1 - Macrobiotica

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Leibniz
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La visione del mondo di Spinoza è mistico-religiosa: una visione estremamente coerente, cristallina, ma
all’interno della quale la nostra realtà di singoli individui finisce per sciogliersi nell’eterna realtà dell’Essere.
In questo modo Spinoza aveva ottenuto ciò che cercava: la verità alla luce della quale tutti i problemi
esistenziali finivano per sparire; in effetti, se si riesce a entrare nell’ottica spinoziana, i problemi quotidiani
diventano assolutamente illusori in quanto transeunti perchè di fronte all’eterna realtà di Dio nella quale noi
siamo compresi è chiaro che è ignoranza e arroganza sottolineare la dimensione esistenziale. Per questo la
filosofia di Spinoza è una filosofia per pochi, è una filosofia adatta per chi ha già una vocazione mistica.
Leibniz è praticamente un coetaneo di Spinoza però gli sopravvive di parecchio, morirà nel 1716, e inserisce
in una visione del mondo profondamente religiosa la dimensione che potremmo definire cartesiana, nella quale
si sottolinea la realtà assolutamente irrinunciabile dell’io, dell’io come individuo, naturalmente eliminando quella
che dal punto di vista leibniziano e, soprattutto, spinoziano è l’arroganza di Cartesio.
Cartesio, infatti, prima mette a fuoco l’unica verità indubitabile a cui il filosofo può giungere, la certezza della
propria esistenza come individuo, con il Cogito ergo sum, -io penso, dubito, mi pongo problemi dunque io esistoe poi partendo da questa certezza dimostra l’esistenza di Dio che, in un certo senso, si riduce ad essere una
conseguenza del fatto che io sono cosciente di esistere. Si è certi della esistenza di Dio soltanto dopo che
l’essere umano ha posto se stesso come realtà indubitabile.
Leibniz è stato uno dei primi filosofi europei a conoscere culture orientali come il taoismo e lo shintoismo e a
rimanerne affascinato e, se a questa considerazione aggiungiamo che per apprezzare Leibniz bisogna aver
intuito Pitagora ed Eraclito, ecco spiegato perché Leibniz da vivo è stato molto stimato come matematico, come
fisico, come teologo, come studioso della natura in genere, ma come filosofo non venne apprezzato perché le
conoscenze che egli raggiunse a livello eccezionale nelle singole discipline, nella sua filosofia finiscono per
confluire dando origine a un sapere universale, per cui all’interno della sua visione del mondo entrano così tanti
stimoli che bisogna avere un po’ la sua forma mentis per non rimanere interdetti da quelle che possono apparire
contraddizioni.
Ancora un’osservazione per chiudere questa introduzione al pensiero di Leibniz come filosofo: negli ultimi anni
della sua vita si è impegolato maldestramente in una discussione poco simpatica con Newton su chi dei due
avesse scoperto per primo il calcolo infinitesimale. A quel tempo si concluse che era stato Newton, perché
quest’ultimo era un grande ricercatore e studioso che non aveva nessuna fretta di pubblicare le sue ricerche -la
legge sulla gravitazione universale venne da lui illustrata alla Royal Society diversi anni dopo la sua scopertaperché era anche lui un grandissimo scienziato che aveva molti interessi e, non avendo problemi di
sopravvivenza, non ambiva a riconoscimenti che potessero fruttargli benefici economici. Si appurò poi in seguito,
invece, che sia Newton che Leibniz sono arrivati in modo perfettamente autonomo alla scoperta del calcolo
infinitesimale e, quindi, non è che uno abbia copiato dall’altro come a quei tempi qualcuno malignamente disse.
Ci si rese conto, poi, che il metodo di calcolo leibniziano era migliore di quello newtoniano, per cui oggi usiamo
la versione di calcolo infinitesimale di Leibniz.
Abbiamo accennato al fatto che fu affascinato anche dal pensiero orientale ed è stato, per quanto ci risulta, il
primo filosofo occidentale che abbia conosciuto l’I King, l’antichissimo strumento divinatorio cinese che, si dice,
risalga a tempi antichissimi, ben prima dell’era cristiana.
Leibniz era convinto che il Taoismo con lo yin e lo yang avesse messo a fuoco quella che anche per lui era la
dimensione ultima dell’Essere; egli soleva dire, assolutamente non capito dai suoi contemporanei, che tutto il
mondo si regge sulla logica binaria, lo 0-1. Una affermazione che, detta oggi, può essere ritenuta banale, dal
momento che su questa logica è basato il funzionamento dei computers che ci stanno rivoluzionando la vita. Ai
tempi di Leibniz era una affermazione che risultava assolutamente incomprensibile anche alla maggior parte dei
filosofi e dei matematici.
Le contrapposizioni yin-yang e 0-1 sintetizzano una dottrina filosofica che spiega il mondo ed è, soprattutto
per noi occidentali, difficile da afferrare ma, una volta intuita, diventa un potente strumento di interpretazione
della realtà. Su questa intuizione si basano culture come lo shintoismo e il taoismo e le filosofie di Eraclito e di
Pitagora che, proprio per questo, sono sempre risultate poco comprensibili mentre, per quei pochi che ne
avevano afferrato il principio, si rivelavano preziosi strumenti di guida nelle scelte di vita.
L’essere e il nulla si costituiscono come i due principi opposti e complementari all’”interno” dell’Assoluto:
quest’ultimo è al di là di qualunque possibile comprensione da parte dell’uomo mentre i due principi vengono
colti dalla maggior parte degli esseri umani come assolutamente opposti. Coloro invece, e sono sempre stati una
minoranza, che riescono a coglierne la complementarietà intuiscono che dalla loro dialettica interazione il mondo
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emerge come realtà in una infinita dimensione di equilibri dinamici tra queste due forze che mai giungono ad
annientarsi reciprocamente perché anzi, in realtà, si cercano l’un l’altra.
Per accostarsi al pensiero leibniziano non c’è nulla di meglio de La monadologia, un’opera brevissima, sintesi
efficace del suo pensiero, che consta di 90 tesi che si collegano l’una all’altra. Queste tesi si succedono in
ordine logico anche se non sono tra loro concatenate in modo dimostrativo, tale da rendere il discorso fluido e di
facile comprensione: ciascuna di esse, cioè, condensa tutto un discorso che viene approfondito nelle opere
leibniziane precedenti per cui il lavoro è, oggettivamente, difficile da capire per chi non ha già approfondito il
pensiero di questo filosofo nelle sue linee generali. E’ un’opera tuttavia capace di offrire a qualunque lettore
spunti di riflessione eccezionali.
Si racconta che Eugenio di Savoia, un grande generale coetaneo di Leibniz, portasse sempre con sé anche
durante le campagne militari, chiuso nella cassaforte della sua tenda, il manoscritto leibniziano su cui, tempo
permettendo, amava riflettere.
Si è detto che è un’opera che può essere letta da chiunque ma, chiaramente, rivela la sua dimensione di
profondità nella misura in cui si è già filosoficamente ferrati; tuttavia, pur digiuni di filosofia, se la si legge offrirà
comunque spunti interessanti di riflessione e se la si rilegge alcuni anni dopo si scopriranno molte cose in più,
già solo per l’esperienza maturata ulteriormente dal lettore.
E’ un’opera veramente eccezionale ma, ancora una volta, occorre sottolineare che, proprio perché
presuppone la metalogica eraclitea e taoista, si rivela in profondità a coloro che hanno la mente sgombra da
schemi precostituiti.
Per avere un’idea delle difficoltà ad interpretare il pensiero leibniziano basta leggere le prime tesi della sua
Monadologia, dove definisce la monade: ad una lettura superficiale, potranno apparire affermazioni banali o
addirittura insensate, mentre tutto cambia se si tiene presente che alla base della sua visione del mondo vi è
l’affermazione che il pensiero, l’energia spirituale è alla base della realtà che chiamiamo materia. Bisognerà
arrivare nel ventesimo secolo per trovare che in campo scientifico simili affermazioni incominciano ad essere
accettate come possibili ipotesi di lavoro in una ricerca che, nel mantenere l’eredità democritea del presupposto
della esistenza di una particella ultima e indivisibile della realtà materiale, si è resa conto di avere imboccato una
strada senza uscita.
A volte nella scuola non si parla dei Presocratici nè di filosofi come Leibniz, perché non direbbero niente di
importante. D’altra parte nelle scuole italiane intorno alla metà del secolo scorso c’erano insegnanti che non
inserivano nel programma di esame Marx, Freud e Nietzsche perché “corruttori di giovani”.
Ancora, Leibniz è stato un rosacroce, quindi portatore di un sapere esoterico e quindi il suo discorso per
essere capito oltre una certa soglia richiede chiavi di interpretazione un po’ particolari che presuppongono la
capacità di rimettere in discussione le nostre certezze tipicamente occidentali.
Abbiamo detto che l’intento fondamentale di Leibniz è quello di conciliare l’esistenza di Dio, intesa come
dimensione unica, assoluta, onnipervadente di tipo spinoziano e parmenideo, con la realtà di ciascuno di noi.
Leibniz cerca di rimanere all’interno dell’ortodossia cristiana ma, nel momento in cui spinge la sua ricerca e la
sua spiegazione filosofica sul piano esoterico, esce dall’ortodossia.
Le affermazioni dell’ortodossia cristiana, e qui Cattolici e Protestanti non hanno differenze sostanziali tra loro,
sul piano della logica filosofica arrivano a grosse ingenuità. Per esempio, nel momento in cui si afferma che
l’anima individuale è stata creata da Dio nell’attimo del concepimento e quest’anima, poi, ha una dimensione
eterna, così come quando si afferma che Dio ha creato il mondo che prima non c’era e che poi sparirà
nuovamente nel nulla, introducono nell’Essere divino la dimensione tempo.
I teologi si rendono conto che tutto ciò pone problemi dal punto di vista filosofico e allora dichiarano che è un
mistero per la mente umana e a questo punto si blocca la ricerca.
