VALUTAZIONI E PROPOSTE DELLA CONFEDIR

CONFEDIR
VALUTAZIONI E PROPOSTE DELLA CONFEDIR
SUL DOCUMENTO DI PROGRAMMAZIONE
ECONOMICO-FINANZIARIA
PER GLI ANNI 2004-2007
Roma, 24 luglio 2003
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SOMMARIO - 1. Premessa generale: a) il ruolo della presidenza italiana nell’Unione europea; b) accelerazione della crescita.
Rafforzamento del coordinamento tra le rispettive politiche nazionali e quelle complessive dell’Unione europea - 2. Lo scenario
congiunturale: a) il PIL; b) l’inflazione; c) il rapporto tra la spesa pubblica primaria corrente ed il prodotto interno lordo; d) segue:
l’incidenza del deficit e dello stock di debito pubblico sul PIL; e) il fabbisogno del settore statale; f) il mercato del lavoro; g) il tasso
d’occupazione lavorativa e la disoccupazione; h) la politica fiscale - 3. Un nuovo ruolo per il “Terziario” nella società italiana: a)
generalità; b) il patrimonio professionale nelle imprese di servizi - 4. Le Amministrazioni pubbliche italiane: a) prospettive per una
migliore attività amministrativa: nuove insorgenze organizzativo-gestionali nelle Amministrazioni pubbliche italiane. Il sistema dei
controlli ed il ruolo ordinamentale della legge 145/2002; b) la dirigenza nello Stato e nelle Amministrazioni pubbliche in genere; c)
la vicedirigenza statale; d) le equiparazioni alla vicedirigenza statale nell’àmbito del pubblico impiego; e) conclusioni - 5. I
principali settori d’intervento nell’attuale economia italiana: a) il Mezzogiorno; b) promozione massiccia della ricerca scientifica,
tecnologica e culturale; c) un aumento di competitività, fondato sulla qualità; d) la Sanità; e) le politiche sociali e la loro
integrazione con le politiche del lavoro. Scelte strategiche a favore dell’occupazione lavorativa; f) segue: strumenti per la
disoccupazione involontaria, a favore delle categorie di lavoratori sprovviste di tutela; g) occupazione femminile nel settore
lavorativo pubblico ed in quello privato. Il caso delle donne dirigenti.
1. Premessa generale.
A) Il ruolo della presidenza italiana nell’Unione europea.
Il Documento di programmazione economico-finanziaria per gli anni 2004-2007 sarà,
quest’anno, strettamente collegato ai lavori del semestre di presidenza italiana presso l’Unione
europea. In specie, ci si attende una forte interconnessione tra le polities che verranno
programmate nel territorio nazionale e quelle concordate con i partners europei.
La CONFEDIR plaude – nella sostanza - all’orientamento della politica economica, già
espresso dal Governo italiano in tal senso: una tale impostazione del programma politico permette
all’azione governativa nazionale d’integrarsi meglio con quella che sarà posta in essere dai
rispettivi Governi degli altri Paesi componenti l’UE, in vista di una vera e identificabile
connotazione europea (in senso unitario) dell’attività che sarà posta in essere dagli organi
istituzionali dell’Unione stessa.
B) Accelerazione della crescita. Rafforzamento del coordinamento tra le rispettive
politiche nazionali e quelle complessive dell’Unione europea.
In un quadro generale di sviluppo, il DPEF deve delineare gli obiettivi principali. Tra questi
assumono speciale rilievo l’accelerazione della crescita ed il rafforzamento del coordinamento tra
le rispettive politiche nazionali e quelle complessive dell’Unione europea, allo scopo di favorire –
per parametri e procedure – il rispetto sempre più puntuale del “Patto” europeo. Il Consiglio
straordinario europeo di Lisbona del marzo 2000 ha indubbiamente impresso “una marcia in più”
alla politica comunitaria in campo economico, occupazionale e sociale, stabilendo con chiarezza
che per l’Europa del prossimo decennio l’obiettivo strategico è “diventare l’economia basata sulla
conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica
sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro ed una maggiore coesione sociale”.
A tal fine è necessaria l’attuazione di consistenti riforme economiche, finalizzate alla
costruzione d’un sano contesto economico e allo sviluppo di favorevoli prospettive di crescita.
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L’Italia ha un Patto di stabilità e crescita da rispettare: il protocollo del Trattato di Maastricht
(1992) obbliga gli Stati dell’“area-Euro” a mantenere il rispettivo deficit entro il 3% del Prodotto
interno lordo, e contempla possibili sanzioni per i Paesi che vìolano questo vincolo; il debito
invece deve convergere verso il 60%.
2. Lo scenario congiunturale.
A) Il PIL.
Lo scorso anno, l’intera economia mondiale ha subìto una battuta d’arresto. L’incertezza ha
interessato la domanda interna di tutte le economie industriali.
Nell’“area-Euro” la crescita del prodotto interno lordo è rimasta sotto il livello del 2001.
Anche per il nostro Paese il 2002 ed il 2003 sono stati anni non facili: secondo l’ISTAT, nel 2002
l’economia italiana è cresciuta dello 0,4%.
Il Commissario SOLBES ha affermato che per Eurolandia un tasso di crescita dello 0,7% nel
2003 è molto più probabile rispetto alle precedenti stime, che indicavano per la zona dell’Euro un
tasso di crescita dell’1% e per l’Unione europea un tasso di crescita dell’1,2%; ha altresì rilevato
che gli sviluppi economici alla base della ripresa restano incerti, pur confermando che una ripresa
dell’economia è attesa per la seconda parte dell’anno. Ovviamente queste stime di bassa crescita
avranno un’influenza negativa nei conti pubblici d’alcuni Stati membri e nella preparazione delle
manovre finanziarie per l’anno 2004; in quest’àmbito appare necessario coordinare meglio le
politiche economiche.
Per il 2003, il tasso d’espansione dell’economia italiana non dovrebbe superare lo 0,8% (il
DPEF presentato nel luglio dello scorso anno stimava una crescita del PIL in ragione del 2,9%).
Nel 2004 la ripresa del commercio internazionale e dei mercati azionari, nonché il previsto
deprezzamento dell’Euro rispetto ai livelli attuali, consentirebbero alla nostra economia di crescere
in ragione del 2% circa. Tuttavia, il Fondo monetario internazionale prevede, per l’Italia, che la
crescita dell’economia sarà dello 0,6% nel 2003 e dell’1,8% nel 2004.
B) L’inflazione.
Nei valori medi annui, il differenziale tra l’inflazione italiana e quella dell’Eurozona ha
raggiunto lo 0,4%. Il valore cumulato in Italia negli ultimi cinque anni è pari al 2,7%, ma
l’inflazione percepita dai consumatori è nettamente superiore a quella rilevata secondo i rigorosi
metodi dell’ISTAT.
Occorrono politiche economiche tali da contrastare efficacemente questo trend, affinché esso
per la nostra economia non si traduca in un’ulteriore perdita di competitività. Il Fmi prevede per
l’Italia un’inflazione dell’1,8% nel 2004.
Occorre procedere nell’attuazione di riforme strutturali, allo scopo d’incrementare l’efficienza del
mercato del lavoro e di ridurre l’incidenza del bilancio pubblico sull’economia.
C) Il rapporto tra la spesa pubblica primaria corrente ed il prodotto interno lordo.
Il rapporto tra la spesa pubblica primaria corrente ed il prodotto interno lordo tende
nuovamente ad innalzarsi, dopo anni di stasi. Il suo decremento consentirà, in un periodo
temporale medio-lungo, di ridurre progressivamente la fiscalità: questa riduzione costituisce una
condizione indispensabile per una maggiore competitività dell’economia.
La riduzione della pressione fiscale su famiglie ed imprese deve a sua volta esser fondata sul
deciso contenimento e sulla razionalizzazione della spesa corrente primaria, azione impegnativa
ma indefettibile.
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D) Segue: l’incidenza del deficit e dello stock di debito pubblico sul PIL.
D’altronde occorre prendere atto che:
a) l’incidenza del deficit sul PIL è diminuita dal 2,6% al 2,3%;
b) l’incidenza dello stock di debito pubblico sul PIL è diminuita dal 109,5% al 106,7%.
Questo duplice risultato positivo dipende però da una serie di misure straordinarie (tra cui i
condoni, le cartolarizzazioni). Inoltre, il debito pubblico è diminuito a seguito dello swap dei titoli
di Stato detenuti dalla Banca d’Italia: in pratica i titoli sono stati sostituiti con altri dal valore
nominale minore ma con cedola maggiore, facendo diminuire il valore dello stock di debito ma –
naturalmente - facendo aumentare la spesa per interessi.
Secondo le previsioni del Fmi, il rapporto deficit-Pil quest’anno sarà del 2,75%.
E) Il fabbisogno del settore statale.
Nell’anno 2002 il fabbisogno del settore statale ha “chiuso” a 25.315 milioni di Euro, inferiore
a quello di 34.857 milioni registrato nel 2001. Ciò è dovuto in gran parte ad una serie di misure
una tantum, le quali rappresentano anticipazioni (spesso non prive di costi) che sarebbero affluite
negli anni futuri. Tali interventi, che arginano il disavanzo senza intaccare il reddito permanente,
sono lo strumento correttivo dei deficit privilegiato dai governi in periodi di bassa crescita
economica; essi hanno però il difetto ovvio di produrre benefìci limitati nel tempo.
Nel 2004 il Governo ha programmato ulteriori misure una tantum.
