EDUCARE L`ECONOMIA. I PRINCIPI CHE CAMBIANO IL MONDO

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EDUCARE L’ECONOMIA.
I PRINCIPI CHE CAMBIANO IL MONDO.
FINANZA E VERITA’
Brescia, 15 maggio 2010
Tavola Rotonda Gruppo Regionale Lombardo UCID
Intervengono: Mario Anolli, Corrado Faissola, Marco Morganti e S. Ecc. Mons. Giovanni Giudici
Intervento di Mons. Giovanni Giudici:
Due premesse, un breve approfondimento, una domanda.
E’ proprio del ‘consulente’ –colui che assiste con il suo consiglio-, porre domande, mostrare
apparenti o reali contraddizioni nel procedere del ragionamento o nella pratica delle persone,
consigliare strade nuove. La Dottrina Sociale della Chiesa nasce come interpellanza mossa
dalla ‘regola d’oro’ ai comportamenti e alle scelte che nascono dall’esperienza concreta. Una
organizzazione del lavoro, una serie di rapporti tra le persone, lo sviluppo delle regole a
proposito della raccolta di denaro, manifestano poco alla volta le loro caratteristiche. Ed a
quel punto ci si domanda: quale rapporto tra queste regole, queste scelte, questi
comportamenti e il “tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro.
Questa è la legge ed i profeti” (Mt 7,12)?
Un primo punto: riferiamoci alla recente enciclica di Benedetto 16°
Un secondo punto: che avvertimento offre il Vangelo a proposito della ricchezza.
Passaggio centrale: che cosa possiamo intendere per ‘bilancio sociale’ di una azienda.
Una domanda finale: la scelta a favore della pace, richiede qualcosa all’attività finanziaria?
- I L’enciclica del Papa reca nel suo stesso titolo, il richiamo alla nostro incontro: Caritas in
veritate. Il Pontefice porta la nostra attenzione sul fatto che esiste una circolarità tra carità e
verità. La carità ha bisogno della verità. Senza verità la carità è sentimentalismo ed emozione.
Può riempirmi il cuore, ma lascia vuota la vita, mi consente di parlare con entusiasmo, mi
riempie la mano per fare qualche cosa per il fratello, tuttavia il modo del dono può lasciare
vuoto il cuore dell’altro.
Quale è dunque la verità a cui deve fare riferimento la carità per essere autentica? La verità
dell’uomo è nel rapporto gratuito con l’altro, l’uomo è se stesso quando dona. Dunque il dono
è la caratteristica specifica e principale della attività umana. L’enciclica studia l’importanza del
dono per ogni attività umana. Persino il contratto tra due persone, espressione minima del
rapporto umano, non funziona se non vi è disponibilità all’altro, capacità di qualche gratuità.
Questa riflessione riguarda ogni aspetto della attività umana; interessante vederne
l’applicazione al tema del lavoro. Per la persona che lavora, non basta il salario o lo stipendio.
Ciascuno sa bene che nel lavoro cerca di realizzare se stesso, fare dono di ciò che sa fare o può
realizzare. E questo fatto richiede alcune condizioni e alcune conseguenze del lavorare.
Il concetto fondamentale della lettera enciclica è dunque la sottolineatura della relazionalità
della persona umana. L’uomo è in relazione con gli altri ed è in relazione con Dio. Questo
consente di esprimere se stesso. Di qui nasce l’attenzione che dobbiamo porre alla Corporate
Social Responsability: la responsabilità sociale dell’impresa.
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Ogni azienda risponde ai suoi azionisti: questo è accettato da tutti. L’attenzione dettata
dall’esperienza umana ci ha portati a riconoscere che l’impresa risponde a tutti coloro che
fanno parte della comunità in cui essa vive e opera. Naturalmente questa attenzione pone
ciascuno di noi nella necessità di valutare l’impegno etico di una istituzione non solo nel
raggiungere le finalità che le sono proprie, non solo di seguire lo sviluppo di una iniziativa per
il breve periodo, ma anche domandarci quali sono le conseguenze dell’operare di una azienda
nel lungo periodo.
