Contributi dell`insegnamento della religione alla coesione sociale

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Contributi dell'insegnamento della religione
alla coesione sociale
Francesc Torralba Roselló
Preambolo
L’obiettivo che mi propongo in questa presentazione è mostrare come
l’Insegnamento della Religione Cattolica nel seno del sistema educativo formale
contribuisce alla coesione sociale.
Per
questo,
cercherò
di
identificare
alcuni
elementi
fondamentali
dell’antropologia cristiana inerenti all’insegnamento di questa materia, così come alcuni
aspetti della visione cosmo cristiana. Intendo che la ERE può contribuire a formalizzare
i vincoli sociali, la solidarietà e la fraternità tra le persone e i popoli, per questo
dipenderà non solamente dai contenuti filosofici e teologici che si impartiscono
attraverso di lei, ma anche e fondamentalmente dal modo in cui si insegna tale materia
e dall’atteggiamento educativo del professore che la sviluppa.
Nel testo mi riferisco all’espressione coesione sociale, ma utilizzerò i termini
solidarietà e fraternità, perché mi pare diano più profondità filosofica ed etica. Senza
l’intenzione di percorrere tutti i contenuti che si sviluppano nei distinti livelli educativi, mi
limiterò a precisare alcune idee-matrici che sono inerenti alla tradizione spirituale
cristiana e che, attraverso la ERE, i nostri alunni conoscono e assumono
intellettualmente e gradevolmente.
1. Chiarimento terminologico
1.1. La solidarietà
La parola solidarietà è una delle parole più usate ed anche più maltrattate. L’amicizia
ancora mantiene una qualità, però la solidarietà si è convertita in moneta di cambio.
Inoltre l’essenza della solidarietà è la constatazione dell’interdipendenza di tutto quanto
c’è
nel
cosmo.
Parte
da
una
constatazione
di
qualcosa
che
c’è,
cioè
dall’interdipendenza di tutto ciò che esiste. La pianta, il plancton, l’albero, l’arbusto, tu,
io, tutto ciò che esiste mantiene relazioni di interdipendenza. Tutti, in qualche modo,
siamo influenzati, ognuno danneggia l’altro, direttamente o indirettamente, a lungo o a
breve termine.
C’è un altro senso di solidarietà, di tipo etico. È l’esigenza di non essere indifferente
all’altro. È il dovere di non essere indifferente all’altro, intendendo per altro qualunque
essere che stia fuori da me: l’aria, la città, l’albero, il cane, l’anziano. Devo sentirmi
vincolato, unito strettamente all’altro, e questo è un imperativo etico.
C’è, infine, un terzo senso di solidarietà che è il più abituale. È l’esigenza di fare
attenzione al più vulnerabile.
Una persona solidale sa che è una parte di un gran Tutto e che deve stare in armonia
con questo Tutto. Nel pensiero orientale si è sottolineato molto questo aspetto. La
nostra esigenza non è alterare, né produrre movimenti sismici, ma piuttosto vivere
conforme a quello che siamo, non disfare questo ordine del Tutto.
La parola solidarietà è una delle parole che ha sofferto di tanto logoramento che quasi
si converte in una parola vuota, una parola usata in sensi distinti e per agenti molto
distinti, una parola che se uno non va alle sue origini, serve per tutto e per niente.
EuFRES. Madrid 2012
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Un primo significato è un vincolo stretto. Quando parliamo di solidarietà, stiamo
descrivendo un modo di relazione o di interazione che si potrebbe opporre alla
dispersione o alla frammentazione e, in questo senso, dovrebbe avere a che fare con
un vincolo solido tra particelle distinte, quindi con una coesione. C’è solidarietà in un
sistema, in un ambiente, incluso in una realtà quando gli elementi che la configurano
hanno vincoli molto stretti.
Un secondo significato lo sviluppa Luis de Sebastián nel libro Il guardiano della
solidarietà: è di carattere ético, indica un valore etico, una prescrizione, che sarebbe
quella di non essere indifferente alla vulnerabilità estranea.
Cioè una persona è solidale, un’istituzione è solidale, una società è solidale, quando si
ferma, quando non è indifferente e questo si può applicare a un singolo soggetto o a
un collettivo, una persona o una famiglia.
Un terzo significato che ha la parola solidarietà è quello di auto mutuo aiuto. Sarebbe
la pratica di reciproco aiuto tra i distinti membri di una collettività. La città è una
costruzione solidale nella misura in cui si trovano persone dove ognuno apporta
qualcosa che l’altro non ha, e questo arreca qualcosa a chi ha cagionato il primo.
Infine c’è un’idea di solidarietà che si estende più in là dei gruppi umani, che è la
solidarietà intesa come senso di appartenenza al Tutto. Cioè, una persona è solidale
quando non si concepisce come un atomo isolato o un essere è solidale quando non si
concepisce come un’entità sradicata, separata e sconnessa, solo che forma parte di un
Tutto più grande di lui.
La grande difficoltà è la coscienza individualista. Quanto più individualismo, maggiore è
il decrescere di questa esperienza di solidarietà.
1.2. La fraternità
La fraternità è l’esigenza di trattare l’altro come un fratello, come frater. Si può parlare
di una fraternità nel senso biologico, ma anche di una fraternità ontica, se uno intende
che io e l’altro che esiste abbiamo una somiglianza comune e che, in qualche modo, ci
rende fratelli.
La solidarietà è una parola più neutra di fraternità, perché una cosa è rendersi conto
che tutti siamo interdipendenti e altra è la fraternità.
Fraternità è un valore cristiano per antonomasia. Frater è fratello, condizione di fratelli,
indica una relazione che si caratterizza per il trattare l’altro come fratello.