Il filosofo riconosce la necessità che l’indagine sul senso della vita debba arrestarsi di fronte al mistero, ma un
conto è procedere in una ricostruzione logicamente rigorosa della realtà che porta fino ai due principi opposticomplementari dell’essere e del nulla come ultimo gradino comprensibile, prima di accettare come mistero la
compresenza-identità dei due principi nell’Assoluto; diverso è, invece, l’affermazione che un Dio, di cui l’uomo
può con certezza avere “notizie cognitivamente chiare” ha deciso che il mondo esista e che in seguito scompaia
nuovamente nel nulla: qui abbiamo la ricerca che si sviluppa su un sentiero che si interrompe di fronte al mistero
della nascita dell’uomo per poi riprendere, al di là di questo vuoto sul piano cognitivo, con nuove certezze
sull’essere, per esempio, Uno e Trino di Dio.
Dal punto di vista filosofico si può provare ad “aggredire” il mistero della nostra realtà individuale nella eterna
realtà di Dio non più con il rigore di una dimostrazione logica aristotelica, tipica della nostra civiltà occidentale,
che rende impossibile il passaggio dal finito all’infinito ma con esempi, miti, parabole, che permettono
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all’intuizione di giungere, grazie alla metalogica, proprio sul tratto di sentiero che la attuale ortodossia cristiana ci
costringe a riconoscere come buio assoluto.
Proviamo a paragonare ciascuno di noi stessi ad una goccia di rugiada che brilla al sole del primo mattino;
possiamo richiamare una esperienza che molti di noi hanno vissuto: camminando in montagna, nelle prime ore
del mattino, ci si può trovare in una zona d’ombra e vedere pochi metri sopra la nostra testa un dosso erboso
che, dalla parte opposta, è illuminato dai raggi del sole ancora basso all’orizzonte. Dalla zona d’ombra in cui ci si
trova si vede filtrare la luce del sole tra i fili d’erba che delimitano il dosso e ogni goccia di rugiada appare come
una pietra preziosa, capace di rivelare la meraviglia dei colori di cui la luce del sole si compone: ebbene,
ciascuno di noi, in questo momento, è quella meravigliosa goccia multicolore, capace di rivelare a seconda delle
angolazioni da cui viene colta un caleidoscopico, vivente dispiegarsi di sfumature e, esattamente come la goccia
di rugiada, tra qualche tempo non ci saremo più nel senso che la nostra vita sta “evaporando”. Abbiamo
ricordato che la goccia d’acqua, tutte le possibili gocce d’acqua hanno la loro radice prima ed ultima nell’oceano
e, in ogni istante, mutano per condensazione o per evaporazione la loro composizione a livello molecolare, oltre
alla continua trasformazione sul piano atomico e subatomico non percepibile dai nostri sensi.
Uno dei principi basilari dell’esoterismo si esprime in questi termini: “Come in basso così in alto”. Nel
particolare discorso che stiamo facendo in questo momento, possiamo trarre le seguenti considerazioni: Dio, per
Leibniz, è l’oceano che costituisce la radice prima ed ultima della nostra realtà individuale la quale non è mai
uguale a se stessa perché è un centro di energia, di autoconsaspevolezza che sta crescendo e la parabola
discendente della vita che noi definiamo senescenza e morte si manifesta come ritmico alternarsi dello yin e
dello yang per cui, come le gocce di rugiada svaniscono con i raggi del sole, che pure ne pongono in evidenza la
meraviglia di colori, per riformarsi nella notte successiva così noi, consumati dalla “giornata” di luce e di sole
della nostra vita, riemergeremo proprio da quel buio della morte che ci fa tanto paura. La sintesi delle distillazioni
che costituiscono l’alternarsi della vita e della morte è costituita dalla autoconsapevolezza che, nell’essere
umano, raggiunge intensità e spessore che delimitano la punta dell’iceberg della materia: ai livelli mediamente
raggiunti dall’essere umano, l’autoconsapevolezza è capace soltanto di cogliersi a livello problematico, nel
senso di percepirsi come realtà diveniente non avendo ancora, però, la capacità di cogliersi come “entità” che è
preesistita alla nostra attuale autopercezione: questa capacità è la meta che sul piano evolutivo dobbiamo
raggiungere e, nel momento in cui avremo la certezza interiore di “esserci già stati”, con la nostra nuova
consapevolezza tutto il piano materiale troverà nuova forza ed energia per continuare il suo processo evolutivo
che, e questo è da sottolineare, si sviluppa su di una circonferenza di raggio infinito.
Questa è la monade di Leibniz, che viene creata ma non “dal nulla” come recita l’ortodossia cristiana quanto
piuttosto viene fatta emergere dall’Infinito in cui da sempre risiede, così come ogni mattino si condensano in
quella particolare goccia di rugiada preesistenti molecole d’acqua o come, nella nostra coscienza, compare un
particolare pensiero che possiamo “coltivare” ma non inventare dal nulla.
All’interno di questa visione che è eraclitea e pitagorica abbiamo proprio come base l’affermazione della
“unicità” dell’Essere infinito; unicità e al tempo stesso infinitudine per cui noi non siamo mai uguali a noi stessi
anche perchè stiamo “esplorando e conoscendo” l’infinito e la monade leibniziana si definisce come centro di
energia assolutamente spirituale alla base di tutta la realtà, per cui Leibniz si oppone nel modo più radicale alla
concezione corpuscolare atomistica e materialistica.
Oggi la scienza afferma che alla base dell’essere c’è, come unica realtà, l’energia che si manifesta sotto
forme diverse ma che, in ultima analisi, è assolutamente neutra, da intendersi come qualcosa di inorganico. E
l’attuale formula einsteiniana per calcolare l’energia che si trova condensata nella materia sarebbe da Leibniz
contestata allo stesso modo in cui egli contestò la formula cartesiana che si basava sul prodotto della massa per
la velocità. Ciò perché queste formule si limitano a prendere in considerazione l’aspetto fisico dei fenomeni e,
come tali, sono incapaci di cogliere ciò che distingue gli esseri viventi da fenomeni che hanno uguale massa ma
che appaiono inanimati.
Alla base della realtà, afferma Leibniz, non esiste una energia neutra, di tipo inorganico, perché l’essere è, in
ultima analisi, realtà vivente e la sua dimensione ultima ha radici spirituali ed è proprio la maggiore o minore
presenza della dimensione spirituale che permette di distinguere nella natura, per altro interamente costituita di
monadi e cioè di centri immateriali di energia, gli esseri viventi da quelli inferiori, definiti come natura inorganica
dalla scienza: nei primi l’energia spirituale si configura come capacità di fare emergere in modo attivo la
percezione dell’infinita realtà del mondo mentre a livelli inferiori le monadi non sono autoconsapevoli della
propria dimensione percettiva che pure le caratterizza e appaiono perciò come passivi.
Diventa qui importante una precisazione sui termini di appercezione e percezione che Leibniz utilizza per
sottolineare le differenze tra le monadi che sono comunque, tutte, centri di energia spirituale.
Con il termine di “appercezione” Leibniz intende la autoconsapevolezza delle proprie percezioni e, come tale,
è un livello di coscienza che soltanto gli esseri umani possono raggiungere pienamente. Possiamo affermare,
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con Leibniz, che l’esistenza dell’uomo si caratterizza, evolutivamente parlando, come tensione ad espandere il
livello di appercezione sia come profondità di consapevolezza sia come costanza nella permanenza dello stato
di autoconsapevolezza senza soluzione di continuità: è una meta che ancora ci sfugge perchè nessuno è in
grado di vivere costantemente in questo stato, per cui la vita di noi tutti si configura piuttosto come “tensione
verso” questo livello di coscienza ed è proprio questo che giustifica la teoria della reincarnazione nella ottica
leibniziana.
I livelli di vita inferiori all’uomo, come lo stato animale e vegetale, si caratterizzano per la loro capacità di
percezione più o meno raffinata che si manifesta su un ventaglio infinito di gradi via via più vicini al salto
qualitativo della appercezione, come gli animali più vicini all’essere umano sono in grado di dimostrare. In
questa ottica si può meglio intuire il senso della provocatoria affermazione leibniziana che anche le pietre,
definite nella cultura occidentale materia inorganica, siano dotate di un livello di percezione per il fatto stesso
che, se pure non sono in grado di assumere attivamente iniziative evidenti, “reagiscono” alla realtà esterna: il
fatto che una pietra si spacchi sotto i colpi di un martello testimonia la sua capacità di percezione, di “sentire”
cioè uno stimolo; il suo basso livello di percezione rispetto a quello che caratterizza il livello dei vegetali e degli
animali ci ha erroneamente portati a considerare il regno inorganico come qualitativamente diverso da quello
organico mentre per Leibniz si tratta soltanto di una differenza quantitativa, dal momento che la realtà ultima di
una pietra è costituita da monadi, centri di energia spirituale che si stanno “svegliando” al primo baluginare
percettivo, sciogliendo così la difficoltà, che nella cultura occidentale si presenta come insuperabile, del
radicamento della vita sul piano inorganico quando, per definizione, questo piano viene caratterizzato proprio
come privo di vita.
Nell’ottica leibniziana il problema non si pone più perchè la vita, intesa come energia spirituale, costituisce
l’essere ultimo delle monadi sulle quali e con le quali è costruito il mondo.
Ecco perché Leibniz propone, al posto della formula cartesiana mv(massa per velocità) la sua formula 1/2mv2
(un mezzo del prodotto della massa per la velocità al quadrato): con questa formula Leibniz vuole introdurre un
elemento che egli chiama forza, ma che ha carattere assolutamente immateriale.