- II Intendo collocare ora il tema del bilancio sociale di una impresa, nel contesto del tema della
ricchezza. Mentre altre iniziative umane hanno a che fare con il lavoro, l’attività finanziaria
tocca immediatamente il rapporto tra la persona, o la società, e la ricchezza. Va dunque
richiamato qui un aspetto mai da sottovalutare o da mettere in secondo piano. Che cosa è la
ricchezza per l’uomo?
Sappiamo che la rivelazione ha espressioni molto critiche nei confronti della ricchezza. Con la
riflessione che intendo svolgere, non voglio assolutamente valutare le intenzioni di coloro che
operano in questo settore della vita sociale e produttiva. Desidero però mettere in luce quale
sia lo sguardo che il Signore volge alla realtà dei beni, in particolare del denaro.
La lettura del Nuovo Testamento, a questo proposito, è sorprendente: quando Gesù parla del
denaro, lo personifica. Più ancora: ne fa un dio. “Nessuno può servire due padroni: perché o
odierà l’uno e amerà l’altro, o si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire
Dio e la ricchezza” (matteo 6,24). Sotto il nome di ‘Mammona’, come andava la precedente
traduzione, il denaro presenta dunque una incompatibilità radicale con Dio. L’attaccamento al
denaro esclude l’amore di Dio, semplicemente. (Mammona viene dalla radice ebraica ama,
che viene usata nella parola ‘amen’, per la quale affermiamo che la nostra preghiera è vera.
Aman significa stabilità, solidità. Mammona dunque offre una garanzia di stabilità)
Il suggerimento che dà Gesù significa che il denaro non è un oggetto di fronte al quale l’uomo
rimane libero di prendere o lasciare; il denaro può in un istante diventare un dio, al quale si
sacrifica la propria vita. Tra le molte attenzioni e conseguenze che una tale affermazione
comporta, una mi pare utile richiamare qui: il nostro rapporto con il denaro non costituisce
primariamente una questione morale, ma una questione di ordine spirituale. Gesù non ci fa
riflettere anzitutto sul come noi utilizziamo il denaro, ma ci chiede: su che cosa fondi la tua
vita?
-
III -
RESPONSABILITA’ SOCIALE D’IMPRESA (appunti)
 La Commissione Europea è piuttosto impegnativa a proposito della CSR (corporate social
responsbility) o RSI:
“Affermando la loro responsabilità sociale e assumendo di propria iniziativa impegni che
vanno al di là delle esigenze regolamentari e convenzionali cui devono comunque
conformarsi, le imprese si sforzano di elevare le norme collegate allo sviluppo sociale, alla
tutela dell’ambiente e al rispetto dei diritti fondamentali, adottando un sistema di governo
aperto, in grado di conciliare gli interessi delle varie parti interessate nell’ambito di un
approccio globale della qualità e dello sviluppo sostenibile”(Green Paper, Bruxelles, 18.7.2001).
Cioe: un modello di “governance” allargata dell’impresa, in base al quale chi governa l’impresa
ha responsabilità che si estendono dall’osservanza dei doveri fiduciari nei riguardi della
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proprietà ad analoghi doveri fiduciari nei riguardi in generale di tutti gli stakeholder.
 La parola responsabilità è una parola composta, che si può scomporre in: respons(risposta) e abilità, cioè la capacità di rispondere. La risposta può essere rivolta, a certe
condizioni, o a una situazione o a una persona o a persone, ma il punto importante è che la
responsabilità implica un rapporto - rispondere a qualcosa o qualcuno.
La responsabilità, così, ha a che fare con i rapporti, ma come caratterizzare questo rapporto? È
proprio al livello del modello del rapporto fra le persone, gli stakeholders, che il pensiero
sociale cristiano offre un modo di fondare la responsabilità dell'impresa più solido, con meno
problemi di quelli che suscitano altre antropologie o teorie etiche ricorrenti nel discorso della
responsabilità sociale dell'impresa. l'integrazione di preoccupazioni di natura etica all'interno
della visione strategica d'impresa.
