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L’assegnazione della casa familiare in sede di separazione e di divorzio.
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diritto ad abitarla, in Familia, II, 872 – 883; Bessone 1979 Ambito di rilevanza e garanzie costituzionali della convivenza more
uxorio, in Foro Pad., I, 103 – 106; Bianca C. M. 2001 Diritto civile, La famiglia, Le successioni, II, Milano; Caravaglios R. 1997
Trasferimenti immobiliari nella separazione fra coniugi, in FD, 422 – 430; Carbone V. 1995 La soluzione sofferta delle S.U.:
l’assegnazione della casa coniugale presuppone la prole, in FD, 530 – 535; Casu G. 2002 Assegnazione della casa familiare,
trascrizione e diritti dei terzi, in DGiust, 39 – 44; Catenacci S. 1994 Assegnazione della casa familiare di proprietà comune ad uno
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Ceccherini A. 1996 L’abitazione della casa familiare, in I rapporti patrimoniali nella crisi della famiglia e nel fallimento, Milano,
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Crisi della famiglia di fatto, tutela dei figli naturali, assegnazione della casa familiare, in NGCC, I, 683 – 69; Finocchiaro M. 1992
Assegnazione della casa coniugale ad uno dei coniugi e diritto dell'altro di chiedere della divisione: o della pretesa indissolubilità
della comunione incidentale, in GC, I, 543 – 545; 2002 Divisione della «casa familiare», assegnata in sede di divorzio al coniuge
affidatario dei figli minori e ( pretesa ) inidoneità del provvedimento di assegnazione a incidere sul valore commerciale
dell'immobile, in GC, 57 – 60; Francolini G. 1999 La tutela del coniuge più debole nell'assegnazione della casa familiare, in FD, 460
– 465; Gazzoni F. 1986 Il diritto all’abitazione della casa parafamiliare, in RaDC, 378 – 409; Jannarelli A. 1981 L'assegnazione
della “casa familiare” nella separazione personale dei coniugi, in FI , I, 1382 – 1393; 1982 Nota a Cass. 2494/82, in FI, I, 1895 –
1900; 1986 Incerta sorte per la casa familiare, in FI, I, 1318 – 1324; 1989 Nota a Corte cost 454/89, in FI, I, 3336 – 3338; Lezza A.
1999 Assegnazione della casa familiare al coniuge convivente con figli maggiorenni non autosufficienti, in GI, 35 – 37; Macario F.
1998 Abitazione familiare e tutela urgente fra diritti della persona e titolo di proprietà, in FI, I, 1684 – 1692; Quadri E. 1995
L'attribuzione della casa familiare in sede di separazione e di divorzio, in FD, 269 – 285; Scarano L. A. 2001 La casa familiare, in
Familia, 131 – 164; Trabucchi A. 1988 Il diritto ad abitare la casa d'altri riconosciuto a chi non ha diritti!, in GI, I, 1, 1628 – 1632;
Trabucchi A. 1978 L’abitazione della casa coniugale dopo il divorzio, in GI, I, 1, 2103 – 2108.
1. Premesse generali.
Il problema dell'assegnazione della casa familiare, in quanto problema del diritto
del coniuge non proprietario (o titolare del contratto di locazione) di continuare ad
abitarla, è una delle più frequenti cause di conflitto tra i coniugi nei giudizi successivi
alla crisi del rapporto matrimoniale. Si tratta, infatti, di una questione particolarmente
delicata in cui vengono a scontrarsi diritti ed istituti costituzionalmente garantiti come
la famiglia e la proprietà privata, ma anche lo stesso diritto all’abitazione, collocabile
tra i diritti inviolabili dell’uomo, di cui all’art. 2 Cost..
La possibilità di continuare ad abitare nella casa di famiglia anche dopo la rottura
del rapporto di coppia assume una chiara rilevanza per i membri del disciolto nucleo
familiare e non solo da un punto di vista prettamente economico, ma anche, e
soprattutto, da quello psicologico, affettivo e, in generale, sotto il profilo della
«qualità della vita».
E’ evidente come la stabilità dia serenità, e viceversa la perdita della stabilità crei
traumi. Il legislatore, prevedendo che l’abitazione familiare spetti di preferenza, e ove
sia possibile, al coniuge cui vengono affidati i figli, evidenzia come abbia scelto di
tutelare, in primo luogo, tra gli interessi in gioco, il bisogno dei minori «di continuare
senza traumi ad usufruire dello standard di vita realizzato in costanza di convivenza
1
dei genitori e di mantenere inalterati i rapporti con l’ambiente in cui sono vissuti»
(Jannarelli 1982).
Diversamente, qualora manchino figli minori o, vi siano maggiorenni
autosufficienti, secondo l’interpretazione maggioritaria, tornano a prevalere le ragioni
del titolare del diritto.
Parte della dottrina e della giurisprudenza sottolinea come tale lettura comprima in
modo eccessivo fino ad escluderlo, «l’interesse personale e diretto, del coniuge non
proprietario, a continuare ad abitare la casa» (Scarano 2001) e tradisca lo spirito della
Relazione che accompagnò la legge sul divorzio, in cui dopo aver affermato che
«la preferenza accordata a favore del coniuge affidatario dei figli minori non esaurisce le
ipotesi in cui può aversi assegnazione della casa familiare»
si evidenzia che
«è indispensabile che, in ogni caso, alla luce del valore economico riconoscibile al
godimento della casa familiare, il tribunale favorisca il coniuge più debole, valutando le
condizioni patrimoniali delle parti e le ragioni che hanno condotto alla crisi irreversibile del
matrimonio»
(Rel. al Senato, l. divorzio, 01.12.1970, n.898).
Si tratta, come vedremo, di un orientamento minoritario, che si auspica possa
prevalere in futuro essendo evidente come la rigida applicazione della regola in base
alla quale l’assegnazione spetti al coniuge affidatario possa produrre risultati iniqui,
quale quello di estromettere dall’abitazione familiare proprio il soggetto
economicamente più debole o affetto da patologie fisiche o mentali (Al Mureden
2002).