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Cosa è la fraternità teologica? È l’idea classica cristiana, è parte di un supposto, Dio è;
secondo supposto Dio è Padre, terzo supposto Dio che è Padre, ha creato tutto quanto
c’è nel mondo è creatura, ma tra queste creature, ce n’è una che è chiamata a essere
figlio di Dio, a vivere come figlio di questo padre, a relazionarsi con questo Dio come
padre, e questo è l’essere umano.
In Francesco d’Assisi questa fraternità si estende più in là del genere umano. Tutti noi
esseri siamo creature, tutti abbiamo Dio come padre e quindi Dio è anche padre di
tutto ciò che c’è, ecco perché lui estende la fraternità anche alla luna, al sole e al lupo.
Nel Cantico delle creature c’è una trasgressione della fraternità circoscritta al genere
umano.
Dopo c’è la fraternità etica, che è la fraternità intesa come imperativo etico, come
esigenza etica, come dovere morale, di trattare all’altro come fratello. La fraternità
etica, in fondo, parte da un’idea di fraternità teologica, che è l’esigenza di trattare l’altro
come fratello perché anche lui è figlio di Dio.
L’affermazione della fraternità ontica non ha le difficoltà della fraternità teologica,
perché i punti di partenza, i supposti, sono più evidenti, più chiaramente visibili della
fraternità etica che deriva, che deriva dalla fraternità teologica.
La fraternità ontica è una seconda derivazione della sorpresa di esistere. In primo
luogo, uno si sorprende, poi si allegra e, in terzo luogo, si rende conto che ci sono altre
persone e con le stesse si ha il vincolo che queste esistano e pertanto siamo coetanei,
siamo fratelli per il fatto di esistere.
Questa idea di fraternità permette di superare molte barriere, molti provincialismi, molte
miopie, molte visioni bipolari o binarie, perché più in là di tutto si riconosce una
relazione fondamentale, e cioè che esistiamo.
Il fatto di esistere si estende a tutti gli esseri esistenti. La sorpresa è umana, dunque un
gatto non si sorprende di esistere. Un gatto esiste, ma la sorpresa è una caratteristica
umana, mentre l’esistere no.
Può avere una fraternità più in là degli esistenti umani, ma chi va a generare questa
fraternità più in là degli esistenti umani, è l’essere umano, perche è colui che tiene
coscienza di esistere, e se sperimenta un piacere e sperimenta con piacere il fatto che
esistano altri esseri umani, genererà questa interdipendenza.
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Esistono, tuttavia, una serie di difficoltà per vedere ciò che è essenziale. Le difficoltà
che abbiamo riguardano le differenze accidentali, i tratti propri di ogni esistente, che si
esaltano e si convertono in barriere.
Se uno ammette che gli altri esistono e che quello che abbiamo in comune è che
esistiamo, ciò non significa che dobbiamo trattarli come fratelli, quindi una cosa è la
costatazione, e un’altra il dovere di trattarli come fratelli nell’esistenza.
A questo punto si possono produrre alcune ragioni. La mia esistenza si deve ad altri, e
a molti altri ancora, come se fosse una rete di incontri. Uno può fare il suo albero
genealogico e vedrà che prima della sua nascita ci sono stati incontri precedenti e altri
ancora e così successivamente.
Pertanto, la mia esistenza si deve agli altri. Questa è un’affermazione che io
classificherei anche evidente, poiché nessuno dà l’esistenza a se stesso, bensì la
riceve come conseguenza di un incontro. L’esistenza è dono, è qualcosa di ricevuto.
In secondo luogo: non posso esistere isolatamente, separatamente. Questa è una
costatazione evidente. Richiedo di esistenti, di vincolo, di intercambio, di interazione e
questo ora nell’essere unicellulare. L’esistenza individuale unicellulare necessita di
vincoli per continuare a esserlo, pertanto senza gli altri non sono, questo significa che
devo vincolarmi, necessito questo vincolo di base.
Cosa abbiamo in comune con gli altri? I fatto di stare nello spazio e nel tempo, che
siamo di condizione mortale, esseri contingenti.
Tutte queste sono ragioni della fraternità esistenziale, perché tutto ciò permette di
vedere che con l’altro si ha una relazione fondamentale. Quest’idea della fraternità
nell’esistenza o del fatto di esistere o la contingenza o il vincolo tra gli esistenti e la sua
reciproca dipendenza, va molto unita a questo tipo di sensibilità.
L’idea di fraternità nell’esistenza, che tutti gli esistenti hanno dentro di sé un vincolo
fondamentale e che devono essere trattati o dobbiamo trattarci con fraternità, è un’idea
che connette molto con questa sensibilità che alcuni classificano panteista, o sia c’è un
gran tutto e ci sono particelle in questo tutto, che emergono, vivono e scompaiono, ma
l’importante è che ci sia sempre equilibrio.
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2. Tesi antropologiche inerenti alla ERE
2.1. Il tesoro di esistere
Quando parliamo di tesoro, parliamo di qualcosa di prezioso, ma anche di qualcosa
nascosto, difficile da trovare. Un tesoro esige attenzione. Se consideriamo la nostra
esistenza come un tesoro, dobbiamo considerare la sua fragilità, la necessità di
attenzione che richiede. Dall’antropologia cristiana, l’esistenza è una, qualcosa dato da
Dio all’essere umano. È la condizione della possibilità di tutte le azioni e tutte le
passioni.
Abbiamo un’unica possibilità di esistere tali a come siamo ora. Esistere è la condizione
della possibilità di tutte le attività, è il verbo principale, quindi senza di esso non
possiamo coniugare nessun altro verbo: pensare, credere, respirare. Se non esisto,
non posso fare niente. L’esistere è la condizione delle attività e degli incontri. Quando
René Descartes diceva “Penso, poi esisto”, non si stava riferendo al fatto che prima ci
fosse il pensiero, bensì che il pensiero è necessario per renderci conto che esistiamo.
