadio differenziativo) e si trapiantano in topi da esperimento, si osserva che solo la componente staminale della popolazione leucemica trasferisce la malattia all’animale. Al contrario, le altre componenti cellulari, che hanno perduto le caratteristiche di staminalità, benchè siano proliferanti e portatrici delle lesioni genetiche che causano la malattia, non sono in grado di trasferire la leucemia nei topi trapiantati (8). Ci sono altre evidenze, emerse dallo studio di modelli murini, che le leucemie possano derivare anche dalla trasformazione di precursori non staminali. In questo caso però, si tratta di forme a progressione lenta, cioè di leucemie croniche. Affinchè avvenga l’evoluzione acuta bisogna che i progenitori neoplastici acquisiscano attivamente la capacità di auto-rinnovarsi propria delle cellule staminali: questo è un evento relativamente improbabile (9). Lo studio del rapporto fra le cellule staminali e il cancro è più avanzato nel sistema ematopoietico rispetto ad altri tessuti per la possibilità di identificare con precisione e di isolare, attraverso i marcatori di superficie, le cellule staminali e i diversi stadi differenziativi della loro progenie. Tuttavia iniziano a comparire anche i primi studi sui tumori solidi, che indicano nelle cellule staminali il bersaglio della trasformazione neoplastica. Emblematico è il caso del carcinoma colon-rettale, per il quale è stato possibile identificare diversi stadi di progressione, dalle lesioni preneoplastiche (i cosiddetti “foci aberranti di proliferazione”), a quelle tumorali benigne (polipi, adenomi) a quelle maligne (adenocarcinoma localmente invasivo o metastatico). Sebbene le cellule staminali intestinali non siano identificabili inequivocabilmente come quelle emopoietiche, è comunque noto da tempo che, nell’epitelio intestinale, le cellule staminali occupano una precisa localizzazione, cioè si trovano sul fondo delle invaginazioni della mucosa dette “cripte di Lieberkuhn”. Dalle cripte, le cellule figlie migrano verso la superficie dell’epitelio, dove assumono il fenotipo pienamente differenziato dell’enterocita. Recentemente, è stato proposto un modello secondo cui le cellule delle cripte mantengono la loro “staminalità” grazie ad un segnale extracellulare, la proteina Wnt, che proviene da cellule stromali adiacenti alle cripte e lega uno specifico recettore sulla superficie delle cellule staminali (10). Il recettore attiva un processo di trasduzione del segnale che causa l’attivazione di un complesso trascrizionale (beta-catenina-TCF), il quale, a sua volta, induce l’espressione di geni critici per il mantenimento del fenotipo indifferenziato/staminale. Infatti, man mano che la progenie delle staminali migra dal fondo verso la superficie delle cripte, per rimpiazzare i vecchi enterociti, la sorgente di Wnt si allontana, e si perde la concentrazione del segnale necessaria a stimolare il recettore. Il programma genetico attivato da beta-catenina-TCF si spegne e la cellula perde le caratteristiche di cellula staminale per assumere quelle di cellula differenziata. Cosa accade nella maggioranza dei carcinomi del colon-retto? Si verifica una lesione genetica iniziale, cui spesso se ne sommano altre, ma che è condizione sufficiente a far partire il meccanismo della progressione tumorale. La lesione consiste nella perdita di funzionalità del gene APC, la cui attività interferisce negativamente con la via di trasduzione del segnale di Wnt. Il risultato netto è che, quando una cellula staminale perde APC, non riesce più a spegnere il programma genetico attivato da Wnt, dunque non riesce più a generare cellule capaci di differenziarsi. Il mantenimento inappropriato delle caratteristiche di staminalità provoca l’insorgenza di un clone di cellule che, attraverso passaggi successivi, segnati dall’accumulo di ulteriori lesioni genetiche, diventano neoplastiche (10). Le cellule staminali del cancro Se è verisimile che le cellule staminali siano il bersaglio della trasformazione neoplastica e l’origine del cancro, è altrettanto plausibile che un tumore possa essere visto come un organo aberrante, le cui cellule presentano, come nella maggior parte degli organi normali, una gerarchia di differenziamento e diverse proprietà biologiche. L’eterogeneità delle cellule che compongono un tumore è da tempo nota, tuttavia, comprendere le cause di questa variabilità non è semplice, e le interpretazioni sono rimaste più