2. Casa familiare. Nozione e «consistenza».
Gli artt. 155, 4° co., c. c., e 6, 6° co., l. n. 898/70, disciplinano l’attribuzione della
casa familiare in sede, rispettivamente, di separazione e di divorzio facendo implicito
riferimento alla nozione di «casa di famiglia». Al riguardo, si è riconosciuto che, in
quanto l’assegnazione risponde
«all’esigenza di conservare l’habitat domestico, inteso come il centro degli affetti, degli
interessi e delle consuetudini in cui si esprime e si articola la vita familiare, è consentita
unicamente con riguardo a quell’immobile che abbia costituito il centro di aggregazione
della famiglia durante la convivenza, con esclusione di ogni altro immobile di cui i coniugi
avessero la disponibilità e che comunque usassero in via temporanea o saltuaria»
(Cass. 16.07.1992, n. 8667, GC, 1992, 1, 3002; ugualmente, Cass. 22.11.1995, n. 12083,
RGI, 1995, Separaz. coniugi, 94).
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Conseguenza di tale impostazione, che individua nell’abitualità, nella stabilità e
nella continuità di abitazione dell’immobile da parte del nucleo familiare, i caratteri
rilevanti per la qualificazione della casa di famiglia (Trabucchi 1978) è l’esclusione
dall’assegnazione di quell’immobile che non sia mai stato utilizzato come abitazione
della famiglia, nel tempo in cui i coniugi non erano separati (Cass. 16.07.1992, n.
8667, GC, 1992, I, 3002), ovvero di quella casa che non svolga più la funzione di casa
coniugale al momento della separazione, in quanto uno, o entrambi i coniugi, si siano
trasferiti altrove (Cass. 09.09.2002, n. 13065, MCC, 2002).
«Per la corretta interpretazione dell’art. 155, 4° comma, c.c., occorre quindi distinguere fra
due diverse accezioni dell’espressione casa familiare, la prima delle quali connota
materialmente il bene immobile in cui si svolse, per un certo periodo storicamente concluso,
la vita coniugale e familiare; la seconda significa, invece, il centro di aggregazione della
famiglia durante la convivenza (...), ossia l’ambiente fisico in cui persiste, nonostante la
separazione dei coniugi, l’insieme organizzato dei beni che costituisce, o ha costituito, anche
in senso psicologico, l’habitat domestico che deve continuare a svolgere, preferibilmente e
se possibile, la funzione di abitazione del nucleo composto da uno dei genitori separati e
dalla prole. La norma in esame fa riferimento a questa seconda accezione»
con la conseguenza che
«non v’è ragione di ricorrere all’assegnazione della casa ai sensi dell’art. 155, 4° comma,
c.c. allorquando, per un qualsiasi motivo, al momento della separazione la casa familiare nel
senso sopra accolto non esista più»
(Cass. 09.09.2002, n. 13065, MCC, 2002).
e questo perché, si è ulteriormente chiarito
«la misura in discorso non può assolvere alla funzione sua propria di preservare la
continuità delle abitudini e delle relazioni domestiche dei figli nell'ambiente nel quale
durante il matrimonio esse si sviluppavano in ogni caso in cui, a seguito della separazione, la
casa familiare abbia cessato di essere tale e la prole si sia già definitivamente sradicata dal
luogo in cui la sua vita domestica si svolgeva»
(Cass. 18.09.2003, n. 13736, DF, 2005, 33)
In base alla medesima logica, inoltre, viene escluso che oggetto di attribuzione
possa essere la cosiddetta «casa di villeggiatura»
«la casa familiare deve essere considerata in relazione ad uno stato duraturo e prevalente
nella convivenza del nucleo familiare. Non possono, pertanto, identificarsi con essa le case
nelle cosiddette località di villeggiatura, o altre usate per soggiorni temporanei o connessi ad
esigenze stagionali, pur se con periodica ed abituale ripetizione, e ciò a causa della
mancanza di un rapporto di fatto permanente e corrispondente alle fondamentali esigenze
primarie di abitazione»
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(Cass. 23.06.1980, n. 3934, DFP, 1980, 1121).
Quanto alla «consistenza» della nozione di abitazione di famiglia, l’orientamento
pressoché unanime della giurisprudenza accoglie un’accezione piuttosto ampia, in
base alla quale essa viene ad identificarsi in quel «complesso di beni funzionalmente
attrezzato per assicurare l’esigenza domestica della comunità familiare» e non nel
solo «immobile, spoglio della normale dotazione di mobili e suppellettili per l’uso
quotidiano della famiglia» (Corte cost. 27.07.1989, n. 454, FI, 1989, I, 3336).
Così, si riconosce che l’assegnazione ex art. 155, c.c., comprenda «oltre
l'appartamento, anche tutti gli elementi che individuano lo «“standard” di vita
familiare oggettivato in quella organizzazione di beni» e, quindi «anche il “garage”,
dal momento che questo risponde a specifiche esigenze del coniuge assegnatario e dei
figli ad esso affidati» (Pret. Firenze 14.07.1984, DFP, 1984, 675), nonché
«i beni mobili, gli arredi, gli elettrodomestici ed i servizi, con l’ovvia eccezione dei beni
strettamente personali o che soddisfino esigenze peculiari del coniuge, privato del godimento
della stessa»
(Cass. 09.12.1983, n. 7303, GI, 1984, I, 1, 641; analogamente, Cass. 26.09.1994, n. 7865,
FD, 1995, 28).
Qualora il coniuge separato affidatario della prole non possa godere
dell’assegnazione dell’uso effettivo della casa familiare si esclude, invece, che sia
ammissibile “l’assegnazione” dei soli mobili, in quanto
«inscindibilmente legata con quella della casa coniugale, cossichè la perdita della
disponibilità della prima da parte dei coniugi implica che non possano essere più adottati
provvedimenti di “assegnazione” dei mobili ivi esistenti»
(Cass. 04.06.1996, n. 5119, GuidaDir, 1996, 26, 54; contra, Trib. Catania 10.05.1995, DFP,
1995, 1060).
Infine si è sottolineato come la gratuità dell'assegnazione si riferisca solo all'uso
dell'abitazione, ma non si estenda alle spese correlate a tale uso
«quali quelle condominiali, che riguardano la manutenzione delle cose comuni - poste a
servizio anche della casa familiare – che vanno legittimamente poste a carico del coniuge
assegnatario»
(Cass. 03.06.1994, n.5374, GC, 1995, I, 195).