 La nozione di responsabilità rinvia sempre a quella di affidabilità, di ponderazione.
Responsabile è chi sa venire a capo delle situazioni valutandone adeguatamente i rischi e gli
esiti. Ma l’attuale mutamento tecnologico sempre più rende questo esercizio difficoltoso, se
non impossibile. Come ha scritto Bauman (1992): “oggi, l’organizzazione nel suo complesso è
uno strumento per la cancellazione delle responsabilità” (p.225). Non deve perciò
sorprendere se ancora tante sono le titubanze, prima di tutto culturali, nei confronti della RSI
da parte sia degli studiosi sia degli uomini d’affari.
 NB. Parlare di Responsabilità Sociale di Impresa significa parlare di Responsabilità
Sociale di imprenditore, cioè di persone concrete che decidono e scelgono non di sistemi che
ormai indipendentemente dai soggetti “decidono” autonomamente. La coscienza personale e
la verifica sociale restano i due polmoni di questa strategia.
 è impossibile fondare una responsabilità sociale di impresa a partire da una antropologia
individualistica.
Robert Edward Freeman e D.R. Gilbert suggeriscono nel loro libro Corporate Strategy
and the Search for Ethics che l'unica maniera di creare una strategia etica di impresa è
di adottare una «strategia di azienda a progetti personali», cioè una strategia di
azienda a progetti degli stakeholders (usano l'acronimo in inglese Ppes: Personal
Projects Enterprise Strategy). L'unica strategia aziendale realmente responsabile, a
loro parere, è prefiggersi lo scopo di realizzare i progetti personali di tutti i membri o
stakeholders dell'azienda (Ppes). Ora, appare evidente che si tratta di una proposta
impossibile a livello pratico. Come si potrebbe realizzarla esattamente? Il problema contro
il quale si scontrano è il concetto di persona come puro individuo, il quale cioè può avere
solamente obiettivi e beni individuali. Così non possono riconoscere obiettivi o scopi in
comune e per i quali le persone possono lavorare insieme. Il problema di base delle etiche
d'impresa più diffuse, risulta essere una antropologia incompleta, la quale blocca un idoneo
riconoscimento dello sviluppo delle persone che lavorano insieme l'una con l'altra all'interno
dell'azienda stessa. Similmente, non viene riconosciuto che un bene intrinseco potrebbe
svilupparsi tra l'azienda e la società più vasta attorno a essa. Un punto di partenza
individualista non riesce a riconoscere un bene reale e intrinseco nella relazione tra persone.
 la RSI necessariamente si fonda su un’antropologia personalista
Sempre più i risultati delle scienze economiche e sociali mostrano che le relazioni non
sono utili solo per realizzare i propri progetti personali, ma hanno senso e valore per
loro stesse, vale a dire nelle relazioni stesse le persone trovano la propria realizzazione.
La persona umana è allo stesso tempo un individuo, con propri obiettivi da raggiungere
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e così in competizione o in conflitto con gli altri, e un essere in relazione con gli altri,
laddove gli scopi condivisi e i beni sviluppati nel conseguimento di tali obiettivi sono
elementi importanti e il comportamento di ciascuno è basato sulla cooperazione e sulla
solidarietà.
Attenzioni in ordine alla chiarezza su questo punto:
1. non confondiamo CSR/RSI con la beneficenza aziendale e con l’obbiettivo di canalizzare
le donazioni delle imprese sui programmi sociali stabiliti dal governo. L’errore qui sta nel
confondere il tutto, la CSR, con la parte, la corporate giving. Ma soprattutto nella
manomissione del fisiologico meccanismo di finanziamento via donazioni delle attività del
settore nonprofit dell’economia.