nel campo della speculazione che della dimostrazione sperimentale. A giustificare l’eterogeneità cellulare interviene senza dubbio la variabilità genetica, che è il risultato della pressione selettiva, insita nel concetto di “processo evolutivo in miniatura”. Interviene anche la cosiddetta “instabilità genetica”, frutto della perdita della capacità di riparare il danno genetico, o di neutralizzarlo con la morte cellulare programmata, che è forza trainante del processo evolutivo del tumore (11). Se però rimaniamo fedeli al concetto di cellula staminale trasformata, possiamo aggiungere questo importante elemento di variabilità: la progenie che deriva dalla cellula staminale tumorale comprende una parte (magari percentualmente molto piccola) di cellule staminali, e una progenie di cellule che procedono in una via di differenziamento aberrante. E’ possibile che solo le cellule staminali del cancro mantengano intatta la loro capacità di alimentare per tempo indefinito la rigenerazione dell’”organo tumorale”. Ed è altamente probabile che solo queste cellule siano capaci di dare metastasi “efficaci”, cioè capaci di rigenerare dei tumori secondari. La relativa scarsità di cellule staminali, nel tessuto tumorale così come in quelli normali, spiegherebbe anche l’osservazione sperimentale ormai classica sull’efficienza metastatica dei tumori: da una popolazione di cellule tumorali solo un numero esiguo riesce a causare metastasi. Inoltre, la popolazione metastatica non si arrichisce di cellule capaci di dare metastasi, ma mantiene una capacità di dare tumori terziari simile a quella della popolazione iniziale. Questa chiave di lettura della metastasi, se confermata sperimentalmente, potrebbe portare a un progresso definitivo nella nostra capacità di sconfiggere il cancro. E’ indispensabile fare esperimenti sulle cellule embrionali umane? Questa breve carrellata ci suggerisce che lo studio delle cellule staminali è oggi cruciale per comprendere in modo esauriente la natura del cancro. E’ evidente che, dopo esserci concentrati per decenni sulle molecole responsabili della trasformazione tumorale, è venuta l’ora di studiare le cellule bersaglio della trasformazione stessa. E’ indispensabile approfondire lo studio della biologia e della genetica delle cellule staminali, quindi dei segnali e dei programmi che ne regolano la proliferazione, l’auto-rinnovamento e poi il differenziamento. Le tecnologie post-genomiche, con l’esplarazione dei profili di espressione genica, daranno un contributo fondamentale alla comprensione dell’identità delle cellule staminali. E’ anche indispensabile ripetere gli esperimenti classici di trasformazione in vitro e di cancerogenesi in modelli animali, avendo come bersaglio non più generiche cellule più o meno differenziate, come abbiamo fatto fino ad ora, ma cellule propriamente staminali. Al proposito, ci sembra opportuno ricordare che i tentativi di trasformare cellule umane in coltura sono stati per lo più fallimentari o coronati da successo solo in condizioni geneticamente incontrollate e poco definibili rispetto ai rapporti di causa-effetto. Si è invece riusciti a creare cellule tumorali umane, per mezzo di alterazioni genetiche definite, quando si è combinata l’espressione di oncogeni con quella della telomerasi (12). Questo enzima è espresso specificamente nelle cellule staminali. Se la necessità di procedere allo studio delle cellule staminali come origine dei tumori è incontestabile, è tuttavia controverso se sia indispensabile usare estensivamente, per questi scopi, le cellule staminali embrionali umane. Fino ad oggi, forse la maggior parte delle informazioni sull’oncogenesi viene da studi su animali, in particolari sui topi e ratti, sia per quanto riguarda esperimenti di trasformazione in vitro, condotti su linee cellulari, sia per quanto concerne i modelli tumorali in vivo. In tempi recenti, la manipolazione genetica dell’embrione murino ha consentito di riprodurre con eccellente fedeltà alcuni processi di progressione tumorale, come il carcinoma del colon dovuto alla inattivazione del gene oncosoppressore APC, o di alcune leucemie. Lo studio della cancerogenesi in vivo, nei topi geneticamente modificati, è ritenuto oggi il migliore strumento di investigazione nel campo dell’oncologia sperimentale. Negli USA, il National Cancer Institute ha fondato, alcuni anni fa, il Mouse Models of Human Cancer Consortium, allo scopo di concentrare le