In conclusione, dall’accezione accolta emerge una prospettiva finalistica della
nozione di «casa familiare». Essa viene a rilevare come universitas (Francolini 1999)
ossia, come complesso di beni organizzato e strutturalmente finalizzato al
soddisfacimento degli interessi dei soggetti beneficiari del vincolo di destinazione
stesso.
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Conseguentemente, la tutela del diritto all’assegnazione assurge anche a tutela
della personalità del singolo, componente di quel nucleo familiare, riconosciuto
nell’ambiente sociale, anche in relazione a quella casa e agli arredi che la costituivano
(Macario 1998).
2. 1. I presupposti dell’assegnazione.
Circa i presupposti dell’assegnazione della casa di famiglia, mentre l’art. 155, 4°
co., c.c., in sede di separazione, dispone che essa spetti «di preferenza, e ove sia
possibile, al coniuge cui vengono affidati i figli» diversamente, la normativa sul
divorzio richiama dei parametri più elastici, prevedendo non solo l’assegnazione della
casa familiare al genitore affidatario dei figli minori, ma anche al genitore «con il
quale i figli convivono oltre la maggiore età» e, inoltre, sottolineando che «in ogni
caso, ai fini dell’assegnazione, il giudice dovrà valutare le condizioni economiche dei
coniugi e le ragioni della decisione e favorire il coniuge più debole» (art. 6, 6° co., l.
n. 898/1970).
Vista la diversità dei criteri individuati dalle due norme, per lungo tempo la
giurisprudenza, configurando in termini di “eccezionalità” il potere del giudice in
ordine all’assegnazione della casa di famiglia, negò l’utilizzabilità, in sede di
separazione, dei parametri previsti in materia di divorzio (Cass. 09.02.1990, n. 901,
RFI, 1990, Separaz. coniugi, 66), nonché, l’applicabilità dell’art. 155, 4° co.,
nemmeno in via analogica od estensiva, alle ipotesi in cui non sussista affidamento di
prole minorenne o convivenza con figli maggiorenni non indipendenti (Cass.
15.10.1994, n. 8426, DFP, 1995, 984).
Solo a seguito della pronuncia della Cassazione, n. 7865 del 1994, la questione
venne in parte risolta, in quanto si riconobbe che
«l’istituto (...) dell’assegnazione della casa familiare rappresenta un classico esempio della
intercambiabilità della disciplina tra separazione e divorzio»
e che, quindi, le disposizioni sul divorzio debbono considerarsi direttamente
applicabili anche alla separazione personale, nonostante la dizione più restrittiva
dell’art. 155, 4° co., c.c, che tuttavia
«non esclude affatto che il giudice, nell’esercizio dei suoi poteri discrezionali, possa
affidare la casa coniugale all’altro coniuge con cui convivono i figli anche se non più
minorenni»
(Cass. 26.09.1994, n. 7865, DFP, 1995, 978).
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Chiarito come l’assegnazione della casa di famiglia possa essere disposta, sia in
sede di separazione che di divorzio, tanto a favore del coniuge affidatario, quanto di
quello convivente con figli maggiorenni non ancora economicamente autosufficienti
(Cass. 02.07.1990, n. 6774, GC, 1990, I, 2258; da ultimo, Cass. 12.03.2004, n. 5090,
Riv. not. 2005, 111; nonché, Cass. 22.01.1998, n. 565, GI, 1999, 34) o non autonomi
da un punto di vista psico-fisico (Cass. 20.12.2001, n. 16027, MCC, 2001) è, invece,
tuttora incerto se il criterio dell’affidamento dei figli sia da considerarsi un fattore
essenziale o solo un criterio preferenziale, con la conseguenza che anche nelle ipotesi
in cui non vi siano figli minori o ve ne siano maggiorenni autosufficienti si possa
prescindere dalla titolarità (dell’immobile, o del contratto di locazione) e disporsi
l’assegnazione a favore del coniuge economicamente più debole. Tesi, in base alla
quale l’assegnazione della casa familiare diviene non solo uno strumento di garanzia
e protezione dei figli, ma anche di tutela del coniuge più debole e di riequilibrio delle
condizioni economiche dei due coniugi (Bianca 2001).
A volte questo risultato viene attuato mediante il coordinamento tra la disciplina in
esame e l’art. 156 c.c. che attribuisce al coniuge economicamente debole, cui non è
addebitabile la separazione, il diritto di ricevere dall’altro «quanto è necessario al suo
mantenimento». Seguendo tale impostazione, ad esempio, si è riconosciuto che
«il godimento della casa familiare può essere assegnato dal giudice della separazione anche
al coniuge che non sia affidatario dei figli minori (e, quindi, al di fuori del caso contemplato
dall'art. 155, comma 4, c.c.), qualora tale assegnazione trovi giustificazione in sede di
regolamentazione dei rapporti patrimoniali tra i coniugi medesimi, nel senso che configuri
una componente in natura dell'obbligo al mantenimento dell'uno a favore dell'altro»
(Cass. 07.07.1997, n. 6106, FD, 1998, 161).
o si è affermato che
«nell'ipotesi in cui la casa coniugale appartenga in comproprietà ad entrambi i coniugi,
manchino figli minori o figli maggiorenni conviventi con uno dei genitori, ed entrambi i
coniugi rivendichino il godimento esclusivo della casa coniugale, l'esercizio del potere
discrezionale del giudice della separazione non può trovare altra giustificazione se non
quella che, in presenza di una sostanziale parità di diritti, può essere favorito il solo coniuge
che non abbia adeguati redditi propri, al fine di consentirgli la conservazione di un tenore di
vita corrispondente a quello di cui godeva in costanza di matrimonio»
(Cass. 28.01.1998, n. 822, FD, 1998, 125).
Altre volte invece si è affermato che tale norma
«consente il sacrificio della posizione del coniuge titolare di diritti reali o personali
sull'immobile adibito ad abitazione coniugale, mediante assegnazione della stessa in sede di
divorzio all'altro coniuge, solo alla condizione della sua convivenza con figli minori o
maggiorenni non economicamente autosufficienti. In assenza di tale condizione, coerente
con la finalizzazione dell'istituto alla tutela della prole, l'assegnazione non può essere
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disposta, in favore del coniuge ritenuto economicamente più debole, in funzione integrativa
o sostitutiva dell'assegno divorzile, dovendo per converso tenersi conto, ai fini della
determinazione di detto assegno, dell'eventuale esborso economico del coniuge per le
proprie esigenze abitative.