Leibniz avrebbe potuto a suo tempo fare meglio intuire ciò che egli intendeva sottolineare con la sua formula
se avesse potuto disporre di un giroscopio. Il giroscopio quando è in condizione neutra, non carico di energia, è
un oggetto che può essere manipolato senza problemi e le uniche sue caratteristiche di cui si può avere
concretamente esperienza sono il peso e le dimensioni, come un qualunque altro oggetto inanimato. Quando,
invece, il giroscopio è carico di energia, in altre parole quando il suo volano ruota a una velocità sufficientemente
elevata, il giroscopio diventa qualcosa che si auto-mantiene nella condizione inerziale in cui viene posto per cui
lo si può posizionare sulla punta di un chiodo ed esso si mantiene immobile in quella posizione che, in stato di
quiete, non potrebbe assolutamente mantenere; e se si cerca di spostarlo oppone resistenza, dando quasi la
sensazione che si tratti di un essere vivente che manifesta la sua contrarietà al cambiamento.
Se il giroscopio è fermo si comporta come un oggetto inanimato, se è carico di energia diventa capace di
opporsi al cambiamento delle condizioni di equilibrio dinamico in cui si trova: è il principio che si utilizza sui razzi,
sugli aerei, sui sottomarini atomici; un sottomarino atomico può attraversare tutta la calotta polare in immersione,
fare diverse centinaia di chilometri e sapere sempre esattamente dove si trova perché i suoi giroscopi rilevano
ogni minima variazione di rotta, in alto, in basso, destra, sinistra e quindi, registrandole accuratamente, si può in
qualunque momento conoscere la propria posizione rispetto alla rotta prevista.
Se all’epoca di Leibniz si fossero potuti fare gli esperimenti che oggi facciamo a scuola con i giroscopi
sarebbero rimasti tutti ammirati, stupiti, avrebbero gridato probabilmente al miracolo perchè nessuno sarebbe
stato in grado di calcolare con gli strumenti a disposizione allora, come il metro e la bilancia, che cos’era la cosa
in più che dà al giroscopio queste caratteristiche; al massimo avrebbero potuto calcolare i giri al minuto e
avrebbero potuto dire che quando il volano raggiunge una certa velocità di rotazione il giroscopio presenta certe
caratteristiche prima inesistenti, però non sarebbero stati in grado di andare oltre la semplice constatazione del
fenomeno. Non sarebbero, cioè, stati in grado di inserire la loro constatazione all’interno di una legge generale
che spiegasse simili fenomeni.
La difficoltà che al tempo di Leibniz si sarebbe manifestata nel dare un senso alla variazione che viene a
caratterizzare l’oggetto nel momento in cui si trova in uno stato energetico diverso è, per tanti versi, analoga alla
difficoltà che incontra oggi la scienza nel valutare le differenze che ci sono tra una pietra, una pianta, un
animale, un uomo, che abbiano la stessa massa.
Ciò che Leibniz voleva affermare e che ancora oggi la scienza rifiuta o, per lo meno, non prende in
considerazione, è che la differenza tra quella massa che chiamiamo sasso, pianta, animale, uomo in realtà è
data dal diverso livello dell’energia mentale, l’energia della coscienza che Leibniz intende utilizzando i termini di
monade, entelechia, anima. Per cui la pianta, come organismo che ha una sua dimensione di vita, ha
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un’entelechia dominante, l’animale ha già un’anima, l’uomo ha lo spirito che è un’anima più evoluta, un’anima
razionale.
In quanto al sasso Leibniz si limitava, ai suoi tempi, a dire che si trattava pur sempre di una struttura formata
da un infinito numero di monadi che per il loro basso livello di percezione non avevano ancora la possibilità di
una crescita di coscienza come soggetti individuali, che già invece distinguiamo nella singola pianta o animale. Il
compito delle monadi costituenti il sasso è, quindi, quello di fornire l’energia necessaria per “tenere in piedi il
mondo” e, nel loro “morire” nel momento in cui le radici dei vegetali ne estraggono i sali minerali necessari allo
sviluppo di un piano vivente di superiore consapevolezza, passano a un teatro più vasto ed entrano in una
corrente evolutiva che ne accelera la crescita.
Ai nostri giorni Leibniz condividerebbe in prima battuta il punto di vista della fisica contemporanea che parla
del sasso come un insieme praticamente incalcolabile di atomi ciascuno strutturato come un sistema
dinamicamente equilibrato di energie potenti, facendo però poi osservare che è ancora un modo scorretto di
parlare della realtà del sasso, che è pur sempre espressione di una energia spirituale perchè è anch’esso
espressione del “Dio vivente”.
Apriamo una breve parentesi: la formula di Einstein E=mc2 secondo cui l’energia, espressa in Erg, è data dal
prodotto della massa, espressa in grammi, per il quadrato della velocità della luce, espressa in centimetri, porta
a una dimensione di energia che è spaventosa, per cui quando si utilizzano la bomba atomica o la bomba
all’idrogeno che, come massa complessiva, possono anche pesare centinaia di chilogrammi, in realtà viene
liberata una percentuale quasi insignificante della energia racchiusa nella loro massa “di esplosivo” costituita
dall’uranio arricchito o dall’idrogeno: la spaventosa energia distruttrice che si libera nella esplosione è data dalla
smaterializzazione di quella relativamente minima differenza tra la massa iniziale e finale dell’”esplosivo”, nel
primo caso dei nuovi nuclei atomici più leggeri dell’uranio e nel secondo dagli atomi di elio che la fusione
nucleare produce.
Questa energia così grande che la scienza ha individuato e che ha cominciato ad usare per scopi distruttivi è
da essa descritta come inorganica e anche quando essa afferma che nell’universo nulla si crea e nulla si
distrugge perchè tutto si trasforma, per cui l’energia totale è sempre uguale a se stessa, in realtà non abbiamo
un universo vivente, un Dio vivente, abbiamo un universo che tende a morire per la legge dell’entropia per cui
prima o poi si avrà “uno spazio vuoto un po’ più caldo” con una massa ridottissima perché essa si sarà
smaterializzata in energia.
Nella formula leibniziana la forza ha una dimensione spirituale ed è ciò che rende il pensiero leibniziano
incomprensibile dal punto di vista della scienza tradizionale, perché egli ha avuto il coraggio di affermare che
l’energia che è alla radice della materia è energia vivente, il che è come dire che la ricerca da parte dei fisici
dell’ultimo mattone che costituisce la realtà è destinata al fallimento. Tuttavia qualcosa sta cambiando anche in
campo scientifico e le proposte di Leibniz cominciano, almeno per qualcuno, ad apparire come eccezionalmente
lungimiranti.
Andiamo a leggere alcune righe tratte da Cosa è la vita scritto da Erwin Schrödinger, un fisico premio Nobel
nel 1933.
Egli scrive: La coscienza non è mai sperimentata al plurale, solamente al singolare
–Leibniz afferma che alla base dell’universo c’è un centro di coscienza immateriale che non ha finestre, che
non comunica con l’esterno, perché al proprio interno fa emergere l’intera realtà, l’intero universo: Schrodinger
sta riprendendo una ipotesi già proposta da Leibniz, quando osservava che la coscienza della monade non è
mai sperimentata al plurale, solamente al singolare, per cui io sono cosciente di me stesso e gli altri sono
contenuti nella mia coscienza. E’ una posizione che poi, al limite, diventa solipsismo e difatti la filosofia di
Leibniz è stata da qualcuno definita una specie di solipsismo pluralistico, però lasciamo perdere queste
disquisizioni tecniche, continuiamo a leggere SchrödingerCome nasce dopo tutto l’idea della pluralità? La coscienza trova se stessa intimamente connessa e
dipendente dallo stato fisico di una regione limitata della materia, il corpo
–la monade leibniziana che caratterizza gli esseri viventi si chiama entelechia in quanto centro coordinatore,
centro di governo, “cervello” di una serie di altre monadi, che costituiscono quella regione limitata della materia
che chiamiamo corpo–
Ora esiste una grande pluralità di corpi, da qui la pluralizzazione della coscienza o della mente sembra
un’ipotesi molto suggestiva. Probabilmente tutte le persone semplici e ingenue e la maggior parte dei filosofi
occidentali l’hanno accettato.
–è un fisico che dà una lezione di filosofia leibniziana ai filosofi occidentali che sembrano avere dimenticato le
provocazioni del filosofo tedesco–
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L’unica possibile alternativa è quella di mantenere l’esperienza immediata della conoscenza come cosa
singolare dove la pluralità è sconosciuta, realizzare che c’è solo una cosa e ciò che sembra essere pluralità è
soltanto la serie dei differenti aspetti di questa stessa cosa prodotti dall’illusione
–prodotti dall’illusione, entriamo nella dimensione parmenideaeppure ognuno di noi ha la netta impressione che la somma totale delle sue esperienze e della memoria formi
una unità ben distinta da quella di ogni altra persona, ciò si riferisce a ciò che si definisce come Io. Cos’è questo
Io? Potreste arrivare in un lontano Paese e perdere di vista tutti i vostri amici e dimenticarvi del tutto, acquisire
nuovi amici e condividere intensamente la vita con loro come faceste con i vecchi amici, diventerà sempre meno
importante il fatto che mentre vivete la nuova vita vi ricordiate del passato –il giovane che ero- magari
cominciate a parlare di lui in terza persona ed è il vostro essere stati giovani, eppure non c’è stata
un’interruzione intermedia e neppure la morte; anche se un abile ipnotizzatore riuscisse a cancellare
interamente tutte le vostre reminiscenze precedenti non potreste affermare che egli ha ucciso voi, in nessun
caso ci si può lamentare per una perdita di esistenza personale né mai essa avverrà….
Questo fisico -che nel 1954 ha scritto La natura e i greci, dove egli propone un ritorno al concetto greco di
saggezza che consentirà di completare e accompagnare la ricerca scientifica correggendone l’unilaterale
soppressione della soggettività e della complessiva personalità dell’uomo, tanto da definire come pura irrealtà e
insensatezza i valori umanistici e religiosi- riflette sulla dimensione di coscienza nella quale abbiamo infiniti
pensieri per cui noi siamo abituati a valutarli in modo molto diverso: è un pensiero da poco, un pensiero molto
importante, un pensiero di cui potrei anche vergognarmi, un pensiero fondamentale su cui si regge una nuova
teoria scientifica, un pensiero di quotidiana banalità, un’idea per la quale sarei disposto a dare la vita, ... .