Esistere è la cosa fondamentale, è la condizione del vero incontro. Se non esisto non
c’è un possibile incontro. Con quelli che esistono posso incontrarmi o non, con quelli
che non esistono non potrò mai incontrarmi. L’esistere è gratuito, mentre il vivere o
persistere esige attenzione e sforzo.
Nella prima parte del secolo XX, si scrisse abbondantemente sul dispiacere di esistere.
Jean Paul Sartre e gli esistenzialisti furono quelli che più svilupparono quest’idea. La
vita è concepita come una pena, come qualcosa che ci assumiamo, come un peso
molto pesante che dobbiamo caricarci ogni giorno.
La sorpresa di esistere, al contrario, si riferisce a uno stato di animo differente, ad uno
stato di animo che si scontra con l’imprevisto, con ciò che non è prevedibile e avviene
causando sorpresa, di fronte a qualcosa che rompe le frontiere della ragione. L’esistere
genera un turbamento. La sorpresa di esistere va unita all’ammirazione, anche se è
interiore a essa. Non ha a che vedere con un oggetto, bensì con il fatto di stare nello
spazio e nel tempo, potendo non esserci.
Come si provoca questo stato d’animo? Che tipo di esperienza vitale genera questa
sorpresa?
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La sorpresa si può comparare con l’ammirazione e si contrappone al dispiacere.
Ammirazione per quello che esiste, per la bellezza dell’esistente. È il principio della
filosofia. Il dolore di esistere (Jean Paul Sartre) vede l’esistere come ripetizione
meccanica di elementi. Il dolore conduce al disgusto vitale, alla fatica di esistere.
Questa sorpresa la sperimentiamo quando ci rendiamo conto che potevamo non
essere esistiti. La mia esistenza non era scritta in nessun luogo. Sono un’unica
possibilità regalata, gratuita.
L’allegria ontica è allegria per il fatto di stare con la realtà, di essere, potendo non
stare, potendo non esser mai esistito. Si converte in una forma di coscienza
dell’enorme fortuna che ho avuto. Non ha le sue basi in uno stimolo concreto, ma
deriva dalla coscienza di esistere. Questa allegria ha a che vedere con l’accorgersi del
fatto di esistere e delle possibilità enormi che derivano dal fatto di esistere.
Quando uno si rende conto che esiste, potendo non esistere, all’accorgersi di questo,
sperimenta che è una persona fortunata, che può agire con vigore, con tenacia, con
fermezza, per correggere le conseguenze negative di questo passato, non per
rimanere semplicemente apatico, impassibile o indifferente ai mali accaduti nel
passato.
La sorpresa di esistere non garantisce meccanicamente che mi implico, che mi sforzi
con allegria, per correggere le conseguenze dei mali precedenti, ma può facilitarlo. Può
essere un catalizzatore, può attivare questo lavoro, con fermo vigore, per sistemare le
conseguenze.
La perfetta allegria e l’allegria ontica hanno molte affinità. La perfetta allegria è quella
che teorizzano i teologi e i filosofi ispirati nel carisma di San Francesco d’Assisi.
La perfetta allegria non è una specie di autarchia stoica, né di indifferenza rispetto al
mondo. È una pace interiore che deriva dal vivere conforme alla volontà di Dio. La
perfetta allegria è quella che ha una persona che mantiene uno stato di animo allegro,
per il fato di vivere conforme alla volontà di Dio. Non ha a che vedere con uno stimolo
interiore o una buona notizia, nemmeno con il fatto di essere o esistere, né con il fatto
di sentirsi accolto.
Anche se ti ripudiano, anche se passi una brutta notte, anche se muori, sei nelle mani
di Dio. Consiste nel sentirsi nelle mani di Dio. In ciò sta la genesi della perfetta allegria,
che la distingue dell’allegria mondana, che è l’allegria che dipende dalla vanagloria,
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dalle ricchezze, dal riconoscimento, dal successo e, quindi, dalle trasformazioni della
vita.
La perfetta allegria è lontana dall’allegria ontica nel senso teologico, poiché questa
deriva dal fatto di sperimentare che uno è nelle mani di Dio e, pertanto, sperimentare
che uno è come accolto da Dio, mentre l’allegria ontica è un’allegria che ha a che
vedere con il fatto di esistere. Hanno un punto di incontro, ma nella perfetta allegria c’è
una dimensione teologica impossibile da separare.
L’allegria ontica che è l’allegria per il fatto di esistere ha come conseguenza
un’irradiazione. È un sentimento che si irradia, come la tristezza. C’è un movimento dia
verso fuori e colui che è allegro per il fatto di esistere, irradia gusto per la vita, è un
vitalista, una persona che irradia benestare, non nel senso materiale ma nel senso di
stare bene, nel suo ambiente.
Se una persona non sperimenta l’allegria ontica, come può vivere con entusiasmo la
paternità e la maternità? Se uno sperimenta che esistere non è gradevole o è pesante,
è molto incoerente al generare e sarà difficile che irradi gusto per la vita.
Invece se una persona è contenta di essere e si rende conto della fortuna che ha
avuto, dell’immensa possibilità che le è stata data, questa ha come conseguenza il
desiderio di generare, cioè di dare ad altri questa possibilità. L’insegnamento della
ERE è un’opportunità eccezionale per svegliare la coscienza del dono di esistere e
l’allegria per il fatto di averlo ricevuto.
2. 2. L’incontro ci raffigura
Dall’antropologia di radice cristiana, noi esseri umani siamo frutto dell’incontro e così
come proveniamo da questo, abbiamo la possibilità di incontrarci con altri esseri e
generare nuove individualità.