La sostenibilità dei conti pubblici è fondamentale per un’economia sana, senza pressioni sul
tasso di interesse e senza inflazione.
Comunque è possibile cogliere segnali positivi e degni d’attenzione, anche se deboli. Se
l’economia nei dati di contabilità nazionale ha “girato a vuoto” e continua a farlo, al livello locale
si può invece registrare una certa vitalità.
È necessario far convergere i percorsi individuali d’internazionalizzazione dei distretti, rifare
politica attiva per il Mezzogiorno. Occorre quindi lavorare per consentire all’economia nazionale
di ricondurre i risultati e le energie del territorio a quelle del sistema generale.
F) Il mercato del lavoro.
E’ stata recentemente avviata una revisione organica del mercato del lavoro, con riguardo
specifico ai meccanismi d’accesso ed alle tipologie contrattuali.
A questa riforma, positivamente connotata da innovazione e flessibilità, mancano ancora
importanti segmenti:
a) ammortizzatori sociali;
b) incentivi all’occupazione;
c) adeguamento dei sistemi di formazione e di istruzione alle esigenze di una società fondata
sulla conoscenza.
G) Il tasso d’occupazione lavorativa e la disoccupazione.
Positivi i risultati conseguiti sul “fronte” della disoccupazione lavorativa, attestatosi al 8,9%
del totale della forza-lavoro (contro il 9,5% dell’anno precedente); ma la strada per aumentare nel
nostro Paese il numero d’occupati è ancora lunga.
L’Italia continua ad esser caratterizzata da un tasso d’occupazione basso, pari al 55,4% rispetto
al 73,1% degli USA e alla media europea di circa il 64%; nel nostro Paese si registra, inoltre, un
bassissimo tasso d’occupazione femminile e delle persone che hanno superato i 55 anni d’età
anagrafica.
H) La politica fiscale.
A nostro avviso, il DPEF presentato dal Governo nei giorni scorsi non attribuisce uno specifico
rilievo alla politica fiscale. Nel documento, infatti, vi sono pochissimi riferimenti diretti
all’adozione di misure fiscali di portata generale.
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3. Un nuovo ruolo per il “Terziario” nella società italiana.
A) Generalità.
In questo scenario c’è tanto bisogno d’un “Terziario” che:
a) favorisca e muova in prima persona i processi necessari allo sviluppo;
b) risolva sinergicamente i sempre più ampi e necessari spazi osmotici tra il settore pubblico
ed il settore privato del mondo del lavoro;
c) recuperi per sé e per il sistema socio-economico efficienza ed efficacia;
d) sviluppi pienamente le sue potenzialità, anche rendendosi supporto efficace per la domanda
intermedia dell’industria;
e) si qualifichi al meglio anche per l’ormai improrogabile crescita del Mezzogiorno italiano.
Solamente così il nostro Paese potrà conquistare e recuperare quote nei settori di più alto valore
aggiunto, per competere sfruttando nei modi migliori il valore che unicamente le componenti
progettuali di prodotto, di processo e di valore intangibile possono garantire.
Il “Terziario” viaggia ormai a livelli d’occupazione e di PIL prossimi o superiori al 70% in
Italia, in Europa ed ancor più negli USA. Il peso e l’importanza di questo settore sono in crescita
da anni (soprattutto nelle economie più avanzate), e lo saranno ancor più in futuro. Tale crescita è
dovuta:
a) all’aumento più che proporzionale, assunto via via dai servizi nei consumi finali al crescere
del reddito;
b) all’incremento della domanda intermedia di servizi da parte delle imprese, all’aumentare
del loro grado di modernizzazione.
Tuttavia, di fronte a questo incontrovertibile fenomeno che comincia ad esser finalmente
riscontrato come importantissima connotazione culturale di una società veramente avanzata,
proprio in Italia il “Terziario” riscuote ancora una scarsa attenzione da ambienti economici e
politici che convogliano e determinano le scelte programmatiche fatte poi proprie dalla Nazione.
Nel settore lavorativo privato, le necessità delle imprese e degli operatori del “Terziario” non
trovano attenzione adeguata né risposte, in un contesto ancora troppo centrato sulla “fabbrica
fordista” nonché su miti, riti, linguaggi, abitudini mentali, valori, modelli, metodi e processi di
creazione del valore di stampo “tayloristico” e industriale.
B) Il patrimonio professionale nelle imprese di servizi.
Le specificità e le particolarità delle imprese di servizi connotano ormai anche gran parte del
business dell’industria.
Cresce la parte di valore aggiunto connesso ad attività soft, diminuisce l’importanza delle
economie di scala; aumentano gli utili derivanti da attività di servizio, diminuiscono quelli
direttamente collegabili alla produzione. Aumenta oggettivamente l’importanza da riconoscere alla
capacità d’iniziativa degli uomini, alle loro competenze professionali, alle capacità d’innovare e di
cooperare, diminuisce l’importanza delle risorse locali di materie prime, delle rendite di posizione
e dei captive market. Quantità e numeri della produzione e dei mercati di massa sono superati da
tecnologia e servizio; è più importante innovare e gestire reti di rapporti e connessioni che
razionalizzare; gli investimenti si spostano dalle macchine alla relazione con i mercati, alla
comunicazione, alle persone che gestiscono questa relazione di servizio.
Da sempre le imprese di servizi sono caratterizzate da una minore strutturazione, da dimensioni
contenute, da una forte esternalizzazione e condivisione con altri del quotidiano operare. Per questi
motivi, in aziende che spesso hanno una od al massimo due figure dirigenziali, il management ha
dovuto affrontare da sempre problemi e situazioni complesse, ha avuto un ruolo determinante nel
dirigere nonché gestire e raggiungere le performances aziendali ed ha sviluppato uno stile ricco di
competenze e responsabilità.
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4. Le Amministrazioni pubbliche italiane.
A) Prospettive per una migliore attività amministrativa: nuove insorgenze organizzativogestionali nelle Amministrazioni pubbliche italiane. Il sistema dei controlli ed il ruolo
ordinamentale della legge 145/2002.
Il pluralismo politico e la competizione economica, che innervano il divenire dei moderni
sistemi sociali, comportano che le imprese e gli altri istituti di natura sociale (enti della pubblica
amministrazione, centri di ricerca, associazioni ed organizzazioni non profit, etc.) si determinino
come i veicoli fondamentali per attivare e convogliare verso obiettivi predeterminati le energie
umane, mosse verso uno sviluppo ed un cambiamento che sempre meglio valorizzino le risorse
disponibili e soddisfino i bisogni; tali energie ricevono impulso non solamente da iniziative di
singoli o da fattori d’ordine macroeconomico e macrosociale, ma soprattutto per condizioni
riguardanti salute, educazione, cultura, sport, tempo libero (per i fortunati che ce l’hanno…!), in un
contesto sociale che vede le medesime persone partecipare a più ruoli nel medesimo sistema
organizzato (ad esempio: operatore nella P. A. e, nel contempo, utente dei servizi da essa erogati).
Saper decidere le strategie ed analizzare i risultati, connessi a queste attività organizzate, obbliga
gli operatori delle Amministrazioni pubbliche a dotarsi di un’adeguata forma mentis e di
conseguenti mezzi operativi.
In presenza della rivoluzione normativo-costituzionale in atto nel nostro Paese,
l’Amministrazione pubblica italiana deve fare i conti col mondo delle imprese di mercato, che per
primo ha introdotto ed utilizzato diffusamente i sistemi di controllo della gestione. Questo mondo,
eminentemente finalizzato - a differenza dell’ordinamento delle amministrazioni pubbliche - a
conseguire dalla propria attività primariamente un profitto economico, deve far convivere lingue
nonché concezioni culturali ed esperienze concrete estremamente varie.
Nella realtà imprenditoriale non risulta univoca la nozione stessa di “controllo di gestione”, la
cui individuazione andrebbe effettuata sulla base di stratificazioni storiche: dal bilancio
economico-patrimoniale (fondato sul rapporto tra l’impiego del patrimonio affidato all’impresa e
l’entità del reddito prodotto) alla contabilità analitica (impostata sul concetto di “centro di costo”,
ossia di quell’entità concettuale che determina l’effettivo consumo delle risorse di produzione) ed
ai suoi differenziati sviluppi metodologico-applicativi nel senso di una programmazione previa e
di una riprogrammazione in itinere delle azioni da intraprendere, fino ad integrare tali metodi
d’analisi con l’individuazione di “centri di responsabilità” (parti dell’organizzazione in cui il
titolare della funzione, coinvolgendo più o meno i propri collaboratori, scommette su obiettivi
assegnatigli, formulandone il budget e controllando l’andamento della gestione attraverso i dati
forniti dal sistema informativo di controllo).
La predetta evoluzione ha richiesto una crescita delle strutture deputate alla definizione delle
risorse ed al controllo (“di gestione”) del loro impiego: tali strutture di staff, rese importanti dalla
necessità di far convivere responsabilità ed autonomia “decentrata” insieme a forme di
coordinamento complessivo, sono divenute “di consulenza” ai titolari (line) dei centri di
responsabilità e di coordinamento delle complessive operazioni finalizzate a formulare previsioni e
prevederne risultati. Si controlla il divenire dell’azione amministrativa, che può far sovrapporre la
nozione di “centro di responsabilità” (inteso come struttura gerarchica, oppure come organismo
deputato direttamente a progettare o produrre) su quella di “centro di costo” (è, ad esempio, il caso
delle unità produttive decentrate), oppure vede il “centro di responsabilità” articolarsi su più
“centri di costo”.