2. non fraintendiamo gli incentivi che possono promuovere la CSR. Questo accade se si
mettono insieme la promessa di detassazione delle donazioni, purché inserite negli impegni a
favore delle politiche del governo, con l’istituzione di un meccanismo di accertamento della
“responsabilità sociale”, detto “social statement” che non solo darebbe luogo al registro
pubblico di coloro che hanno accesso alla detassazione, ma anche diritto di “pubblicizzare”
l’impresa come “socialmente responsabile”, posto che essa abbia contribuito a un fondo
governativo per realizzare le politiche sociali stabilite dal governo Ciò perverte gli incentivi.
La critica nei confronti della RSI:
0- critica-madre alla RSI: La icastica affermazione di Friedman (1922) che vede in essa
una grave minaccia al sistema capitalistico: “Poche tendenze possono minacciare le
fondamenta stesse della nostra libera società come l’accettazione da parte dei
responsabili di impresa di una responsabilità sociale che sia altro che fare tanti più
soldi possibile per i loro azionisti”.
CFR articolo sul New York Times del 13 settembre 1970, dal titolo evocativo “la responsabilità
sociale dell’impresa è di aumentare i suoi profitti”, in cui si legge: “La visione di corto respiro è
pure esemplificata nei discorsi degli uomini d’affari sulla responsabilità sociale….. Qui, come
accade con i controlli dei prezzi e dei salari, gli uomini di affari mi pare che rivelino un impulso
suicida. Il vero dovere sociale dell’impresa è ottenere i più elevati profitti – ovviamente in un
mercato aperto, corretto e competitivo, producendo così ricchezza e lavoro per tutti nel modo
più efficiente possibile”.
1- il caso degli investimenti socialmente responsabili – in sostanza, della finanza etica – sotto
l’ipotesi di costo in senso economico: la rinuncia volontaria ad investire in certi titoli
comporta una riduzione dei rendimenti. Il problema studiato è quello di stabilire sotto quali
condizioni un tale tipo di investimento è capace di mutare l’equilibrio del sistema.
2- e se la RSI servisse da paravento per consentire ad imprese senza scrupoli morali di
eliminare i propri rivali o di ridurne la forza competitiva. Può accadere che imprese
opportuniste decidano di comportarsi inizialmente in maniera ancora “più etica” delle altre
allo scopo di marginalizzarle sul mercato e di tornare poi a comportarsi come in precedenza.
3- il pericolo che i comportamenti socialmente responsabili possano occultare un pericoloso
trade-off, quello tra impegno morale e impegno sociale (social commitment). Il pericolo è che
con il social commitment, falsamente confuso con la RSI, manager cinici possano coprire
l’assenza di scrupoli morali. E poiché la capacità di donazioni filantropiche è correlata alle
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dimensioni di impresa, potrebbe accadere che i grandi gruppi di pressione riescano, più
facilmente dei piccoli, a “comperarsi” la reputazione ritenuta necessaria, salvo mutare
strategia quando il contesto competitivo diventasse particolarmente severo. Un solo esempio
per chiarire il punto. Nel Rapporto 2000 sulla responsabilità sociale di Enron si legge: “Noi
vogliamo lavorare per promuovere il rispetto reciproco con le comunità e i portatori di
interessi che sono toccati dalle nostre attività. Noi trattiamo gli altri come vorremmo essere
trattati noi stessi”.
 4 teorie etiche a sostegno della RSI (appunti da un intervento di Zamagni)
1- Secondo l’etica delle intenzioni – che è quella cui si appoggiano i critici della RSI –
un’azione è definita buona quando è conforme a due regole: quella prossima (la
coscienza) e quella remota (la legge). Chi, riuscendo ad armonizzare coscienza e legge,
si comporta di conseguenza, compie un atto moralmente buono. Sono le intenzioni, e
non anche le conseguenze, dell’agire ciò che deve entrare nella definizione di
comportamento etico. Come dire che il fine giustifica le conseguenze. Di qui
l’espressione che bene sintetizza questa posizione: good business is good ethics.