Tutti noi esseri umani nasciamo da un’incontro, sia questo positivo o negativo. La
scienza ha rivoluzionato quest’idea poiché prima era necessario l’incontro tra uomo e
donna.
Ci sono differenti tipi di incontro:

La strumentalizzazione: si cerca di ottenere da questo incontro un beneficio
personale, anche se non sempre deve essere negativo.
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
L’incontro fondato sull’amore-contemplazione: implica dare all’altro ciò che uno
è, sperimenta, sente. È una relazione di donazione, di benevolenza. Il centro
del mio desiderio è l’altro, cerco il suo benestare.

Relazione ludica: anche il gioco è un incontro, c’è una relazione basata sul
piacere. Questa relazione è vicina all’idea di festa che sviluppa il realismo
esistenziale.

La corrosione: è l’incontro distruttivo, arrivano due ed esce uno, non persistono.
L’omicidio è un esempio.

La generazione: è il contrario della precedente, c’è un’incontro che genera un
nuovo essere.
Tutti siamo prodotto di uno di questi tipi di incontro. Io non posso determinare la qualità
dell’incontro che mi diede l’esistenza, non posso fare che sia differente. Fu come fu e
appartiene al passato, tuttavia, posso fare che i miei incontri presenti e futuri abbiano
qualità, che il mio ambiente e le mie interazioni abbiano senso.
2. 3. L’essere umano, capace di amare
L’amore è la base della solidarietà e della coesione sociale. Dall’antropologia di radice
cristiana, l’essere umano è un essere capace di amare, ciò significa che se è educato,
può costruire vincoli di qualità con i suoi coetanei.
Nell’amore non si può obbligare né imporre, neanche si può esistere alla cieca ma
piuttosto con lucidità. Sorge libero e chiaramente o non è autentico. Sempre che
limitiamo la libertà di qualcuno o lo priviamo della saggezza, stiamo impedendo che
questa persona possa amarci. Di conseguenza, difendere, favorire, sviluppare la
genuina libertà degli individui -che implica in se stessa una dimensione sociale
corresponsabile- così come la sua saggezza, è favorire la stima cordiale tra le persone
e pertanto poter edificare meglio la pace.
L’essere umano è un essere dotato di memoria, capacità di ricordare, capacità di
costruire la sua propria biografia. Sant’Agostino distingueva tre elementi nell’anima
umana: volontà, memoria e intelletto. Qui c’è una chiave di comprensione teologica
che è l’essere umano come immagine della Trinità. Nella Genesi si definisce all’essere
umano come l’unico essere fatto a immagine e somiglianza di Dio, e Dio è uno e trino,
ciò significa che anche l’essere umano è uno e trino, almeno in quanto a somiglianza.
Pertanto, se in Dio ci sono tre forze, persone e dimensioni, Padre, Figlio e Spirito,
anche nell’essere umano come immagine di Dio, ci sono tre aspetti ed è quello che
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denomina l’anima come immagine di questa Trinità. Ci sono tre dimensioni che
operano e che configurano la sua identità e che inoltre non sono sostituibili: né una
nega all’altra né una può divorare l’altra. Sono la volontà, la memoria e l’intelligenza.
2. 4. Antropologia tridimensionale
L’antropologia che deriva dalla visione cosmo cristiana, non parte dall’idea che l’essere
umano è di una sola naturalezza, neanche è un dualismo, bensì si riferisce a lui come
un essere libero, intelligente e capace di amare.
Nonostante sia un’antropologia tridimensionale, le tre capacità derivano da due centri,
testa e cuore. Non è un’affermazione gratuita questa, ma piuttosto si definisce in molti
altri autori classici del pensiero, e si riduce a due grandi centri, che qualche autore lo
denomina come cuore e testa.
Ludwig Feuerbach, per esempio, considera che l’essere umano ha due grandi centri
nei suoi principi di filosofia: il cuore dal quale deriva la capacità di amare e la testa, la
sede della mente dove uno ha la capacità di pensare. La libertà è un’unione tra volontà
e intelligenza, cioè, quando uno attua liberamente c’è un movimento della volontà, un
volere e desiderare qualcosa, ma solo si raggiunge se uno pratica anche l’intelligenza
in questo atto di volontà, altrimenti è una volontà cieca che non raggiunge l’obiettivo
del progetto proposto.
Questa antropologia tridimensionale ha una radice molto biblica. Il mondo greco è
essenzialmente duale, corpo e anima. Questo resta chiaramente espresso nell’opera di
Platone, la psiche e il soma, che si traduce come anima e corpus, anima e corpo.
Invece, l’antropologia biblica è tridimensionale, dunque, riconosce nell’essere umano
tre tratti sostantivi ineludibili che configurano la sua naturalezza, che sono la carne,
l’anima e lo spirito.
E, cosa si intende per ognuno di essi? Quando si parla di carne, si parla di ciò che è
più esterno all’essere umano, ciò che ha a che vedere con la sua sensibilità, con la sua
pelle, in definitiva è ciò che si denomina come la sua corporeità.
Quando ci si riferisce alla parola anima, si parla fondamentalmente di un centro di
pensamenti, di ricordi, di progetti che sono dell’essere umano, quello che propriamente
diremo l’io, l’identità personale.
In cambio lo spirito è qualcosa che gli trascende, pertanto si riferisce al fatto che
l’essere umano partecipa nella sua naturalezza, è qualcosa di Dio, di uno spirito che
passa attraverso di lui, che gli trascende. Questa distinzione non sempre si vede, una
cosa è l’anima come io individuale, ma quest’anima si relaziona con lo spirito che, in
qualche modo, sperimenta nella sua interiorità più intima, per dirlo come Sant’Agostino.