Essenziale per la migliore raccolta ed elaborazione di questi dati è un adeguato supporto
informatico (elemento che, leggendo il DPEF, appare essere a cuore dell’attuale azione
governativa), il quale però non si limiti a catalogare una massa enorme di dati scarsamente
intelligibili ed invece suscettibili di divenire zavorra inutile rispetto a scelte amministrative od
imprenditoriali da operare con immediatezza, ma sia in grado di garantire semplificazione effettiva
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nell’utilizzazione variamente finalizzata delle informazioni e nella diversificazione dei livelli del
controllo (strategico o “sulla gestione”, tattico, sulle operazioni specifiche).
Ma proprio l’avvento dell’informatica nella P. A. (lo si vede osservando - dal 1993 ad oggi l’operato dell’AIPA, ossia dell’Autorità informatica per la pubblica amministrazione) ha posto in
luce una serie di problemi, difficilmente riconducibili ad un’elaborazione e ad una
rappresentazione delle informazioni di controllo in termini di grandezze solamente economiche:
problemi spesso sottaciuti - soprattutto all’epoca della formazione di queste norme - per
aprioristica volontà impositiva dell’azione di quei governi. Per esempio, l’efficienza non è
suscettibile d’esser valorizzata economicamente; la valutazione economica di taluni elementi
costitutivi di una prestazione lavorativa (tra questi: il tempo da impiegare) è spesso problematica
(che cosa potrebbe dire in materia un esperto di contenzioso, quando per render conto della propria
produttività egli si veda imporre la necessità d’evadere un numero minimo di pratiche come se
producesse scarpe, mentre il suo lavoro deve invece articolarsi nella ricerca assidua e nella
scoperta di soluzioni spesso originali e talvolta ardue?). La considerazione di tali fenomeni ha
cominciato finalmente a far intravedere la necessità d’affrancare (progressivamente o non) i
sistemi di controllo gestionale dalla funzione contabile in cui sono originati.
Nella predetta prospettiva, quattro requisiti si rivelano fondamentali – secondo la CONFEDIR,
ma soprattutto secondo autorevole dottrina - per costruire un buon sistema informatico del
controllo di gestione:
a) l’integrazione con gli altri sistemi informatici. Il sistema informatico del controllo di
gestione deve raccordarsi coi flussi informativi esistenti nell’Amministrazione, nel cui interno
coabitano più sistemi informatici che obbediscono ciascuno alla raccolta e all’elaborazione di dati
specifici. Il sistema informatico per il controllo di gestione, abbracciando l’intera attività
amministrativa, deve essere dunque un sistema integrato centralizzato, che si raccorda coi sistemi
informatici dedicati a funzioni specifiche (contabilità, personale, anagrafi dell’organizzazione,
supporto ad attività direttamente operative…) e li integra;
b) la flessibilità del sistema informatico scelto. I dati informatici vanno letti su più direttrici
continuamente modificabili e necessitano, perciò, di una capillare parametrazione che soddisfi tale
esigenza. Il sistema informatico va altresì modificato con grande duttilità (nei processi
d’alimentazione, nella base di dati, nelle procedure d’elaborazione e presentazione delle
informazioni) ad ogni mutare ordinamentale dell’amministrazione, per l’impatto che ciò ha sui
meccanismi di controllo;
c) la modularità delle parti componenti il sistema informatico scelto. Questo può essere
strutturato su più moduli di base, che forniscono le informazioni ad altrettanti livelli “verticali” di
lettura; tali moduli sono integrabili tra loro in maniera “interlivellare”. Inoltre i moduli informativi
debbono essere orientati “orizzontalmente” alle esigenze funzionali che sono proprie delle varie
fasi di controllo, particolarmente della negoziazione degli obiettivi e della valutazione dei risultati;
d) la selettività delle informazioni trattate. Le informazioni raccolte ed elaborate debbono
essere funzionali a soddisfare bisogni specifici. Ciascun utente del sistema informatico di controllo
ha esigenze diverse per livello di responsabilità, leve gestionali di cui disponga, obiettivi assegnati,
sua percezione dei fattori critici di successo. Le informazioni, che il sistema informatico del
controllo abbia l’onere di gestire direttamente, debbono essere opportunamente selezionate e preelaborate secondo criteri d’aggregazione e di sintesi definiti di volta in volta. Procedure
d’alimentazione ad hoc debbono selezionare ed estrarre dagli altri sistemi informatici le
informazioni elementari, per renderle omogeneamente leggibili e strutturarle nonché aggregarle
secondo il formato della base di dati del controllo.
Del resto, osservando “l’altra faccia della medaglia”, si nota che alle tecniche di controllo
gestionale corrispondono bisogni di gestione; ciò spiega negli organismi pubblici o privati la
possibile coesistenza di realtà sofisticatissime e di strutture primitive. Per la Pubblica
Amministrazione questa diversificazione, certo esistente, potrà costituire un elemento di ricchezza
se e quando la P. A. medesima supererà man mano la logica del controllo previo di legittimità
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(ispirata a formalistico apriorismo normativo), a favore di una logica sperimentale che con saggia
economicità parta da casi concreti (magari prendendo spunto dai quotidiani rapporti coi cittadiniutenti) per poi affondare il bisturi operando cambiamenti sempre più profondi, anche sventrando
potenti risacche nepotistico-clientelari (vere cause - queste sì! - d’inefficienza diffusa e
d’immobilità amministrativa che vanificano ogni buon proposito di riforma, da qualunque parte
politica esso provenga). L’attuazione concreta di quanto sopra deve esser finalizzata a
cambiamenti che veramente risultino a vantaggio primario della collettività (come la Costituzione
vuole), e comporta - oltre ad un ruolo centrale di propulsione da parte della Presidenza del
Consiglio dei Ministri - sia la definizione di spazi più netti per un’autonomia effettiva della
dirigenza pubblica, sia un forte ruolo della Corte dei Conti per una prestigiosa azione di stimolo,
d’indirizzo e di possibile orientamento concreto a favore di un’attuazione autentica dei
fondamentali princìpi costituzionali e legislativi dello Stato italiano, nell’ottica di una piena
integrazione europea. In questo senso si plaude in maniera convinta all’avvento del “controllo di
gestione” nella P. A. italiana, purché usato bene.
Saper valutare i risultati delle proprie azioni e dei propri comportamenti nel contesto umano di
riferimento è un requisito indispensabile per chi, inserito in un ruolo sociale, voglia contribuire ad
un vero progresso della comunità. Per far bene ciò, occorre esaminare la realtà fenomenica
dell’azione amministrativa attraverso tre criteri:
a) i risultati conseguiti o da conseguire. Si tratta dell’aspetto più immediato, cui generalmente
si presta l’attenzione maggiore;
b) le strategie utilizzate o da utilizzare. Per analizzarle è necessario discernere:
1) quale concezione di fondo abbia l’ente o l’azienda (fini primari, scopi, campo d’attività,
modo di essere e d’operare);
2) quali siano i concreti obiettivi ed indirizzi gestionali;
3) come la struttura possa contribuire alla funzionalità duratura dell’organismo complesso;
c) l’operato del gruppo dirigente. L’esame di questo criterio non può essere considerato una
derivazione meccanica della valutazione dei risultati o tutt’al più della strategia, poiché per la vita
duratura dell’ente o dell’azienda si rischia di restringere l’analisi alla capacità di produrre risultati
nel breve periodo e di trascurare l’esame di strategie a lungo termine, che potrebbero consentire
all’organismo complesso un positivo “salto di qualità” in vista d’un miglior perseguimento dei
suoi scopi ultimi.
A questo punto ci si chiede: le più recenti riforme amministrative italiane – con particolare
riguardo a quelle inerenti ai controlli “di” e “sulla” gestione delle Amministrazioni pubbliche –
hanno dato sempre luogo a risultati agevolmente percepibili, non equivoci, accuratamente
misurati, idonei a venire incontro alle vere esigenze della collettività? A séguito delle nuove
riforme tutti i risultati dell’azione amministrativa sarebbero perfetti, o piuttosto continuerebbero a
perpetuarsi – e magari ad aggravarsi, in taluni contesti – elementi negativi che, quanto più presenti,
tanto più consentirebbero all’organizzazione d’acquisire autonomia fine a sé stessa rispetto al suo
ambiente di riferimento e ai cittadini destinatari della sua azione? E – se ed in quanto ciò sia vero –
quanto inciderebbero sul suo funzionamento criteri di stampo politico (scelte d’opportunità
strategica, magari di contro al riconoscimento di diritti inalienabili), ovvero comportamenti degli
operatori che siano influenzati da prevalenti scopi particolari come interessi di gruppo e
sottogruppo o logiche di potere? Quanto, come e fino a quando la singolare complessità
organizzativa della P. A. italiana potrebbe consentire che nel suo seno continuino ad albergare
simili “patologie”?
L’Amministrazione pubblica italiana non può essere autenticamente al servizio dei cittadini, se
non è in grado di valutare i risultati della propria attività in relazione agli interessi supremi della
collettività. L’esistenza conclamata di queste “patologie” del sistema amministrativo consente ciò
che sta avvenendo in maniera preoccupante da una decina d’anni: una proliferazione ed una
diversificazione delle funzioni di controllo e garanzia (controlli interni ed esterni, sovrapposti e
stratificati variamente), fino a che tutto sarà kafkianamente “sotto controllo”.