L’impresa che fa tanti profitti è anche molto responsabile perché, creando ricchezza,
consente ai soggetti bene intenzionati di perseguire i loro scopi.
Limite: non dare peso alcuno agli effetti indotti e indiretti delle azioni individuali. Decidere di
affidare i miei risparmi ad una finanziaria perché ne massimizzi il tasso di rendimento è un
atto lecito secondo il criterio della regola prossima e remota. Ma se quella finanziaria impiega
i miei risparmi in uno dei tanti modi illeciti, l’atto in questione è oggettivamente censurabile.
Cfr Campagna di pressione alle banche armate
2- teoria etica che cerca di porre rimedio alla lacuna ora evidenziata è quella dell’autointeresse illuminato (enlightened self-interest). Poiché vi è stretta interconnessione tra
ambiente esterno e impresa, quest’ultima se vuole durare a lungo sul mercato non può
non prendere in considerazione le esigenze del contesto in cui opera, e in particolare
dei suoi stakeholder. Proprio come suggerisce quella versione dell’utilitarismo che è
l’utilitarismo sociale, secondo cui good ethics is good business. Come a dire che l’etica
paga.
Limite: anziché essere un presupposto o una linea guida dell’agire economico, l’etica diviene,
infatti, una conseguenza del successo economico. Come a dire che quanto più si diventa ricchi,
tanto più cresce l’esigenza, ovvero la domanda, di comportamenti etici e viceversa. Si
consideri ora il caso di un’impresa che compete su mercati globali e che intende mettere in
pratica le procedure delle RSI. Se i suoi rivali, comportandosi illecitamente (ad es. sfruttando il
lavoro minorile), riescono ad abbassare i costi di produzione e quindi i prezzi di vendita del
prodotto, si avrà una diminuzione del reddito dell’impresa in questione. La quale abbasserà la
domanda di comportamento etico fino a livellarsi sul comportamento medio.
3- La teoria morale, oggi maggiormente in auge negli studi di RSI, è l’etica della
responsabilità, così come essa è interpretata dal modello analitico degli stakeholder. Ai
nostri tempi, si può attribuire la paternità di tale teoria a Max Weber che, nel celebre saggio
La politica come professione, la indica come l’etica che deve caratterizzare chi “vuole mettere
le mani negli ingranaggi della storia” (1969, p.101). Aggiungendo, poche pagine più avanti, che
la responsabilità “è la disponbilità a rispondere delle conseguenze prevedibili delle proprie
azioni” (p.109). Alla formulazione weberiana dell’etica della responsabilità, Jonas (1990)
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aggiungerà poi una qualificazione importante. Basandosi su “un’euristica della paura”, Jonas
non considera sufficiente soffermarsi sulle sole conseguenze prevedibili; occorre
spingersi fino a prendere in conto le conseguenze possibili delle azioni. L’imperativo
adeguato al nuovo tipo di agire umano è, per Jonas: “agisci in modo tale che gli effetti
della tua azione siano compatibili con la continuazione di una vita autenticamente
umana”. Dall’imperativo Kantiano “puoi, perché devi” si passa così al “devi, perché
puoi”. Per Jonas limitarsi al controllo dei soli effetti prevedibili scaturenti da un’azione
è troppo poco in contesti come quello economico in cui il proprium della funzione
imprenditoriale è di generare in continuazione effetti imprevedibili.
il calcolo delle conseguenze prevedibili non costituisce un ancoraggio solido alla nozione di
responsabilità. (Si consideri i casi Enron e Parmalat, tra i tanti). Ebbene, è su tale impianti di
discorso che la teoria degli stakeholders si è andata affermando a partire degli anni ’60 del
secolo scorso. Con le parole degli esponenti più rappresentativi, Evan e Freeman (1988): “Noi
sosteniamo che le sfide legali, economiche e morali dell’attuale teoria dell’impresa…
richiedano una revisione in prospettiva essenzialmente Kantiana. Il che significa che ciascun
gruppo di stakeholder ha diritto a non essere trattato come un mezzo orientato a qualche fine,
ma che deve partecipare alle determinazioni dell’indirizzo futuro dell’azienda”.