All’interno della nostra coscienza ogni pensiero nel momento in cui è pensato, sia esso un pensiero da niente
o un pensiero capace di qualificare la nostra vita, nel momento in cui è pensato occupa tutta la nostra coscienza
per cui non c’è differenza tra pensiero “piccolo” o “grande”; inoltre nell’archivio della coscienza c’è sempre
spazio per inserirvi nuovi pensieri e questi non arrivano dall’esterno, ci nascono dal di dentro, come dal di dentro
nasce la percezione dell’intero universo.
Leibniz dice chiaramente che quando una monade pensa in modo razionale è attiva, nel senso che utilizza
energie capaci di aprire percorsi nuovi nell’infinito ipertesto divino; quando, invece, una monade si lascia
semplicemente galleggiare sul piano della coscienza è passiva e non riesce più a dominare e tenere sotto
controllo l’emergere, sul piano della coscienza, della realtà dell’universo, che appare perciò alla maggior parte
degli esseri umani come una realtà oggettiva ed esterna e che, in quanto tale, finisce per essere subita.
Potremmo fare questo esempio: immaginiamo un uomo primitivo, un indio dell’Amazzonia che non abbia mai
visto un prodotto della nostra tecnologia e mettiamolo di fronte a una lastra di vetro molto sottile perfettamente
pulita. Egli non si rende conto dell’ostacolo, ci sbatte contro e si ferisce: da quel momento si terrà alla larga da
quel luogo perché penserà che lì ci sono degli spiriti maligni che ti aggrediscono perché il vetro, per lui, è una
realtà incomprensibile e indescrivibile, per cui subisce in modo totalmente passivo quella esperienza; noi,
invece, sappiamo che quel vetro è un prodotto artificiale e lo si può modellare con il calore, cioè noi sappiamo
che quella lastra di vetro, che ti può ferire, la puoi far colare a gocce per terra e, quando sarà diventata gocce di
vetro raffreddato e solidificato, ci potrai camminare sopra senza problemi: siamo diventati attivi nei confronti del
mondo, capaci di far emergere il mondo in un certo modo piuttosto che in un altro.
Sempre sulle monadi, Leibniz ci propone ancora una riflessione che può risultare difficile da accettare e da
intuire: ciascuno di noi, nel momento in cui scopre qualcosa e pensa di insegnarlo a qualcun altro, in realtà non
insegna niente a nessuno perché le monadi non hanno finestre.
Ciò significa che ciascuno di noi, come scintilla della coscienza divina, non può avere una realtà definitiva
come soggetto ben individuato perché l’Essere è Uno: la nostra sensazione di essere compresenti sulla scena
dell’essere come una delle infinite realtà che lo compongono va assolutamente ridimensionata per cui io posso
soltanto crescere all’infinito la mia coscienza, sempre più scoprendo le infinite articolazioni dell’essere che,
unitamente con me, compongono la Coscienza Una. Quando mi godo la rassicurante sensazione di avere una
persona che mi vuole bene e che in questo momento percepisco come presenza affettuosa, nella filosofia
leibniziana, intesa nei suoi livelli più profondi, questa presenza non è vista come una realtà altra da me,
definitivamente e oggettivamente “fuori” di me: no, essa emerge all’interno della mia coscienza come effetto
delle mie scelte precedenti che hanno determinato il mio attuale livello di consapevolezza, per cui ho meritato di
vivere e sperimentare queste sensazioni che sono però “provvisorie”, sono la manifestazione di ciò che in
questo momento sono capace di intuire della infinita realtà dell’Essere.
Ecco perché tutto passa e diviene e, prima o poi, anche questa presenza che in questo momento mi consola
e infonde tenerezza e coraggio prima o poi verrà meno. Saranno le vicende della vita o il sopraggiungere della
morte ma, comunque, verrà il momento in cui potrò rivivere queste sensazioni soltanto più a livello di ricordi, con
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intensità sempre minore e in modo sempre più sfocato: tutto questo, inevitabilmente, è conseguenza del fatto
che la percezione di se stessi e degli altri come realtà oggettiva è un livello di consapevolezza inferiore, una
consapevolezza che, se pure in modo più sofisticato, condividiamo ancora con gli altri animali. Nella filosofia
leibniziana il divenire inesorabile del tempo e la morte sono gli strumenti che ci impediscono di fermarci ad un
livello di coscienza inferiore.
Il fatto è che la filosofia di Leibniz non concede spazio all’emozione, vuole essere razionale fino in fondo e se
voglio veramente intuire che cos’è la vita, che cosa sono io nell’Essere devo accettare la prospettiva che come
coscienza sono un attimo della Coscienza Una. Posso soltanto crescere all’infinito per avvicinarmi sempre più
alla coscienza divina a cui al limite, ma soltanto al limite, devo identificarmi.
In questo processo di crescita infinita non posso scambiare le mie conoscenze con un’altra coscienza e
quando mi sembra di comunicare con un’altra persona perché io la chiamo, la tocco e lei si volta, per cui
abbiamo questa sorta di verifica sul piano concreto, tutto ciò, ribadisce Leibniz, emerge nella nostra coscienza e
non è affatto la prova che esista lo spazio e, all’interno di questo, un essere concretamente distinto da me.
E’ bene qui aprire una parentesi per cercare di intuire la differenza esistente su questo problema tra Spinoza e
Leibniz che, da un certo punto di vista, possono apparire su posizioni opposte e, per altri versi, tendono a
proporci una visione dell’essere che, al limite, coincide.
Spinoza privilegia la dimensione unitaria dell’Essere che si esprime nella Sostanza, unica e infinita e, in
questa ottica, gli attributi e i modi attraverso cui la Sostanza si esprime pur essendo infiniti –non dimentichiamo
che ognuno degli infiniti attributi si differenzia in infiniti modi- sono visti come elementi secondari che, al limite,
finiscono per risultare ingannevoli perché possono far perdere di vista l’unicità dell’essere.
Leibniz afferma che l’Essere è costituito di infinite monadi ciascuna delle quali, in quanto realtà assolutamente
immateriale, non convive in uno spazio oggettivamente reale con le altre monadi ma ne “constata” la realtà
unicamente sul piano della propria autoconsapevolezza perché la monade, che non ha “finestre”, fa emergere in
se stessa la infinita realtà dell’universo in rapporto al proprio livello evolutivo: fa emergere, non “sperimenta la
realtà oggettiva” delle altre monadi, semplicemente perché la coscienza è una e una sola.
Sia Spinoza che Leibniz, a questo punto, devono spiegare nella loro particolare visione del mondo la
sensazione, da ciascuno di noi vissuta come indubitabile, della realtà del mondo esterno con i riscontri che
continuamente sembrano sottolineare questa realtà.
Spinoza spiega eventi come quelli per cui decido di muovere il braccio e ne percepisco il movimento, oppure
pronuncio il nome di una persona presente e questa mi segnala di avere sentito il mio richiamo, ... come il
risultato di una perfetta sintonizzazione degli attributi, in quanto espressione della stessa sostanza divina. Come
esempio di ciò che intendeva affermare Spinoza potremmo pensare al fatto che, al cinema, vediamo sullo
schermo l’attore che apre la bocca e, contemporaneamente, sentiamo le parole che egli pronuncia dandoci la
sensazione che sia proprio quella “figura” che sta parlando. In realtà l’immagine proiettata sullo schermo e la
voce diffusa dagli altoparlanti sono il risultato di una sincronia che ha le radici sulla pellicola cinematografica che
registra su due parti contigue ma ben distinte della stessa pellicola le due cose: le fotografie vengono proiettate
dalla intensa luce dell’arco voltaico che, con il gioco delle lenti e del rapido avanzare della pellicola danno sullo
schermo la percezione visiva di un movimento reale e, contemporaneamente, la banda laterale della stessa
pellicola viene colpita dal raggio luminoso di una fotocellula che trasforma le variazioni della traccia registrata
sulla pellicola in variazioni di impulsi elettrici che attraverso gli altoparlanti diffondono nella sala le onde sonore
corrispondenti: il movimento delle labbra e le parole che si percepiscono sono il risultato di due diversi canali di
diffusione perfettamente sincronizzati, ma il punto di origine è sempre la stessa pellicola.
Per spiegare invece il fatto che io pronuncio un certo discorso e, contemporaneamente, i presenti mi fanno
capire che hanno sentito ciò che sto dicendo, Leibniz propone una spiegazione che, oggi, potremmo
esemplificare pensando ad un laboratorio in cui, contemporaneamente, diversi studiosi stanno portando avanti,
ciascuno con il proprio microscopio, un certo tipo di analisi. I ricercatori non parlano, ciascuno assorto al proprio
strumento e ciascuno registra le osservazioni su un computer che si trova collegato in rete con quelli degli altri:
in tal modo qualsiasi cosa venga registrata diventa perciò stesso disponibile in tempo reale per gli altri
ricercatori: la Coscienza Una è il “server di rete” che assicura la base di consapevolezza comune pur nella
assenza di comunicazione orale tra gli studiosi con la differenza che, in realtà, le nuove conoscenze che
ciascuna monade realizza sono intuizioni di una dimensione di realtà che è infinita ed eterna e, perciò,
“preesiste” nel server di rete. Le monadi, in altre parole, aprono ciascuna un personale percorso di lettura
nell’infinito ipertesto divino.