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Un’orgia di controlli sta dilatando e bizantinamente complicando oltremodo il sistema delle
responsabilità formali di dirigenti e funzionari direttivi (specialmente se questi ultimi sono investiti
di funzioni dirigenziali); dato che l’economicità degli interventi amministrativi è considerata una
distinta categoria valutativa rispetto alla legittimità, ecco in più l’avvento dei controlli di gestione
da effettuare con logica manageriale, concettualmente contrapposta alla logica di legittimità ma in
effetti aggiunta a questa. Così la struttura amministrativa, imbrigliata in una rete di controlli
suscettibili anche di paralizzarsi reciprocamente, rischia di divenire fine a sé stessa e prestarsi a
squallidi quanto alienanti giochi di potere, mentre i cittadini attendono invano il rispetto di loro
diritti od il riconoscimento di propri interessi e potrebbero stancarsi di versare tasse-impostecontributi a “fondo perduto” senza ricevere dallo Stato-apparato adeguate controprestazioni in
termini di servizi.
Non appare fondata, dunque, l’invalsa abitudine di riferire alla connotazione istituzionale di
“sistema privilegiato” la ridotta tensione della P. A. all’efficienza. Se è infatti vero che - a
differenza delle imprese private, le quali ogni giorno debbono fare i conti col proprio successo
competitivo - la P. A. medesima sopravvive grazie alla garanzia fornita dalla collettività per il
reperimento di risorse da destinare normalmente a servizi per essa, è altrettanto vero che la
struttura pubblica, per poter continuare ad operare rispettando quest’investitura popolare, dovrebbe
essere una “casa di vetro” in cui la comunità nazionale riscontri valorizzato con parametri obiettivi
il ruolo primario del lavoro (svolto o da svolgere) e l’idoneità di questo a produrre valore aggiunto
per la comunità stessa.
Per ottenere questo risultato, ispirato da nobile impegno civile prima ancora che da azione
contingente di governo, occorre potenziare la vocazione istituzionale ad applicare le leggi vigenti e
consentire la predisposizione di tutti gli atti normativi finalizzati ad una sua applicazione integrale
(non occhiuta, bensì oculata e aderente ai principi che l’hanno ispirata). Uno strumento
fondamentale per ottenere tale risultato è costituito dalla legge 15 luglio 2002 n. 145, riforma
fondamentale per l’Amministrazione statale e - attraverso essa - dell’intera Amministrazione
pubblica italiana: una legge che – se applicata integralmente – è in grado di rendere nuovamente
credibile la P. A. ai cittadini, i quali già in tema di riforme istituzionali (particolarmente all’epoca
dell’apposita Commissione bicamerale) chiedevano agli interlocutori politici (secondo attendibili
sondaggi d’opinione coevi) innanzitutto un miglior rapporto dei singoli con l’Amministrazione
pubblica: indicazione completamente ignorata, allora, dai lavori parlamentari sull’argomento.
B) La dirigenza nello Stato e nelle Amministrazioni pubbliche in genere.
Quanto alle previsioni della legge 145/2002 sulla dirigenza, occorre considerare che in linea di
massima lo spoils system ivi contemplato (art. 3) – ancorché certamente migliorabile, allo scopo
d’evitare che tale istituto possa comunque dar luogo a comportamenti arbitrari - sembra garantire
in buona parte delle scelte amministrative la trasparente tutela della razionalità, dell’efficienza,
dell’efficacia, della tempestività e dell’economicità dell’azione amministrativa, con riguardo
primario e fondamentale alle supreme esigenze della collettività.
Il sistema progettato dall’attuale Governo, condiviso dalla maggioranza anche con riferimento
a pregressi contributi progettuali d’iniziativa parlamentare nonché divenuto legge della
Repubblica, nell’insieme si sta dimostrando – salve occasionali “patologie”, diffuse soprattutto
nelle Autonomie locali ed in taluni settori dello Stato - abbastanza idoneo ad intervenire su
precedenti meccanismi di nomina dirigenziale troppo spesso clientelari, vissute in esperienze
pregresse ed ancor oggi foriere di strascichi anche in sede contenziosa.
C) La vicedirigenza statale.
Il Parlamento italiano con la legge 15 luglio 2002 n. 145 ha anche istituito nelle
Amministrazioni pubbliche (direttamente in quelle statali) la qualifica di vicedirigente, definendo i
destinatari e rinviando alla contrattazione la disciplina della relativa area specifica.
Questa legge ha voluto sostanzialmente rendere un miglior servizio dell’Amministrazione
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pubblica alla collettività: l’istituto giuridico della vicedirigenza assume un rilievo strategico nella
definizione di un apparato amministrativo pubblico più aderente ai traguardi italiani ed europei. Da
decenni il personale vicedirigenziale (ex-direttivo) già nei fatti esercita – senza sostanziali
riconoscimenti effettivi, né di carriera, né economici - funzioni di diretta collaborazione col
dirigente, di sua sostituzione in caso d’assenza od impedimento, di direzione di unità organiche di
particolare rilevanza non riservate alla competenza gestionale del dirigente, ovvero còmpiti di
natura tecnica o scientifica aventi speciale rilievo.
In tale ottica s’inquadra il riconoscimento formale della comprovata necessità di decentrare le
competenze dirigenziali, parte delle quali sarebbero appunto destinate ai vicedirigenti (già
funzionari dell’ex-carriera direttiva) in quanto collaboratori diretti ed istituzionali della dirigenza
statale; tale riconoscimento effettivo nonché formale è necessitato da un contesto amministrativo,
in cui si registra un eccessivo “assottigliamento” delle presenze dirigenziali in organico e la
contestuale proliferazione di “reggenze” conferite a funzionari ex-direttivi. Con la nuova legge
l’ordinamento giuridico ed amministrativo italiano si è arricchito potenzialmente (non ancora in
atto, quanto alla vicedirigenza) di una normazione che certo comporterà notevoli conseguenze
positive sul rapporto tra la cittadinanza e le strutture amministrative pubbliche, italiane ed
omologhe degli altri Paesi europei nonché facenti capo all’Unione europea.
L’applicazione concreta del nuovo istituto normativo della vicedirigenza certamente debellerà
le ancor riscontrabili situazioni ingiustificate di privilegio e di squalificazione professionale causa primaria d’inefficienze spesso gravi - nell’Amministrazione pubblica, contro le quali
giustamente la legge ha voluto intervenire. Nell’Amministrazione pubblica, l’istituto della
vicedirigenza costituisce una misura ordinamentale indispensabile ai sensi dell’art. 97 della
Costituzione e realizza il conseguente coordinamento normativo con la disciplina dettata dall’art.
40 del d. l.vo 30 marzo 2001 n. 165.
Poiché, ad ormai un anno dalla promulgazione della legge, si riscontra ormai indifferibile la
necessità di un’idonea e tempestiva attuazione delle fasi transitorie, previste dalla citata legge
nuova per il conseguimento concreto dei suoi obiettivi votati dal Parlamento, la CONFEDIR
chiede al Governo di:
a) predisporre tutti i provvedimenti necessari a valorizzare pienamente quelle elevate e
specifiche professionalità, ora contrattualmente compresse e livellate in aree funzionali e
professionali promiscue;
b) garantire correlativamente, nel DPEF e nei conseguenti provvedimenti legislativi futuri
(nonché in relazione alle prescritte fonti giuridiche sub-primarie, non ancora concretate):
1) l’individuazione della separata sede contrattuale, in cui deve essere esercitato l’obbligo
di prevedere e disciplinare l’area vicedirigenziale;
2) la decorrenza degli effetti contrattuali (giuridici ed economici) per i vicedirigenti;
3) la definizione puntuale delle occorrenti risorse economiche, distinte sia da quelle
previste per il personale dirigenziale propriamente detto (questa soluzione farebbe rispettare anche
il principio – art. 39 Cost. – della rappresentanza d’interessi, con riguardo alla rilevante
opportunità – per il Governo – d’avere come interlocutori naturali i sindacati che maggiormente ed
istituzionalmente rappresentano la categoria dei vicedirigenti), sia da quelle previste per il
personale delle aree professionali non dirigenziali (ventilata immissione dei vicedirigenti nel
medesimo contratto riguardante il personale non laureato e non avente le rilevanti responsabilità
istituzionali-lavorative, che la nuova legge ascrive formalmente ai vicedirigenti stessi);
4) la conseguente possibilità effettiva di definire per contrattazione collettiva, nei confronti
dei vicedirigenti, una retribuzione tabellare (al personale delle qualifiche ad esaurimento
dovrebbero a loro volta esser garantite distinte posizioni giuridiche ed economiche), tenendo
tuttavia presente che la formulazione dell’articolato legislativo demanda a quella contrattazione un
ruolo supplente in ordine essenzialmente all’aspetto retributivo della categoria de qua agitur, la cui
istituzione è invece prevista per legge formale della Repubblica;
c) impartire con immediatezza ormai improcrastinabile le direttive d’applicazione in ordine
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CONFEDIR
alle modalità procedimentali, richieste per l’attribuzione della qualifica vicedirigenziale al
personale avente titolo;
d) utilizzare, previa la contrattazione della relativa disciplina, il personale vicedirigenziale
nelle funzioni delegate dai dirigenti allo scopo di garantire la funzionalità degli uffici ed evitare –
in forza della mancata copertura attuale dei posti dirigenziali - gravi carenze organizzative addosso
alla collettività;
e) emanare in tempi ravvicinati i necessari atti d’indirizzo all’ARAN, per consentire la
rilevazione dei sindacati maggiormente rappresentativi dei funzionari individuati dalla legge
145/2002 come destinatari della qualifica di vicedirigente, per poter disciplinare la corrispondente
area contrattuale e per definire i trattamenti spettanti a tale categoria subito dopo i rinnovi dei
contratti collettivi nazionali di lavoro relativi a tutti gli altri dipendenti pubblici;
Sia, infine, detto per inciso: moltissimi vicedirigenti (ma anche altri dipendenti statali) si
porteranno ancora addosso problemi non risolti, come quello della corretta erogazione della RIA.