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Lo spirito è simbolizzato con l’immagine del vento e, pertanto, vivere conforme allo
spirito è non solamente lasciarsi spingere da lui, bensì pensare in che modo posso
dare più frutti lasciandomi spingere da lui. Si può illustrare con l’immagine della nave
nel mare.
Se uno mette la vela nel modo adeguato, questo vento lo trascina molto lontano,
invece se la tiene tirata, non avanza.
Un’ultima distinzione che sembra la chiave, tra capacità e realtà o atto e potenza, potrà
risparmiare molti problemi all’ora di leggere questo punto, e soprattutto di possibili
critiche o obbiezioni che sveglino questo punto, in persone che lo leggano per la prima
volta o persone che si addentrino in lui.
Questa distinzione è molto classica. Cosa intendiamo per qualcosa che è in atto?
È nella sua pienezza e pertanto che quello che si proponeva essere ora è pieno.
Diciamo che un bambino è un uomo in potenza, diciamo che un seme è una pianta in
potenza, ma una pianta è già in atto, pertanto in atto è ciò che ha realizzato
l’aspirazione, ha realizzato il progetto che aveva latente in quell’essere.
Questa categoria serve per molte cose, tutti gli esseri umani hanno un potenziale
d’azione, come esseri esistenti, significa che qualcosa sono, ma aspirano a diventare
qualcosa che ancora non sono.
Qui si definisce l’essere umano come capace di amare, non che ami, ma che ha la
potenza di amare, e se non si educa, se non si stimola, può rimanere atrofizzata, come
un seme che non è caduto nella terra opportuna per poter crescere, svilupparsi e dare
frutto. Invece gli altri tratti si definiscono, e l’essere umano è un essere capace di
intelligenza o capace di libertà.
L’essere umano è un essere intelligente, altra cosa è come la utilizza o il grado di
intelligenza o i tipi di intelligenza. Nell’affermazione che l’essere umano è libero,
sembra più prudente difenderlo come essere capace di atti liberi, che non significa che
questa libertà si esegue.
La capacità indica una potenza, ma dipenderà dai contesti. Anche l’essere umano è un
essere che, in determinati contesti, è uno schiavo o lui stesso si incarcera a se stesso.
Invece, se non c’è un problema di ordine somatico o di ordine fisiologico, tutti gli esseri
umani sono esseri intelligenti.
2. 5. L’essere umano, capace di libertà
Un amore che non rispetti la libertà o che non potenzi la libertà dell’altro, è un amore
che distrugge, un amore patologico, è un amore possessivo, schiavo, delirante che,
alla fine, ciò che genera è la rottura. L’amore deve essere libero, deve inoltre generare
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libertà, nei due sensi, tanto come la sua causa efficiente, che come sua espressione.
Deve liberare, deve essere liberatore.
La coesione sociale non si costruisce solamente per amore. Richiede intelligenza e
libertà. Senza liberta non c’è pace; senza intelligenza, non si può costruire la pace, e
se non c’è amore, non si può costruire la pace. Si necessita l’integrazione di questi tre
elementi, i tre tratti fondamentali dell’essere umano.
L’animale non può trasmettere giudizi di valore, perché non ha la capacità di
separazione. La capacità di avvalorare, la coscienza morale va unita a quella spirituale.
Ci sono tre idee molto classiche di amore e tutte provengono dal mondo greco e
cristiano: l’idea di eros, l’idea di ágape e l’idea di filia che si traducono come l’amore di
desiderio, l’amore di donazione e l’amore reciproco o amicizia.
Cosa significa dire che l’essere umano è un essere capace di amare eroticamente?
Eros è desiderio, è anelito di qualcosa che non possiede ma che manca per essere
pienamente uno stesso, come una carenza. L’eros è un desiderio di qualcosa che non
ho, ma che necessito avere per essere pienamente, pertanto è la costatazione di una
carenza.
L’eros è proprio dell’essere umano, che in alcun modo localizza che in lui c’è una
carenza, e si dispone ad aprirsi, a muoversi verso ciò che presumibilmente le va a
colmare questa carenza. In questo senso l’eros trascende dall’ambito di ciò che
sarebbe la relazione uomo-donna, la relazione padre-figlio.
Platone dice che gli amanti si cercano reciprocamente, ma non sanno esattamente il
perché, però ciò che di sicuro genera questa ricerca, è la necessità di risolvere una
carenza. Non sanno esattamente che c’è nell’altro che susciti questo desiderio di
essere, di vedere, di possedere ma si intuisce che in lui o in lei esiste la soluzione a
una carenza fondamentale.
Eros è desiderio ed è desiderio di possessione, per questo ha una dimensione
possessiva.
È desiderio di qualcosa per me, di conoscere qualcosa, di avere una presenza vicina,
ma sempre ha a che vedere con un io che necessita risolvere una carenza.
Nella filosofia cristiana, niente in questo mondo risolve questa carenza. Nella prima
parte della Suma contro gentiles di San Tommaso, niente, né la ricchezza, né la fama,
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né la saggezza, né l’arte, né l’amicizia, né la relazione piena tra uomo e donna, niente
risolve questa carenza. La risolve solamente Dio, o sia niente dentro l’ordine mondano,
dentro lo spazio e il tempo, niente risolve questa carenza.
Nel mondo greco, si parte dall’idea che c’è una saggezza che può colmare questa
carenza. Il filosofo è colui che ama la sapienza, e in fondo parte dall’idea che se la
raggiunge, questa carenza scomparirà, arriverà a una situazione di pienezza, di
armonia, di totalità.
Nel mondo greco, la via attraverso il conoscimento permette di superare le fasi e,
quindi, il saggio è colui che è legittimato per insegnare ad altri a superarsi e a crescere.