Ecco allora, in sintesi, la differenza tra Spinoza e Leibniz. Io pronuncio il nome di una persona e questa,
perciò, si volta verso di me. Per Spinoza ciò avviene in quanto sia il mio richiamo che la reazione dell’altra
persona sono, dall’eternità, predisposte a questa azione-reazione perfettamente sincronizzata. Per Leibniz la
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mia decisione di pronunciare quel nome è una scelta che produce con la sua carica energetica una variazione
nel “percorso” di crescita di consapevolezza della stessa persona in modo tale da portarla a poter fare
emergere, sempre nella propria consapevolezza, la percezione dell’altro che, in quanto diventato cosciente del
mio richiamo, si è voltato: pronunciando quel nome sono entrato nell’universo in cui l’altra monade ha
contemporaneamente la percezione del mio richiamo.
Mentre la visione di Spinoza ci cristallizza in una realtà già scritta ed eternamente immutabile, quella di
Leibniz ci restituisce, all’interno dell’infinito ipertesto divino, la libertà di essere proprio noi coloro che decidono
questo o quello tra gli infiniti possibili percorsi di lettura. Libertà che sarà, perciò, direttamente proporzionale
all’energia di cui la nostra monade potrà disporre in quel particolare stato di consapevolezza. Ma su questo
torneremo.
Potremmo chiederci che senso abbia andare a complicarci la vita giustificando in modo così strano un evento
che sul piano esistenziale è così semplice ed evidente, tale da non richiedere alcuna spiegazione particolare.
Anche con la sua spiegazione delle forze gravitazionali extraterrestri Newton sembrava complicare tutto ma, una
volta familiarizzati con la nuova prospettiva che ci proiettava su dimensioni molto più ampie del piano terrestre, i
fenomeni della vita quotidiana si sono resi evidenti in un contesto che li collegava e spiegava reciprocamente in
modo meno banale e semplicistico e il risultato finale è stato il raggiungimento di un piano di consapevolezza
non più animale ma razionale.
Spinoza e Leibniz, ma soprattutto il secondo, cercano di portarci a una visione del mondo che è,
contemporaneamente, filosofica e religiosa: questo per consentirci di vivere la nostra vita come il tassello di un
progetto divino o, come diceva Spinoza, sub specie aeternitatis.
E quando, con Leibniz, abbiamo intuito che nel momento in cui una monade è riuscita a far emergere un
livello di coscienza mai prima raggiunto da altre monadi umane, questo nuovo livello diventa più accessibile per
tutte le altre monadi, ci rendiamo conto del motivo per cui, nell’ottica leibniziana, il miglior modo per aiutare il
mondo intero è quello di migliorare il nostro livello di consapevolezza perché in tal modo spostiamo noi stessi, e
quindi tutto il mondo in cui ora siamo inseriti, su un piano superiore.
Ancora una considerazione sulle monadi che non hanno finestre. Ciascuno di noi è solo, assolutamente solo.
Lo abbiamo già intuito nei momenti più gravi della nostra vita ma non vogliamo crederci né, tanto meno,
sentircelo dire. Eppure renderci conto di questa realtà ed accettarla è un grosso passo avanti sul piano esoterico
che ci permette di crescere più rapidamente; accettare questa realtà è impegnativo perché negli attimi di
debolezza sentirsi soli può portare alla depressione e può diventare pericoloso però, se ci pensiamo bene, nei
momenti più importanti della vita, abbiamo tutti toccato con mano questa solitudine: nel momento in cui la donna
partorisce, per quanto possa far piacere avere vicino le persone care, chi partorisce è lei e nessun altro; nel
momento in cui sei dal dentista e il trapano ti sta facendo vibrare tutto, hai voglia di sapere che il dentista è tuo
fratello, in realtà in quel momento ci sei solo tu con la sensazione lancinante della punta del trapano.
Provare ogni tanto a entrare in questa ottica leibniziana -le monadi come momenti singolari di coscienza che
non hanno possibilità di stabilire contatti con gli altri- diventa importante per aiutarci a imparare a morire perché
quando moriremo, indipendentemente dal contesto, sarà un’esperienza che non potremo condividere con altri e
se noi non ci saremo mai abituati o non avremo mai cercato di abituarci a questo livello di verità che è pesante
proprio perché molto alta, noi rischieremo di morire male.
Moriremo male nel senso che il passaggio alla nuova dimensione di esperienza sarà traumatico quando
invece potrebbe essere un momento di serena liberazione da una struttura fisica ormai logora che richiedeva
giorno dopo giorno una sempre più faticosa accettazione del suo stato di progressivo decadimento.
Morire senza esserci mai misurati con la solitudine che ci caratterizza e che si presenta ineludibile nei
momenti delle scelte importanti significa affrontare questo passaggio completamente frastornati e il terrore, che
in quei momenti si impadronirà di noi, ci impedirà di sentire la presenza di energie positive che assistono e
rendono più agevole questo impegnativo passaggio: ci si trova, per molti versi, nella situazione di un bambino di
pochi anni che, in una grande stazione o in un ipermercato, rendendosi conto di avere perso il contatto con i
genitori, si mette a piangere disperato e in tal modo non riesce a collaborare con le molte persone che in quel
preciso momento, rendendosi conto della situazione, sono lì pronte e disponibili ad aiutarlo per risolvere il suo
problema.
Morire non avendo imparato a misurarci con la solitudine che la monade senza finestre di Leibniz presuppone,
porta a subire l’esperienza della morte come un trauma sconvolgente nel quale perdiamo del tutto la
appercezione, la consapevolezza di noi stessi come realtà vivente e, di conseguenza, viene eretta una pesante
barriera che ci impedirà, nella successiva reincarnazione, di “sentire” in noi la certezza che la nostra realtà
individuale non emerge dal nulla. Dopo la morte, infatti, inizia un processo di “pulizia” che eliminerà tutte le
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incrostazioni legate alle dimensioni più materiali come le sensazioni forniteci dai nostri sensi e le pulsioni
passionali nelle quali per troppo tempo ci siamo identificati; nella nuova reincarnazione non ci sarà più nulla del
corpo eterico e del corpo astrale che abbiamo sedimentato per tanta parte della nostra vita precedente: le
uniche tracce che ci ritroveremo di una simile esperienza saranno soltanto rappresentate dal karma da smaltire.
Tracce pesanti che ci rifiuteremo di riconoscere come legate a ciò che siamo già stati, ma che non per questo
potremo evitare di pagare.
Accettare la nostra solitudine significa imparare a vivere e a morire in modo da porre le premesse per
riemergere nella successiva esperienza esistenziale pronti a riconoscere la immortalità di una consapevolezza
che, sul piano umano, ha meritato di evolvere verso il piano divino.
La impossibilità delle monadi a comunicare con le altre nasce anche dal fatto che, per Leibniz, tempo e spazio
non esistono come realtà oggettive e questa era una delle tante affermazioni leibniziane che precorrevano i
tempi e impedivano ai suoi contemporanei di condividere le intuizioni del filosofo.
Leibniz è stato uno dei primi filosofi moderni a dire chiaramente che tempo e spazio non esistono, sono
funzioni della forza, cioè funzioni della coscienza, il tempo è funzione della mia consapevolezza: un discorso che
abbiamo già fatto a proposito di Plotino.
Quanto sarebbe “durata” quella mezz’ora passata nella sala di attesa del medico se avessi saputo che non si
sarebbe trattato di una semplice medicazione, come io pensavo, ma che il chirurgo avrebbe fatto seduta stante
l’intervento di asportazione della mia unghia incarnita? Quanto sarebbe pesato quell’attimo di caduta di tensione
della corrente elettrica che ti impedisce di sentire il tredicesimo risultato del totocalcio quando ne avessi già
registrati dodici giusti? Il tempo, lo diceva già Plotino e lo intuiva già Agostino, è il nostro modo di percepire con
noi stessi l’assoluto, e lo spazio è il nostro modo di percepire, nell’assoluto, l’infinito articolarsi della realtà che lo
costituisce.
Gli universi sono infiniti, da un lato perché nell’infinito articolarsi delle monadi ciascuna è dotata di una sua
particolare capacità e livello evolutivo di percepire per cui, ed è l’esempio portato da Leibniz, è come vedere una
città da molti punti di vista diversi: la posso vedere da un seminterrato, dal pianterreno, da una finestra, da una
terrazza, è sempre la stessa città e ogni visione è giusta, è vera, legittima. Da un altro canto, ciascuna monade
che, come già si è detto, ha un suo particolare modo di essere cosciente dell’universo, vede progressivamente
aprirsi con la sua evoluzione un ventaglio di possibilità sempre più ampio. Per fare un esempio proviamo a
pensare alla differenza tra una qualsiasi persona umana e un animale meno evoluto come un cane: l’uomo può
decidere in ogni istante di reimpostare in modo più o meno deciso la propria vita ed è ininfluente in questo
momento la considerazione che egli, in realtà, potrebbe anche lasciarsi trasportare dai prevedibili sviluppi di una
vita già impostata che non ha nessuna intenzione di modificare: in Dio, nell’Infinito, tutte le possibilità, anche
quelle apparentemente irrealizzabili, sono realtà in atto. Era già stata una potente intuizione di Aristotele che
aveva proposto Dio come Atto Puro, come l’Essere Perfetto per il quale non c’è spazio alcuno per la potenzialità
inespressa.
Nel momento in cui uno di noi decidesse di uscire a prendere il giornale prima piuttosto che dopo avere fatto
una certa telefonata, cambierebbe l’universo per se stesso come per tutti gli altri, nel senso che trascina se
stesso e gli altri in uno spazio-tempo che è accessibile semplicemente perché, in Dio, è in realtà da sempre.