A tale proposito, sarebbe auspicabile che l’art. 7 - primo comma - del decreto-legge 19 settembre
1992 n. 384 (convertito con modificazioni dalla legge 14 novembre 1992 n. 438) venga
interpretato nel senso che ai pubblici dipendenti interessati sia riconosciuto il diritto di percepire la
retribuzione individuale d’anzianità, maturata dall’anno 1991 al 1993 e non ancora corrisposta;
sarebbe conseguentemente abrogato il secondo comma dell’art. 46 della legge 23 dicembre 2000 n.
382.
D) Le equiparazioni alla vicedirigenza statale nell’àmbito del pubblico impiego.
La CONFEDIR attende, infine, un concreto e puntuale impegno governativo che garantisca
finalmente l’attuazione integrale della nuova legislazione sulla vicedirigenza. Andranno perequate
le diverse posizioni esistenti:
a) nel comparto statale, tra i funzionari appartenenti all’ex-carriera direttiva;
b) quanto agli altri comparti del pubblico impiego, tra le posizioni degli ex-direttivi statali e le
equivalenti posizioni esistenti nella rimanente area pubblica per le professionalità omologhe.
Siffatta perequazione è resa indispensabile dall’unità della funzione direttiva, reintrodotta
finalmente dalla normativa in esame esplicitamente per il comparto dei ministeri ed estesa - in
quanto compatibile, ai sensi del nuovo art. 117 della Costituzione ed anche con riferimento al
nuovo testo di riforma costituzionale licenziato dal Consiglio dei Ministri l’11 aprile 2003 - agli
altri comparti del pubblico impiego; il riconoscimento economico dell’esercizio di tale funzione
s’articola dalla posizione economica iniziale alla vicedirigenza e fino alla dirigenza vera e propria.
Tale equivalenza non consente più l’esistenza di difformità anche in ordine all’iniziale trattamento
tra i funzionari laureati, assunti col relativo concorso pubblico, che costituiscono il naturale
serbatoio per l’accesso esclusivo all’area dirigenziale, con esplicito riferimento alla dizione
“apposita area della vicedirigenza” fornita dal nuovo testo, intendendovi “apposita” come
“strumentale ai sistemi selettivi per la dirigenza”.
Conformemente al nuovo testo legislativo, la contrattazione collettiva deve disciplinare (nella
sua attuale vigenza) l’istituzione dell’apposita area della vicedirigenza; sicché tra i suoi effetti
giuridici immediati essa comprende anche l’acquisizione della qualifica di “vicedirigente” per tutti
quei funzionari in possesso dei requisiti ex lege “anche di amministrazioni diverse dallo Stato
appartenenti a posizioni equivalenti alle posizioni ‘C2’ e ‘C3’ del comparto dei ministeri”:
a) iniziale criterio d’equivalenza, introdotto e valido per tutte le situazioni, è la vittoria d’un
concorso previsto per l’accesso all’ex-carriera direttiva;
b) oltre al possesso “degli altri requisiti richiesti” (come indicati dal secondo capoverso
dell’art. 17/bis della legge 145/2002), qualora i predetti funzionari direttivi abbiano maturato
anche la prescritta anzianità di cinque anni nel ruolo, va loro attribuita la qualifica di vicedirigente
insieme al corrispondente trattamento economico, mentre agli altri funzionari con minore anzianità
di servizio nel ruolo dell’ex-carriera direttiva va attribuita l’equivalente posizione “C2” anche in
forza della disciplina prevista per l’accesso alla superiore posizione economica, come in atto
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CONFEDIR
contrattualmente vigente nel comparto-ministeri (1);
c) l’acquisizione del superiore trattamento economico costituirebbe giustamente, così, un
effetto premiale dell’impegno profuso e della maggior professionalità, senza che sia ravvisabile la
necessità di modificare in alcun modo lo status giuridico posseduto;
d) unico dovrà dunque risultare il sistema di concorsi pubblici per l’ingresso nell’area
predirigenziale;
e) il trattamento economico dovrà avvenire all’insegna dell’uniforme posizione giuridica,
conseguita in tutte le Amministrazioni pubbliche dai funzionari tirocinanti;
f) unica dovrà risultare la disciplina d’equivalenza per l’ingresso nell’area vicedirigenziale.
L’immissione nelle separate aree della vicedirigenza e dei professionisti avverrà ex lege al
completamento del quinquennio in ruolo, purché siano mantenuti i requisiti previsti per
l’immissione in ruolo dal bando di concorso, requisiti da vagliare nella domanda accertando
l’idoneità dei funzionari all’acquisizione della posizione giuridica prevista dalla nuova legge;
g) unico dovrà parimenti risultare il trattamento economico per l’ingresso nella vicedirigenza;
h) nelle prime rispettive applicazioni contrattuali, l’istituzione delle predette aree separate
dovrà produrre immediati effetti giuridici per via della menzionata equivalenza delle posizioni,
riguardanti gli aventi diritto al novellato inquadramento giuridico decorrente dall’entrata in vigore
della relativa normativa di riferimento.
E) Conclusioni.
Tutti i modelli amministrativi sono perfettibili. Tuttavia, affinché ciascuno di loro funzioni nel
contesto costituzionale e ordinamentale dello Stato d’appartenenza, chiunque ha la responsabilità
di esso deve quotidianamente rifarsi all’indefettibile presupposto di rispettare, nella sostanza e
fino in fondo, la cittadinanza e la collettività al cui servizio l’Amministrazione pubblica è posta.
Perché in Italia sia adempiuto a questo sacrosanto dovere civile e morale, dovrebbero verificarsi
tre condizioni che a tale scopo appaiono necessarie e sufficienti:
a) una stabilità del quadro politico di Governo, che dia impulso a far funzionare correttamente
le varie fasi dell’attività amministrativa (indirizzo politico, gestione, controllo dei risultati
dell’attività);
b) una chiarezza inequivocabile d’obiettivi politici ed amministrativi, per individuare che cosa
l’amministrazione produca effettivamente e che cosa debba produrre in via istituzionale;
c) l’esattezza tecnico-giuridica e la tempestività nel rimuovere dall’ordinamento le norme
contrastanti coi principi costituzionali italiani e di diritto europeo, norme che risentano di
concezioni socio-politiche estranee a tali principi.
Il verificarsi di queste tre condizioni potrebbe finalmente – sul piano civile e politico - ridare ai
cittadini voce, influenza e potere, consentendo loro d’usare in maniera bilanciata ed equilibrata
strumenti di democrazia “di base” finora esercitati non al meglio delle loro potenzialità. A
quest’esigenza il documento in esame – nel suo complesso, e salve indicazioni che la CONFEDIR
potrebbe formulare sul piano tecnico quale contributo costruttivo al dibattito socio-politico in
corso sull’argomento – appare lodevolmente ispirato.
____________
(1) Tale disciplina per l’accesso alla superiore posizione economica rientrerebbe nella concezione di quella formazione
continua, la quale ora più che mai dovrà caratterizzare la vita dell’Amministrazione pubblica perché questa possa rispondere
adeguatamente alle sfide dell’epoca moderna, per efficienza ed economicità dell’azione.
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CONFEDIR
5. I principali settori d’intervento nell’attuale economia italiana.
A) Il Mezzogiorno.
Il Sud continua a crescere più del Paese. È ancora troppo poco per sperare che nel termine
breve-medio possa diminuire sensibilmente quel gap economico sofferto dall’Italia meridionale
rispetto al resto del Paese; l’annullamento di questo gap è invece un obiettivo obbligatorio se si
vogliono raggiungere, oltreché i naturali risultati sociali e politici, anche quegli obiettivi di crescita
che costituiscono oggetto d’un preciso impegno italiano già assunto nei confronti dell’Unione
Europea.
Secondo l’ISTAT, l’economia meridionale ha ottenuto risultati positivi quanto alla dinamica
del prodotto interno lordo (+0,7%), dello sviluppo occupazionale (+1,4%) e dei consumi finali
interni (+0,4%). Alla buona performance del Meridione ha contribuito essenzialmente il
“Terziario”, che ha registrato un incremento di valore aggiunto pari all’1,4%.