(Cass. 01.12.2004 n. 22500, GC Mass. 2004).
La giurisprudenza prevalente, infatti, sia pure in modo oscillante e contraddittorio,
è orientata nel senso di ammettere l’assegnazione della casa di famiglia solo in
presenza di figli minorenni o maggiorenni conviventi, non autonomi (Cass. Sez. U.
28.10.1995, n. 11297, GC, 1991, I, 1467; ultimamente, Cass. 18.09.2003, n.13747,
GC Mass, 2003; Cass. 12.01.2000 n. 266, GC, 2000, I, 317; Cass. 18.09.2001, n.
11696, RGI, 2001, Matrimonio, 89; Cass. 06.07.2004, n. 12309, GC Mass, 2004;Trib.
Nola, 23.06.2004, Gius 2004, 3503).
Al riguardo, si è osservato come
«tale interpretazione sembra invero contrastare con la ragione stessa della norma (art. 155,
c.c. n.d.r.), da ravvisarsi propriamente nell’esigenza di garantire nei limiti del possibile alla
comunità familiare residua, all’esito della separazione personale dei coniugi, la
conservazione dell’ambiente di vita della famiglia. A tale stregua, non si comprende perché,
pur in presenza di una specifica attribuzione in suo favore, l’interesse del beneficiario,
anch’esso membro della comunità familiare residua, che abbia dei figli, sarebbe da
considerarsi di per sé del tutto irrilevante, diversamente dall’interesse di questi ultimi che
verrebbe così a risultare meritevole di tutela in via esclusiva»
(Scarano 2001, 151).
A ben vedere, l’interesse dell’assegnatario a volte viene preso in considerazione ai
fini dell’attribuzione, ma solo per tutelare le ragioni del coniuge proprietario e negare
che la casa debba essere assegnata
«al coniuge economicamente più debole, che non vanti sulla stessa diritti reali o di
godimento, neanche se a lui siano affidati figli minori o con lui convivano figli maggiorenni
non ancora economicamente autosufficienti, qualora l'equilibrio delle condizioni
economiche dei coniugi e la tutela di quello più debole possano essere perseguiti altrimenti»
(Cass. 21.06.2002, n. 9071, MCC, 2002).
2. 2. Il provvedimento giudiziale di attribuzione della casa coniugale. Natura del
diritto ed opponibilità ai terzi.
Il problema della qualificazione della situazione giuridica che si costituisce in capo
all’assegnatario per effetto del provvedimento giudiziale di attribuzione del
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godimento dell’immobile è stato in passato uno dei più dibattuti, in quanto dalla sua
soluzione dipendeva il riconoscimento o meno dell’opponibilità dell’assegnazione nei
confronti dei terzi. Problematica, questa, di evidente rilevanza, riguardando tanto la
necessità di tutelare il diritto dell’assegnatario a conseguire l’effettivo godimento
dell’immobile, quanto la necessità di tutelare il diritto acquistato dal terzo
sull’immobile stesso.
Solo a seguito dell’intervento della legge n. 74/87 e della successiva pronuncia
della Corte costituzionale n. 454/89, che hanno contribuito a risolvere la questione
dell’opponibilità del provvedimento di assegnazione, affermando che esso sia
opponibile al terzo acquirente tanto nell’ipotesi di divorzio che di separazione, la
questione della natura del diritto dell’assegnatario ha perso parte del suo interesse.
Prima di tali interventi la posizione dell’assegnatario veniva fatta derivare
direttamente dalla natura del titolo sul quale il provvedimento di assegnazione andava
ad incidere.
Qualora l’alloggio fosse stato condotto in locazione, da entrambi o da uno soltanto
dei due coniugi, poiché l’art. 6, 2° co., della l. n. 392/78, relativo alla disciplina delle
locazioni di immobili urbani, prevedeva il fenomeno della successione nel contratto di
locazione del coniuge non conduttore, assegnatario della casa familiare, si
riconosceva che il provvedimento di assegnazione, sia nell’ipotesi di separazione che
di divorzio, fosse opponibile al terzo acquirente ai sensi dell’art. 1599, c.c..
Successivamente, la legge sul divorzio estese espressamente l’opponibilità del
provvedimento di assegnazione al terzo acquirente dell’immobile stesso con l’art. 11,
6° co., della legge n. 74/1987, il quale, modificando l’art. 6, 6° co., l. divorzio, stabilì
«l’assegnazione, in quanto trascritta, è opponibile al terzo acquirente ai sensi dell’art. 1599
del codice civile»
(Art. 6, 6° co, l. 01.12.1970, n. 898).
Un’evidente disparità di trattamento si era venuta a creare, quindi, nella diversa
ipotesi in cui oggetto di assegnazione, in sede di separazione, fosse stato un’immobile
di proprietà dell’altro coniuge, poiché, si riteneva che non fosse applicabile
analogicamente la disciplina in tema di locazioni (Cass. 16.10.1985, n. 5082, FI,
1986, I, 1317) e che, anzi, il diritto di abitazione si estinguesse con la vendita
dell’immobile a terzi (Cass. 31.01.1986, n. 624, GI, 1987, I, 1, 1293).
Tale questione, tuttavia, portata davanti alla Corte Costituzionale, venne risolta
con la declatoria di illegittimità dell’art. 155, 4° co., c. c.
«nella parte in cui non prevede l’opponibilità al terzo acquirente del provvedimento
giudiziale di assegnazione della casa familiare al coniuge affidatario della prole mediante
trascrizione»
(Corte cost. 27.07.1989, n. 454, FI, 1989, I, 3336).
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Si ritenne, infatti, che questa diversità di trattamento fosse del tutto priva di
giustificazione essendo le due situazioni sorrette da una medesima ratio, ossia dalla
considerazione esclusiva dell’«interesse morale e materiale della prole».
Risolti questi aspetti, l’unica questione ancora oggetto di qualche incertezza,
riguardava la necessità, ai fini dell’opponibilità del provvedimento di assegnazione
pronunciato tanto in sede di separazione che di divorzio, della sussistenza in ogni
caso della trascrizione ovvero se, anche in assenza di tale trascrizione, esso fosse
opponibile, sia pur nei limiti fissati dall’art. 1599 c.c..