Eros e ágape non sono due forme di amore svincolate, bensì una stessa forma di
amore, ma in grado di purificazione distinto. Così come l’eros è desiderio di qualcosa
che non ho e che voglio includere nel mio essere, conoscenza, bellezza, unità, l’ágape
è movimento di donazione, è un movimento che ha la stessa radice, ma nel senso di
entrare da fuori verso dentro, è estrarre qualcosa di ciò che sono, dal talento, dalle mie
conoscenze, mie capacità, verso fuori, darlo. Il verbo che caratterizza l’ágape è la
donazione, è il dare, il dare e non calcolare, il dare e non guardare, il dare e non
aspettare.
Quando diciamo che l’essere umano è capace di amore, diciamo che è capace di dare,
di dare ciò che ha, di dare ciò che è, di dare ciò che pensa o di darsi in un senso più
integrale della persona.
L’ágape ha una serie di caratteristiche, per questo ha una descrizione molto elevata. È
una forma di amore nella quale c’è calcolo, l’ágape si contrappone al calcolo. Il calcolo
è qualcosa che facciamo attraverso l’intelligenza. Uno calcola, pondera, soppesa,
distingue, questo è proprio dell’intelligenza, invece l’ágape è, soprattutto, movimento di
donazione senza calcolo.
Uno deve amare con lucidità, pertanto, incluso nell’ágape, si necessita la pratica
dell’intelligenza. L’ágape ha un’altra caratteristica che è la non distinzione, la non
discriminazione. Nel fondo la non gerarchizzazione, dare senza guardare nessuno,
dare senza vedere se la persona è vedova, se è straniero, se è bambino, se è
pubblicano o se è ministro.
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Se c’è calcolo, non c’è ágape nel senso puro, e se c’è gerarchizzazione o se c’è
distinzione, neanche c’è ágape, quello che c’è quindi è un ágape che è ancora troppo
rinchiuso nell’ego.
La non condizionalità è un altro tratto dell’ágape. Si dà incondizionatamente, quest’idea
della non condizionalità. Se il dare è condizionale, significa che c’è una serie di requisiti
di questo dare. Se non è condizionale, significa che sia quale sia la condizione, anche
se l’altro mi odi, mi disprezzi, io do, ed è una forma di amore che si caratterizza come
la pratica della donazione.
Cosa è la filia? È un amore di amicizia, è un amore di reciproca benevolenza.
Non è l’eros in senso rigoroso, perché l’amico non lo possiede in quanto ti va a
riempire una carenza, neanche è un’agape nel senso che non distingue. Quando tu
scegli un amico, distingui, selezioni e, pertanto, non sei amico di tutto il mondo, almeno
in senso rigoroso, e un’altra cosa è l’amicizia civile, la cordialità.
È un legame tra due persone il cui movente è farsi reciprocamente il bene, questo è
quello che fa sì che ci sia amicizia tra due esseri umani, è un trasferimento di beni in
tutti i sensi, beni materiali e non materiali.
Per amare agamicamente è necessaria la privazione del possesso, cioè, mentre uno è
guidato dall’ego e pertanto dall’ansia di avere, di accumulare, sfoggiare, non può
praticare l’ego. Ego e ágape sono opposti. L’io è condizione per amare, l’ego, invece, è
l’ostacolo fondamentale. L’io è condizione per amare, perché quando uno ama, ama
agamicamente, dà quello che c’è nel suo essere, e pertanto, se non c’è unicità né
reciprocità, tu non puoi dare proprio niente. L’io è la condizione base per far sì che ci
sia ágape, che ci sia filia e che ci sia eros.
Ma l’ego è barriera, è l’io che al momento di aprirsi, di sfasarsi, di privarsi del
possesso, si converte nel centro.
L’essere umano è capace di amare? Nei tre sensi si, ma nonostante, l’ágape è ciò che
si imposta con più difficoltà.
Un eros vissuto possessivamente, non libera l’altro. Una persona che ama
agamicamente, può essere considerata da fuori come un’illusa o qualcuno che le
manca lucidità o qualcuno poco intelligente. Dare tutto, gettarsi, non calcolare, amare
incondizionatamente nonostante sia criticato e maltrattato, può far sembrare che
quest’amore non sia lucido.
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Quando diciamo lucido, non significa che sia produttivo o utile. Lucido proviene da lux
che significa avere luce. Un amore lucido non significa intendere l’amore come una
pratica utilitaria, perché questa è un’altra forma di relazione che non è amore. È un
amore luminoso, che applica l’intelligenza per dare di più e in modo migliore.
Le persone che si sentono amate e che amano, almeno nei momenti e nelle parentesi
in cui uno ama e si sente amato, si rallegrano di esistere.
L’amore non ha come destinatario solamente l’essere umano. L’amore come ágape,
come donazione, o l’amore come eros, trascende l’umano. La filia, almeno nei classici,
si muove nel terreno dell’umano, dunque uno non può essere amico di un cane,
almeno come è trattato in Cicerone, in Seneca, in Aristotele, perché esige una
reciprocità, un intercambio, un flusso di sentimenti, di emozioni, di pensieri, e anche se
c’è una forma di comunicazione, perché nessuna la nega, questa forma di
comunicazione, per i classici non si può denominare come amicizia.
L’amore è il fondamento della fraternità ontica. La fraternità ontica è comunione
universale con tutti gli esistenti. Questa comunione, questa specie di fratellanza
esistenziale con tutto quello che è e, pertanto, con ognuna delle individualità, siano
quali siano le sue caratteristiche, e l’amore è il fondamento di questa fraternità.