In ordine alle problematiche relative al Mezzogiorno, l’azione proposta dal Governo dovrebbe
quindi prevedere interventi mirati allo sviluppo delle attività economiche e dell’occupazione: ciò
per raggiungere anche in quelle aree territoriali l’ambizioso obiettivo del 70% d’occupazione
media, richiesto dall’Europa entro il 2010. In particolare la CONFEDIR chiede:
a) per il settore lavorativo pubblico gli adempimenti politici e normativo-strutturaliorganizzativi individuati nella presente memoria dal § 4, affinché venga allontanato
definitivamente dalla cittadinanza dell’Italia meridionale lo spettro sottoculturale di
un’Amministrazione pubblica dallo stampo ancora “feudale” e condizionata da indebite pressioni
eteronome che tuttora in molti luoghi la indeboliscono fino a snaturarla;
b) per il settore lavorativo privato - così come previsto dal Patto per l’Italia del luglio 2002 –
l’introduzione di specifiche misure per il potenziamento delle figure manageriali del Mezzogiorno,
la cui attuale debolezza è uno dei fattori che condiziona pesantemente la potenzialità di sviluppo
del Sud. In tale intesa, “attraverso il Contratto di Programma si prevedeva l’attivazione anche di
processi di trasferimento di conoscenze e sapere in grado di migliorare la qualità dell’offerta di
lavoro e la diffusione delle capacità manageriali”: tale aspetto era e deve essere considerato
essenziale per la strategia dello sviluppo del Mezzogiorno. Infatti, ad oggi, la ripartizione tra le
regioni del Nord, del Centro e del Sud evidenzia una nettissima distribuzione geografica di
managers e alte professionalità nel Nord rispetto al Centro-sud (magari sono parecchie le unità
altamente professionalizzate d’origine geografica centro-meridionale, che però hanno trovato
sbocco lavorativo solamente nell’Italia settentrionale). Nel 2001, dei 156.000 dirigenti d’azienda
in Italia, ben il 94,8% del totale dipendevano da aziende del Centro-Nord e soltanto il 5,2% da
aziende presenti nell’area meridionale: il divario, eccezionalmente elevato, non presenta alcuna
correlazione con gli altri indicatori dello sviluppo economico.
Dovrebbero essere attivati strumenti in grado di favorire la diffusione delle capacità
manageriali, i cui effetti positivi si ripercuoterebbero poi sul livello di competitività delle imprese
e sulla potenzialità di sviluppo del sistema economico in generale. A tal fine sarebbe auspicabile,
nell’àmbito della strategia attuativa della recente “legge-BIAGI”, che parte del contributo del 4%
(da versare obbligatoriamente, da parte dei soggetti autorizzati alla somministrazione, per
promuovere percorsi di qualificazione e riqualificazione) venga destinata a sostenere interventi
formativi per le figure d’elevata professionalità dipendenti da società operanti nel Mezzogiorno.
Sarebbe inoltre utile prevedere, a favore del Mezzogiorno, il “taglio” dell’IRPEF, dell’IRPEG
e dei contributi sociali per i nuovi investimenti e la nuova occupazione, con riferimento ad un
periodo non troppo breve (almeno 3 anni): capitali investiti e forza-lavoro debbono espandersi per
la ripresa di una crescita stabile dell’economia del Mezzogiorno. Ad esempio:
a) si potrebbero estendere gli sgravi dei contributi previdenziali, posti a carico delle imprese,
non soltanto a quelle che assumono dirigenti in mobilità (cfr. legge 266/1997), ma anche a tutte le
imprese dell’area del Mezzogiorno che assumono nuovi dirigenti;
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CONFEDIR
b) sarebbe inoltre opportuno estendere la durata temporale di tale agevolazione, almeno fino a
tre anni;
c) si potrebbe altresì prevedere l’erogazione di incentivi alle imprese, sempre del Sud, che
operano il passaggio dei “quadri” direttivi alla categoria dirigenziale.
Infine, uno strumento privilegiato ai fini del rilancio meridionale potrebbe esser costituito dai
“contratti di localizzazione”, che una recente delibera del CIPE ha iniziato a delineare e che
dovrebbe prevedere accordi tra amministrazioni centrali, regionali e locali, sindacati ed
associazioni imprenditoriali, per mettere a punto “pacchetti integrati” di localizzazione produttiva
per lo sviluppo.
La CONFEDIR sollecita infine il Governo ad attuare pienamente il “Patto per l’Italia” stipulato
nel luglio 2002, in cui il Governo medesimo si è impegnato per:
a) adeguare la dotazione infrastrutturale del Mezzogiorno ai livelli del restante Paese;
b) promuovere l’attuazione piena ed immediata della strategia nazionale connessa alla “leggeobiettivo”;
c) concentrare nel Mezzogiorno lo strumento del credito d’imposta, allo scopo di fornire
certezza finanziaria.
B) Promozione massiccia della ricerca scientifica, tecnologica e culturale.
Nei giorni scorsi, il Presidente della Repubblica ha affermato che per il miglioramento della
competitività del sistema italiano è determinante la collaborazione tra le categorie economiche e le
forze sociali: una collaborazione, ritenuta indispensabile dal Presidente CIAMPI (e pienamente
condivisa dalla CONFEDIR) per la diffusione dell’innovazione e per l’utilizzazione proficua di
nuove tecnologie.
Coerentemente con gli obiettivi delineati nella conferenza di Lisbona, l’Italia deve indirizzarsi
verso un sistema economico basato sulla conoscenza e sull’innovazione; ciò richiede quindi un
sensibile potenziamento delle attività di ricerca e sviluppo.
L’Italia deve trovare la volontà, la capacità ed anche la cultura necessarie per investire di più in
ricerca e sviluppo. Deve essere ben chiaro che le tecnologie e lo sviluppo sono fonti d’opportunità.
Il Governo dovrebbe aver compreso che i provvedimenti di sostegno alla ricerca vanno presi in
considerazione soprattutto nei momenti in cui l’economia è in maggior affanno, per aumentare la
competitività del Paese nel medio periodo.
In Italia, la spesa complessiva nelle attività di ricerca e sviluppo è pari a circa 13 milioni di
Euro, corrispondenti a poco più d’un punto percentuale di prodotto lordo, a fronte di una media
europea che si colloca al 2,2%. Per fronteggiare questa gravissima difficoltà, che da qualche
decennio si pone in una situazione antistorica rispetto alle plurisecolari e luminosissime tradizioni
di ricerca scientifico-culturale svolte in terra italiana, si suggeriscono almeno le seguenti ipotesi
d’intervento:
a) si potrebbe diminuire di circa due punti percentuali la spesa pubblica, destinando questo
risparmio all’innalzamento di circa un punto della percentuale del PIL della spesa in ricerca;
b) si dovrebbe delineare una strategia di medio-lungo periodo sulla ricerca e sull’innovazione.
Gli obiettivi di spesa pubblica dovrebbero prevedere:
1) un graduale innalzamento della percentuale del PIL della spesa in ricerca fino al 3% nel
2010, come indicato negli impegni presi in sede europea;
2) la riattivazione del finanziamento delle leggi sulla materia.
C) Un aumento di competitività, fondato sulla qualità.
Secondo un’indagine dell’EURISPES, l’Italia è il Paese dell’Unione europea meno
competitivo; nel mondo si colloca addirittura al 40° posto. La classifica è fondata su tre
“macrovariabili”:
a) la tecnologia (innovazione, Information and Communication Technology);
b) le istituzioni pubbliche (livello percepito di efficienza, ruolo delle regole e delle leggi);
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CONFEDIR
c) l’ambiente macroeconomico (inflazione, risparmio nazionale, sviluppi del tasso effettivo di
cambio).
All’interno del panorama europeo il sistema economico sconta ancora un ritardo soprattutto sul
versante dell’informatizzazione, dell’innovazione e della ricerca, pagato in termini di
competitività. Secondo la CONFEDIR, occorre:
a) rilanciare una politica dello sviluppo, poiché la competitività deve puntare verso la qualità;
b) “varare” riforme strutturali;
c) contestualmente alle riforme strutturali, mettere in opera una politica economica di segno
espansivo.
Tutto ciò deve riversarsi sul DPEF, che deve prefiggersi con idonea ed inequivocabile
determinazione di:
a) rilanciare i consumi interni;
b) liberare il reddito dalla pressione fiscale.
Bisogna lavorare su nuove politiche, puntando su fattori di sviluppo potenziali come il
Mezzogiorno, l’innovazione e la ricerca, la mobilità delle infrastrutture. Lo sviluppo nelle Regioni
meno favorite, l’investimento nella ricerca, l’intensificarsi degli sforzi per accrescere la dotazione
d’infrastrutture sono indispensabili per evitare l’arretramento della nostra economia.
Quanto alla programmazione delle iniziative che il Governo italiano dovrà affrontare
nell’àmbito nazionale e nel semestre europeo, la CONFEDIR si augura che una forte
accentuazione sia data alla competitività e all’occupazione (in particolar modo nel Mezzogiorno)
nonché all’implementazione della riforma del Welfare.
Sotto il profilo della competitività nazionale, oggi le nostre imprese debbono integrarsi nei
mercati locali secondo una logica di just in time rispetto al mercato economico nazionale, a quello
europeo e addirittura a quello mondiale, in un contesto normativo e sociale che però certamente
non favorisce l’avvio e lo sviluppo d’iniziative imprenditoriali. Com’è noto, le condizioni che
consentono ad un’impresa di affermarsi nel mercato sono il contenimento della pressione fiscale,
la riduzione del costo del denaro, la semplificazione dei “passaggi” burocratici, l’intensificarsi
dei rapporti tra imprese ed enti di ricerca, la possibilità di consorziarsi mettendosi “in rete” tra
imprese, l’esistenza di un’assistenza già consolidata nei nuovi mercati che le aiuti ad inserirsi, la
possibilità di stipulare contratti flessibili con i propri dipendenti, etc..
Per rendere veramente competitiva l’economia italiana, garantendo le condizioni ottimali
rispetto all’avvio di nuove attività economiche o al decollo di quelle già esistenti, si ritiene
fondamentale l’opera del legislatore nel condurre con oculata e coerente determinazione nonché
contestualmente (per quanto possibile) almeno le riforme strutturali dei seguenti settori:
a) mercato del lavoro;
b) impiego pubblico;
c) previdenza;
d) ammortizzatori sociali;
e) formazione;
f) istruzione scolastica ed universitaria.