In un saggio recente, Freeman (2004) dopo aver ribadito che “l’impresa è un insieme di
relazioni tra gruppi che hanno un interesse alle sue attività aggiunge: “L’impresa ha a che fare
con il mondo in cui clienti, familiari, occupati, finanziatori (azionisti, detentori di obbligazioni,
banche), comunità e managers interagiscono e creano valore. Per capire l’impresa occorre
capire come funzionano queste relazioni”. Di qui la conclusione secondo la quale obiettivo
centrale della teoria degli stakeholders è quello di studiare come far sì che gli interessi dei
vari stakeholders vadano nella stessa direzione. “La creazione di valore e non il conflitto di
valore è la metafora di riferimento”.
Limite: come fare per realizzare la compatibilità degli interessi di tutti coloro che, in quanto
portatori di investimenti specifici (di capitale finanziario; di capitale umano; di fiducia; di
capitale sociale; ecc.) cooperano nell’impresa per la creazione di valore?
La risposta è il contratto sociale tra tutti gli stakeholders come accorgimento normativo per
definire i contenuti della RSI. La forza normativa del contrattualismo sta dunque nel collegare
la giustizia (o l’equità) al consumo senza rinunciare al calcolo razionale. In termini formali,
anziché massimizzare la funzione di profitto, l’impressa massimizza la funzione che
rappresenta la soluzione del gioco di contrattazione tra tutti gli stakeholders. L Sacconi
(2003) dimostra come, sotto condizioni affatto ragionevoli, una tale soluzione esiste, in
generale.
------ una volta individuati i doveri fiduciari dell’impresa nei confronti di tutti gli stakeholders,
resta pur sempre il problema della loro attuazione pratica. Cosa garantisce, infatti, che i doveri
fissati nel contratto sociale vengano effettivamente adempiuti?
Cosa assicura che l’auto-imposizione dei canoni di comportamento fissati nello standard etico
venga, in realtà, rispettata? La risposta che la letteratura in argomento è in grado di offrire è
basata sul meccanismo della reputazione: l’impresa che si autoinfligge le sanzioni previste
del codice etico che essa stessa si è data a seguito di comportamenti defezionanti, vedrà
accresciuto il suo capitale reputazionale agli occhi di tutti i suoi stakeholder e questo
migliorerà la sua performance economica, per ovvie ragioni.
Ma il meccanismo reputazionale soffre di grave fragilità cognitiva:
- occorrerebbe che la conoscenza degli stakeholder, e in particolare dei consumatori e dei
soggetti della società civile, fosse perfetta, perché costoro potessero decidere se ciò che
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doveva essere fatto è stato fatto.
- non si deve dimenticare che l’orizzonte etico del contrattualismo è pur sempre quello
dell’individualismo assiologico: il codice etico si configura come un vincolo razionale che
l’impresa si autoimpone, ma pur sempre un vincolo. E dunque se, date le condizioni di
contesto, vi è una qualche probabilità di trasgredire le norme senza costo, vale a dire senza
intaccare la reputazione, ciò sarà fatto.
4- dell’etica delle virtù, come Adam Smith, sulla scia della linea di pensiero inaugurata dagli
umanisti civili del 1400, aveva elaborato nella sua opera fondamentale The Theory of Moral
Sentiments del 1759. L’assetto istituzionale della società – dice Smith – deve essere tale da
favorire la diffusione tra i cittadini delle virtù civiche. Per l’etica delle virtù, infatti,
l’esecutorietà delle norme dipende, in primo luogo, dalla costituzione morale delle persone;
cioè dalla loro struttura motivazionale interna, prima ancora che da sistemi di enforcement
esogeno. E’ perché vi sono stakeholder che hanno preferenze etiche – che attribuiscono cioè
valore al fatto che l’impresa pratichi l’equità e si adoperi per il rispetto della dignità delle
persone, indipendentemente dal vantaggio materiale che ad essi può derivarne – che il codice
etico potrà essere rispettato anche in assenza del meccanismo della reputazione.