Anche tale problema, tuttavia, è stato affrontata da una recente pronuncia delle
Sezioni Unite della Corte di cassazione, che, confermando un principio, in realtà, già
affermato dalla Corte costituzionale con l’ordinanza n. 20 del 1990 (Corte cost., ord.
23.01.1990, n. 20, RFI, 1990, Separaz. coniugi, 71) ha riconosciuto che
«ai sensi dell’articolo 6, comma 6, della legge 74/1987 il provvedimento giudiziale di
assegnazione della casa familiare (in quanto avente per definizione data certa) è opponibile
al terzo acquirente in data successiva anche se non trascritto, per nove anni decorrenti dalla
data dell’assegnazione, ovvero anche dopo i nove anni ove il titolo sia stato in precedenza
trascritto»
(Cass. Sez. U. 26.07.2002, n.11096, MCC, 2002; recentemente, Cass.10.06.2005, n. 12296.
GC Mass, 2005).
La scelta è stata quella di riconoscere al coniuge assegnatario un titolo comunque
opponibile al terzo acquirente, così da porlo al riparo da iniziative dell’altro coniuge
proprietario idonee a frustrare la decisione del giudice, ravvisando quale elemento di
composizione tra i diversi interessi in conflitto, la limitazione nel tempo, in difetto di
trascrizione, dell’opponibilità del provvedimento.
Si è infatti ulteriormente ribadito che per il periodo eccedente i nove anni
«il provvedimento di assegnazione in tanto è opponibile al terzo acquirente in quanto sia
stato precedentemente trascritto, sicché è irrilevante la conoscenza in fatto da parte del terzo
dell'avvenuta assegnazione dell'immobile da lui acquistato, l'unica disciplina
dell'opponibilità essendo appunto quella derivante dalla trascrizione e dalla conoscibilità
legale dell'atto da parte del terzo».
(Cass. 02.04.2003, n. 5067, GI, 2004, 1176)
Recentemente, peraltro, si è rilevata la diseguaglianza esistente, in caso di
assegnazione in sede di separazione, tra la posizione del coniuge che sia anche
affidatario e quello che non lo sia, in quanto ex art. 155, 4° co., c.c. la trascrivibilità
del titolo è condizionata alla sussistenza dell’affidamento. Sul punto si è pronunciata
con ordinanza la Corte costituzionale (Corte cost., ord. 15.03.2002, n. 57, GiC, 2002,
2) dichiarando inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 155, 4°
co., c.c. in riferimento agli artt. 3, 29, 31 e 35 Cost., e sottolineando, tra l’altro, come
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in assenza di trascrizione sia comunque riconosciuta l’opponibilità ai terzi
dell’assegnazione della casa coniugale nei limiti del novennio.
Risolto, o quasi, il problema dell’opponibilità del provvedimento di assegnazione,
la questione della natura del relativo diritto ha perso parte della sua importanza. Al
riguardo, nelle limitate ipotesi in cui assume ancora rilevanza, la giurisprudenza
prevalente ha ritenuto, con una tesi che suscita non poche perplessità, che si tratti
«di un diritto personale atipico di godimento, ordinato alla tutela della prole, sempre
modificabile o revocabile, e non un diritto reale di abitazione»
(Cass. 17.09.2001, n.11630, GC, 2002, I, 57).
non mancano tuttavia tesi contrarie secondo cui
«L'assegnazione della casa familiare al coniuge separato rappresenta un diritto reale di
godimento (nella specie, diritto reale di abitazione) e non un diritto personale di credito o di
godimento (assimilabile al comodato). Pertanto, il coniuge assegnatario assume "in toto" la
qualità di soggetto passivo dell'i.c.i., al sensi dell'art. 3 del d.lg. n. 504 del 30 dicembre
1992».
(Comm.trib. prov.le Firenze, 01.03.2004, n. 59, DT, 2004, II,1062)
Quanto poi all’opponibilità del provvedimento di assegnazione nei casi, peraltro molto
frequenti nella pratica, in cui l’immobile sia stato concesso in comodato da parte di un
terzo per essere destinato a casa familiare,, la questione è stata oggetto di una recente
pronuncia da parte delle Sezioni unite della Corte di cassazione che ha chiarito come
«il successivo provvedimento di assegnazione in favore del coniuge affidatario di figli
minorenni o convivente con figli maggiorenni non autosufficienti senza loro colpa, emesso
nel giudizio di separazione o di divorzio, non modifica la natura ed il contenuto del titolo di
godimento sull'immobile, ma determina concentrazione, nella persona dell'assegnatario, di
detto titolo di godimento, che resta regolato dalla disciplina del comodato, con la
conseguenza che il comodante è tenuto a consentire la continuazione del godimento per l'uso
previsto nel contratto, salva l'ipotesi di sopravvenienza di un urgente ed impreveduto
bisogno, ai sensi dell'art. 1809, comma 2, c.c.»
e che pertanto nel caso di destinazione dell’immobile a casa familiare
«il dato oggettivo della destinazione a casa familiare, finalizzata a consentire un godimento
per definizione esteso a tutti i componenti della comunità familiare, comporta che il soggetto
che formalmente assume la qualità di comodatario riceva il bene non solo o non tanto a titolo
personale, quanto piuttosto quale esponente di detta comunità.
Per effetto della concorde volontà delle parti viene così a configurarsi un vincolo di
destinazione dell'immobile alle esigenze abitative familiari idoneo a conferire all'uso cui la
cosa doveva essere destinata il carattere di termine implicito della durata del rapporto, la cui
scadenza non è determinata, ma è strettamente correlata alla destinazione impressa ed alle
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finalità cui essa tende: né tale vincolo può considerarsi automaticamente caducato per il
sopravvenire della crisi coniugale, prescindendo quella destinazione, nella sua oggettività,
dalla effettiva composizione, al momento della concessione in comodato, della comunità
domestica, ed apparendo piuttosto indirizzata a soddisfare le esigenze abitative della
famiglia anche nelle sue potenzialità di espansione».