L’approvazione contestuale di queste riforme strutturali consentirebbe non soltanto il rilancio
dell’economia, ma potrebbe far diminuire gradualmente il “cuneo” fiscale e contributivo. Si è
infatti convinti che l’aumento delle entrate e dei contributi figurativi, dovuto all’emersione del
“lavoro nero” ed alla nuova occupazione (in séguito all’individuazione delle fattispecie di lavoro
introdotte o redisciplinate dalla “legge-BIAGI”), possa consentire margini per diminuire la
pressione fiscale e contributiva (a favore delle imprese come dei lavoratori dipendenti).
D’altro canto, su argomenti così importanti per l’intera comunità nazionale, è d’obbligo
un’attenta considerazione delle attività propedeutiche ad un serio e sano percorso riformatore: si
rammenti – per esempio -, in materia di previdenza e di politica pensionistica, la necessità di
sconfiggere previamente il deprecabile ed ultratrentennale fenomeno delle “pensioni d’annata”
nello Stato.
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CONFEDIR
Il Governo ha avviato, invero, la stagione delle riforme strutturali attraverso la firma del “Patto
per l’Italia”, la “legge-obiettivo”, l’avvio dei “Fondi interprofessionali per la formazione
continua”, l’approvazione della menzionata “legge-BIAGI” sul mercato del lavoro. Il “varo” di
queste iniziative legislative dimostra certamente il forte impegno che l’Esecutivo sta assumendo
sul piano della politica economica; la CONFEDIR è peraltro convinta che quella strategia
riformista vada perseguìta in maniera più massiccia, più coordinata e più coerentemente incisiva
(si veda, ad esempio, per l’impiego pubblico la mancata attuazione d’istituti legislativi pure votati
dal Parlamento un anno addietro!), sia tra i diversi settori che al livello nazionale necessitano di
razionalizzazione, sia tra il livello nazionale e quello europeo.
Per tutti questi motivi appare da non perdere l’occasione d’un DPEF fortemente connotato,
quest’anno, dalle politiche europee in un rapporto di reciprocità. Appare necessario ristabilire un
clima di fiducia, lavorare sulle aspettative. Non va dimenticato che, in qualsiasi contesto
economico l’impresa o la struttura amministrativa operino, la competitività determina il
miglioramento della qualità della vita dell’intera collettività che si rapporta ad esso. In assenza di
più massicce azioni di riequilibrio, in prospettiva storica si rischia d’assistere ad una progressiva
perdita di benessere della popolazione, soprattutto delle fasce più svantaggiate e perciò più esposte
agli effetti negativi della globalizzazione dei mercati.
Per sostenere la forza competitiva della nostra economia, nel rispetto dei vincoli posti dal
“Patto europeo di stabilità”, è necessario promuovere l’allargamento della concorrenza in tutti i
settori d’attività economica e snellire il quadro della regolamentazione e degli adempimenti
burocratici. Si potrebbe ricorrere ad adeguati incentivi fiscali nella fase dello start-up delle nuove
imprese, per stimolare gli ampliamenti ed i riposizionamenti sul mercato; oppure si potrebbero
prevedere interventi che rendano più efficienti i mercati finanziari, interventi “tarati” soprattutto
sulle esigenze delle nuove imprese e di quelle operanti nei settori innovativi (che spesso coniugano
un alto potenziale di sviluppo ed un elevato rischio).
E’ indispensabile favorire la crescita dimensionale e la gestione manageriale delle PMI,
riducendo il carico fiscale, incentivando la diffusione delle tecnologie dell’informazione e della
comunicazione. Come sottolineato nel “Libro Bianco su crescita, competitività e occupazione”
della Commissione europea, l’inserimento delle capacità manageriali nelle imprese minori
costituisce una pre-condizione per lo sviluppo di queste ultime. A tale specifico proposito, la
CONFEDIR ribadisce la necessità d’alleggerire ulteriormente il carico contributivo per le PMI che
siano disposte ad assumere managers ed inoltre considera opportuno, per l’individuazione delle
imprese minori che potrebbero beneficiare del suddetto abbattimento fiscale, riferirsi al volume di
fatturato dell’esercizio anziché alla consistenza media dei dipendenti.
Infine le imprese italiane, per esser competitive, debbono anche disporre d’un management ben
formato che sappia cogliere tutte le opportunità offerte dal mercato e sia capace d’intuire il trend
della domanda dei consumatori. La valorizzazione del “sapere” avrà sempre un sicuro ritorno per
le imprese: tramite la formazione manageriale, l’intera impresa accresce le proprie competenze
professionali. La nuova cultura della formazione vede il luogo di lavoro come un’occasione per
crescere professionalmente.
D) La Sanità.
Da alcuni anni il trend della spesa sanitaria è significativamente cresciuto. Il fenomeno appare
attribuibile almeno a tre cause accertate:
a) l’invecchiamento demografico;
b) il progresso tecnologico nelle discipline mediche, il che comporta una maggiore domanda
di servizi legati alla “salute”;
c) l’aumento del costo del lavoro nel settore sanitario.
L’espansione della spesa sanitaria rende sempre più necessaria ed urgente una strategia
economica tendente a migliorare, nel più breve tempo possibile, l’efficienza e l’efficacia del SSN.
L’ammontare di risorse disponibili per il singolo cittadino, infatti, diminuirà di anno in anno
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CONFEDIR
proporzionalmente all’incremento dei consumi da parte della popolazione anziana, alla domanda
di miglioramento della qualità della vita etc..
Vi è quindi un problema di riallocazione delle risorse disponibili a seconda dei bisogni sanitari
delle fasce di popolazione, ma c’è anche un problema più generale di tagli alla spesa pubblica in
forza dell’aumento progressivo della spesa pensionistica: la maggior durata della vita media fa
lievitare, infatti, la spesa sanitaria e quella previdenziale. La domanda di salute e di benessere
sanitario si è notevolmente trasformata negli ultimi anni, fino a determinare il superamento delle
politiche economiche legate al concetto di un welfare state centralistico e gestito in monopolio
dall’Amministrazione statale o regionale e promuovendo, al suo posto, modelli più flessibili
nonché aperti a diversi “attori sociali”: soggetti istituzionali (Regioni, Autonomie locali) ed altri
soggetti (volontariato, famiglia, associazionismo privato). Questo nuovo modello (welfare
community) si fonda sul principio di sussidiarietà: esso, pur mantenendo in capo allo Stato
l’assolvimento delle essenziali funzioni socio-sanitarie, pone in capo ai nuovi soggetti la
responsabilità, l’iniziativa e l’autonomia e - per alcuni di loro - la disponibilità finanziaria
necessaria per soddisfare i bisogni sanitari locali; così, sul piano amministrativo, la welfare
community ben si sposa con l’ordinamento federalista in corso di definizione costituzionale e
normativa.
Non a caso la materia sanitaria è tra quelle che sono oggetto del disegno di legge costituzionale
di riforma dell’art. 117 della Costituzione (riforma-BOSSI) nonché del nuovo progetto
governativo di legge per la modifica del Titolo V° della Costituzione. Gli effetti salienti della
nuova architettura federalista possono essere così riassunti:
a) lo Stato è chiamato a fissare i principi generali del sistema sanitario nazionale (i livelli
essenziali d’assistenza) e ad esercitare una funzione perequativa rispetto alle inevitabili differenze
che si svilupperanno tra i sistemi regionali;
b) lo Stato deve inoltre assolvere ad una funzione di garanzia della salute collettiva, rispetto a
rischi epidemici (bio-terrorismo, encefalopatia spongiforme bovina etc.) che interessino l’integrità
fisica di tutti i cittadini;
c) le Regioni adottano sistemi organizzativi propri nel rispetto “dell’interesse generale” per il
soddisfacimento dei bisogni locali;
d) al fianco delle Regioni operano anche strutture private;
e) tra il sistema pubblico e il sistema privato si sviluppa un rapporto concorrenziale, che
dovrebbe determinare comportamenti sempre più efficienti e qualitativamente migliori da parte
d’entrambi i soggetti.
Come s’è detto, per fronteggiare l’aumento della spesa sanitaria occorrono strategie di politica
economica in grado di:
a) utilizzare tutti gli strumenti (pubblici e/o privati) a disposizione per soddisfare i bisogni dei
pazienti;
b) curare l’appropriatezza del servizio sanitario da erogare;
c) contenere sprechi;
d) ottenere risparmi (laddove possibile).
In questa logica lo Stato deve avvalersi di strutture che vantano da anni un’esperienza
nell’offerta dei servizi sanitari. Ad esempio alcuni Fondi di origine contrattuale prevedono già da
numerosi anni in Italia un’assicurazione di rendita collegata a problemi di non autosufficienza
(Long terme care). Si tratta di una tutela che solo recentemente è stata inserita nell’agenda del
Governo mentre la nostra organizzazione ha consolidato un’esperienza pluriennale.
La proposta è quella di orientarsi sempre di più verso il concetto di “comunità sanitaria”
ovvero di rete di offerta sanitaria integrata pubblico-privata che risponda ai bisogni di salute del
territorio, diversi sotto il profilo geografico e antropologico a seconda della regione di riferimento.
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CONFEDIR
Tutto l’impianto del Piano sanitario nazionale 2003-2005 è del resto pervaso dalla volontà di
“sperimentare nuove modalità di organizzazione dei servizi anche ricorrendo a collaborazioni con
il privato” e di “integrazione tra prestazioni sanitarie e sociali”.