L’energia che vincola, che unisce, è l’amore, che si definisce anche come forza
vincolante, forza che unisce. Quando uno ama qualcuno si sente vincolato o vuole
vincolarsi di più. Quando non ami nessuno, ti svincola o semplicemente non ti senti
vincolato.
L’amore come ágape getta le basi alla fraternità ontica, perché l’amore come eros è
selettivo, invece l’ágape è libera da predilezioni.
Se si priva la libertà a qualcuno, gli si sta privando che ami. Affinché ami, deve sentirsi
libero, di conseguenza, dobbiamo difendere, favorire e sviluppare la libertà genuina. Se
è vera genuinamente, si presume che c’è un uso adeguato che comporta in se stesso
una dimensione sociale corresponsabile. Deve favorire la stima cordiale tra le persone
per, in questo modo, poter edificare meglio la pace.
2.6. Il cammino di liberazione
Dall’antropologia di radice cristiana, è necessario fare una triple distinzione tra libero
arbitrio, libertà e liberazione. Il libero arbitrio, in latino appare come librerum albitrium,
un’altra cosa è la libertà intesa come libertas e dopo c’è la liberazione.
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La capacità per optare tra due o più alternative è il libero arbitrio, è la capacità per
discernere tra un ventaglio di opzioni che si presentano in un momento dato, che
richiede di passare per il momento angustiante della decisione. Va preceduto da uno
stato che può essere più o meno intenso, più o meno prolungato, ma che è la angustia.
Si tratta di soppesare cosa conviene di più, che tipo di conseguenze tiene questa
azione o quest’altra. Si intende che l’essere umano è libero nella misura in cui può
soppesare, deliberare quale delle alternative prende.
Libertà significa che l’essere umano non è determinato, condotto ad andare per un
strada, bensì che arrivato ad un incrocio, distingue, si ferma, soppesa, avvalora e
prende una direzione, anche se dopo si sia sbagliato.
C’è libertà in altro senso che è progetto vitale, questo è un senso più a lungo termine.
Quando diciamo che è libero, diciamo che può optare tra questo o l’altro, ma è capace
anche di fare della sua vita un progetto. Questa è una comprensione che è in molti
pensatori esistenzialisti del secolo XX.
Nessuno sa come si concluderà il suo progetto, nemmeno sa se avrà tempo di finirlo,
ma è libero colui che fa della propria vita un progetto. Non è un’opzione determinata,
piuttosto è una conseguenza di opzioni che l’essere umano è capace di fare della
propria vita un’opera d’arte, cioè, non un’imitazione, ma qualcosa di singolare. Questo
significa propriamente libertà, quando diciamo che l’essere umano è libero, include
anche questo elemento.
Uno si rallegra di esistere quando può fare della propria vita un progetto personale.
Se uno è nel mondo e può solo eseguire opere che vanno determinate dalla specie,
non c’è possibile allegria. In questo camminare, il dubbio non scompare, l’angustia è
all’inizio, ma ci sono momenti e situazioni della vita in cui uno ha l’impressione di aver
sbagliato cammino.
Questo secondo senso di libertà come progetto è escludente per molti. Per quest’ultimi
la libertà è semplicemente un opzione puntuale di fronte a due oggetti di consumo.
Sono libero perché posso scegliere questo maglione o quest’altro.
Il terzo modo di intendere la libertà è come liberazione, che è in senso molto più
profondo. Una persona è libera quando si è liberata di tutto ciò che la assoggettava. È
un processo che si dà quando uno si è potuto liberare di tutte le prigioni che ha
costruito.
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Nelle grandi tradizioni spirituali, iniziando dal cristianesimo, la libertà è sempre un
esercizio contro l’ego. Finché c’è egocentrismo, non ci sarà libertà. La liberazione
dell’ego consiste in assumere l’irrilevanza e la contingenza del proprio essere e viverlo
con allegria e con piacere, non con risentimento per non essere al centro, non con
rancore. Nel buddismo e nel cristianesimo, in ambi le tradizioni spirituali, c’è sempre, in
ultimo termine, la liberazione dell’ego come orizzonte di senso.
Quando diciamo che un essere umano è libero riconosciamo che c’è un campo di
possibilità. Se tutto fosse necessità, non c’è libertà alcuna, quindi quello che è non può
essere in altro modo di come è, invece la possibilità è quello che può darsi ma che non
necessariamente di darà.
Nell’essere umano ci sono una serie di dati che egli non ha scelto. Uno sa di esistere e
si rende conto che ci sono una serie di tratti in lui che sono necessari, che non ha
deciso lui, bensì che vanno con la sua naturalezza. La necessità è ciò che non può
cambiare, ciò che è indipendente dalla sua volontà. Invece, la libertà si costituisce
sull’idea di che ci sono possibili.
Secondo il deterministico, tutto ciò che c’è in noi e tutti i nostri atti liberi sono
determinati, inclusi gli atti che noi supponiamo come liberi, sono un’apparenza, una
specie del sogno, una pretesa, ma non è una realtà né può esserlo.
La tesi deterministica è chiara. Non c’è libertà; la libertà è una finzione. Un determinista
non accetterebbe la proposizione principale: l’essere umano è libero.
Nel determinismo si parte dall’idea che l’essere umano può prendere distanza. Che
significa prendere distanza? Separarsi dal clan, separarsi dal gruppo ed essere
cosciente delle determinazioni. L’unica possibilità è che questo io può prendere
distanza, può vedere le cose da lontano e decidere.
Se uno non è libero, neanche gli si possono imputare conseguenze dei suoi atti.
Invece, quando uno è libero significa che ci fu un io che disse sì. Quindi si possono
imputare responsabilità. In questo senso, le cose negative accadute nel passato, le
barbarie, le atrocità, le guerre non mi si possono imputare a me, perché io non c’ero e
per essere libero, per primo devi esistere, ed essere stato il responsabile di tali atrocità.