La cifra dell’etica delle virtù è nella sua capacità di risolvere, superandola, la
contrapposizione tra interesse proprio e interesse per gli altri, tra egoismo e altruismo.
E’ questa contrapposizione, figlia della tradizione di pensiero individualista, a non
consentirci di afferrare ciò che costituisce il proprio bene. La vita virtuosa è la vita
migliore non solo per gli altri – come vorrebbero le varie teoria economiche
dell’altruismo – ma anche per se stessi. E’ in ciò il significato proprio della nozione di
bene comune, il quale non è riducibile alla mera sommatoria dei beni individuali.
Piuttosto, il bene comune è il bene dello stesso essere in comune. Cioè il bene
dell’essere inseriti in una struttura di azione comune, quale è appunto l’impresa.
Alcuni spunti per l’azione:
a- Muhammad Yunus: _”Abbiamo guardato come funzionavano le altre banche e abbiamo fatto
il contrario” (un mondo senza povertà, Feltrinelli 2008)
“L'assioma che non puo' esserci impresa se non viene perseguito il massimo profitto ha creato
un mondo che non e' più in grado di riconoscere la multidimensionalita' degli esseri umani, e
proprio per questo il sistema delle imprese e' incapace di affrontare molti dei più gravi
problemi sociali_”(p. 35). Secondo Yunus e' quindi “necessario ritornare a concepire l'uomo
nella sua integrita' e riconoscere che e' mosso da un’infinita' di molteplici motivazioni e non
riduttivamente dal proprio egoismo o interesse personale. _La teoria economica ha insomma
creato un intero mondo a una dimensione popolato esclusivamente da quelli che si dedicano
al gioco del libero mercato [capitalistico] in cui il profitto e' la sola misura del successo.
Poiche' siamo tutti convinti che la ricerca del profitto sia la migliore via per portare agli
uomini la felicita', ecco che ci mettiamo a emulare con entusiasmo la teoria economica e
facciamo ogni sforzo per trasformarci in esseri umani ad una sola dimensione. Invece di
produrre una teoria capace di imitare la realta', noi facciamo violenza alla realta' perche'
scimmiotti la teoria”.
I poveri saranno mai soggetti di un percorso economico mondiale?
b- caritas in veritate 36: “La grande sfida che abbiamo davanti a noi, fatta emergere dalle
problematiche dello sviluppo in questo tempo di globalizzazione e resa ancor più esigente
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dalla crisi economico-finanziaria, è di mostrare, a livello sia di pensiero sia di comportamenti,
che non solo i tradizionali principi dell'etica sociale, quali la trasparenza, l'onestà e la
responsabilità non possono venire trascurati o attenuati, ma anche che nei rapporti mercantili
il principio di gratuità e la logica del dono come espressione della fraternità possono e devono
trovare posto entro la normale attività economica. Ciò è un'esigenza dell'uomo nel momento
attuale, ma anche un'esigenza della stessa ragione economica. Si tratta di una esigenza ad un
tempo della carità e della verità.”
Il dono-gratuità non è quindi il gadget, lo sconto, i regali, i punti dei pro- grammi di
fidelizzazione, che sono il dono che normalmente conosce il mercato tradizionale e che in
genere non hanno nulla della gratuità e della sua natura più profonda ed esigente. La gratuità
vera pone, infatti, di fronte all’altro senza mediatori, rende vulnerabili, poiché va oltre al
calcolo delle equivalenze e delle garanzie. Essa è sempre potenzialmente una ferita, e per
questo suo insopprimibile rischio tragico la modernità l’ha espunta dai mercati e
dall’economia, accontentandosi di categorie più innocue e trattabili.
c- dal Documento preparatorio per la 46° Settimana Sociale ottobre 20101:
- Abbiamo avuto poi le parole chiare e forti pronunciate in Sardegna da Benedetto XVI
sull’urgenza di lavorare alla formazione di una «nuova generazione» di uomini e di donne
credenti capaci di assumere responsabilità pubbliche nella vita civile e dunque anche nella
vita politica.