Per affermare tale nuovo modello occorre consentire una circolazione di dati, fermo restando il
rispetto della privacy, sulla salute del singolo cittadino-paziente. La carta nazionale dei servizi e
successivamente la carta d’identità elettronica agevoleranno sicuramente l’affermarsi della welfare
community perché consentiranno di far dialogare i diversi attori pubblici e privati ai quali si
rivolgerà il cittadino.
La richiesta è quella di favorire sul piano della deducibilità fiscale quei Fondi privati che hanno
non solo integrato l’offerta sanitaria in aggiunta rispetto a quella garantita per tutti dal SSN ma che
in molti casi si sono sostituiti a quest’ultimo assistendo, grazie al principio mutualistico, fasce di
popolazione che non hanno quindi contribuito all’innalzarsi della spesa sanitaria; fasce di
popolazione, come quella dirigenziale, che se si riversassero sul sistema nazionale
provocherebbero un’ulteriore impennata della spesa per la salute.
E) Le politiche sociali e la loro integrazione con le politiche del lavoro. Scelte strategiche
a favore dell’occupazione lavorativa.
Quanto all’implementazione della riforma del Welfare in tutti i Paesi europei (compresa
l’Italia), si sta progressivamente abbandonando il concetto dello “Stato-provvidenza”;
contemporaneamente si sta sempre di più affermando, nella collettività come negli apparati
politici, la consapevolezza d’un futuro Welfare più orientato alla commistione pubblico-privato ed
alle gestioni bilaterali dei servizi sociali tra le parti sociali interessate.
La CONFEDIR chiede una politica economica ispirata ad una maggiore integrazione tra le
politiche sociali e le politiche del lavoro. Auspica un aumento delle aree defiscalizzate, che
permetta l’implementazione del “Welfare privato” (la previdenza “di II° e III° pilastro”,
l’assistenza integrativa al Servizio sanitario nazionale).
La crescita, esponenziale ed irreversibile, della popolazione in età da pensione farà aumentare
sempre più la spesa sociale e comporterà l’obsolescenza della forza-lavoro. La CONFEDIR chiede
che per le categorie più esposte a tale rischio siano previste misure specifiche, nell’ottica delle
politiche pro-attive.
In tutti i settori tipici delle polities sociali, ovvero in quello sanitario come in quello delle
politiche del lavoro e della formazione (specie nel Mezzogiorno), si chiede di poter gestire
responsabilmente la soluzione delle problematiche tipiche della dirigenza e del funzionariato,
insieme agli interlocutori “datoriali” e nell’àlveo di una politica statale protesa ad incentivi. Ciò
consoliderà positivamente la prassi del dialogo sociale e della responsabile co-gestione delle
politiche sociali.
Recenti rilevazioni, effettuate dall’ISTAT e confermate da analisi economiche, hanno peraltro
dimostrato che:
a) negli ultimi mesi l’occupazione sta crescendo, pur senza un aumento della produttività;
b) nel settore del “Terziario non avanzato” (la grande distribuzione ed il turismo) si sta
consolidando un trend d’occupazione virtuoso.
Ciò appare attribuibile non solo all’aumento del peso specifico del settore terziario nell’àmbito
del PIL, ma anche alla riforma globale del mercato del lavoro cominciata nel 1997 e destinata
auspicabilmente ad esser completata dall’emanazione dei decreti attuativi della “legge-BIAGI”. La
modifica in senso migliorativo della disciplina di alcuni istituti tipici del mercato del lavoro, quali
il lavoro interinale (ora definito “lavoro a somministrazione”) od il part-time od il lavoro ad
intermittenza etc., hanno spinto le imprese a puntare nuovamente sulla forza–lavoro avendo a
disposizione un ricco “ventaglio” di possibilità contrattuali. La CONFEDIR comunque ritiene che
il rapporto di lavoro subordinato, accompagnato da una solida tutela garantita dai rispettivi
contratti collettivi nazionali di lavoro, resta comunque la fattispecie che meglio garantisce i
lavoratori.
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La scrivente Confederazione ha pertanto considerato favorevolmente l’impianto normativo,
proposto dal Governo per ridare slancio all’occupazione; tuttavia intende ribadire che una riforma
del mercato del lavoro, come quella appena approvata, assume carattere “strutturale” solo se verrà
accompagnata dalla riforma del sistema degli ammortizzatori sociali, della quale si sollecita
un’approvazione in tempi rapidi.
F) Segue: strumenti per la disoccupazione involontaria, a favore delle categorie di
lavoratori sprovviste di tutela.
La riforma degli ammortizzatori sociali che la Commissione Lavoro del Senato si appresta a
varare, pur presentando aspetti innovativi e condivisibili, vuole estendere gli strumenti di sostegno
al reddito, previsti dall’ordinamento, ai lavoratori dei settori che attualmente ne sono sprovvisti. Il
nuovo sistema, proposto dal Governo, prevede un doppio livello di tutela: una protezione
generalizzata (estensione dell’indennità di disoccupazione in termini quantitativi e di durata),
accompagnata da una prestazione integrativa (fondi bilaterali, diretti al sostegno del reddito).
Tuttavia l’assetto normativo finale, mentre razionalizzerebbe con evidenza gli attuali strumenti
esistenti, non appare idoneo ad intervenire su tutte le situazioni attualmente prive di tutela: ancora
una volta restano fuori dalla disciplina generale i dirigenti privati, che attualmente - nei casi di
disoccupazione involontaria - possono usufruire solamente dell’indennità di disoccupazione (che,
in ogni caso. ha un limite massimo d’erogazione e perciò non rappresenta per la categoria un serio
ristoro economico). Sarebbe dunque più opportuno garantire un miglioramento complessivo del
grado di tutela economica del dirigente disoccupato attraverso la costituzione d’appositi “Fondi
bilaterali”, in linea con l’impostazione del Governo che prevede la valorizzazione del metodo
concertativi: potrebbe essere istituito un apposito ente bilaterale (un “Fondo”, co-gestito dalle parti
sociali interessate) che si occupi di sostenere economicamente il dirigente disoccupato,
consentendogli anche di ricevere formazione nel periodo di mancata occupazione lavorativa; tale
ente potrebbe inoltre assicurare al dirigente disoccupato la ricerca di un nuovo posto di lavoro (si
può prevedere un collegamento tra l’ente bilaterale e società di outplacement private, allo scopo di
trovare sollecitamente una nuova occupazione al dirigente e con i relativi oneri a carico del
costituendo ente).
G) Occupazione femminile nel settore lavorativo pubblico ed in quello privato. Il caso
delle donne dirigenti.
Quanto all’occupazione femminile, la CONFEDIR ha ritenuto positive le novità contenute nel
primo schema di decreto attuativo della “legge-BIAGI” riguardanti il part-time (inquadramento
contrattuale molto richiesto dalle lavoratrici), reso più elastico grazie ad una nuova gestione delle
ore lavorative che cercasse il punto d’incontro tra le esigenze organizzative dell’azienda e le
necessità della forza-lavoro.
Con tale regolazione si è tentato anche di risolvere la problematica tipica del lavoro femminile,
ossia la necessità di conciliare la vita familiare con l’attività lavorativa. Tuttavia tale intervento,
seppur migliorativo, non appare sufficiente a garantire il corretto reinserimento e la progressione
della carriera nei confronti delle donne allontanatesi temporaneamente dal lavoro per maternità. Il
tasso di partecipazione femminile al mercato del lavoro in Italia è attualmente pari al 41%, ben
distante dal 60% fissato come una tra le condizioni necessarie per condurre l’economia europea ad
una competitività mondiale senza confronti.
Occorrerebbe introdurre misure specifiche per le elevate professionalità “al femminile”, allo
scopo di favorire l’ingresso delle donne in funzioni di grande responsabilità. Le donne dirigenti
(nel settore lavorativo pubblico come in quello privato) sono oggi l’unica categoria di lavoratrici
dipendenti per le quali, sotto il profilo economico, l’evento della maternità si riversa totalmente
sulle aziende e non - come per le altre categorie di lavoratrici - sull’INPDAP (per le
Amministrazioni pubbliche) o sull’INPS (per le Aziende private): ancor oggi la legge 11 gennaio
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1943 n. 138 equipara l’evento-maternità all’evento-malattia (!), che per la categoria dirigenziale è
totalmente a carico delle aziende.
Ciò comporta una forte penalizzazione sulla progressione delle dirigenti nella carriera: esse, al
reinserimento dopo l’assenza per maternità, subiscono da parte delle direzioni aziendali forme di
mobbing più o meno esplicito. Tali forme d’emarginazione sono dovute anche all’onere, sostenuto
dall’ente o dall’azienda durante quel periodo.
Questo problema presenta evidenti profili d’illegittimità costituzionale. Potrebbe invece
rivelarsi plausibile l’estensione, anche a questa categoria di lavoratrici subordinate, della copertura
economica per la maternità da parte del rispettivo Ente previdenziale; gli oneri derivanti dalla
modifica legislativa potrebbero essere coperti, per la categoria dirigenziale, dalla corresponsione
d’un contributo figurativo a carico dell’ente o dell’azienda. Se quest’ipotesi fosse accolta in sede
parlamentare, non soltanto si supererebbe una situazione normativa fortemente discriminante, ma
anche si valorizzerebbe giustamente il lavoro professionale delle donne, superando gli elementi di
deterrenza che talvolta impediscono loro di accedere alla dirigenza ed eliminando ostacoli nello
svolgimento della carriera, che si presentano allorché le donne dirigenti decidono di “metter su”
famiglia.
IL SEGRETARIO GENERALE
(ROBERTO CONFALONIERI)
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