Ecco perché quando Voltaire ironizzava su questo Dio di Leibniz che ha creato il migliore dei mondi possibili e
affermava che in realtà era un povero Dio, visto che questo è un mondo che troppe volte mi vede perdente, si è
rivelato, per quanto intelligente, non abbastanza da potersi permettere di criticare in modo così banale il
pensiero di Leibniz il quale, quando afferma che questo è il migliore dei mondi possibili, intende dire che
ciascuno di noi vede in ogni attimo della propria vita il mondo in rapporto alla sua capacità di coscienza; in altre
parole percepisce attivamente o passivamente il mondo in rapporto al suo livello di autonomia, che è uno spazio
disponibile solo alle monadi razionali, che stanno imparando a fare emergere in se stesse, in modo sempre più
attivo, l’universo infinito. Se sei un uomo dell’età della pietra percepisci il vetro come presenza di spiriti maligni
che rendono pericoloso un certo luogo, se sei un uomo che ha imparato come si fa il vetro o per lo meno come
lo si manipola ti regoli di conseguenza e non subisci passivamente un’esperienza che ti ha traumatizzato, ma
cambi il mondo: ci sarà Fichte che rifletterà a fondo su questo tipo di intuizioni.
Il discorso di Leibniz è, ancora per il livello culturale di oggi, provocatorio e sofisticato: gli infiniti mondi
possibili, tutti ugualmente veri in Dio, costituiscono, spinozianamente parlando, il quarto attributo a cui possiamo
accedere e che ancora oggi è “vietato” alla maggior parte degli esseri umani perché continuano a considerare
insuperabile la barriera dell’impossibile: un grande uomo è invece colui che ha cancellato la parola impossibile
e, al limite, prepara le condizioni perchè nella sua prossima reincarnazione venga realizzato ciò che qui e ora
risulta impossibile, per il fatto stesso che la vuole e, indipendentemente dai risultati del momento, continua a
volerla.
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Non dimentichiamo che Leibniz credeva nella reincarnazione, nel senso che la morte sta alla vita come il
sonno e la caduta della attività fisico-motoria stanno al periodo di veglia e questa successione di esistenze porta
ad una progressiva maturazione che ci aprirà dimensioni nuove, sempre più affascinanti.
Leggiamo, a proposito, alcune tesi della Monadologia:
73.- Questo poi fa sì che non ci sia mai generazione assoluta, né morte perfetta nel senso rigoroso del
termine, intesa cioè come separazione dell’anima dal corpo.
Quello che noi chiamiamo generazione è sviluppo e accrescimento, mentre ciò che chiamiamo morte è
involuzione e diminuzione.
76.- Ora, però, questa era solo la metà del vero.
Io ho dunque pensato che se l’animale non ha mai un inizio naturale, non può avere neppure una fine
naturale; e che non solo non ci sarà mai generazione, ma nemmeno distruzione assoluta, né morte intesa nel
senso rigoroso del termine.
Questi ragionamenti, fatti a posteriori e per via sperimentale, si accordano perfettamente con i miei principi
dedotti a priori ed esposti sopra.
77.- Si può dunque affermare che non solamente l’anima (specchio di un universo indistruttibile) è
indistruttibile, ma lo è anche l’animale stesso, sebbene la sua macchina spesso perisca in parte, e perda o
prenda spoglie organiche.
Uno dei motivi per cui la filosofia di Leibniz è poco conosciuta è che le sue intuizioni, difficilmente accessibili ai
suoi contemporanei sono, ancora oggi, provocatorie e inaccettabili a livello di massa. Dio come reale
compresenza degli infiniti universi possibili non potrà mai diventare oggetto di definizioni o dispute teologiche e,
insieme, realizza le apparentemente inconciliabili dimensioni del determinismo e della libertà. Negli infiniti
universi possibili le concatenazioni logiche in base a cui essi si intrecciano sono di una evidenza e di un rigore
assoluti e, al tempo stesso, la capacità delle monadi più evolute di “scegliersi” l’universo da visionare e
sperimentare è una possibilità che progressivamente si rivela sempre più concreta in rapporto alla loro
evoluzione.
In altre parole, nell’Infinito tutte le monadi-bruco che nascono diventano splendide farfalle ma nessuna di esse
potrà mai scegliersi, come bruco, lo spazio-tempo in cui invece di finire nello stomaco di un passero o di un
riccio si realizza come farfalla. Quei bruchi, oltre il 90% dei bruchi, che in uno qualunque degli universi non
riescono a compiere la loro evoluzione, tengono in piedi il mondo nel senso che, come vittime sacrificali,
forniscono l’energia necessaria perché il mondo stesso sussista. Questo loro inconsapevole sacrificio, però,
porta ad una sublimazione e ad un innalzamento, reale per quanto impercettibile, della loro “consapevolezza”,
dal momento che la dimensione di esperienza di vita di un passero è di livello superiore rispetto a quella di un
bruco, ma ciò che determina questo passaggio evolutivo è sempre al di fuori dello spazio di scelta della
monade-bruco.
A livello umano continuiamo ad essere dei bruchi nella misura in cui, per ignoranza o per colpa, viviamo una
vita in cui le esperienze ci piovono addosso non essendo ancora in grado di prevederle e, quindi, di sceglierle;
cominciamo a realizzare le potenzialità di livello superiore quando diventiamo capaci di fare scelte con una
consapevolezza che è direttamente proporzionale al livello di sofferenza che abbiamo già pagato. In questo
senso vale per noi, come per i bruchi, l’affermazione leibniziana:
75.- ……Quelli invece (si parla degli animali di piccole dimensioni come gli insetti) che restano nella loro
specie –e sono la maggior parte- nascono, si moltiplicano e vengono distrutti allo stesso modo dei grandi
animali, e solo un piccolo numero di eletti passa a un teatro più vasto.
Ciascuno di noi pensa di essere l’unico e autentico esemplare di persona anagraficamente ben individuata
con il nome, cognome e data di nascita che ci distingue: in realtà ciascuno di noi è unico e irripetibile solo in
quanto siamo, in questo istante, uno degli infiniti possibili modi di essere di quella persona. Sono riflessioni che
danno le vertigini, che Leibniz ci prospetta in modo provocatorio e, per la logica normale, contraddittorio, ma per
chi ha un minimo di familiarità con il calcolo infinitesimale o, meglio ancora, con la metalogica di Eraclito e di
Pitagora o con la dimensione shintoista e taoista, diventano intuizioni di una potenza formidabile.
Ci sono ancora alcune considerazioni che dal pensiero leibniziano ci proiettano nella dimensione di ricerca
contemporanea più avanzata che, proprio come è avvenuto per il grande filosofo tedesco, sta prospettando una
visione del mondo che coinvolge contemporaneamente nella ricerca filosofia, religione e scienza che da oltre
duemila anni la cultura occidentale pretende separare.
La scienza, oggi, afferma che tutta la realtà è costituita di mattoni fondamentali che per molti secoli sono stati
considerati non ulteriormente scomponibili. In realtà la ricerca scientifica contemporanea non crede più nel
significato etimologico del termine “atomo”, che da Democrito in poi ha costituito il presupposto fondamentale
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delle filosofie materialiste da cui poi sarebbe nata la scienza moderna. Tuttavia questa secolare convinzione
pesa ancora come un macigno nella visione del mondo propria della stragrande maggioranza degli uomini.
Ecco allora che nel secolo scorso, nel momento in cui si è scoperto che gli atomi erano a loro volta costituiti di
una serie di particelle subatomiche tra loro interagenti, la scienza ha dovuto progressivamente confontarsi con la
difficoltà sempre crescente di “catturare, fotografare e misurare” dimensioni della realtà sempre più sfuggenti e
impalpabili. Questa ricerca era volta da un lato a verificare se veramente si trattasse dell’ultima particella non
ulteriormente scomponibile della materia a cui, finalmente, si sarebbe potuto riferire il significato etimologico del
termine atomo; dall’altro tendeva a mettere in luce il possibile senso logico del proliferare di particelle via via più
sfuggenti quanto più venivano messi a disposizione della ricerca raffinati strumenti tecnologici di indagine.
Entrando nel terzo millennio si sta approfondendo la teoria delle superstringhe che si propone come una
soluzione che i fisici definiscono elegante e definitiva del problema. Con una necessaria precisazione sul
termine “definitiva”.
Se, per definitiva, si intende affermare che non avrà più senso proseguire la ricerca sul piano fisico-materiale il
termine è corretto se, invece, si intende affermare che la ricerca scientifica è arrivata al capolinea l’affermazione
è discutibile dal momento che, se la teoria delle superstringhe risulterà essere il modo corretto di spiegare tutta
le realtà materiale, dal momento che si presenta come la soluzione unificante fenomeni che fino ad ora
risultavano tra loro irriducibili -la forza gravitazionale, quella elettromagnetica e le forze nucleari debole e forte-,
non farà che riscoprire la dimensione filosofica come spazio per la ricerca ulteriore.
Sperimentiamo quotidianamente sia la forza gravitazionale, dal momento che stiamo con i piedi ben piantati
per terra, che quella elettromagnetica, nel momento in cui accendiamo una lampadina; possiamo solo intuire la
realtà delle altre due forze che sono di gran lunga più potenti, per cui la forza nucleare forte tiene ben incollate
tra loro le particelle subatomiche costituendo così i protoni e i neutroni e la forza nucleare debole è quella per cui
l’insieme degli elettroni orbitanti attorno al nucleo atomico determina il particolare tipo di atomo come sistema di
forze relativamente stabile.
Se la teoria delle superstringhe è corretta, si riuscirà a dimostrare che la “materia” di cui sono costituiti tutti i
fenomeni che si manifestano nell’ambito delle quattro forze fondamentali sopra citate è sempre la stessa, nel
senso che alla base di tutto c’è un’unica “stringa”, intesa come una “corda” in vibrazione: in altre parole, ogni
particella subatomica è una stringa e tutte le stringhe, intese come momenti di energia, sono identiche come
struttura di base differenziandosi tra loro come stati diversi di vibrazione; particelle che noi conosciamo come
inconfondibilmente diverse non sono altro che il risultato di vibrazioni diverse di una e una sola “corda” in
vibrazione, analogamente alla nostra percezione di note diverse prodotte dalla stessa corda di violino che
modifica il proprio stato vibrazionale.