(Cass. Sez. U. 21.07.2004, n. 13603, RFI, 2004)
2.2.1. Assegnazione della casa coniugale in sede di separazione consensuale e
trascrivibilità del provvedimento.
Pur in mancanza di un intervento legislativo specifico, l’indirizzo dominante
ritiene che i coniugi, nell’ambito della separazione consensuale, possano raggiungere
un accordo che riproduce gli stessi effetti di cui all’art. 155, 4° co., c.c.; e che, in
questo caso, l’attribuzione della casa di famiglia contenuta nell’accordo di
separazione omologato, sia trascrivibile e, conseguentemente, opponibile ai terzi, al
pari del corrispondente provvedimento del giudice, emesso in sede di separazione
giudiziale o di divorzio
«a seguito della declaratoria di parziale illegittimità costituzionale dell'art. 155, comma 4
c.c. (...) anche l'assegnazione della casa coniugale disposta in favore dell'altro coniuge in
occasione della separazione, sia giudiziale che consensuale, è opponibile al terzo acquirente
quando il relativo titolo sia stato trascritto prima del suo atto d'acquisto»
(Cass. 27.05.1995, n. 5902, FI, 1996, I, 184).
Si riconosce che altrimenti si attuerebbe, in relazione alla separazione consensuale,
una disparità di trattamento assolutamente ingiustificata, essendo identico l’effetto
dell’attribuzione a prescindere da quale sia il titolo della separazione.
Pertanto, si è affermato, non senza contrasti in dottrina, che il verbale di
separazione (redatto da un ausiliario del giudice e destinato a far fede di ciò che in
esso è attestato) è atto pubblico, ai sensi e per gli effetti dell'art. 2699 c.c., e,
costituisce, dopo l'omologazione che lo rende efficace, titolo idoneo alla trascrizione
ai sensi dell’art. 2657 c. c. (Cass. 15.05.1997, n. 4306. FD, 1997, 417).
Al riguardo, inoltre, si è chiarito che
«l'assegnazione della casa coniugale a seguito di separazione consensuale dei coniugi è
suscettibile di trascrizione anche quando il verbale contenente gli accordi, omologati dal
tribunale, non indica compiutamente tutti i dati catastali dell'immobile»
(Trib. Verona 09.03.1994, FD, 1994, 441).
2.3. Rilevanza, funzione e valenza dell’attribuzione.
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Come già osservato, l’indirizzo maggioritario vede il tornare a prevalere la logica
“proprietaria” sulle ragioni del coniuge, anche se più debole, qualora non vi siano
figli minorenni o maggiorenni conviventi, non autonomi.
In queste ipotesi, infatti, si afferma che
«la norma è inapplicabile ed il giudice non ha il potere di emettere provvedimenti che
incidano, sacrificandolo o limitandolo, sul diritto di godere e di disporre della casa familiare,
spettante ad uno dei coniugi divorziati»
le esigenze del coniuge più debole potranno essere ugualmente soddisfatte, senza
sacrificare le ragioni dell’altro coniuge, affrontandole in termini puramente
economici, mediante il riconoscimento del diritto all’assegno di divorzio, o di
mantenimento
«nella determinazione del quale dovrà tenersi conto anche del «valore economico» del
perduto godimento dell'alloggio e della necessità, per il coniuge estromesso, di procurarsene
un altro, sopportando il relativo costo»
(Cass. Sez. U. 28.10.1995, n. 11297, FI, 1996, I, 121).
Si deve rilevare, inoltre, che in questi casi si riconosce che il godimento della casa
familiare costituisce
«un «valore economico» (corrispondente — di regola — al canone ricavabile dalla
locazione dell'immobile) e che di tale valore il giudice debba tener conto ai fini della
determinazione (o della revisione) dell'assegno dovuto ad uno dei coniugi e del complessivo
assetto dei rapporti patrimoniali tra i coniugi separati o divorziati, nella prospettiva della
realizzazione di un giusto equilibrio tra le condizioni economiche dei coniugi, anche dopo il
divorzio, e del favor per il coniuge più debole»
ma, si esclude che ciò sia sufficiente
«a dimostrare che l'istituto dell'assegnazione della casa familiare possa essere, in via di
principio, utilizzato in funzione non solo integrativa, ma anche alternativa rispetto
all'assegno di divorzio»
(Cass. Sez. U. 28.10.1995, n. 11297, FI, 1996, I, 121; ultimamente, Cass. 09.09.2002, n.
13065, MCC, 2002)
Non mancano, tuttavia, al riguardo, pronunce di segno opposto, in cui si afferma
che
«l’assegnazione della casa familiare, in assenza di figli, può essere utilizzata come
strumento per realizzare (in tutto o in parte) il diritto al mantenimento del coniuge privo di
adeguati redditi propri nel quadro dell’art. 156, primo comma, c.c.»
(Cass. 11.04.2000, n. 4558, RGI, 2000, Separaz. coniugi, 75).
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In ogni caso comunque la giurisprudenza, in queste ipotesi, tende a escludere una
valenza per così dire morale all’attribuzione del diritto di abitare la casa familiare,
arrivando al massimo a considerarla quale componente in natura dell’assegno di
mantenimento o di divorzio.
Trattandosi di una materia che trova la sua giustificazione proprio nell’esigenza di
tutelare diritti e istituti costituzionalmente garantiti, quali la famiglia, i figli, nonché
la finalizzazione della proprietà a salvaguardia della solidarietà post-coniugale
(Scarano 2001, 153), la dottrina ha rilevato come susciti non poche perplessità questa
scarsa considerazione dell’aspetto morale dell’attribuzione, del suo fondarsi sui
doveri di solidarietà ancora operanti tra i componenti del disciolto nucleo familiare, in
quanto rischia di produrre decisioni dubbie quale, ad esempio, quella in cui si afferma
che
«in assenza di figli, ogni provvedimento giudiziale concernente il godimento della casa
familiare può essere preso, nel corso del giudizio di separazione e dopo di esso, solo nel
quadro della disciplina dei rapporti patrimoniali tra coniugi; la decisione di attribuire
temporaneamente l'alloggio in godimento esclusivo al coniuge che non ne sia proprietario
(...) senza imporgli alcun corrispettivo a favore dell'altro, deve, quindi, intendersi adottata sul
presupposto che la mancanza di corrispettivo costituisca un modo per provvedere (o quanto
meno per contribuire) al mantenimento del coniuge beneficiario, con la conseguenza che,
ove al termine del giudizio di separazione risulti l'inesistenza di tale diritto al mantenimento,
il proprietario ha diritto ad una reintegrazione patrimoniale»
(Cass. 23.03.1985, n. 2083, NGCC, 1985, I, 569).