- La responsabilità per il bene comune ci spinge ad andare avanti: «i cattolici non possono
affatto abdicare alla vita politica»21, anch’essa vero atto d’amore al bene comune (cfr CV 7).
- descrivendo un’agenda per “riprendere a crescere” il documento indica 5 punti:
- intraprendere
- educare
- includere le nuove presenze
- slegare la mobilità sociale
- completare la transizione istituzionale
n 34. La visione di uomo e di società da cui partiamo per un autentico servizio al bene comune
mettono in questione lo sperare. Pongono la domanda intorno a una speranza che incoraggia
la ragione e le dà la forza di orientare la volontà. «Dio ci dà la forza di lottare e di soffrire per
amore del bene comune, perché Egli è il nostro Tutto, la nostra speranza più grande» (CV 78).
Appunto conclusivo
La campagna Banche Armate
E’ importante che le Banche o gruppi bancari definiscano e rispettino direttive indirizzate alla
Responsabilità sociale di impresa.
All'interno delle riflessioni che abbiamo accennato a svolgere, va specificata la posizione in
riferimento al sostegno a produzione e commercio di armi e sistemi d'arma.
Sappiamo bene che la pace e la giustizia sono responsabilità di tutti e vivo o cadono negli atti e
nelle scelte quotidiane e di ciascuno (singoli, gruppi, parrocchie, amministrazioni,
imprenditori, bancari, operai ..
Sul tema della fabbricazione e commercio delle armi esiste la legge 185 ma non è sufficiente la
legge e non possiamo nemmeno dare per scontato che tutti la seguano e rispettino. Le leggi
hanno una finalità di attenzione ai fatti, ma intendono suscitare anche un comportamento
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ragionevolmente ispirato ad esse. In ogni campo del resto sappiamo riconoscere che si tratta
di tenere sempre insieme la liceità dei comportamenti e la scelta etica e responsabile.
Si tratta di mettere a fuoco il problema dell’ingresso indiscriminato delle armi nella scena
della società. Si tratta spesso di un mercato che coinvolge poteri nazionali elitari, ingiusti, che
talvolta tengono in ostaggio milioni di cittadini. Il profitto può essere ad ogni costo? Non vi è
la possibilità di fare differenza tra i clienti a cui una banca si rivolge? E’ comprensibile che i
gruppi bancari fanno fatica a far cogliere una differenza di qualità, soprattutto in momento di
grande crisi.
E’ dunque possibile esercitare pressioni perché le banche e gli imprenditori che vogliono fare
la loro parte positiva e costruttiva, svolgano una azione positiva in questo campo.
La campagna di PRESSIONE sulle BANCHE ARMATE ha una sua caratteristica interessante:
1- chiede il protagonismo di tutti
2- si fonda sulla trasparenza dei bilanci e sulla informazione su ciò che si produce e si vende
(cfr legge 185)
3- chiede il coraggio del dialogo e dell'interlocuzione (scrivere una lettera e incontrare i
direttori di filiale o i responsabili di area sociale)
4- porta tutti a una decisione di valore e responsabile (di valore perchè la decisione presa
mostrerà quali sono i valori effettivi di riferimento al di là delle dichiarazioni teoriche o di
principio) In fondo è una campagna nonviolenta nello stile, nel percorso, nei metodi e nelle
finalità.
Preghiera eucaristica V/c
“Donaci occhi per vedere
le necessità e le sofferenze dei fratelli;
infondi in noi la luce della tua parola
per confortare gli affaticati e gli oppressi:
fa’ che ci impegniamo lealmente
al servizio dei poveri e dei sofferenti.
La tua Chiesa sia testimonianza viva
di verità e di libertà, di giustizia e di pace,
perché tutti gli uomini si aprano
alla speranza di un mondo nuovo”.
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