Cosa è responsabilità? Rispondere delle decisioni che uno adotta in un momento dato
della sua vita personale. Essere responsabile è rispondere delle decisioni che ho
preso. Questo non significa essere indifferenti alle conseguenze di quei mali del
passato. Devo solidarizzarmi con le vittime e le persone che soffrirono e devo, inoltre,
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contribuire e lasciare un mondo migliore, ma non sono responsabile, quindi la
responsabilità è assunzione delle conseguenze, delle decisioni che uno prende in un
momento dato.
La libertà ha sempre una dimensione sociale. La pensiamo individualmente o,
soprattutto, da un paradigma individualista, come se i miei atti, le mie decisioni libere,
spettarono solamente a me. È un errore, la libertà ha sempre una dimensione sociale,
significa che le decisioni che prendo in un momento dato hanno sempre conseguenza
negli altri, nel presente e nel futuro.
La libertà ha sempre dimensioni sociali. Questo è ciò che porta necessariamente alla
necessità della limitazione della libertà. Una libertà illimitata significa una libertà nella
quale uno crede ingenuamente che i suoi atti non abbiano conseguenza e che,
pertanto, non ha perché mettere limiti.
L’umiltà ontica ha a che vedere con la conseguenza della contingenza del proprio
essere: quando uno sa che poteva non essere esistito, che smetterà di esistere, che
smetteranno di esistere le persone che ama e che le persone che ama potevano non
essere esistite.
Quando uno si rende conto di tutto questo, inizia a essere umile nel senso ontico della
parola.
Invece, mentre uno pensa che era necessaria la sua esistenza, che necessariamente
esisterà sempre, che era necessario che esistessero le persone che ama, soffre ed è
una superbia ontica.
L’umiltà ontica è riconoscere che poteva non essere esistito e questo deve assumerlo
con serenità. L’essere umano è contingente, ma inoltre è libero, pertanto è una
contingenza libera. Le si ha dato un tempo che mai sa quale sarà, può fare della sua
vita un progetto, può liberarsi da molte prigioni e liberare altri.
L’umiltà ontica non significa sottostimare la potenza della libertà e dell’amore o la
potenza dell’intelligenza dell’essere umano. A volte applichiamo una libertà divina a un
essere contingente. Nel realismo esistenziale, l’essere umano non ha una libertà
divina, ha una libertà umana, che significa che ci sono molti elementi che sono dati, c’è
un periodo di tempo che non sai quanto sarà lungo, ma durante questo frangente che è
vivere, hai la possibilità di vivere liberamente.
Quando si parla di allegria di esistere, si parla inizialmente dell’allegra di esistere per il
semplice fatto di esistere, ma dopo si vincola come un progetto di possibili
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realizzazioni. Mi rallegro di esistere, ma di esistere in libertà, non di esistere ingabbiato,
di esistere in un processo graduale di libertà. Se solamente potessi esistere come un
pezzo di un grande puzzle non potrei sperimentare il piacere di esistere.
L’amore si vincola al processo di liberazione. Amare qualcuno è potenziare la sua
libertà, perché un amore che costringe, lega, vincola, è un amore possessivo, che di
fatto è una caricatura dell’amore.
3. Il dovere di entusiasmare le generazioni a prossime
Attraverso l’educazione e, in particolare, attraverso l’insegnamento della Religione
Cattolica, abbiamo il dovere di entusiasmare le generazioni a venire e svegliare in esse
il gusto per l’esistenza e la loro missione personale nel mondo.
L’entusiasmo non è l’euforia. L’euforia è un’esplosione dell’allegria momentanea, ha
una dimensione dell’incontinenza, mentre l’allegria si può contenere come la tristezza,
ma l’euforia è un’esplosione che si espressa attraverso il grido del gesto o attraverso le
lacrime.
L’entusiasmo è un altro stato, ha una dimensione di esplosione, è stare preso in alcun
modo dagli dei, è come avere un dio dentro, sperimentare come un’energia, come un
impeto, come una specie di conato di far sviluppare una funzione anche contro molte
avversità.
Una persona che è entusiasmata in un’opera, o in una relazione o è entusiasmata in
un progetto, si trova con ostacoli di diversa indole, ma questa energia vitale, questa
specie di energia divina, come la chiamavano i classici, è quella che li porta a superare
le avversità, contrarietà che si possono incontrare nello sviluppo di questo progetto, di
questa funzione, di questa relazione.
Uno può vivere una situazione piacevole ed essere molto triste, perché il piacere ha
un’origine da fuori verso dentro. Il piacere ha a che vedere con stimoli gradevoli, un
odore o un cibo appetitoso o semplicemente una visione, ha a che vedere con
qualcosa che entra per le finestre dei sensi, ma questo non è né la felicità né
l’entusiasmo né l’allegria né l’euforia.
La felicità ha a che vedere con la percezione soggettiva di un bene intangibile, e
questo significa in fondo aver generato un bene ad altri o a un contesto. La persona
che genera un bene attraverso l’educazione o attraverso un intervento o attraverso ciò
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che dice o ciò che fa, esso gli produce uno stato di animo interno che è la eudaimonía
che i Greci identificavano con la felicità.
A partire dalle tesi antropologiche espresse nell’insegnamento della ERE, è pertinente
sottolineare che la ERE, quando è articolata fedelmente alle sue basi, è un veicolo di
nobilitazione della persona e della coesione sociale, quindi non solamente stimola il
senso della fraternità tra tutti gli esseri umani, ma piuttosto che educa e sviluppa la
potenza cha fa possibile la edificazione di un mondo più unito, la forza amativa che si
cela nell’interiorità dell’essere umano.
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