Dal momento che tutte le particelle subatomiche costituenti l’universo non sarebbero altro che una
incalcolabile serie di note musicali emanate da un solo tipo fondamentale di corda, la teoria delle stringhe nata
alla fine del ventesimo secolo ripropone il ritorno, dopo un lungo, sofferto e raffinato percorso di crescita di
consapevolezza, alla visione platonico-pitagorica del mondo come una meravigliosa sinfonia di cui l’intuizione
filosofica ci permette di cogliere i primi brandelli.
Nel momento in cui la ricerca scientifica chiude il cerchio di una ricerca di oltre duemila anni si ritrova,
ovviamente cresciuta ed evoluta, su un piano che può ancora essere definito scientifico ma che ineluttabilmente
ripropone come convergenti scienza e filosofia nella loro tensione verso la conoscenza.
Tutto questo vale nel caso la teoria delle stringhe venga confermata come soluzione definitiva della ricerca sul
piano fisico. Potrebbe però non essere così, ma anche in questo caso il modo di vedere le cose che qui
proponiamo resta quello che, solo, riesce a darci una precisa indicazione della direzione in cui possiamo e
dobbiamo indirizzare la nostra ricerca.
Citiamo qui un passo di una opera divulgativa che ha il pregio di essere accessibile anche ai non addetti ai
lavori ma che si muove con serietà su questo ordine di problemi.
"...di cosa sono fatte queste stringhe?
Ci sono due possibili risposte. Primo, le stringhe sono davvero fondamentali, cioè sono “atomi”, “indivisibili”,
nel senso letterale con cui li intendevano gli antichi Greci. Come costituenti più piccoli di tutto quanto,
rappresentano in un certo senso la fine della corsa –come l’ultima bambolina dentro una matrioska- di tutte le
strutture del mondo microscopico. Da questa prospettiva, anche se le stringhe hanno un’estensione spaziale, la
questione della loro composizione è senza senso: se fossero fatte di qualcos’altro non sarebbero più
fondamentali. Se trovassimo un loro costituente dovremmo abbandonarle, alla ricerca di qualcosa di ancora più
piccolo. Pensiamo alla lingua scritta: le frasi sono fatte di parole e le parole sono fatte di lettere. Ma da un punto
di vista linguistico le lettere non sono fatte di nulla: sono i mattoni indivisibili della lingua scritta; non ha senso
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parlare della loro composizione. Analogamente, una stringa è solo una stringa, non può essere composta da
qualche altra sostanza.
La seconda possibile risposta fa tesoro del fatto che ancora non sappiamo con certezza se la teoria delle
stringhe sia corretta, se sia davvero la parola definitiva sulla natura dell’universo. Se è sbagliata, allora
possiamo scordarci delle stringhe e dell’irrilevante questione della loro composizione. E’ pur sempre una
possibilità, ma una gran quantità di ricerche ci conforta nel credere che la teoria sia corretta. La storia, però, ci
insegna che ogni qualvolta si affinano le nostre tecniche per sondare i misteri della materia, troviamo ingredienti
microscopici sempre più piccoli, che costituiscono un ulteriore livello di base. Quindi, se la teoria delle stringhe
non si rivelasse la teoria ultima, potremmo scoprire che le stringhe non sono altro che un altro strato della cipolla
cosmica, uno strato che diventa visibile solo a dimensioni analoghe alla lunghezza di Planck, -cioè cento miliardi di
miliardi (1020) di volte più piccola di un nucleo atomico- ma che magari ne contiene altri. Dunque potrebbe darsi che le
stringhe siano costituite da elementi ancora più piccoli. Questa ipotesi è stata avanzata dai teorici, e viene
valutata con estrema attenzione. In effetti ci sono allettanti indizi dell’esistenza di una qualche sottostruttura, ma
manca una prova convincente. Solo il tempo e la ricerca indefessa potranno dare risposta a tali problemi.
(Brian Greene – L’universo elegante – Einaudi 2000)
Riprendiamo due passaggi all’interno della citazione sopra riportata:
- La storia, però, ci insegna che ogni qualvolta si affinano le nostre tecniche per sondare i misteri della
materia, troviamo ingredienti microscopici sempre più piccoli, che costituiscono un ulteriore livello di base.
In effetti ci sono allettanti indizi dell’esistenza di una qualche sottostruttura...
Il pensiero leibniziano esclude che si possa giungere a mettere le mani su una struttura di base
individuabile con tecnologie e strumenti fisici: egli sosterrebbe, oggi, che la ricerca scientifica si sta sempre più
avvicinando alla constatazione che l’energia di cui è fatto il mondo è un’energia spirituale, che il mondo è un
“grande pensiero”. Che la scienza incontri fatica ad accettare una simile conclusione è più che comprensibile,
vista la sua storia che si è caratterizzata come secolare rincorsa del componente ultimo della realtà materiale.
Che la materia sia energia condensata è ormai certezza scientifica, ma la ricerca è volta ad individuare il
punto di congiunzione o, se vogliamo, di passaggio dalla dimensione materiale a quella della energia pura; è
proprio qui il problema difficile da accettare per il ricercatore tradizionale ed ovvio, invece, per chi ha intuito la
dimensione esoterica della conoscenza ed ha perciò compreso a fondo il pensiero leibniziano: il punto di
congiunzione tra il piano materiale e quello della energia pura non può essere individuabile con gli strumenti e
le tecnologie della scienza materialistica che può, soltanto, scavare sempre oltre e, a prezzi sempre crescenti
in termini di energie necessarie per la ricerca stessa, scoprire che, in quella che ad una certa scala di indagine
appariva come la linea di confine tra la materia come noi la percepiamo e l’energia pura, proprio in quel punto
si aprono sempre nuovi piani e strutture sottostanti agli ultimi livelli acquisiti.
Questo perchè non esiste un confine definito e, perciò, individuabile: è la dimensione dell’infinito, della
realtà vera che per noi è soltanto intuibile, dal momento che i nostri sensi e il nostro intelletto si trovano a loro
agio solo sul finito, che appare reale in quanto è una approssimazione che la persona normale accetta come
realtà indiscutibile mentre già nella filosofia presocratica e ancora meglio in Leibniz questo piano materiale
viene accettato come realtà solo in quanto testimonianza di un “qualcosa” ben più adeguato e che solo il
rigore della logica matematica può permettersi di prospettare.
Riprenderemo questo discorso quando cercheremo di mettere a fuoco la recente teoria dei frattali che
rappresenta, sotto certi aspetti, un moderno approfondimento del pensiero leibniziano.
Leibniz ci offre ancora uno spunto prezioso che ci permette di anticipare discorsi che verranno poi
approfonditi dalla teoria macrobiotica.
La monade, come centro unitario di energia, è assolutamente immateriale. Dalla singola monade alle
particelle subatomiche, agli atomi e alle molecole abbiamo una serie di passaggi che non è possibile
quantificare innanzitutto perchè dalla monade alle particelle subatomiche si ha un salto qualitativo, in quanto i
passaggi intermedi sono infiniti; dalle particelle agli atomi e poi alle molecole il salto è solo apparentemente
quantitativo perchè, in realtà, il “mattone” fondamentale alla base della materia già individuata è pur sempre la
monade, per cui abbiamo anche qui un infinito numero di elementi che vanno messi in conto per spiegare
come dalla particella si possa giungere all’atomo e da questo alla molecola. Tutto questo spiega le difficoltà
sempre crescenti della ricerca scientifica contemporanea e, insieme, la netta sensazione che proprio queste
difficoltà stiano portando quei ricercatori che sono meno condizionati dalla cultura occidentale, storicamente
legata alla dimensione materiale come unico piano della realtà, ad una visione del mondo che sempre più si
avvicina a quella di Leibniz.
Il problema si complica quando si passa dal cosiddetto piano inorganico a quello organico.
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Ogni essere vivente è costituito di cellule che rappresentano l’ultimo livello scientificamente riconosciuto
come base dei tessuti viventi dell’organismo complessivo: per la scienza la cellula è costituita da un insieme di
molecole a loro volta formate da atomi fatti di particelle subatomiche, ma questo modo di vedere le cose è
riduzionista nel senso che si tende, ancora una volta, a tentare di quantificare ciò che, invece, non potrà mai
essere conclusivamente spiegato con le analisi e le misurazioni. Già dalla seconda metà del secolo scorso si
è sentito parlare della necessità di una visione olistica come unica possibile strada per affrontare un problema
irrisolvibile in termini riduzionisti.
Coloro che si sentono affascinati dalla prospettiva olistica avranno tutto da guadagnare nell’approfondire il
pensiero leibniziano che ha magistralmente suggerito questo modo di affrontare il problema. Per meglio
chiarire questa prospettiva proviamo a pensare al rapporto esistente tra una cellula, l’organo di cui essa fa
parte e l’organismo completo: come esempio riflettiamo sul rapporto esistente tra un essere umano, il suo
fegato e una qualsiasi delle cellule dello stesso fegato.
La cellula, come realtà vivente, è costituita di infinite monadi che la compongono ma queste, proprio perchè
si tratta della realtà “vivente”, sono coordinate da una monade che fa da vero e proprio supervisore
dell’insieme a cui, perciò, viene dato il nome di “anima”; allo stesso modo l’organo nel suo insieme, proprio in
quanto fegato, ha a sua volta una monade dominante o anima che, a livello superiore, svolge le stesse
funzioni delle monadi che dirigono le singole cellule: le monadi dominanti dirigono le funzioni delle monadi loro
soggette e coordinano il tutto con l’organismo di cui fanno parte in modo che le esigenze della struttura di
livello superiore siano soddisfatte quanto meglio possibile dalle realtà viventi gerarchicamente inferiori. Tra il
fegato e l’organismo umano nella sua completezza esiste lo stesso rapporto di sudditanza-collaborazione.