risorse intellettuali e materiali destinate a potenziare al massimo questo campo di indagine (13) . Lo studio del cancro nei roditori presenta comunque delle grandi incognite rispetto alla possibilità di trasporre i risultati ottenuti all’uomo. Nonostante la sorprendente conservazione dei geni, e in particolare di quelli coinvolti nella cancerogenesi, tra il topo e l’uomo, restano delle grandi differenze biologiche. Di conseguenza, per esempio, risulta difficile ricostruire nel topo i tumori di origine epiteliale (che sono la grande maggioranza nell’uomo), mentre è più facile ottenere tumori di altra origine istologica. Inoltre, nel topo, è difficile riprodurre il processo invasivometastatico, di cui urge la comprensione. L’uso delle cellule staminali umane in vitro, con la possibilità di ricostruire ambienti tessutali complessi, potrebbe sostituire almeno in parte la sperimentazione sui roditori e, soprattutto, colmarne le carenze. Resta dunque da discutere se la provenienza delle cellule staminali umane debba essere necessariamente embrionale. Per lo studio delle derivazione dei tumori, poichè questi si sviluppano attraverso l’accumulo di lesioni genetiche durante un arco di tempo molto lungo, è verosimile che l’oggetto di indagine ideale debba proprio essere la cellula staminale residente nei tessuti adulti. Tuttavia, per il momento, le cellule staminali adulte sono entità alquanto elusive, fatta eccezione per la cellula staminale ematopoietica. Risultano quindi difficili da identificare, isolare e purficare dal contesto tissutale in cui si trovano. Sono anche piuttosto oscure le loro proprietà biologiche, e le condizioni di coltivazione in vitro che ne mantengono inalterate le prerogative di indifferenziamento e auto-rinnovamento. La condizione di staminalità, come abbiamo visto nel caso delle cripte intestinali, verosimilmente dipende in modo critico anche e soprattutto da particolari interazioni con l’ambiente circostante, che consistono nello scambio di specifici segnali e in contatti cellula-cellula e cellula-matrice difficili da ricostruire in vitro. Al contrario di quelle adulte, le cellule staminali embrionali umane possono essere facilmente isolate dalla “massa cellulare interna” della blastocisti, e poste in coltura in vitro. Qui, possono essere mantenute nel loro stato indifferenziato, pluripotente e immortale in condizioni relativamente facili da controllare (14). In vitro, le cellule staminali embrionali si propagano in modo rapido (con un tempo di duplicazione della poplazione che si aggira intorno alle 36 ore), mantenendo stabili le loro proprietà biologiche e il loro cariotipo. E’ interessante notare, in particolare, che le cellule staminali embrionali in coltura mantengono elevati livelli di espressione della telomerasi: abbiamo già ricordato che questo è un enzima specifico delle staminali, critico per la persistenza della capacità di auto-rinnovarsi, assente nelle cellule differenziate e presente nelle cellule cancerose (13). Quando si pongono in vitro cellule staminali adulte come quelle ematopoietiche, invece, la telomerasi, espressa nelle fasi iniziali della coltura, viene rapidamente perduta. Infine, dalle cellule staminali embrionali propagate in vitro, è possibile ottenere il differenziamento verso un ampio spettro di tipi cellulari, passando attraverso una gerarchia di elementi progressivamente differenziati. Le tecnologie per pilotare il differenziamento, attraverso cocktails di fattori di crescita e citochine, e per monitorarlo (profili di espressione genica, analisi funzionale), si stanno facendo sempre più sofisticati. La disponibilità di una genealogia completa di cellule nei diversi stadi di differenziamento può risultare preziosa per confrontare la suscettibilità di ciascuno stadio alla trasformazione neoplastica, e alla capacità di generare un “organo tumorale”. Infine, poichè le cellule staminali embrionali sono attualmente riconosciute come la fonte per ora insostituibile per la produzione di tessuti in vitro per la “medicina rigenerativa”, una conoscenza approfondita delle proprietà tumorigeniche delle cellule stesse risulta indispensabile. Infatti, come per qualunque altro trattamento terapeutico, la dimostrazione della “sicurezza” della cura deve precedere quello dell’efficacia e garantire la concessione del “nulla osta” all’esecuzione dei trials sugli esseri umani. 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