Scarsamente considerato, inoltre, è come l’art. 155, 4° co, c.c. non costituisca una
limitazione alla proprietà, esplicando ugualmente i suoi effetti nei confronti della casa
coniugale, indipendentemente dalla situazione giuridica di cui essa costituisce il
termine di riferimento oggettivo, ma riconosca il diritto all’abitazione della casa
familiare, in conformità al vincolo di destinazione in funzione dell’interesse della
famiglia. Tesi che permetterebbe di riconoscere, in particolari circostanze di
“debolezza”, l’ammissibilità dell’assegnazione al coniuge non affidatario, qualora ciò
rispondesse all’esigenza di tutela della personalità del soggetto più debole, che si
vedrebbe improvvisamente estromesso dalla sua dimensione familiare (Pret. Bari,
ord. 17.06.1997, FI, 1998, I, 1685).
2. 4. Assegnazione parziale e divisione dell’immobile.
L’esigenza di bilanciare interessi diversi ha portato la giurisprudenza in alcuni casi
ad ammettere la suddivisione tra i coniugi del godimento della casa familiare,
riconoscendo che in base all’art. 155, 4° co., c. c.
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«il giudice, non solo ha il potere di non effettuare quell'assegnazione, ove non necessario
o, comunque, non opportuna, ma anche quello di limitarla alla parte occorrente ai bisogni
delle persone conviventi della famiglia (...) tenendo conto anche delle necessità di vita
dell'altro coniuge in relazione alle possibilità di godimento separato ed autonomo
dell'immobile»
(Cass. 11.11.1986, n. 6570, AC, 1987, 37).
L’assegnazione parziale, chiaramente, è condizionata dalla situazione concreta ed
è da escludersi qualora l’immobile sia “ragionevolmente” indivisibile per struttura,
ridotte dimensioni o per l’acuta conflittualità tra i coniugi (Cass. 07.07.1997, n. 6106,
FD, 1998, 161).
Ma è stata anche esclusa quando si è riconosciuto che
«la divisione a metà dell'abitazione (sia pure "comodamente" eseguibile, dal punto di vista
materiale) avrebbe costituito un rischio per il conveniente soddisfacimento del diritto dei
figli alla conservazione dell'habitat domestico.
(Cass.26.06.2004, n. 10102, Vita not, 2004, 969)
Quanto invece alla possibilità di esperire l'azione di scioglimento della comunione
avente ad oggetto la casa familiare di proprietà di entrambi i coniugi già assegnata ad
uno di essi, in passato la giurisprudenza ne affermava l’inammissibilità in base alla
considerazione che tale domanda avrebbe alterato, ridotto o pregiudicato il diritto di
godimento abitativo dell'assegnatario (Trib. Roma 04.04.1985, FD, 1985, 629).
Attualmente, la giurisprudenza invece ne riconosce l’ammissibilità (Trib. Bologna
21.01.1993, NGCC, 1994, I, 700) sottolineando come la divisione non possa
modificare la destinazione dell’immobile a casa familiare così come consacrata nel
provvedimento giudiziale di assegnazione. Al riguardo la dottrina ha sottolineato
come
«ciò che è vietato al coniuge-proprietario, non è la richiesta di scioglimento della
comunione ma la cessazione, unilaterale, per suo fatto, della destinazione dell’immobile, con
il suo arredo, nella funzione di residenza familiare, cessazione che non è affatto,
intimamente connessa con la domanda di divisione»
(Finocchiaro 1992).
Riconosciuta l’opponibilità verso i terzi del provvedimento di assegnazione, è
evidente come i diritti dell’assegnatario non possano venir pregiudicati dalla divisione
sia nell’ipotesi che parte della casa venga alienata a terzi, sia qualora si vengano a
creare due unità distinte ciascuna di proprietà di un coniuge, in quanto in ogni caso il
coniuge assegnatario conserverebbe il diritto ad abitare l’intera casa, in virtù del
provvedimento giudiziale di assegnazione.
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3. Casa familiare e famiglia di fatto.
Da anni si discute sulla necessità di tutelare le convivenze more uxorio e sugli
strumenti più adatti a tal fine, sottolineando come per “famiglia” dovrebbe intendersi
non solo la famiglia fondata sul matrimonio ma anche ogni altra modalità del
convivere che diventi “luogo degli affetti” e “comunità di interessi” dove si assicura
alla prole mantenimento, istruzione ed educazione (Ferrando 1977, 934).
Nell’attesa la tutela viene riconosciuta in modo episodico, mediante isolate
pronunce giudiziarie, che soprattutto mirano al fine esclusivo di tutelare la filiazione e
l’interesse del minore, non prendendo affatto posizione circa il rapporto di
convivenza.
Sulla questione dell’assegnazione della casa familiare a seguito della cessazione
della convivenza more uxorio, si è pronunciata la Corte costituzionale che in tale
occasione ha riconosciuto l’ammissibilità dell’assegnazione della casa di famiglia al
convivente affidatario, fondandola non sull’equiparazione tra disciplina del rapporto
coniugale e disciplina della convivenza, ma sul rapporto di filiazione e sulle norme
ad esso relative. In quanto, secondo la Corte, l’imposizione di norme in via analogica
a coloro che non hanno voluto assumere i diritti e i doveri inerenti al rapporto
coniugale potrebbe tradursi in un’inammissibile violazione della libertà di scelta tra
matrimonio e forme di convivenza.