Tuttavia, a livello di organismo umano, la monade dominante viene ad acquisire una superiore dimensione di
consapevolezza, per cui non si limita più soltanto alla percezione propria dei livelli inferiori ma giunge alla
appercezione, tanto da essere denominata da Leibniz non più semplicemente anima ma spirito o anima
razionale capace, cioè, non solo di percepire e ricordare gli eventi ma anche di coglierne le cause, superando
quindi la pura verità di fatto per giungere ad intuire la dimensione della verità di ragione, la verità necessaria
ed eterna che si esprime nei rapporti della logica, della aritmetica e della geometria, che rendono indubitabile
la connessione delle idee e infallibili le conseguenze.
(v. Leibniz – I principi razionali della natura e della grazia - § 5)
Il rapporto che si stabilisce tra l’anima razionale, l’anima che propriamente distingue l’essere umano dagli
altri animali, e il corpo si pone quindi come metafora per intuire il rapporto tra il mondo intero come
manifestazione e Dio come principio infinito della manifestazione dell’Essere.
L’anima razionale può raggiungere, in quanto capace di appercezione, cioè di autoconsapevolezza, la
intuizione delle leggi eterne dell’essere e, perciò, può diventare capace di dirigere l’organismo a cui essa
sovrintende ad una situazione di equilibrio dinamico con l’intero universo: è la condizione della salute, intesa
proprio come equilibrio dinamico delle energie che si esprimono nel mondo e, perciò, anche nella nostra
persona. Quando invece l’anima umana non è ancora capace di realizzare questo superiore livello di
autoconsapevolezza finisce per ridursi ad una pura e semplice anima, come capacità di ricordare e perseguire
finalità di livello soltanto animale ed allora, identificandosi nel ricordo delle esperienze piacevoli/spiacevoli di
corto respiro, finisce per sottostare alla tensione di basso livello verso il piacere sensoriale, quello più
immediato e più “corposo” e allora si rompe il corretto equilibrio dinamico delle energie costituenti la realtà del
nostro corpo che, dal punto di vista evolutivo, non è più fatto soltanto per assaporare sensazioni legate alle
percezioni degli organi fisici dei nostri sensi e, conseguentemente, insorge la malattia.
In altre parole, l’anima razionale può diventare, in un organismo evoluto come l’essere umano, l’elemento
che dirige e coordina tutto l’organismo in modo che esso venga a trovarsi nelle condizioni “corrette” rispetto
agli equilibri dinamici che si esprimono nell’universo: questo, non già per istinto come avviene senza alcun
loro merito negli animali, ma perchè essa ne ha colto la dimensione di razionalità e ha saputo trovare l’energia
sufficiente per imporla all’intero organismo; in questo caso tutto va per il meglio e l’essere umano sperimenta
concretamente la potenza della conoscenza superiore che porta alle “scelte corrette” per cui la salute diventa
una conquista consapevole gestita e dominata giorno per giorno.
In questo senso sviluppando le intuizioni leibniziane, la malattia si può prevenire portando e mantenendo
l’organismo nell’equilibrio dinamico yin/yang proprio della natura: ogni monade infatti e, quindi, le monadi
dominanti in modo particolare, sono “entelechie” nel senso aristotelico, capaci cioè di costituirsi come
autonoma espressione delle energie che reggono l’universo, e capaci perciò di avere e di esprimere in sè le
ragioni del proprio sviluppo e della propria evoluzione, per cui nessuna monade è, in sè, totalmente passiva e
tutte sono potenzialmente capaci di evolvere nella direzione di una libera autodeterminazione che, al limite, le
porta ad identificarsi nella infinita potenza divina.
Negli esseri umani l’anima “supervisore” dell’intero organismo, che negli animali agisce a livello istintuale ed
inconscio, per cui nell’animale selvatico non esiste la malattia come “errore di comportamento liberamente
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scelto” può invece, quando ancora non ha raggiunto un livello di autoconsapevolezza sufficiente, identificarsi
con pulsioni di basso livello che provengono dalle monadi che dovrebbero essere subordinate e che, invece,
diventano dominanti come, per esempio, le monadi preposte agli organi di percezione sensoriale.
Ecco perchè in quegli esseri umani che Platone definiva “anime giovani” l’anima che dovrebbe coordinare
l’organismo come momento di raggiunta consapevolezza razionale si comporta invece come momento di
coscienza puramente animale che si ritrova a gestire una dimensione di scelte molto più potenti di quelle
accessibili ai semplici animali e, proprio per ciò, finisce per rompere gli equilibri che le monadi come
entelechie sarebbero naturalmente portate a perseguire: in questo caso l’anima “giovane” si dimostra
incapace di interpretare gli avvertimenti che le monadi che presiedono a quelli che poi vengono definiti organi
della macchina-corpo lanciano per segnalare gli squilibri che si sono instaurati, squilibri che in medicina
vengono definiti come sintomatologia di uno stato patologico.
Con Leibniz si riprende e si sviluppa l’intuizione aristotelica della materia definita come potenza proprio in
quanto in essa si esprime la tensione verso l’Atto puro, per cui nel mondo si esprime naturalmente la tensione
verso la perfezione divina.
Momento basilare del pensiero aristotelico è l’affermazione della esistenza di un finalismo intrinseco alla
realtà del mondo:
“Nelle opere della natura, e anzi massimalmente in esse, vige infatti non il caso ma la finalità: e questa
finalità, per cui si viene all’esistenza, ha la natura e la funzione della bellezza.”
(Aristotele – Parti degli animali, 645°)
E’ una visione che si inserisce coerentemente nella affermazione aristotelica di Dio come motore immobile
e che permetterà poi al cristianesimo un recupero del pensiero aristotelico sostituendo al concetto di motore
immobile quello di Provvidenza. La concezione finalistica della natura, comune a tutta la fisica aristotelica e
particolarmente evidente in campo biologico, diventa in Leibniz l’affermazione che il mondo si esprime
attraverso infinite monadi, centri di energia spirituale che tendono ciascuna a realizzare in una tensione
evolutivamente infinita la propria dimensione di entelechia, intesa come autonoma capacità di esprimere la
perfezione del tutto.
Questa impostazione di fondo condurrà poi Diocle, uno dei discepoli di Aristotele, a intuizioni interessanti in
campo medico: dato che la natura tende di per sè allo sviluppo ottimale del corpo, compito del medico è
suggerire il modo di vita affinchè si realizzino le più favorevoli condizioni per lo svolgersi normale dei processi
naturali.
E’ interessante a questo punto ricordare che nell’antica cultura cinese veniva tenuto in altissima
considerazione il saggio capace di consigliare lo stile di vita corretto, grazie al quale non aveva alcun senso
temere la malattia, mentre il medico come lo concepiamo oggi nella nostra cultura occidentale, cioè la
persona capace di intervenire per correggere gli stati patologici in atto, godeva di una considerazione
inferiore, dal momento che la sua figura socialmente accettata come indispensabile costituiva una sorta di
certificazione-legittimazione della ignoranza e presunzione umana che, dopo avere violato l’ordine
dell’universo, non si vergognava di ricorrere a pratiche tendenti ad evitare di pagare la sofferenza
karmicamente meritata.
In Leibniz l’affermazione che ogni cellula, ogni organo, ogni organismo, ogni essere vivente si costituisce
come un insieme di monadi dominanti a livelli diversi e che devono essere coordinate in una dimensione
progressivamente sempre più impegnativa in relazione alla diversa evoluzione degli esseri viventi costituisce
la premessa teorica su cui si radica l’affermazione macrobiotica che, nell’uomo, la malattia è la testimonianza
della nostra ignoranza e/o della nostra colpa: in questo senso la sofferenza che ne consegue diventa il debito
karmico che necessariamente dobbiamo pagare per le scelte di vita che abbiamo fatto in precedenza. Proprio
per questo le sofferenze della malattia potrebbero essere viste come una benedizione, nel senso che
diventano l’esperienza con la quale da un lato saldiamo un conto che non possiamo procrastinare all’infinito e,
contemporaneamente, si propone come l’esperienza grazie alla quale possiamo giungere ad un superiore
livello di consapevolezza con la quale la nostra anima, diventata anima razionale, si ritrova l’energia
necessaria per imporre all’organismo corporeo una condotta che lo porti a diventare uno strumento perfetto
nel quale si esprime al meglio l’equilibrio delle energie che reggono il mondo, equilibrio intuito razionalmente e
consapevolmente perseguito.
Oggi la medicina, con la sua pretesa di correggere gli “sbagli della natura” avrebbe molto da guadagnare da
un ritorno a questa impostazione per la quale la malattia veniva a delinearsi come la naturale e
“provvidenziale” reazione dell’essere vivente ad un contesto non favorevole. Contesto non favorevole che non
implica che l’errore e il male sono estranei all’uomo, quanto piuttosto che è lo stesso essere umano che, per
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esprimerci con Leibniz, invece di comportarsi come anima razionale che ha la possibilità di cogliere le leggi
che regolano il mondo e di farle proprie si comporta come centro di coscienza puramente animale e pretende
di cambiare il mondo per permettersi di continuare e ulteriormente potenziare la propria dimensione
puramente animale.
Aristotele, l’antica cultura cinese, Leibniz e la macrobiotica ci sottolineano che l’uomo è ciò che mangia, ciò
che beve, ciò che respira e ciò che pensa: lo stato di malattia è la prova e la conseguenza del fatto che non si
è saputo correttamente interpretare i campanelli d’allarme che l’organismo ha in precedenza attivato sotto
forma di sintomi più o meno evidenti e gravi di uno squilibrio in atto.
Una medicina che si limita a cercare di eliminare i sintomi senza individuare le cause che hanno sempre le
loro radici nel nostro modo di concepire la vita e il senso del nostro essere-nel-mondo è, semplicemente,
l’espressione della arroganza a cui può giungere una cultura tecnologicamente evoluta sul piano materiale ma
che ha perso la saggezza, intesa come capacità di vivere avendo la natura e la funzione della bellezza del
Tutto.
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