Nella decisione, quindi, si afferma che
«la mancanza di una disciplina corrispondente all'art. 155, 4º comma, c.c. - sul
preferenziale affidamento della casa familiare, in caso di separazione o scioglimento del
matrimonio, al coniuge affidatario dei figli minori o non economicamente autosufficienti per l'ipotesi in cui un analogo affidamento al genitore naturale avvenga quando cessi un
rapporto di convivenza di fatto, non contrasta, di per sé, con gli art. 3 e 30 cost.; si può
trarre, infatti, da un'interpretazione sistematica delle norme sulla filiazione (art. 261, 147,
148 e 317 bis c.c.) la regula iuris da applicare in concreto, senza ricorrere all'analogia o ad
una declaratoria di incostituzionalità e facendo valere il principio di responsabilità
genitoriale, indipendentemente dalla qualificazione dello status dei figli, per il
soddisfacimento dei bisogni di mantenimento della prole, primo fra tali bisogni quello della
conservazione e del godimento dell'ambiente domestico, quale centro di affetti, interessi e
consuetudini di vita necessario all'armonica formazione della personalità del figlio»
(Corte cost. 13.05.1998, n. 166, GI, 1998, 1783).
Al riguardo recentemente si è ulteriormente evidenziato che tale diritto
«che fa leva sul principio di responsabilità genitoriale, immanente nell'ordinamento e
ricavabile dall'interpretazione sistematica degli articoli 261 (che parifica doveri e diritti del
genitore nei confronti dei figli legittimi e di quelli naturali riconosciuti), 147 e 148
(comprendenti il dovere di apprestare un'idonea abitazione per la prole, secondo le proprie
sostanze e capacità) c.c., in correlazione all'articolo 30 della Costituzione - è attribuito dal
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giudice al coniuge (o al convivente), qualora ne sussistano i presupposti di legge, con
giudizio di carattere discrezionale (Cass. nn. 376/1999, 10797/1998, 10538/1996), non
suscettibile di sindacato in sede di legittimità (Cass. n. 9163/1995) se logicamente ed
adeguatamente motivato».
(Cass.26.06.2004, n. 10102, Vita not, 2004, 969; analogamente Trib. Foggia, 09.08.2002,
Familia 2003, 244)
In realtà, già prima della pronuncia della Consulta, la giurisprudenza aveva
raggiunto analoghi risultati ricorrendo all’applicazione analogica dell'art. 155, 4° co.,
c. c. (Trib. Palermo 20.07.1993, FI, 1996, I, 122) e affermando che
«in presenza di un conflitto tra conviventi more uxorio, pregiudizievole ai figli minori, il
tribunale per i minorenni può disporre l'affidamento degli stessi alla madre, attribuendo a
quest'ultima il godimento esclusivo dell'abitazione familiare di cui è coinquilina, con
conseguente allontanamento dell'altro genitore tenuto a provvedere al mantenimento dei figli
e, per la metà, alle spese relative alla locazione di detta abitazione»
(Trib. minorenni Bari 11.06.1982, FI, 1982, I, 2032).
Circa l’opponibilità verso i terzi di tale assegnazione, recentemente la questione è
stata oggetto di una pronuncia da parte della Corte Costituzionale, che chiamata a
giudicare sulla legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 30 della
Costituzione, degli artt. 261, 147 e 148, 2643 numero 8, 2652, 2653 e 2657 del codice
civile, nella parte in cui non consentono la trascrizione del titolo che riconosce il
diritto di abitazione del genitore affidatario della prole naturale, che non sia titolare di
diritti reali o di godimento sull'immobile, ha affermato che
«Se la ratio sottesa all'istituto dell'assegnazione della casa familiare e alla trascrizione del
relativo provvedimento è da ravvisarsi nel preminente interesse morale e materiale dei figli,
la conservazione del vincolo di destinazione impresso all'abitazione domestica deve essere
garantita agli stessi a prescindere dalle circostanze della nascita: i figli legittimi, di genitori
che abbiano ottenuto la separazione, lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del
matrimonio, ed i figli naturali debbono poter fare assegnamento su un identico trattamento e
vedersi garantiti gli stessi strumenti di tutela, anche nei confronti di terzi controinteressati»
ma anche che
«a tal fine, peraltro, non è necessaria una norma esplicita, dal momento che la regula iuris
è immanente al sistema e si ricava per via interpretativa applicando il principio di
responsabilità genitoriale: l'assenza di una norma ad hoc che riconosca specificamente la
trascrivibilità del provvedimento di assegnazione della casa familiare al genitore affidatario
della prole naturale non impedisce, anzi suggerisce, di trarre la regola da applicare da
un'interpretazione sistematica delle norme del codice civile in tema di tutela della filiazione,
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lette alla luce del principio di responsabilità genitoriale di cui all'art. 30 della Costituzione e
del superiore interesse del figlio alla conservazione dell'abitazione familiare. Pertanto, come
il diritto del figlio naturale a non lasciare l'abitazione in seguito alla cessazione della
convivenza di fatto fra i genitori non richiede un'apposita previsione, anche il diritto del
genitore affidatario di prole naturale ad ottenere la trascrizione del provvedimento di
assegnazione non necessita di un'autonoma previsione, dal momento che risponde alla stessa
ratio di tutela del minore ed è strumentale a rafforzarne il contenuto: il dovere di mantenere,
istruire ed educare i figli e di garantire loro la permanenza nel medesimo ambiente in cui
hanno vissuto con i genitori deve essere assolto tenendo conto, prima che delle posizioni di
terzi, del diritto che alla prole deriva dalla responsabilità genitoriale prevista dall'art. 30 della
Costituzione e tesa a favorire il corretto sviluppo della personalità del minore»
(Corte Cost. 12.10.2005 n. 394, RFI, 2005)
Quanto poi alla diversa ipotesi in cui i conviventi siano nel godimento dell’immobile
a titolo di locazione, ma titolare sia soltanto uno di essi, la posizione dell’altro
convivente, qualora venga a cessare la convivenza stessa e purché vi sia prole
naturale, ha trovato anch’esso tutela a seguito di un precedente intervento della Corte
costituzionale n. 404/88, che ha dichiarato
«illegittimo, per violazione degli art. 3 e 2 cost., l'art. 6, l. 27 luglio 1978, n. 392,
(disciplina delle locazioni di immobili urbani, n.d.r.) nella parte in cui non prevede la
successione nel contratto di locazione al conduttore che abbia cessato la convivenza more
uxorio a favore del già convivente, quando vi sia prole naturale»
(Corte cost. 07.04.1988, n. 404, FI, 1988, I, 2515).
dott.ssa Rosamaria Ferorelli
dottore di ricerca
Università degli studi di Bari
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